Introduzione E così Phototutorial diventa un e-book... Il nostro sito è partito circa tre anni fa, con l'intento di pubblicare agili articoli rivolti a chi desiderasse familiarizzarsi con i concetti di base della fotografia. Nel corso del tempo gli articoli disponibili sono aumentati, così come i nostri affezionati lettori. Phototutorial è, nel frattempo, diventato un corso di fotografia di base completo. Per fare un ulteriore regalo ai nostri lettori abbiamo deciso di raccogliere gran parte dei nostri tutorial, rielaborarli e farli diventare un agile e-book. In questo modo il nostro corso di fotografia sarà sempre consultabile sul vostro dispositivo mobile. Naturalmente continueremo sempre ad aggiornare il nostro sito, con nuovi articoli e nuovi tutorial, e già abbiamo in programma iniziative che troverete molto interessanti. Quindi continuate a seguirci, visitando regolarmente il sito www.phototutorial.net. E non dimenticate la possibilità di diventare nostri amici sui social network. Rimarrete così sempre aggiornati sulle nostre iniziative. Qui trovate i link alle nostre pagine social: Facebook Google Plus Community su Google Plus Twitter A presto. Luigi Calabrese Canio Colangelo
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Corso di fotografia – Phototutorial.net – edizione PDF - 2013
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Capitolo 1 La fotocamera Sono passati quasi duecento anni dall’invenzione dei primi strumenti in grado di registrare immagini ma si può dire che la fotocamera è costituita dagli stessi elementi basilari di allora.
Un dagherrotipo del 1839 e una fotocamera digitale mirrorless attuale. Ovviamente, in quanto alle dimensioni, le proporzioni non sono rispettate. I componenti essenziali presenti ancora oggi in tutte le macchine fotografiche sono: L’obiettivo L’obiettivo è un dispositivo ottico costituito da un insieme di lenti di vetro o di plastica in grado di deviare la luce. Ha la funzione di proiettare l’immagine sul piano del sensore o della pellicola che la registrerà.
Elaborazione grafica di un obiettivo Sigma 120-300 f/2,8 EX DG OS HSM, con lo schema ottico in sovrapposizione. Nella sua forma più semplice l’obiettivo può essere costituito da un semplice forellino, chiamato foro stenopeico. Alcuni fotografi amano applicare un foro stenopeico alle reflex digitali per provare l’ebrezza della fotografia “primitiva”. I fori stenopeici adattabili alle reflex sono acquistabili in molti negozi di fotografia, anche on line, per poche decine di euro.
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Un "tappo" a foro stenopeico da usare su una reflex attuale. Il dispositivo per la messa a fuoco Il dispositivo per la messa a fuoco è un meccanismo che muove leggermente un gruppo di lenti all’interno dell’obiettivo facendolo spostare di qualche millimetro rispetto al piano del sensore in modo da “mettere a fuoco” cioè far risultare nitido, nell’immagine, il particolare che interessa al fotografo. Negli apparecchi moderni c’è un sistema autofocus che si attiva premendo il pulsante di scatto nella posizione intermedia. Ovviamente però le fotocamere reflex e le mirrorless consentono l’intervento manuale sulla focheggiatura, da operarsi attraverso la rotazione della ghiera di messa fuoco. Anche molte bridge e alcune compatte, con modalità diverse, consentono di mettere a fuoco manualmente. L’otturatore L’otturatore impedisce alla luce di raggiungere il supporto sensibile finché non viene premuto il pulsante di scatto. Soprattutto però svolge la funzione di controllare la durata del tempo durante il quale la luce colpisce l’elemento fotosensibile. I tempi di otturazione sulle fotocamere reflex o mirrorless possono in genere variare da 30 secondi a 1/4000 di secondo (1/8000 per i modelli più raffinati). Naturalmente su questo tipo di fotocamere è anche possibile impostare la cosiddetta “posa B”, che mantiene l’otturatore aperto finché è premuto il dispositivo di scatto. I tempi vengono impostati tramite una ghiera o dal menu della fotocamera. Il diaframma Il diaframma è l’apertura regolabile che controlla la quantità di luce che entra nella fotocamera attraverso l’obiettivo. Il diaframma e l’otturatore controllano dunque i due parametri principali che concorrono alla corretta esposizione: la quantità di luce che raggiungerà il supporto sensibile e il tempo di esposizione alla luce. Naturalmente di due fattori sono in relazione tra loro: per ottenere la corretta esposizione si può optare per un diaframma più chiuso legato ad un tempo di esposizione più lungo, o ad un diaframma più aperto, con un tempo di esposizione più breve.
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Il mirino Per poter scattare una fotografia è necessario poter inquadrare, cioè vedere in un mirino l’immagine che sarà poi riprodotta nella fotografia. Attraverso il mirino si visualizza anche dove cade il punto di messa a fuoco, almeno negli apparecchi a telemetro, in quelli con mirino reflex e in quelli dotati di mirino elettronico. Il materiale sensibile Un tempo era costituito da lastre sensibili alla luce, poi dalle pellicole, oggi è costituito dal sensore elettronico. Mentre la pellicola svolge sia la funzione di acquisire la fotografia che quella di “memorizzarla”, e deve pertanto essere sostituita in continuazione, il sensore si limita ad acquisire l’immagine, che poi è salvata su un supporto elettronico, una scheda di memoria di tipo flash, mentre il sensore è subito pronto a registrare nuove immagini.
Quale macchina fotografica fa per me? Il mercato della fotografia digitale offre migliaia di modelli. Come orientarsi? Fondamentalmente le macchine fotografiche in commercio possono dividersi in quattro grandi gruppi: compatte, bridge, reflex e mirrorless. Compatte Queste fotocamere sono caratterizzate dalle dimensioni molto piccole, spesso tascabili. Tale caratteristica ne rende comodo e pratico l’utilizzo, in quanto è molto facile portarsele dietro in ogni occasione. Esse sono inoltre molto economiche. A seconda del modello e delle offerte dei centri commerciali il loro prezzo varia dagli 80 ai 400 euro. Di solito si trovano buoni modelli in una fascia di prezzo che va dai 150 ai 250 euro. La qualità delle immagini ottenibili con queste fotocamere è in genere buona per i principali usi amatoriali. Purtroppo i tanti vantaggi sono controbilanciati da alcuni svantaggi che ne limitano l’uso presso i fotoamatori più consapevoli e gli appassionati.
La fotocamera compatta Olympus SH-50 iHS. 5
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Questi svantaggi essenzialmente sono: 1) la mancanza di controlli manuali che consentano di intervenire direttamente sui principali parametri della fotografia (ci sono però alcuni modelli di classe elevata dotati di controlli manuali); 2) l’impossibilità di utilizzare accessori esterni, in primo luogo obiettivi specifici, poi aggiuntivi ottici, flash esterni, etc…; 3) le dimensioni del sensore, troppo piccole per competere, come qualità d’immagine, con le reflex (le piccole dimensioni del sensore limitano molto anche la possibilità di giocare con la profondità di campo). Bridge Le cosiddette fotocamere “bridge” si caratterizzano per essere una via di mezzo tra le compatte e le reflex. Queste fotocamere infatti di solito sono dotate di tutti i controlli manuali necessari ad ottenere gli effetti fotografici desiderati (impostazione del diaframma, impostazione del tempo di esposizione, impostazione della sensibilità), ecc… Di solito è anche possibile montare un flash esterno. Infatti anni fa, quando il costo delle reflex digitali era ancora proibitivo, diversi fotografi professionisti utilizzavano le bridge per i loro lavori. Rispetto alla reflex lo svantaggio essenziale è che con le bridge non si può cambiare l’obiettivo. Di solito esse sono dotate di uno zoom che copre le principali focali utilizzate in fotografia. Ma, per quanto di buona qualità, questo zoom non potrà rivaleggiare con i migliori obiettivi disponibili per una reflex. Inoltre anche le bridge, salvo alcune eccezioni, sono dotate di sensori molto più piccoli di quelli delle reflex. Di conseguenza le immagini, per quanto di buona qualità, non potranno rivaleggiare con queste ultime. Sempre a causa del sensore piccolo, non si potrà neanche intervenire in maniera creativa sulla profondità di campo.
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Una fotocamera bridge Nikon Coolpix. Nei confronti delle compatte invece lo svantaggio essenziale è che le bridge sono molto più voluminose. Sebbene più piccole delle reflex, esse non raggiungono certo le comode dimensioni tascabili delle compatte. Reflex Le reflex sono le macchine fotografiche più utilizzate dai professionisti e dagli appassionati di fotografia. Sono infatti le fotocamere più versatili, quelle che permettono di ottenere la migliore qualità d'immagine e di trovare una soluzione a qualsiasi necessità fotografica possa sorgere. Montano sensori molto più grandi di quelli delle bridge e delle compatte (le dimensioni vanno dai 22,5 x 13,5mm del sensore Quattro Terzi ai classici 36 x 24mm del sensore cosiddetto Full Frame), e questo consente una qualità dell'immagine molto superiore.
La Canon 650D.
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Il nome (reflex) deriva dal particolare sistema di visione: l'immagine tracciata dall'obiettivo viene inviata al mirino attraverso uno specchio inclinato, mentre un sistema di specchi definito pentaprisma provvede a raddrizzarla. In questo modo possiamo osservare esattamente ciò l'obiettivo inquadra, senza errori.
Il grande vantaggio delle reflex è che consentono di cambiare gli obiettivi, e di utilizzare quindi ottiche specifiche per ciascuna necessità. Mirrorless L'ultima proposta del mercato, per quanto riguarda le fotocamere, sono le mirrorless (letteralmente "senza specchio"). Si tratta di fotocamere che sono prive dello specchio reflex e del pentaprisma, essendo dotate solo di mirino elettronico. Nel contempo però hanno mantenuto la caratteristica fondamentale delle reflex: la possibilità di cambiare l'obiettivo. L'eliminazione del pentaprisma permette di contenere moltissimo le dimensioni. Le mirrorless sono in genere sensibilmente più compatte e leggere delle reflex. Inoltre, grazie al tiraggio basso consentito proprio dalla scomparsa del pentaprisma e dello specchio ribaltabile, anche gli obiettivi possono essere molto più compatti.
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La Fujifilm X-pro1: una mirrorless di alta classe. L'importanza delle dimensioni del sensore Un fattore di cui bisogna tener conto nella scelta della macchina fotografica è la dimensione del sensore. Sarà il sensore, infatti, a catturare l’immagine, e pertanto le sue dimensioni hanno una notevole importanza. Spesso la domanda che il fotografo più esperto si sente fare, quando qualcuno chiede informazioni sulla sua fida macchina fotografica, magari una reflex di ultima generazione, è: “quanti megapixel ha?”. L’ultima volta che ho risposto “14 megapixel”, la replica è stata, con un pizzico d’orgoglio: “anche la mia ha 14 megapixel”, e lì l’interlocutore ha tirato fuori la sua compatta da taschino. Probabilmente nella sua mente il fatto che una compatta e una voluminosa reflex abbiano entrambe un sensore da 14 megapixel, significa che entrambe possono regalare foto della stessa qualità. Ebbene purtroppo non è così. Per una serie di motivi, una compattina non può competere con una reflex. Il più importante di questi motivi è costituito proprio dalle dimensioni del sensore. Le fotocamere compatte hanno un sensore molto più piccolo di quello delle reflex.
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Le dimensioni dei sensori a confronto. In giallo sono rappresentate le dimensioni del sensore di una compatta. Con tutti gli altri colori sono rappresentate le dimensioni dei sensori dei principali sistemi reflex esistenti. Questo fa sì che i 14 milioni di pixel di una compatta di ultima generazione siano di dimensioni estremamente piccole rispetto ai 14 milioni di pixel, disposti su un sensore di dimensioni 24mmx36mm. I pixel più grandi sono più sensibili e quindi garantiscono un segnale migliore. Pixel di dimensioni più piccole, stipati in un sensore anch’esso di dimensioni molto piccole, tendono a produrre molto rumore. In altre parole, fatti salvi i progressi tecnologici che intervengono ad ogni generazione di fotocamere, aumentando il numero di pixel, ma riducendone la dimensione, si rischia di perdere in rumore tutto ciò che si guadagna in risoluzione. Inoltre, per ottenere il massimo da tanti milioni di pixel stipati su un sensore di dimensioni tanto piccole, sarebbe necessario che lo zoom montato sulla reflex avesse una risolvenza enorme. Questo però si scontra con la necessità di mantenere dei costi accettabili. Infatti realizzare un obiettivo di gran classe ha dei costi enormi in termini di progettazione e di materiali utilizzati per costruire le lenti. Bisogna poi tener conto della diffrazione, un fenomeno ottico che colpisce l’obiettivo alla chiusura del diaframma. La luce, per attraversare il diaframma, deve cambiare il suo angolo di propagazione, e questo porta a ridurre la capacità dell’obiettivo di risolvere i dettagli. Quando la risoluzione dell’obiettivo diventa inferiore a quella del sensore, l’immagine risulta impastata, meno nitida. Questo fenomeno viene notevolmente accentuato dal numero dei pixel. La risoluzione della fotocamera viene limitata dalla diffrazione dell’obiettivo. Insomma, al di là della pubblicità, e fatto salvo il progresso tecnologico che consente di spingersi sempre oltre, in genere gli utenti più riflessivi si accorgono che la nuova compatta da 12 megapixel spesso fa foto meno nitide della vecchia da 5 megapixel, forse precocemente pensionata. In altre parole, il vantaggio dei sistemi reflex digitali, rispetto alle compatte, inizia dalle dimensioni del sensore. Si può inoltre affermare che, a parità di tecnologia, più è grande il sensore, migliore sarà la qualità delle immagini prodotte dalla fotocamera. 10
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Ovviamente questa qualità si paga: il costo delle reflex cosiddette Full Frame, con un sensore di dimensioni pari a quelle della vecchia pellicola 24mmx36mm, è in genere parecchio superiore a quello di reflex con sensore più piccolo: il Quattro Terzi delle Olympus e delle Panasonic, o l’APS-c di Canon, Nikon, Pentax e Sony.
Le diverse tipologie di reflex La fotocamera più utilizzata dai fotoamatori che desiderano avere il pieno controllo creativo sulle proprie immagini è sicuramente la reflex digitale. Il mercato offre davvero un ampio ventaglio di opzioni, tanto che a volte diventa difficile orientarsi. Le reflex in genere vengono classificate in base ad un non sempre condivisibile criterio di “professionalità”. Adottando questo criterio sul mercato troviamo: Reflex professionali Reflex semi-professionali Reflex entry-level Proviamo ad orientarci in questo mondo per scegliere la fotocamera maggiormente adatta a noi.
La 1D-x, l’ultima reflex superprofessionale proposta da Canon. Cosa distingue la reflex professionale dalla entry-level? Principalmente tutta una serie di caratteristiche che rendono più confortevole (si potrebbe dire comodo, semplice) ottenere fotografie.
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Proviamo ad elencarle: • Qualità costruttiva: le reflex professionali sono più robuste, presentano strutture interne realizzate in leghe metalliche molto raffinate, nonché particolarmente resistenti e leggere. • Molte reflex professionali sono tropicalizzate, sono realizzate cioè facendo in modo che non temano l’umidità o l’uso sotto la pioggia battente (bisogna considerare che per garantire una tenuta sicura agli agenti atmosferici anche l’obiettivo deve essere tropicalizzato). • Le reflex professionali sono dotate di mirini a pentaprisma migliori rispetto alle entry-level, che garantiscono una visione della scena inquadrata più ampia e confortevole, con copertura del 100%, cioè la scena vista nel mirino corrisponde esattamente a quella che poi sarà ripresa in fotografia. • Le reflex professionali poi sono dotate di una doppia ghiera di controllo (una per regolare i diaframmi, l’altra per regolare i tempi), e di una serie di pulsanti funzione personalizzabili (che evitano di passare dal menu per molte regolazioni) • Le reflex professionali di solito hanno raffica di scatto più rapida, buffer di memoria più ampio, autofocus ed esposimetro più sofisticati, otturatore più prestante e di costruzione più raffinata, e tante altre piccole e grandi raffinatezze tecniche. Tutto queste cose fanno delle reflex professionali strumenti che assecondano in tutto e per tutto il fotografo esperto. Le reflex entry-level sono caratterizzate da una qualità costruttiva inferiore rispetto a quelle di classe più elevata. Utilizzano ad esempio materiali plastici meno pregiati. Questo non significa che esse siano scadenti, tutt'altro: solo che essendo rivolte ad un’utenza meno specialistica, che si presume le utilizzerà meno intensamente rispetto ad un professionista, sono pensate un po’ “al risparmio”. Tuttavia non bisogna credere che le reflex entry-level offrano prestazioni, in termini di qualità delle immagini, inferiori. Le reflex attuali possono tutte offrire una qualità dell’immagine di altissimo livello.
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La Nikon D5100. Una entry-level molto completa. Le reflex entry-level, proprio perché pensate anche per il principiante, hanno inoltre una serie di funzioni che rendono più facile ottenere buone fotografie anche a chi non è particolarmente esperto. Nello specifico, la presenza di programmi preimpostati, adatti alle diverse situazioni di ripresa, permette di ottenere buone fotografie pur non sapendo come interpretare e risolvere una particolare “situazione fotografica”. Definire le reflex semi-professionali è un po’ più difficile. Diciamo che si pongono a metà strada, sia per dotazioni, sia per prezzo, tra le entry-level e le professionali. Possiedono alcune delle caratteristiche delle reflex professionali, ma non tutte. Per esempio, tutte le reflex semi-professionali hanno la doppia ghiera di controllo. Infatti, tra le dotazioni sopra elencate per le reflex professionali, quella che di cui il fotografo esperto sentirà maggiormente la mancanza, scattando con una reflex entry-level, probabilmente sarà proprio la mancanza della doppia ghiera di regolazione. Quando si lavora in manuale o quando si desidera intervenire direttamente sui parametri principali della fotografia (in primo luogo tempo di esposizione e diaframma) la possibilità di controllare direttamente tali parametri, senza dover ricorrere a menu, tasti funzione o combinazioni di tasti, è molto molto importante.
La Pentax K5. Proposta interessante nel settore delle semi-professionali. Allora come scegliere la reflex più adatta alle proprie necessità? Bisogna valutare attentamente il proprio approccio alla fotografia. Se non si ha molta esperienza dal punto di vista fotografico, e non si è certi di voler dedicare molto tempo ad imparare, probabilmente la cosa migliore è orientarsi su una reflex entry-level. La già citata presenza di programmi preimpostati faciliterà molto la vita, specialmente all’inizio. D’altra parte una reflex semi-professionale o professionale, può essere molto utile come strumento di apprendimento, in quanto la mancanza dei programmi preimpostati, “obbliga” ad imparare a cavarsela da soli. Naturalmente però anche se si possiede una entry-level, se si vuole imparare, basta far finta che tali programmi non ci siano, e decidere di operare da soli su tempi e diaframmi. Le reflex entry-level sono ottimi strumenti per iniziare a coltivare la propria passione per la 13
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fotografia a prezzi che sono accessibili per molti. Quelle attuali hanno caratteristiche tali, dal punto di vista delle prestazioni e della qualità delle immagini, da poter accompagnare un fotoamatore per anni, senza il pericolo di una precoce obsolescenza, come accadeva fino a qualche anno fa. In alternativa, se il budget e limitato, ma si è orientati su una reflex semiprofessionale, ci si può rivolgere al mercato dell’usato. Con un po’ di attenzione è infatti possibile acquistare a prezzi ottimi fotocamere vecchie di uno o due anni, magari usate pochissimo.
La scelta della mirrorless La parola mirrorless è sempre più presente nelle discussioni sui forum di fotografia e nelle chiacchierate tra fotoamatori. Sono molte le case fotografiche che hanno a listino una o più macchine mirrorless e sono sempre di più quelle che decidono di entrare in questa nuova nicchia di mercato. Vediamo le caratteristiche principali, i pregi e i difetti di questa recente tipologia di macchina fotografica destinata, secondo alcuni, addirittura a soppiantare la reflex.
La Samsung NX200, mirrorless di recente uscita. Quando si parla di mirrorless in genere ci si riferisce a quelle macchine fotografiche che hanno queste caratteristiche principali: • assenza di sistema reflex • obiettivi intercambiabili 14
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• sensore di dimensioni e qualità superiori a quello delle compatte (questo non è sempre vero)
In questa immagine si nota come nelle mirrorless sia assente il sistema a specchio ribaltabile proprio delle reflex. Si può anche apprezzare il tiraggio ridotto. Principali vantaggi delle mirrorless rispetto alle reflex Assenza di parti meccaniche in movimento: l’assenza del complesso specchio ribaltabile, pentaprisma e oculare assicura assenza di vibrazioni indotte, maggiore silenziosità e maggiore robustezza. Inoltre l’assenza della meccanica può dare la possibilità ai produttori di costruire fotocamera con raffiche di scatto elevate. Tiraggio corto: non essendoci la necessità di lasciare lo spazio per lo specchio, il tiraggio di tali macchine può essere molto corto. Questo dà la possibilità di montare sulla mirrorless qualsiasi ottica progettata per le macchine fotografiche reflex o a telemetro di qualunque formato: dall'APS-c, al 35mm, al medio formato. Le ottiche si possono montare tramite i vari adattatori in commercio anche se, usando ottiche “adattate” si perdono naturalmente gli automatismi di messa a fuoco ed esposizione. Con quasi tutte le mirrorless resta possibile usare l’esposizione con priorità ai diaframmi a patto che l’obiettivo che vogliamo adattare sia provvisto dell’apposita ghiera o che questa sia presente sull’adattatore. Compattezza: una mirrorless può essere davvero compatta pur mantenendo un sensore delle dimensioni di quello che si può trovare su di una reflex APS-C o Quattro Terzi. Se abbinata ad un obiettivo fisso compatto (spesso detto pancake) le dimensioni si 15
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mantengono di poco superiori a quelle di una compatta di fascia alta.
La Panasonic GX1 col suo obiettivo 14mm rimane davvero molto compatta. Mirino al 100%: il mirino elettronico (o il monitor posteriore) permette di visualizzare il 100% della scena che verrà registrata dal sensore. Inoltre esso sarà visibile, seppur con un po’ di effetto scia, anche in condizioni di poca luce, situazione in cui il mirino di una reflex diventa praticamente buio. Altro vantaggio è la possibilità di avere sovrimpresse alla scena che stiamo inquadrando una moltitudine di informazioni, dall’istogramma dei livelli ai reticoli di aiuto alla composizione all’evidenziazione delle zone sovra o sottoesposte. Questi ultimi sono vantaggi comuni anche alle reflex che hanno la possibilità di operare in live-view.
In questa immagine è evidente come anche con una quantità di luce molto bassa il monitor continui a mostrare la scena inquadrata. La differenza di luce ambiente nelle due immagini si deduce, oltre che visivamente, anche dal tempo di esposizione indicato dalla macchina. Notate anche la quantità di informazioni fornite a schermo. Naturalmente è possibile scegliere quali strumenti visualizzare. Principali svantaggi rispetto alle reflex Il mirino elettronico non sempre è presente: sotto luce intensa può essere difficile usare lo schermo LCD posteriore. Anche quando è presente molti continuano a preferire la naturalezza di visione di un mirino reflex. C’è da dire che i mirini elettronici sono in 16
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continuo miglioramento e ne esistono già di ottima qualità. Obiettivi non abbastanza compatti: già montando lo zoom standard fornito a corredo la compattezza della macchina viene vanificata. Se poi si iniziano ad usare zoom luminosi o teleobiettivi la differenza di dimensioni con una reflex tradizionale si riduce molto.
La Panasonic GF1 con uno zoom 14-42mm. Le dimensioni dell'obiettivo, specie quando alla massima estensione, vanificano la compattezza della macchina Velocità dell'AF: l’autofocus a contrasto presente su queste macchine difficilmente può competere con quello delle reflex, specie se si considerano i modelli semi-pro. Comunque anche in questo campo si stanno facendo notevoli passi avanti ed esistono già macchine mirrorless con un AF sufficientemente rapido ed affidabile per quasi tutti gli usi. Mancanza di sistemi professionali: Ancora non esistono sistemi mirrorless che si possano considerare professionali per qualità e quantità di obiettivi ed accessori. Il numero di obiettivi di qualità è piuttosto limitato così come flash e accessori prettamente professionali come ad esempio il battery grip. Per ultimo c’è da dire che alcuni sistemi mirrorless utilizzano un sensore delle dimensioni inferiori a quello delle reflex sia APS-C che Quattro Terzi. Ricadono in questa categoria il sistema Nikon 1 che ha un sensore da 1″ (definito dalla Nikon “CX”) e il sistema Pentax Q che ha un sensore di tipo CMOS back-illuminated da 1/2.3″. Questo in sé non è né un difetto né un vantaggio in quanto se è vero che la qualità delle immagini si allontana da quella delle reflex dall’altro canto si può disporre di un corredo di macchina e obiettivi di dimensioni davvero tascabili. Se il compromesso tra prestazioni e portabilità sia vantaggioso sarà il singolo fotoamatore a deciderlo in base alle proprie necessità.
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Il sistema Pentax Q è molto compatto, ma la macchina usa un sensore delle stesse dimensioni di quello della maggior parte delle compatte anche se di tipo retroilluminato.
APPENDICE
La tropicalizzazione Una fotocamera si dice tropicalizzata se nella sua progettazione sono stati presi degli accorgimenti volti a renderla resistente nei confronti di situazioni climatiche difficili, quelle appunto che si potrebbero incontrare nei climi tropicali, come per esempio altissimo tasso di umidità, alte temperature, piogge torrenziali, ecc… La tropicalizzazione di una macchina fotografica consiste essenzialmente nell’inserire al suo interno, nei punti più esposti (lungo le fessure di accoppiamento, al di sotto di pulsanti e ghiere) delle guarnizioni in gomma o in neoprene, che impediscono all’acqua, alla sabbia e ad altri elementi esterni di penetrare all’interno della fotocamera. Inoltre le fotocamere tropicalizzate hanno il corpo in magnesio o in lega di magnesio e alluminio, perché sono materiali più stabili, meno soggetti a deformazioni al variare della temperatura, e quindi in grado di garantire la tenuta delle guarnizioni nel tempo.
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L'immagine mostra le guarnizioni inserite all'interno di una Nikon D3x che rendono questa reflex tropicalizzata. Se si prevede di utilizzare la fotocamera in ambienti e situazioni difficili, come quelle che incontrano i fotografi di natura o di viaggio, ma anche semplicemente sotto la pioggia o su una spiaggia, a parere di chi scrive si dovrebbe seriamente pensare di acquistare un modello tropicalizzato. Purtroppo ci sono due fattori di cui tenere conto. Uno è che in genere sono tropicalizzati solo i modelli di reflex più professionali e costosi. L’altro è che nessun costruttore che dichiara la sua fotocamera tropicalizzata fa riferimento alla normativa internazionale, né agli standard di tropicalizzazione degli industriali giapponesi, e nemmeno specifica che tipo di uso è consentito e cosa invece è da evitare. Questo in soldoni significa che se la fotocamera subisse dei danni causati dall’esposizione intensa all’umidità, molto probabilmente tali danni non verranno riconosciuti come riparabili in garanzia. Detto questo però non c’è alcun dubbio che una fotocamera tropicalizzata garantisca una maggior tranquillità quando si fotografa sotto pioggia, neve, in riva al mare (si pensi a quanto è deleterio il sale per le apparecchiature elettroniche) e in tante altre circostanze. Ricordiamo che per garantire una reale protezione la reflex tropicalizzata deve essere corredata anche di obiettivo tropicalizzato. Particolarmente importante è l’o-ring sulla baionetta di innesto, che consente la protezione nel punto più delicato, quello di accoppiamento tra fotocamera e obiettivo.
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L'o-ring (rosso) sulla baionetta di un obiettivo tropicalizzato. L’esigenza di avere fotocamere tropicalizzata aumenta man mano che sempre più persone abbinano la fotografia a sport ed hobby che si praticano a contatto con la natura, dalle escursioni in montagna ai viaggi in luoghi esotici. Le case produttrici di fotocamere sembrano andare incontro a tale richiesta del mercato abbassando la fascia di prezzo nella quale viene offerta questa utile caratteristica. La Pentax, per esempio, ha appena presentato una fotocamera, la K30, che, a fronte di un prezzo da entry level, è tropicalizzata, resistente quindi a polvere e umidità.
La Pentax K30, reflex entry level tropicalizzata. Un’ultima avvertenza: tropicalizzazione non significa impermeabilizzazione. La fotocamera 20
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tropicalizzata non è subacquea. Non provate quindi ad immergerla nell’acqua perché le guarnizioni non reggeranno e la fotocamera si danneggerà irrimediabilmente.
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Capitolo 2 Gli obiettivi
La lunghezza focale e il concetto di obiettivo normale Gli obiettivi vengono denominati in base alla lunghezza focale, espressa in millimetri (mm). Cos’è la lunghezza focale? Immaginiamo che un obiettivo sia composto da una sola lente. La lunghezza focale sarebbe la distanza esistente tra questa lente e il piano focale (ossia il piano del sensore o della pellicola) quando la lente è a fuoco sull'infinito. Poiché l’obiettivo è composto da molte lenti, per determinare la lunghezza focale si considera il centro ottico dell’obiettivo, cioè lo si considera comunque, virtualmente, come una lente unica. Quindi la lunghezza focale è la distanza tra il centro ottico dell’obiettivo e il piano di messa a fuoco.
Si considera lunghezza focale normale per un determinato sistema fotografico, quella che corrisponde più o meno alla diagonale del fotogramma. Allo stesso tempo, questa focale corrisponde più o meno all’angolo di campo inquadrato dall’occhio umano, circa 43-45 gradi. Per esempio, nella classica pellicola formato Leica 35mm, detta anche 135, dalle dimensioni di 24x36mm, la diagonale è di 43,27 mm. L’obiettivo “normale” per il formato Leica (oggi comunemente noto come Full Frame) è dunque il 43mm.
Il Pentax FA 43mm limited f/1,9: l'obiettivo "normale" per eccellenza sul formato Leica. 22
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In realtà per una serie di ragioni, tra le quali la possibilità di adottare uno schema ottico semplice, l’obiettivo normale per il sistema 24x36mm è stato sempre considerato, per approssimazione, il 50mm. Per anni, infatti, prima dell’avvento degli zoom, il “cinquantino” è stato l’obiettivo a corredo delle reflex. Nel corso del tempo le case si sono cimentate nella produzione di lenti da 40mm a 55mm che, con le necessarie approssimazioni, sono considerati obiettivi normali sul formato 24x36. Si considerano pertanto obiettivi “normali” quelli che inquadrano un angolo di campo compreso tra i 45° e i 60°. Ne consegue che la focale dell’obiettivo “normale” cambia a seconda del sistema utilizzato. Sulle fotocamere medio formato, quelle che usano pellicole 120, il cui fotogramma ha dimensioni di 6x6cm, viene considerato normale l’obiettivo da 80mm. Sulle reflex digitali Full Frame, che hanno un sensore delle dimensioni uguali a quelle del fotogramma Leica, 24x36mm, il 50mm continua ad essere l’ottica “normale”. A causa del fattore di crop dovuto al sensore più piccolo, invece, sulle reflex digitali APS-c attuali, il classico 50mm non è più un obiettivo normale, in quanto non si avvicina né alla diagonale del sensore, né all’angolo di campo inquadrato dall’occhio umano. L’angolo di campo di un 50mm su APS-c , a seconda dei diversi formati, varia tra i 31 e i 32 gradi, all’incirca quello di un 75-80mm su formato Leica. Diventa pertanto un medio tele, adatto, ad esempio, per ritratti mezzo-busto o ambientati. Gli obiettivi considerati “normali” su APS-c sono invece quelli che vanno da 28mm a 35mm. Per quanto riguarda le reflex del formato Quattro terzi, sono obiettivi normali quelli che hanno una focale compresa tra i 20 e i 25mm.
L'obiettivo Olympus Zuiko 25mm f/2,8 "Pancake": un "normale" per il sistema Quattro Terzi.
Obiettivi e fattore di crop Per decenni il sistema fotografico più usato è stato quello Leica 35mm, detto anche 135, che si basa su un fotogramma delle dimensioni di 36x24mm, oggi adottato dalle reflex digitali cosiddette Full Frame. Per questo motivo, quando si parla di obiettivi, ci si rapporta ancora, più o meno consapevolmente, a quel sistema. Sul sistema Leica la classificazione degli obiettivi è, con alcune approssimazioni, la 23
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seguente: Supergrandangolari: focali da 12mm a 21mm. Grandangolari: focali da 24mm a 35mm. Normali: focali da 40mm a 55mm. Medio tele: focali da 60mm a 200mm. Supertele: focali da 300mm in su.
Dimensioni dei sensori. A causa del fatto che la maggior parte delle reflex digitali vendute attualmente ha un sensore più piccolo, è necessario rivedere la suddivisione riportata sopra, tenendo conto del fattore di crop di 1,5x – 1,6x dei sistemi APS-c e o 2x per il sistema Quattro Terzi. Per questo motivo, quando si parla degli obiettivi montati su queste fotocamere, spesso si preferisce indicarne anche la focale equivalente. Pertanto si legge o si sente dire che un 300mm, montato su una reflex APS-c Nikon (come per esempio la D300), equivale a un 450mm, o che un 400mm equivale, sulla stessa fotocamera, a un 600mm. Sulle reflex APS-c Canon il fattore di crop è pari a 1,6x. Quindi si dice comunemente che un 300mm equivale a un 480mm, e che un 400mm equivale a un 640mm. Come si nota, per coloro che usano lunghi teleobiettivi, il sensore APS-c offre notevoli vantaggi, in quanto fornisce un ingrandimento maggiore a parità di focale usata. Per lo stesso motivo, però, i grandangoli sono penalizzati. Un 14mm, che è un grandangolo di tutto rispetto su pellicola o sensore 24x36mm, equivale solo ad un modesto 21mm se montato su APS-c. Infatti con l’avvento del digitale, e la diffusione dei sensori APS-c, le case hanno prodotto dei grandangoli che partono da 10mm, e adesso anche da 8mm (equivalente ad un 12mm su APS-c con fatto di crop 1,5x). Sul sistema APS-c possiamo pertanto classificare gli obiettivi così: Supergrandangolari: focali da 8mm a 15mm. Grandangolari: focali da 16mm a 24mm. Normali: focali da 28mm a 35mm. Medio tele: focali da 40mm a 150mm. Supertele: focali da 200mm in su.
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Il Sigma 8-16mm f/4.5-5.6 DC HSM: lo zoom supergrandangolare più spinto progettato per le reflex APS-c. Per il sistema Quattro Terzi si usa in genere considerare un fattore di crop pari a 2x, anche se le proporzioni diverse del fotogramma (4:3 invece di 3:2), dovrebbero portare a fare alcune considerazioni leggermente diverse che qui si tralasciano. Pertanto sul sistema Quattro Terzi gli obiettivi possono essere così suddivisi: Supergrandangolari: focali da 7mm a 11mm. Grandangolari: focali da 12mm a 20mm. Normali: focali da 21mm a 27mm. Medio tele: focali da 30mm a 100mm. Supertele: focali da 150mm in su. Anche per le fotocamere compatte si usa parlare di focali equivalenti. Spesso infatti sull’obiettivo, oltre alla focale effettiva (o al posto di essa), è indicata quella equivalente nel formato Leica. Così, per esempio, è facile trovare compatte che sull’obiettivo riportano la scritta “24-105mm eq.”, dove “eq.” indica appunto che le focali indicate sono quelle equivalenti, come angolo di campo inquadrato, al formato Leica 24x36mm.
Dal grandangolo al teleobiettivo Si definiscono “normali” gli obiettivi che hanno un angolo di campo simile a quello restituito dalla visione umana, quelli che inquadrano quindi un angolo tra i 45° e i 60°. Si definiscono grandangoli gli obiettivi che hanno una lunghezza focale inferiore rispetto all’obiettivo considerato “normale” per un determinato sistema, quelli cioè che permettono di inquadrare una porzione più ampia della scena. Sono pertanto grandangoli tutti quegli obiettivi che permettono di inquadrare una porzione di campo maggiore di 45°. Si definiscono teleobiettivi gli obiettivi che, avendo una lunghezza focale superiore rispetto al “normale”, inquadrano una porzione di campo inferiore ai 45°, creando quindi un ingrandimento rispetto alla visione umana. Le fotografie sotto riportate permettono di farsi un’idea dell’effetto restituito dalle diverse lunghezze focali. Osservatele attentamente, consultando anche le didascalie. In particolare riflettete su come all’aumentare della focale diminuisca l’angolo di campo 25
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inquadrato. Si tratta della stessa scena, ripresa a focali diverse. Grandangolo
La scena è ripresa con una reflex APS-c - con fattore di crop 1,5x - con un obiettivo di lunghezza focale 12mm, che su questo sistema restituisce un angolo di campo di 99,6°. La focale equivalente su FullFrame (24x36mm) è 18mm.
A 15mm (equivalente sul FF a 22,5mm) l'angolo di campo inquadrato è di 86,8°.
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A 18mm (focale equivalente su FF 27mm), l'angolo di campo inquadrato è di 76,5°.
A 24mm (focale equivalente su FF 36mm), l'angolo di campo inquadrato è di 61,2°. Si tratta di una visione leggermente grandangolare.
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Normali
28mm (focale equivalente su FF 42mm). L'angolo di campo è di 53,8°. Il campo inquadrato e la resa prospettica sono molto simili a quelli della visione umana.
35mm (focale equivalente su FF 52mm). L'angolo di campo inquadrato è di 44,1°. Siamo ancora nell'ambito dei "normali".
Teleobiettivi
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70mm (equivalenti su FF a 105mm). Angolo di campo pari a 22,9°. Si tratta di un medio tele.
100mm (lunghezza focale equivalente su FF 150mm). Angolo di campo pari a 16,2°. Il classico mediotele.
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200mm (focale equivalente su FF 300mm). Angolo di campo pari a 8,1°. Siamo nel campo dei supertele.
400mm (focale equivalente su FF 600mm). Angolo di campo pari a 4,1°. Siamo nel campo dei supertele.
Gli zoom Sono definiti obiettivi zoom tutti quegli obiettivi che permettono di variare la focale nell’ambito di una certa gamma di valori. Pur comportando spesso dei compromessi, in
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termini di qualità, rispetto agli obiettivi a focale fissa equivalenti, gli zoom si sono imposti sul mercato a motivo della loro versatilità e praticità. Inoltre, grazie allo sviluppo della tecnologia, oggigiorno anche gli zoom economici offrono sovente una qualità ottica di tutto rispetto. Tanto che attualmente gli obiettivi a focale fissa sono relegati ad applicazioni e generi fotografici specifici e acquistati quasi esclusivamente dai professionisti e dai fotoamatori più esigenti. Gli zoom sulle compatte Quasi tutte le fotocamere compatte e bridge sono dotate di un obiettivo zoom. Si tratta di obiettivi dalla focale variabile, che vanno solitamente dal modesto grandangolare al medio tele. Ragionando in termini di focali equivalenti, in genere lo zoom delle compatte copre un range di focali che va dai 24-28mm in posizione grandangolare ai 200-300mm in posizione tele. Poiché tali fotocamere non offrono la possibilità di cambiare l’obiettivo, si cerca di offrire all’acquirente una gamma di focali adatta a coprire tutte le esigenze normali di un fotoamatore.
La Panasonic Lumix DMC-ZS7. Come indicato sul corpo della fotocamera, essa è dotata di un obiettivo zoom 12x che parte da una focale equivalente di 25mm. Si tratta quindi di un 25-300mm equivalente. Le focali comprese in tale intervallo sono quelle maggiormente usate dai fotografi. Un obiettivo zoom del genere permette pertanto di coprire la maggior parte delle situazioni fotografiche. Sulle fotocamere reflex Le fotocamere reflex, almeno quelle definite entry-level, vengono normalmente vendute corredate con un obiettivo zoom 18-50mm o 18-55mm. Le focali equivalenti di cui si dispone sono quindi quelle comprese tra i 27-28mm e i 75-80mm. Si va pertanto dal moderato grandangolo al modesto medio tele. Si nota immediatamente quindi che una reflex appena acquistata è per certi aspetti meno versatile di una compatta o di una bridge. Zoom medio-tele economico 31
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Per ovviare a questo problema le case produttrici spesso offrono dei kit con due obiettivi: il 18-50mm classico più un 50-200mm, quindi uno zoom medio tele, che amplia moltissimo le possibilità fotografiche.
Il Sony 55-200mm f/4-5,6 un tele-zoom economico adatto per "completare il corredo". Tali zoom sono ovviamente acquistabili anche separatamente e costituiscono un modo semplice di ampliare la propria gamma di focali, e di conseguenza le possibilità fotografiche, spendendo poco. Di solito il costo di tali zoom si mantiene al di sotto dei 300350 euro.
Il Nikon Nikkor 70-300mm f/4,5-5,6 VR. Un obiettivo dalla buona resa che, come indica la sigla VR, è anche stabilizzato. Zoom tuttofare 32
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Per coloro che desiderano corredare la reflex di un unico obiettivo tuttofare, perché magari non amano cambiare ottica, sono disponibili dei comodi 18-200mm o 18-250mm piuttosto versatili, anche se spesso con evidenti compromessi in termini di qualità ottica.
Il Nikon 18-200 VR (cioè stabilizzato). Un obiettivo zoom versatile, che va dal grandangolo moderato al tele spinto, per coloro che non amano cambiare ottica. Se si desidera ampliare ulteriormente il proprio corredo fotografico e le proprie possibilità espressive, sono ovviamente disponibili obiettivi zoom per tutti i gusti. L’unico limite è costituito dall’ammontare del proprio budget di spesa. Ecco alcuni esempi. Zoom grandangolari Gli zoom grandangolari coprono focali che vanno dagli 8mm ai 24mm, se disegnati per il sistema APS-c, e dai 12 ai 35mm se disegnati per il sistema Full Frame (24x36mm). Di solito non hanno una grande apertura, si limitano a f/4, perché con i grandangoli il rischio di ottenere fotografie micromosse è minore (il tempo di sicurezza, a 10mm, su sistema APS-c, è pari a 1/15 si secondo).
Il Sony DT 11-18 mm f/4,5-5,6: un obiettivo zoom che copre le focali grandangolari.
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Zoom normali luminosi Sono obiettivi che coprono focali tra i 16 e i 55mm per il formato APS-c e tra i 24 e i 70mm per il formato Full Frame. Si distinguono dagli zoom che vengono forniti a corredo per essere molto più luminosi. Infatti hanno un’apertura fissa, su tutto il range di focali, di f/2,8 mentre gli zoommini a corredo sono f/4-5,6.
Il Nikon Nikkor AF-S 17-55mm f/2.8 G IF-ED DX: uno zoom "normale" luminoso. Qual è la differenza, all’atto pratico? Beh un obiettivo luminoso, con apertura f/2,8, permette innanzitutto di bilanciare meglio la profondità di campo, sfocando meglio lo sfondo all'occorrenza, cosa molto utile in molti generi fotografici, come ad esempio il ritratto. Le grandi aperture permettono poi di impostare tempi più veloci, minimizzando il pericolo di mosso. Anche la scena visualizzata nel mirino appare più luminosa. Inoltre, trattandosi di prodotti pensati per un’utenza professionale, gli zoom ad apertura f/2,8 sono in genere progettati per garantire una resa ottica senza compromessi. Ovviamente questi vantaggi comportano anche alcuni svantaggi. Innanzitutto il prezzo. Un 16-50 f/2,8 può costare dagli 800 ai 1500 euro, mentre un obiettivo kit 18-55 f/4-5,6 costa circa 100-150 euro, spesso anche meno se comprato insieme alla fotocamera. In secondo luogo le dimensioni e il peso. Zoom medio-tele luminosi Anche per quanto riguarda la gamma dei teleobiettivi esistono zoom professionali. Il più classico è il 70-200 f/2,8. Ovviamente anche in questo caso il vantaggio, rispetto ad obiettivi con escursioni focali simili ma con diaframma f/4 o f/5,6, sta principalmente nella luminosità. Tuttavia, dato che si tratta di obiettivi professionali, nei quali i produttori riversano il top delle proprie capacità progettuali e tecniche, si riscontra in questi obiettivi una qualità ottica eccezionale. Ovviamente tale qualità si paga profumatamente. I prezzi oscillano tra gli 800-900 euro dei produttori universali e i 2000 euro o più dei brand più famosi.
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Il Canon 70-200 f/2,8 II. Un medio tele luminoso stabilizzato dalla straordinaria resa ottica. I medio-tele luminosi si usano soprattutto per la fotografia di ritratto (nella quale l’ampia apertura di diaframma consente di sfocare lo sfondo e, in generale, un completo controllo sulla profondità di campo), per la fotografia in luoghi poco illuminati, per la fotografia di cerimonia, senza tralasciare la fotografia di paesaggio e, talora, quella di animali selvatici. La differenza di luminosità comporta ovviamente una notevole differenza in termini di dimensioni e peso, come si può osservare nella seguente foto. Gli zoom tele luminosi sono anche piuttosto pesanti. Zoom tele Sono obiettivi a focale variabile che che coprono le focali lunghe, ad esempio da 80mm a 400mm, o da 150mm a 500mm, poco luminosi (di solito hanno un’apertura di diaframma variabile tra f/5 ed f/7,3). Spesso sono usati dai neofiti per cominciare a praticare generi più impegnativi e specialistici di fotografia, quale quella sportiva (si pensi alle partite di calcio, alla vela, alle gare automobilistiche su pista o a quelle di motocross), e quella di animali in natura (wildlife).
Il sigma 150-500 f/5-6,3 HSM OS è uno zoom tele stabilizzato che permette di avvicinarsi con una spesa ancora abbastanza contenuta al mondo dei supertele e a generi fotografici, 35
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quali la fotografia di animali selvatici, che richiedono le lunghe focali. Si tratta di generi fotografici che ben presto richiederanno l’uso di teleobiettivi a focale fissa, dall’ampia apertura, costosi e pesanti, ma per iniziare a prendere confidenza con essi, magari in attesa di capire se si tratta di un tipo di fotografia che ci interessa davvero, l’acquisto di uno zoom tele, dal costo e dal peso ancora contenuti, potrebbe essere una buona soluzione iniziale.
Gli obiettivi macro
Un ramo della ripresa fotografica che risulta sicuramente molto affascinante, sia per chi lo pratica che per gli osservatori delle foto, è quello che consiste nello spostare il punto di vista su un microcosmo che ci circonda e del quale noi siamo spesso inconsapevoli invasori ma quasi mai attenti spettatori: quello degli insetti, dei fiori, delle gocce di rugiada e di miliardi di altri soggetti troppo piccoli per essere apprezzati compiutamente nella loro – a volte stupefacente – bellezza ad occhio nudo.
Rapporto di riproduzione circa 1:1. Stiamo ovviamente parlando della fotografia macro o macrofotografia, cioè della ripresa a distanza ravvicinata che permette di cogliere l’universo alieno che si trova all’interno del 36
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mondo al quale siamo abituati. Molti sono gli strumenti e gli accessori che permettono alla nostra fotocamera divenire idonea per la ripresa macro. Sicuramente però la soluzione più semplice, quella senza compromessi, ma anche più costosa è costituita dall'acquisto di un obiettivo macro. Bisogna fare molta attenzione però: la scritta macro appare al giorno d’oggi su molti obiettivi che non lo sono affatto. I fabbricanti di ottiche, infatti, tendono a largheggiare piuttosto disinvoltamente, e ad attribuire la qualifica di macro anche ad obiettivi che permettono, sì e no, un rapporto di ingrandimento di 1:6, 1:5, 1:4. Un noto zoom 70-300 che viene definito “macro”, per esempio, permette un rapporto di ingrandimento massimo di 1:4 senza l’utilizzo di ulteriori accessori. Questo rapporto significa che, per esempio, un soggetto di 4 mm di lunghezza, verrà riprodotto con la lunghezza effettiva di 1mm sul sensore. Davvero ben poca cosa. Gli obiettivi macro propriamente detti, invece, sono quelli che consentono un rapporto di riproduzione 1:1. Cioè ogni particolare del soggetto verrà riprodotto esattamente con le stesse dimensioni sul sensore. Alcuni obiettivi macro si fermano in realtà ad un rapporto 1:2, ma raggiungono il fatidico 1:1 con una lente close-up o un tubo di prolunga accessorio appositamente studiato dal produttore, l’utilizzo dei quali non ne pregiudica significativamente la qualità.
Sull'obiettivo macro viene riportato il rapporto di riproduzione al quale si sta lavorando. In questo caso 1:1. Se studiamo i cataloghi dei vari produttori di obiettivi scopriamo che gli obiettivi macro sono nella quasi totalità dei casi obiettivi a focale fissa, con apertura di diaframma sicuramente buona, ma non eccezionale (si ferma a f/2,8 o a f/3,5), con una lente frontale che fuoriesce molto dal barilotto quando si trova alla minima distanza di messa a fuoco.
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Al massimo rapporto di riproduzione, come si vede dalla fotografia, la lente frontale di un obiettivo macro fuoriesce tantissimo dal barilotto. La caratteristica fondamentale di un obiettivo macro è quella di riuscire a mettere a fuoco su una distanza molto più breve rispetto a quella di un obiettivo normale. Se un 50mm normale di solito mette a fuoco ad una distanza minima di circa 45 cm di distanza, un 50mm macro riuscirà a mettere a fuoco ad una distanza minima di circa 19,5 cm. Per esemplificare altre differenze costruttive tra un obiettivo macro e uno normale, mettiamo a confronto i dati tecnici di due obiettivi di pari focale, del medesimo produttore:
Raffronto tra le specifiche tecniche di un obiettivo da 50mm macro e uno normale Le differenze che saltano subito all’occhio sono le seguenti: • Il 50mm normale è molto più luminoso, f/1,4 contro f/2,8. Ciò avviene perché un 38
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50mm normale è progettato per garantire un ottimo controllo dello sfocato e quindi con la possibilità di utilizzare un diaframma molto aperto. Un obiettivo macro invece sarà usato soprattutto ai diaframmi intermedi o più chiusi. Inutile quindi, in sede di progettazione, lavorare su grandi aperture che non sarebbero utilizzate e creerebbero molti problemi ai progettisti per essere gestite. • Il 50mm macro ha un diaframma che si chiude di ben tre stop in più: f/45 contro f/16. Anche questo è dovuto ad una precisa scelta progettuale. In macrofotografia infatti la profondità di campo è sempre poca, e un diaframma più chiuso permette di guadagnare qualche millimetro di zona nitida in più. Inutile invece prevedere tali diaframmi su un obiettivo normale, dove non sarebbero quasi mai utilizzati. • Ovviamente il rapporto di riproduzione è molto diverso: 1:1 per l’obiettivo macro, 1:7,4 per l’obiettivo normale. Quale obiettivo macro conviene scegliere?
Nikon Micro Nikkor 60mm f/2,8 macro G ED. Esistono in commercio obiettivi macro delle focali più diverse: si va dai 35mm ai 200mm. Tutti, come già detto, garantiscono un rapporto di riproduzione che è per lo meno di 1:2. Su quale focale indirizzarsi dipende soprattutto dall’impiego che vogliamo farne. Bisogna infatti tener conto di un fattore importante: minore è la lunghezza focale dell’obiettivo, minore sarà la distanza tra la lente frontale e il soggetto. Questo fatto ha due conseguenze importanti: 1. se il soggetto è vivo (un insetto per esempio), qualora la distanza minima della lente frontale fosse troppo corta, potrebbe spaventarsi e fuggire; 2. una distanza troppo corta tra la lente frontale e il soggetto può creare problemi con l’utilizzo dell’eventuale illuminazione esterna (flash o lampada).
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Nella foto di questo ragnetto siamo ben oltre il rapporto di riproduzione 1:1. E' stata ottenuta con un 100mm macro montato su tubi di prolunga ed è stata usata una fonte di illuminazione esterna (il flash, montato sulla fotocamera, con diffusore). La distanza minima di messa a fuoco, grazie all'utilizzo di una focale tele, ha permesso di non spaventare il ragnetto e di avere anche sufficiente spazio per illuminarlo. Per esemplificare il problema portiamo qualche dato: con un 50mm la distanza tra la lente frontale e il soggetto sarà di circa 7 cm; se abbiamo un paraluce montato, a seconda della conformazione di questo, la distanza di lavoro scenderà a circa 4-5 cm. A questo punto è importante precisare che vi è una notevole differenza tra la distanza minima di messa a fuoco, che per un 50mm macro sarà, come detto prima, di circa 19,5 cm, e la distanza del soggetto dalla lente frontale, in quanto in fase di lavoro la lente frontale di un macro fuoriesce moltissimo dal barilotto. Alla minima distanza di messa a fuoco, che corrisponde al massimo fattore di ingrandimento (1:1), la lente frontale di un 50mm macro disterà circa 7 cm dal soggetto. Con un 100mm invece la distanza di lavoro sale a 14 cm, 12-13 con un paraluce montato. È evidente come la differenza sia notevole: la maggior parte degli insetti non tollererà una distanza di 4-5 cm, ma una di 12-13 sì. Per gli insetti sarebbe comunque meglio utilizzare un 150mm o un 180mm, che permettono di raggiungere il rapporto di riproduzione di 1:1 rispettivamente a 18 cm e 23 cm di distanza dalla lente frontale, abbastanza per garantire anche la nostra sicurezza rispetto a soggetti pericolosi (vespe, calabroni, vipere…).
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Il Sigma APO MACRO 180mm f/2,8 DG OS HSM: un'ottica straordinaria per la fotografia di insetti in quanto permette di mantenersi a una buona distanza dal soggetto. Anche l’eventuale utilizzo di fonti di illuminazione esterna risulta parecchio facilitato se possiamo operare ad una distanza maggiore. In virtù di quanto sopra detto, e anche se ho visto delle foto bellissime fatte con dei macro di focale 35mm, il mio suggerimento è di orientarsi su obiettivi macro di focale compresa tra i 50mm e i 100mm se pensiamo di fotografare fiori e altri soggetti statici, mentre 100mm sono davvero il minimo sindacale per fotografare gli insetti, per i quali le focali ideali sono quelle comprese tra i 150mm e i 200mm.
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Un obiettivo molto particolare, studiato da Canon esclusivamente per la macro. Il Canon MP E 65mm f/2,8 permette di raggiungere ingrandimenti fino al 5x con effetti spettacolari.
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Capitolo 3 Gli accessori Il treppiede Senza ombra di dubbio l'accessorio più importante per un fotografo è il treppiede. Molti fotografi confidano nell’efficacia dello stabilizzatore, molti detestano farsi carico del non indifferente peso di un buon treppiede, ma se volete espandere le potenzialità della vostra attrezzatura, seguite questo consiglio: dotatevi di un buon treppiede. L’uso del treppiede infatti presenta i seguenti vantaggi: 1) semplicemente riuscirete a fare fotografie altrimenti impossibili, ad esempio quelle nelle quali per ragioni estetiche si desidera utilizzare dei lunghi tempi di esposizione, come negli esempi sotto riportati:
Questa immagine è stata ottenuta utilizzando un tempo di scatto di 2,5 secondi. Un tempo così lungo è necessario per rendere l'effetto del movimento del mare. Nessuno stabilizzatore potrebbe compensare una tempo di scatto tanto lungo. C'è una sola possibilità: utilizzare un treppiede.
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Il tempo di scatto di 3 secondi permette di rendere nella fotografia l'effetto dell'acqua in movimento. Ancora una volta è indispensabile il treppiede.
2) il treppiede permette di valutare con calma l’inquadratura. Sotto questo aspetto è molto utile: una specie di palestra di buona composizione. Specialmente all’inizio, quando certi automatismi della composizione non sono acquisiti, fermarsi a riflettere sull’inquadratura scelta, osservandola per bene nel mirino o sul live-view della fotocamera, permette di ottenere immagini migliori; 3) spesso ottenere uno scatto interessante significa aspettare il gioco di luce ideale. Capita quindi di posizionare la macchina sul treppiede, scegliere per bene l’inquadratura, e aspettare che arrivi la luce ideale. Tale attesa può durare anche molti minuti, perfino qualche ora. Se la macchina è montata sul treppiede, e l’inquadratura è stata ben pensata in precedenza, all’arrivo della luce ideale saremo pronti a scattare la fotografia senza perdere quei preziosi secondi che potrebbero vanificare la nostra attesa.
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Un tramonto dura pochi minuti. Meglio essere pronti e scegliere l'inquadratura prima, aspettando poi l'attimo giusto con la fotocamera sul treppiede
Per la scelta del treppiede bisogna tener conto di un solo consiglio fondamentale: non risparmiare! Sulle bancarelle e anche nei negozi di fotografia si vedono treppiedi che costano poche decine di euro. Non comprateli! Il treppiede, per essere efficace, deve essere stabile. Per essere stabile deve essere costruito bene e deve essere anche pesante. Difficilmente si trova qualcosa che risponde a questi parametri al di sotto dei 150 euro. A cui va aggiunto il costo della testa, che nei treppiedi professionali viene venduta a parte.
Un treppiede professionale garantisce l'adeguata stabilità e la sicurezza dell'attrezzatura fotografica. Va corredato di una "testa", l'accessorio che regge la fotocamera e permette di modificare l'inquadratura.
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Un buon parametro per valutare se il treppiede è adeguato alle nostre necessità, è che esso deve pesare più dell’attrezzatura che andrà a reggere. Questa regola può essere derogata solo nel caso dei modernissimi e costosissimi treppiedi costruiti in fibra di carbonio con altri materiali ricercati e raffinati. Ad ogni modo i produttori di modelli professionali indicano il peso che un determinato modello di treppiede può reggere. Per resistere alla tentazione di comprare un treppiede sulle bancarelle, considerate che proprio al treppiede affidate la sicurezza della vostra preziosa fotocamera con l’obiettivo montato (si tratta probabilmente di centinaia di euro, se non migliaia). Essi andrebbero incontro a danni ingenti se il treppiede si rovesciasse. Non è proprio il caso di risparmiare sul treppiede, quindi! Un treppiede poco stabile inoltre è del tutto inutile, perché il semplice movimento che imprimete con il dito al pulsante di scatto può generare le vibrazioni che porteranno ad una foto mossa.
Una testa base, a tre movimenti, da montare sul treppiede. La testa è dotata di una piastra a sgancio rapido, che va montato sotto la fotocamera, e permette di montare quest'ultima sul treppiede in pochi istanti e di staccarla altrettanto rapidamente.
Ma come scegliere il treppiede? A quali caratteristiche prestare attenzione? Stabilità e robustezza Ripetiamolo. Siccome alla stabilità del treppiede è affidata l’integrità della nostra costosa attrezzatura fotografica, esso dovrebbe essere davvero robusto. Vi assicuro che uno dei momenti peggiori nella vita del fotografo è quando vede cadere a terra la sua preziosa fotocamera, magari con un obiettivo montato del valore di diverse centinaia o migliaia di euro. Davvero sarebbe poco saggio lesinare proprio sull’acquisto del treppiede. Se abbiamo una reflex, quindi, evitiamo accuratamente i treppiedi in vendita sulle bancarelle, ed evitiamo anche di acquistare marchi sconosciuti in negozio. Rivolgiamoci ai pochi e conosciuti produttori seri, e scegliamo accuratamente il cavalletto fotografico adatto alle nostre necessità dopo averlo provato o aver chiesto informazioni chiarificatrici agli esperti, magari rivolgendoci ad amici fotoamatori o chiedendo lumi su uno dei tanti forum on line di fotografia. Nella scelta del cavalletto possiamo avvalerci dei dati tecnici dichiarati, presenti sulle brochure, sui cataloghi, sulle scatole e sui siti web dei migliori produttori. Tra i dati tecnici viene chiaramente riportato il peso che il treppiede può sostenere.
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Un dato fondamentale nella scelta: il peso massimo caricabile sul treppiede. In questo caso 8 Kg.
Una vecchia regola empirica raccomandava di scegliere un treppiede più pesante dell’attrezzatura che dovrebbe sostenere. La tecnologia e l’uso di materiali migliori ha permesso di chiudere un occhio su questa regola. Ad ogni modo è sempre meglio largheggiare, e scegliere un cavalletto che dichiari una “capacità di carico” superiore di almeno il 30% al peso della reflex e dell’obiettivo che dovrà sostenere. Un treppiede di generose dimensioni garantirà, oltre che dal rischio di improvvise rovinose cadute, anche l’attenuazione di quelle vibrazioni che provocano il micromosso, con la conseguente perdita di nitidezza della foto. Inoltre, anche il numero delle sezioni delle gambe influenza molto la stabilità del treppiede: è importante assicurarsi che il cavalletto che stiamo acquistando non abbia più di due snodi, che le gambe, quindi, non abbiano più di tre sezioni. Trasportabilità La trasportabilità è un fattore molto importante nella scelta del cavalletto, anche se purtroppo entra in contrasto con la caratteristica analizzata prima, in quanto un treppiede stabile di solito è anche piuttosto pesante, a meno che non ci indirizziamo verso modelli in fibra di carbonio che sono fino al 30% più leggeri degli altri a parità di capacità di carico. I treppiedi in fibra di carbonio sono piuttosto costosi ma se dobbiamo portarci dietro il cavalletto durante lunghe escursioni dobbiamo seriamente considerarne l’acquisto, oppure cercare una soluzione di compromesso. Versatilità un elemento molto importante nella scelta del treppiede è la sua versatilità. In particolare si deve prestare attenzione a due caratteristiche: la possibilità di montare la colonna in orizzontale e la possibilità di eliminarla per allargare le gambe e raggiungere un’altezza minima da terra di non più di 15-20 cm.
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La colonna del treppiede.
Possibilità di montare la colonna in orizzontale La colonna del treppiede permette di aumentare l’altezza massima di lavoro quando le gambe sono completamente estese. Per alcuni generi fotografici (macro in primis, ma anche riproduzione di documenti, ecc…) è importante che sia possibile disporla in orizzontale, come si vede nella seguente immagine:
È importante che il treppiede abbia la possibilità di montare la colonna in orizzontale.
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In questo modo potremo fotografare con la fotocamera rivolta verso il basso, cosa che può capitare più di frequente di quanto immaginiate, soprattutto se praticate la fotografia macro.
Per scattare questa fotografia il treppiede è stato disposto con la colonna in orizzontale.
Possibilità di eliminare la colonna centrale Anche questa è una caratteristica importante, perché permette di raggiungere una altezza minima da terra non superiore ai 15-20 cm. Questa proprietà è importante soprattutto nella fotografia naturalistica. Un’altezza minima da terra contenuta, infatti, permette di fotografare gli animali (ad esempio gli anatidi in un lago) alla loro stessa altezza, cioè dalla prospettiva migliore. Naturalmente è fondamentale che le gambe del treppiede siano completamente allargabili come si vede nella foto sottostante.
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È importante che il treppiede abbia la colonna centrale staccabile e le gambe che si allarghino completamente per garantire un’altezza minima da terra di pochi centimetri.
Altri fattori di cui tener conto nella scelta del treppiede Un altro elemento da considerare è quello dell’altezza massima. Dovrebbe essere di circa 130 – 150 cm con la colonna centrale completamente abbassata. Se è vero, infatti, che la colonna permette di aumentare l’altezza all’occorrenza, è anche vero che quando essa viene sollevata il treppiede diventa meno stabile. Per questo motivo è meglio acquistare un treppiede che sia abbastanza alto senza ricorrere alla colonna centrale. Per quanto riguarda la colorazione, non ci sono particolare necessità. Se però siamo interessati a praticare la fotografia di animali in natura, ricordiamo che molti fotografi naturalisti suggeriscono l’acquisto di treppiedi di colore verde scuro, o nero, perché il colore dell’alluminio e specialmente i riflessi del sole su di esso, potrebbero essere percepiti da alcuni animali e infastidirli. Molto utile sul cavalletto (soprattutto se lo si utilizza per riprese video) può essere una bolla di livello.
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Bolla di livello sul treppiede.
Infine due parole sui piedini, anche se nei treppiedi professionali sono di solito intercambiabili e quindi facilmente sostituibili, in quanto i produttori li vendono come accessori. I piedini più comuni, quelli con i quali sono venduti in genere i cavalletti, sono in gomma, utili sia in interno (per non rigare o danneggiare i pavimenti) che nella maggior parte delle situazioni in esterno. Esistono poi i piedini a punta in metallo, da utilizzare solo all’esterno e conficcare nel terreno per aumentare la stabilità del treppiede. Vi sono poi i piedini doppi, dotati sia di gommino che di punta in metallo.
Piedino in gomma.
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Piedino doppio con base in gomma da ruotare per fare all’occorrenza fuoriuscire la punta in metallo.
Scegliere una testa per il treppiede I treppiedi professionali o semi-professionali vengono venduti senza testa che dovrà essere acquistata separatamente dal fotografo in base alle proprie necessità. Vediamo quali sono le principali teste per treppiede in commercio. Testa a sfera Come suggerisce il nome, questo tipo di testa ha un unico snodo a sfera che permette di muovere velocemente la fotocamera in qualsiasi direzione. La testa ha una levetta o una manopola che consente di sbloccarla, collocarla nella posizione desiderata e ribloccarla.
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Una testa a sfera prodotta da Cullmann. L'unica leva presente permette di bloccare e sbloccare la testa. Foto Cullmann.de
Vantaggi: immediatezza e velocità nel muovere la macchina fotografica sbloccando un’unica leva. Compattezza: se confrontata con una testa a tre movimenti la differenza di dimensioni è evidente. Svantaggi: sono in genere meno precise delle teste a tre movimenti ed è più difficile ottenere un’inquadratura accurata rispetto a queste ultime. Anche se bloccate tendono ad essere meno stabili e a muoversi più facilmente dalla posizione stabilita rispetto alle teste a tre movimenti (questo, naturalmente, dipende molto dalla qualità e dalla robustezza). Usi consigliati: è una testa molto versatile che permette di fare un po’ di tutto. Diversi fotografi la usano per qualsiasi tipo di foto, dal ritratto alla macrofotografia. Io personalmente non la ritengo adatta alla fotografia di paesaggio, per la quale è preferibile avere il controllo separato dei tre movimenti, e alla macrofotografia spinta (ingrandimenti superiori all’1:1) per la quale è più indicata una testa a cremagliera con movimenti micrometrici (di questo tipo di testa e di altre per usi più specifici parleremo in un prossimo tutorial). Testa a tre movimenti Con questo tipo di testa si ha la possibilità di muovere la fotocamera indipendentemente su ognuno dei tre assi. Ciascuna delle tre manopole sblocca e blocca uno degli assi.
Una testa a tre movimenti prodotta da Benro.Come si vede, ha una manopola per bloccare e sbloccate ognuno degli assi indipendentemente. Foto Benro USA
Vantaggi: la regolazione separata per i tre assi permette di scegliere accuratamente l’inquadratura. Si può muovere la macchina fotografica agendo su di un asse lasciando bloccati gli altri, cosa utile, ad esempio, quando si vogliono provare inquadrature diverse senza cambiare la posizione della linea dell’orizzonte o quando si vogliono unire più foto per ottenere delle panoramiche. Una volta bloccate le manopole è più difficile che l’inquadratura si sposti rispetto a quanto avviene con le teste a sfera. Svantaggi: dovendo armeggiare con tre leve, l’utilizzo è meno immediato e veloce rispetto a quello di una testa a sfera. Gli ingombri sono maggiori rispetto ad una testa a sfera di portata equivalente. Usi consigliati: si può usare per ogni genere fotografico, specialmente per quelli dove la precisione dell’inquadratura è prioritaria rispetto alla velocità operativa: paesaggi, macro, foto di architettura, riproduzione di quadri o documenti.
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Come scegliere Se si è indecisi nella scelta tra queste due teste può essere utile andare in un negozio di fotografia ben fornito e chiedere di poterne provare diverse di entrambi i tipi. In questo modo sarà più facile capire quale tipo di testa è più adatto al nostro modo di fotografare. Caratteristiche a cui fare attenzione Quando si sceglie la testa per il treppiede, ci sono alcune caratteristiche comuni a cui fare attenzione. Portata massima Tutti i produttori dichiarano nelle schede tecniche la portata massima delle teste da loro prodotte. Facciamo attenzione a scegliere una testa con una portata massima superiore al peso della nostra macchina con l’obiettivo più pesante di cui disponiamo. È bene tenersi un poco larghi in modo da evitare di far lavorare la testa al limite delle sue possibilità a tutto vantaggio della stabilità e della sicurezza dell’attrezzatura che ci monteremo sopra. Solidità e qualità di assemblaggio Assicuriamoci che la testa che stiamo per acquistare non abbia giochi eccessivi, che potrebbero tradursi in foto micro mosse, e che sia sufficientemente solida per l’uso che ne faremo. Affidandoci a marche note, ed evitando le linee troppo economiche, non dovremmo aver problemi in tal senso. Meccanismo si aggancio-sgancio rapido
La piastra rapida viene lasciata montata sulla fotocamera.
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La piastra rapida si aggancia e sgancia dalla testa del treppiede tramite un sistema di inserimento e blocco comandato da una levetta.
Quasi tutte le teste di buona qualità ne sono dotate. Il meccanismo di aggancio e di sgancio rapido consiste in una piastra da avvitare sotto la fotocamera. La piastra può essere inserita sulla testa del treppiede attraverso apposite scanalature e incastri ed esservi bloccata attraverso un apposito fermo. La funzione di questo meccanismo è quella di permettere di agganciare e sganciare la macchina dalla testa rapidamente muovendo semplicemente una levetta. In tal modo si potrà, ad esempio, posizionare con calma il treppiede e agganciarvi la fotocamera solo quando è ben stazionato. Inoltre, quando dobbiamo spostare il cavalletto possiamo sganciare la macchina fotografica in un attimo e riagganciarla dopo averlo riposizionato, evitando inutili rischi per l’attrezzatura. Certo la stessa cosa si può fare anche senza lo sgancio rapido, ma il dover avvitare e svitare ogni volta la macchina fotografica alla testa del treppiede è certamente più laborioso. Senza uno sgancio rapido è probabile che, tra uno scatto e l’altro, si finisca per spostare il cavalletto con la macchina montata per non ripetere ogni volta la noiosa operazione di smontaggio e rimontaggio. Con il meccanismo di aggancio e sgancio rapido, inoltre, sarà possibile acquistare varie piastre, una per ogni fotocamera e per ogni obiettivo di grandi dimensioni del nostro corredo, in modo da avere la possibilità di togliere una fotocamera e montarne un’altra sul treppiede in pochi istanti. È quindi decisamente consigliabile scegliere una testa munita di sgancio rapido e che abbia una piastra rapida ben fatta, che si monti con facilità e, sopratutto, che si blocchi in modo sicuro.
Teste particolari o per usi speciali
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Testa a cremagliera
La 410 Junior, una testa a cremagliera prodotta da Manfrotto. Notare le manopole la cui ratozione permette il movimento lungo i tre assi. Foto: www.manfrotto.com
Nelle normali teste a tre movimenti per muoversi lungo un asse si sblocca la relativa manopola e la si blocca nuovamente una volta raggiunta la posizione voluta. Con le teste a cremagliera, invece, ci si muove lungo gli assi ruotando le relative manopole fino a raggiungere la posizione voluta senza necessità di bloccare e sbloccare nulla. Il movimento è molto preciso e permette di curare l’inquadratura con grande accuratezza. Sono provviste anche di un meccanismo che permette di sganciare, tramite una ghiera, gli ingranaggi per muovere velocemente la testa e, una volta ribloccati, correggere con precisione l’inquadratura usando le manopole che permettono il movimento micrometrico. Usi consigliati La testa a cremagliera è consigliata nelle situazioni che richiedono grande precisione nell’inquadratura, per la fotografia di oggetti statici e dove la velocità operativa è secondaria rispetto alla precisione. Un uso sicuramente indicato è per la macro fotografia ad alti ingrandimenti, dove con una testa senza movimenti micrometrici sarebbe arduo inquadrare con cura il soggetto e il semplice ribloccare la leva di un asse provocherebbe spostamenti significativi nell’inquadratura. Si può usare anche per la fotografia in studio o per i paesaggi, se si desidera curare l’inquadratura in modo maniacale.
Testa gimbal
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Una testa gimbal prodotta da Triopo. Da notare la particolare struttura della testa che permette il perfetto bilanciamento dell’obiettivo e movimenti molto fluidi. Foto: www.triopo.pl La gimbal è una testa molto particolare, lo si capisce già dall’aspetto differente da qualsiasi altra tipologia di testa. Il suo nome deriva dal tipo di meccanismo utilizzato, denominato per l’appunto “gimbal”. Questa testa viene usata per teleobiettivi grossi e pesanti. Ha la caratteristica di permettere di bilanciare il complesso macchina teleobiettivo. Una volta ben bilanciata, la testa permette di muovere rapidamente l’obiettivo per seguire soggetti in rapido movimento. Se di buona fattura, i movimenti sono fluidissimi, l’obiettivo sembra sospeso in aria e il suo peso annullato.
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Le teste gimbal sono ottime per sostenere obiettivi lunghi e pesanti, come questo AF S Nikkor 800mm f5.6 di prossima uscita che sarà probabilmente lungo più di 50 cm e pesante più di 5 kg. Da notare la presenza dell’attacco per il treppiede, condizione essenziale per l’uso su questo tipo di testa. Foto: http://www.nikonusa.com Usi consigliati La testa gimbal viene usata con obiettivi dalla lunga focale e provvisti di collare con attacco per il treppiede. I generi fotografici per cui è particolarmente indicata sono in pratica gli stessi per i quali si usano lunghi teleobiettivi: la fotografia naturalistica di animali nel loro habitat e la fotografia di eventi sportivi.
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Testa video
La Manfrotto 501HDV, una testa video di buona qualità per l’amatore evoluto, ma usata anche da professionisti che girano video usando le fotocamere. Foto: www.manfrotto.com Perché parlare di teste video in un volume dedicato alla fotografia? La risposta è semplice, oggi la maggior parte delle fotocamere offre la possibilità di girare video. Diverse reflex e mirrorless di ultima generazione permettono di fare riprese video di altissima qualità e in full HD (1920×1080 pixel). Per questo sono sempre più le persone che oltre ad essere fotoamatori sono anche videoamatori e usano la medesima attrezzatura sia per fotografare che per riprendere video. Per il videoamatore evoluto, che intende fare video di alta qualità, l’uso di una testa specifica è praticamente d’obbligo. Una buona testa video permette infatti di ottenere movimenti di camera fluidi, senza scatti. Diciamo subito che esiste una gran varietà di questo tipo di teste, si va da quelle semplici a due movimenti, dal costo di poche decine di euro, a quelle più sofisticate che costano qualche centinaio di euro, per non parlare, ovviamente, di quelle professionali da alcune migliaia di euro. Le prime, a mio parere, non sono di grande utilità in quanto non permettono movimenti fluidi. Se devono essere usate solo per riprese statiche tanto vale usare una buona testa fotografica, se già la si possiede. Le seconde, avendo sui due assi frizioni fluide e regolabili, e una molla di controbilanciamento, permettono di
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fare panoramiche e movimenti verticali fluidi e senza scatti. Il rovescio della medaglia è il prezzo: si parte dai 150/200€ per avere una testa di discreta qualità, a cui va aggiunto il costo di un robusto treppiede video che, dotato di attacco a semisfera, costa grosso modo il doppio della testa.
Teste a sfera, alcune varianti Vediamo qui alcune varianti della normale testa a sfera di cui abbiamo parlato sopra.
Testa idrostatica
Una testa idrostatica che può reggere, in questo caso, fino a 16Kg. Foto: www.manfrotto.com Sono praticamente teste a sfera dotate di sistema di bloccaggio idraulico. Hanno le stesse caratteristiche delle normali teste a sfera, ma sopportano carichi maggiori e hanno un bloccaggio più sicuro anche con macchine e obiettivi particolarmente pesanti.
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Testa joystick
Testa joystick con impugnatura verticale. Notare la leva facilmente azionabile dalla stessa mano che impugna la testa. Foto: www.manfrotto.com
È una testa a sfera con un’impugnatura, orizzontale o verticale, e uno sblocco a grilletto. Si usa per cambiare rapidamente l’inquadratura. Tenendo la mano sull’impugnatura a forma di joystick, basta premere la leva a grilletto per sbloccare, reinquadrare e rilasciare la leva per bloccare di nuovo la testa.
Testa panoramica
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Testa panoramica. Si vede alla base il meccanismo di rotazione. Le slitte servono per posizionare con cura la fotocamera. Foto: www.manfrotto.com
Come dice il nome, è un tipo di testa che si utilizza per ottenere fotografie panoramiche composte da diversi scatti uniti tra loro in post produzione attraverso appositi software. Sono composte da una parte che permette la rotazione a 360° a scatti costanti e una parte che permette di posizionare con cura la fotocamera in modo da mantenere allineati il centro di rotazione col punto nodale del complesso fotocamera obiettivo.
Esistono naturalmente altre varianti delle teste fin qui viste, ma le loro caratteristiche non si discostano molto da quelle delle tipologie a cui appartengono. Chi necessita di teste così specifiche? È vero che con una buona testa a sfera o a tre movimenti ci si può cimentare un po’ in tutti i generi fotografici, ma se ci si appassiona ad uno in particolare dopo un po’ si potrebbe sentire il bisogno di attrezzatura più specifica che permette di ottenere risultati migliori e più comodamente. Ad esempio se ci si appassionasse alla macro fotografia e si iniziasse a fare foto con ingrandimenti spinti, una normale testa a tre movimenti comincerebbe a mostrare tutti i suoi limiti e si inizierebbe a sentire il bisogno di una testa a cremagliera che permette movimenti micrometrici. Il mio consiglio è di iniziare con una testa a sfera o a tre movimenti e, nel caso ci si indirizzasse verso un genere particolare, affiancarle successivamente una testa più specifica, continuando ad utilizzare quella base per gli altri generi.
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Cavalletti da tavolo e altri supporti Sebbene un robusto treppiede sia fondamentale in molti generi fotografici, quando si viaggia per lavoro o vacanza e si preferisce avere con sé un’attrezzatura il più possibile compatta e leggera (una fotocamera compatta, oppure una mirrorless o una reflex con un solo obiettivo), esso potrebbe risultare troppo pesante e ingombrante per portarselo dietro. Per rispondere a questa esigenza, diversi produttori di accessori fotografici producono supporti estremamente compatti e leggeri, tanto da poter essere infilati in una borsa o in un marsupio. Si va dai mini treppiedi da tavolo a vari tipi di morsetti da fissare su ringhiere, pali e simili. Vediamo le principali caratteristiche di questi accessori per orientarci nella loro scelta.
Treppiedi da tavolo Come intuibile dal nome sono piccoli treppiedi alti pochi centimetri da appoggiare su di una superficie solida come un tavolo, il pavimento, un muretto, il tetto di un’auto e via dicendo. Ne esistono di diversi tipi, dai cavalletti telescopici reperibili per qualche euro dai venditori cinesi, buoni al massimo per reggere una piccola compatta, ai cavalletti prodotti da aziende specializzate, robusti a sufficienza anche per sostenere una reflex, che hanno un costo di alcune decine di euro.
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Un treppiede da tavolo sufficientemente robusto può sostenete anche una piccola reflex. Foto: www.cullmann.de
Pregi Il pregio maggiore è sicuramente quello di essere compatti e leggeri, tanto da riuscire ad infilarli in piccole borse o marsupi fotografici. Se di buona qualità sono anche sufficientemente robusti e stabili. Difetti Essendo l’altezza molto contenuta hanno bisogno di una superficie abbastanza alta su cui essere poggiati, se non abbiamo vicino un tavolo o un muretto l’utilità è limitata. Quelli più economici non sono in genere molto stabili e robusti, quindi si possono usare al massimo con una compatta leggera.
Morsetti Sono dei veri e propri morsetti da fissare a tubi, ringhiere, pali e via dicendo. Ne esistono di diversi tipi, alcuni sono molto robusti e sopportano carichi notevoli. Sono molto utilizzati anche in studio per sostenere flash, ombrelli e altre attrezzature.
Un morsetto Manfrotto molto robusto (ha una portata massima di 15Kg) con montata una piccola testa a sfera per orientare la fotocamera. Pregi Se di buona qualità sono molto robusti e possono sostenere tranquillamente anche una reflex. Non hanno bisogno di un piano di appoggio per essere utilizzati, basta una ringhiera, un ramo o un palo per avere un buon punto di appoggio. Tra i pregi c’è certamente la versatilità, oltre che per la macchina fotografica vengono buoni per fissare altri accessori fotografici, come flash, pannelli riflettenti e via dicendo. Difetti Hanno in genere un prezzo superiore ai cavalletti da tavolo e pesano di più. Normalmente non hanno una testa a sfera, perciò bisognerà acquistarla separatamente. Molti sono studiati per usi fotografici generici, pertanto potrebbe esserci la necessità di acquistare a parte l’attacco per la macchina fotografica.
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Treppiedi snodabili
Il Gorillapod, famoso treppiede snodabile prodotto da Joby. Foto: http://joby.com/gorillapod/ Sono treppiedi di piccole dimensioni con le gambe costituite da snodi. Questa particolare costruzione permette di ancorarli a pali, ringhiere, rami e via dicendo. Le sfere hanno una parte gommata che permette una buona presa sulle superfici. Ne esiste anche un particolare tipo che ha le sfere alle estremità delle gambe dotate di magneti per permettere un buon ancoraggio su superfici metalliche. Pregi Sono molto versatili e riuniscono i pregi dei mini treppiedi e dei morsetti: è possibile usarli sia appoggiati a superfici piane che ancorati a ringhiere, rami e pali. Inoltre le gambe flessibili possono adattarsi a rocce, scogli e via dicendo. Ne esistono modelli robusti a sufficienza per sostenere una piccola reflex. Difetti I modelli più grandi, adatti anche alle reflex, possono essere piuttosto costosi. La forza di ancoraggio non è paragonabile a quella di un buon morsetto, specie con le macchine un po’ più pesanti.
Supporti per smartphone Con la crescente diffusione di smartphone dotati di fotocamera, che permettono di ottenere fotografie di discreta qualità, diversi produttori hanno messo in commercio diversi supporti adatti a sostenerli. Si va da accessori a incastro dotati di attacco a vite per essere fissati su cavalletti e mini treppiedi, a piccoli cavalletti completi di attacco ad incastro. Se si usa spesso il cellulare per fotografare, magari in sostituzione della compatta, può essere un piccolo accessorio di cui considerare seriamente l’acquisto. Può essere utile per foto con l’autoscatto, per fare foto nitide quando la luce scarseggia o per girare filmati evitando il mosso.
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Un accessorio, dedicato all’Iphone, che viene montato ad incastro sul telefonino ed è dotato di un attacco con filettatura standard per treppiede fotografico. In questo modo è possibile montare lo smartphone su mini treppiedi, morsetti e altri supporti. Foto: www.kungl.com
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Il Gorillamobile, un cavalletto snodabile dedicato all’Iphone. Si usa esattamente come un Gorillapod, ma ha un attacco ad incastro specifico per Iphone. Foto: Joby.com
Il battery grip Il battery grip (o impugnatura supplementare) è un dispositivo per fotocamere reflex (ma anche per alcune mirrorless) che svolge essenzialmente due funzioni: 1) aumentare l’autonomia energetica della fotocamera; 2) migliorare l’ergonomia (facilitando soprattutto gli scatti in verticale).
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Nikon d300 con battery grip.
Questo accessorio si presenta come un oggetto sagomato da inserire sotto la reflex utilizzando la filettatura per il montaggio su treppiede. All’interno dell’impugnatura supplementare si inseriscono una o più batterie extra. Il battery grip comunica con la fotocamera attraverso un connettore elettrico, che si collega ad un connettore presente di solito nella parte inferiore della fotocamera, protetto da uno sportellino in plastica o in gomma.
Battery grip Pentax. Nella foto sono ben visibili la vite, che si inserisce nella filettatura per il treppiede presente nella base della reflex, e il connettore elettrico per il dialogo con la fotocamera.
Sulla fotocamera, tramite menu, è possibile decidere quale batteria sarà utilizzata per prima, se quella del corpo macchina o quella inserita nell’impugnatura. È importante ricordare che non tutte le reflex consentono di utilizzare il battery grip. Molti modelli entry level, infatti, non prevedono la possibilità di montare questo optional. Se esiste un battery grip per il vostro modello di fotocamera il libretto di istruzioni oppure il sito web del produttore lo specificherà, indicando la sigla dell’accessorio da acquistare. Esistono anche battery grip di produttori universali, ma è meglio evitare l’acquisto di un accessorio del genere non originale, anche perché, se causasse danni alla vostra fotocamera, comprometterebbe la validità della garanzia.
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La mirrorless Olympus OM-D ha la possibilità di montare un battery grip dedicato, a conferma della sua vocazione professionale.
Analizziamo più nello specifico le caratteristiche del battery grip per valutare con maggiore consapevolezza se è il caso di acquistarne uno.
Aumentare l’autonomia della fotocamera La funzione principale del battery grip è quella di garantire una maggiore autonomia della fotocamera. È vero che è sempre possibile portarsi dietro delle batterie di riserva, ma in alcuni contesti la semplice operazione di cambiare le batterie potrebbe far perdere una ghiotta occasione fotografica. Per esempio, non è raro, per un fotografo di natura o di sport rimanere senza energia proprio nel bel mezzo di un’azione, mentre stava usando la raffica a tutta velocità. Mentre si perde tempo a cambiare la batteria della fotocamera l’azione è spesso bella che finita. Se osservate i fotografi di natura, quindi, e quelli a bordo campo nelle manifestazioni sportive, quasi sempre li vedrete con fotocamere dotate di battery grip. L’aumento dell’autonomia energetica garantito da questo accessorio, in molti casi, non ha prezzo! Non è infatti un caso se i modelli professionali di fotocamera spesso hanno il battery grip inglobato nel corpo macchina, e non venduto separatamente come accessorio. I fotografi professionisti molto semplicemente non possono farne a meno.
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Per un modello professionale come la Canon 1D Mark IV il battery grip non è un accessorio: fa semplicemente parte del corpo macchina.
Alcuni modelli di fotocamera, inoltre, se dotate di battery grip, sono in grado di incrementare la velocità e la durata della raffica, grazie al fatto che dispongono di maggiore energia. I battery grip permettono di inserire una o più batterie di riserva. Alcuni consentono di utilizzare, tramite un adattatore, anche delle semplici batterie stilo, cosa che può risultare utile se si lavora in un posto dove non è possibile ricaricare con facilità le batterie proprietarie della fotocamera. Spesso anche nelle zone più remote del pianeta è possibile acquistare delle batterie stilo e continuare a fotografare.
L'adattatore per batterie stilo presente in alcuni battery grip.
Migliorare l’ergonomia Un altro vantaggio del battery grip è quello di migliorare l’ergonomia della fotocamera, cioè la possibilità di tenerla in mano comodamente e lavorarci per un lungo periodo di tempo. Infatti molte macchine fotografiche, specialmente nel 70
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settore delle entry level, sono piuttosto piccoline e, sebbene il loro peso ridotto sia in linea generale un vantaggio, le dimensioni ridotte costituiscono un handicap per un uso intenso e prolungato, specialmente per chi ha le mani un po’ più grandi della media. Il battery grip favorisce anche un’impugnatura più stabile e sicura. I battery grip sono molto utili soprattutto nell’utilizzo in verticale della fotocamera, in quanto sono dotati anche di un tasto di scatto integrato e di una replica dei principali tasti e ghiere-funzione della fotocamera. Così è possibile impostare i parametri di scatto (tempo, diaframma, sensibilità, compensazione dell’esposizione) senza essere costretti a innaturali e scomode contorsioni del polso.
Un battery grip per Pentax K5. In primo piano si vedono il pulsante di scatto, il pulsante per la compensazione dell'esposizione, il pulsante per modificare rapidamente la sensibilità e una ghiera di controllo.
Questa possibilità è particolarmente apprezzata dai fotografi che usano spesso un taglio verticale, come i ritrattisti e i fotografi di moda.
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Impugnatura verticale con il battery grip (a destra) e senza (a sinistra) a confronto. La mano destra, quella le cui dita impostano i parametri della foto e premono il pulsante di scatto adotta una posizione molto più naturale se la fotocamera è dotata di battery grip.
Svantaggi Lo svantaggio principale, anzi unico, del battery grip è che fa aumentare il peso e le dimensioni della fotocamera. Questo può portare un maggiore affaticamento durante il trasporto e l’uso. Molti fotografi preferiscono pertanto rinunciare all’impugnatura supplementare e portare con sé solo le batterie di ricambio. Un fattore senz’altro secondario, ma da considerare, è che il battery grip rende senz’altro più difficile passare inosservati. Magari per qualcuno non è uno svantaggio, anzi alcuni fotografi montano il battery grip esclusivamente per l’aspetto professionale che esso dona alla loro fotocamera, ma alcuni generi fotografici richiedono discrezione…
Il paraluce Il paraluce è un oggetto in plastica, a forma di cono o sagomato a petali, che si monta sull'obiettivo. È buona abitudine utilizzarlo sempre, anzi prendere l’abitudine di montarlo sull’obiettivo non appena viene tolto il tappo della lente frontale.
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Un paraluce.
Il paraluce assolve infatti due funzioni importanti: 1) proteggere l’obiettivo da luci parassite, in particolare quelle laterali, che possono far degradare la qualità dell’immagine ingenerando un fastidioso flare, cioè dei riflessi indesiderati tra le lenti dell’obiettivo o, più di frequente una – talvolta lieve, talvolta più sensibile – diminuzione della nitidezza e del contrasto; 2) proteggere l’obiettivo da urti, agenti atmosferici e ditate. Molti per proteggere l’obiettivo utilizzano un filtro neutro, ma il paraluce, oltre ad essere maggiormente protettivo rispetto agli urti, ha – al contrario del filtro – un effetto benefico sulla qualità delle fotografie. In genere gli obiettivi fotografici vengono venduti con, a corredo, un paraluce dedicato opportunamente sagomato che si monta utilizzando delle apposite scanalature presenti sulla parte anteriore del barilotto. Sono riportate, sia sull’obiettivo che sul paraluce, delle tacchette che aiutano nell’operazione. Utilizzando le stesse scanalature, il paraluce di solito si può montare rovesciato sull’obiettivo quando questo viene riposto, in modo da risultare meno ingombrante.
Paraluce montato sull’obiettivo.
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Paraluce montato rovesciato in modo da occupare meno spazio quando lo si trasporta.
Vi sono anche obiettivi con paraluce integrato e scorrevole lungo l’asse dell’ottica, che si estrae e si richiude.
Solo alcuni zoom 18-55mm e pochi altri obiettivi di classe economica, vengono venduti, per contenere i costi, privi del paraluce, che andrà acquistato come accessorio a parte (il libretto d’istruzioni dell’obiettivo riporta la sigla del paraluce opzionale da acquistare). Esistono in commercio anche paraluce universali che si montano sulla filettatura per i filtri dell’obiettivo. Alcuni sono in gomma morbida, altri in gomma dura e anche sagomati a petalo. Si possono acquistare con pochi euro su E-bay o in un negozio fotografico. Se decidiamo di acquistarne uno dobbiamo ovviamente assicurarci che sia dello stesso diametro della filettatura per filtri dell’obiettivo. Facciamo anche attenzione che sia disegnato per l’angolo di campo coperto dall’obiettivo, altrimenti, specie con obiettivi grandangolari, rischiamo che il paraluce ci entri nell’inquadratura.
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Paraluce universale a vite che si può montare sull’obiettivo attraverso la filettatura per i filtri.
Paraluce universale in gomma montato sull’obiettivo attraverso la filettatura in posizione “da lavoro” e in poi ripiegato.
L’unica controindicazione nell’uso del paraluce può essere quella legata alle fotografie con il flash. Talvolta, specie con il flash integrato alla reflex e alle focali grandangolari, si rischia che il paraluce produca delle fastidiose ombre. In tal caso è meglio toglierlo.
Come scegliere il flash Prima o poi arriva per ogni fotografo il momento di scegliere il flash esterno. Quello piccolino in dotazione alla propria reflex, infatti, manifesta ben presto i suoi limiti. Quali sono questi limiti? Il primo è la scarsa potenza. Ci si accorge che non si riesce ad illuminare la scena a più di qualche metro di distanza. Il secondo, che forse è anche più grave, è il fatto che il lampo del flash integrato non può essere orientato: deve per forza essere sparato in direzione del soggetto. Purtroppo però la luce diretta, frontale, è molto brutta e innaturale: l’immagine appare piatta, in quanto la luce frontale non dà rilievo ai contorni. Inoltre si creano forti ombre antiestetiche dietro il soggetto, e, se si tratta di una persona o di un animale, può facilmente insorgere il problema degli “occhi rossi”. Per ovviare a tutti questi problemi si deve ricorrere al flash esterno. È necessario però prestare attenzione ad alcuni aspetti per acquistare il flash giusto, quello adatto alle nostre necessità. Ecco un elenco delle caratteristiche da considerare. Compatibilità con la propria fotocamera Al giorno d’oggi l’uso del flash è diventato molto semplice, almeno per un utilizzo amatoriale. Mentre un tempo per usare il flash bisognava conoscere ed applicare alcune formule, oggi tutte le fotocamere riescono a gestire automaticamente la luce del lampo. Con i moderni sistemi TTL (Through the lens – Attraverso l’obiettivo), infatti, la fotocamera interrompe automaticamente il lampo nel momento in cui giudica che la luce che ha raggiunto il soggetto è sufficiente per la corretta esposizione. La lettura avviene, come dice l’acronimo, attraverso l’obiettivo: la fotocamera legge la luce riflessa dal soggetto attraverso un apposito sensore. Per funzionare in tale maniera, però, è necessario che l’elettronica della fotocamera e quella del flash dialoghino. In altre parole il flash deve essere “dedicato” a quella fotocamera, deve essere progettato per lavorare con essa.
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Un buon flash, che si può definire professionale, della Metz: il 58 AF-2. Metz è un produttore universale. Attenzione quindi a prendere il flash nella versione dedicata alla vostra fotocamera.
Come si fa a sapere se il flash è compatibile con la propria fotocamera? In genere, salvo rarissime eccezioni, tutti i flash di un determinato produttore sono perfettamente compatibili con le fotocamere dello stesso produttore. Quindi tutti i flash Nikon saranno compatibili con le fotocamere Nikon, tutti i flash Sony saranno compatibili con le fotocamere Sony e così via… I produttori infatti in genere utilizzano lo stesso protocollo per tutte le fotocamere della casa, anche se di tanto in tanto vengono introdotti novità e miglioramenti. Si deve quindi solo prestare attenzione a che non si tratti di un modello di flash troppo datato rispetto alla reflex, perché magari nel frattempo sono state introdotte così tante innovazioni da rendere incompatibile, in parte o totalmente, un modello troppo vecchio. Ad ogni modo prima di acquistare il flash si dovrebbe sempre visitare il sito web del produttore per verificarne la compatibilità totale con la fotocamera sulla quale andrà montato. Ci sono anche produttori “universali” di flash. Tali aziende (ad esempio Sigma o Metz) producono flash compatibili con le fotocamere di qualsiasi marchio. Bisogna però prestare attenzione ad acquistare la versione di un dato flash dedicata alla propria fotocamera . Tale indicazione è chiaramente riportata sulla scatola contenente il prodotto (in genere c’è scritto “per Canon” o “per Pentax”, ecc…), e dovrebbe esserlo anche, chiaramente visibile, sul sito Internet di un venditore online. Anche in questo caso vale il consiglio di verificare attentamente, sul sito Internet del produttore, la compatibilità totale con la nostra fotocamera. La potenza e il Numero Guida Un altro parametro da considerare nell’acquisto di un flash è la potenza. Un flash più potente permetterà di illuminare una scena più distante. La potenza dei flash è espressa attraverso il Numero Guida (NG). Il numero guida è dichiarato dal costruttore del flash per una determinata sensibilità (in Europa si usa dichiarare il NG alla sensibilità di 100 ISO). Più è elevato il numero guida, più il flash è potente. Per esempio, il piccolo flash integrato della reflex di solito ha NG compresi tra 11 e 13 ad una sensibilità di 100 ISO. Un flash di buona potenza, semi-professionale o professionale, invece avrà un NG compreso tra i 45 e i 60. Un tempo, quando non esisteva la lettura TTL e il flash “sparava” sempre il suo lampo alla massima potenza e durata, l’unico parametro sul quale si poteva intervenire per ottenere la giusta esposizione era il diaframma. Per determinare quale diaframma utilizzare, era fondamentale conoscere il NG del flash per una determinata sensibilità, perché il diaframma è legato al Numero Guida secondo la seguente formula:
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Ad esempio, utilizzando un flash con NG 40 a 100 ISO, con il soggetto ad una distanza di 5 metri, il diaframma da impostare sulla fotocamera è 40/5 = 8, cioè f/8. Bisogna prestare attenzione al fatto che se raddoppiamo la sensibilità non raddoppia il Numero Guida perché l’intensità della luce varia in funzione del quadrato della distanza. Pertanto se vogliamo calcolare il NG ad una sensibilità diversa dobbiamo usare la seguente formula:
In pratica, se torniamo all’esempio precedente, e passiamo ad una sensibilità di 200 ISO, il nuovo NG sarà 40 x [radice quadrata di 200 (nuova sensibilità) / 100 (sensibilità data)], quindi 40 x radice quadrata di 2, cioè 40 x 1,4142 = 56. Un flash con numero guida 40 a 100 ISO avrà un numero guida 56 a 200 ISO. Poiché alcuni produttori fanno i furbetti e dichiarano il NG a 200 ISO anziché a 100 ISO, teniamo debitamente conto di questa formuletta. Possibilità di orientare la parabola Siccome, come abbiamo già detto, la luce diretta è molto brutta ed è la causa di problematiche quali l’effetto “occhi rossi”, è fondamentale, nella scelta del flash, accertarsi che la sua parabola sia orientabile in tutte le direzioni. In tal modo sarà possibile illuminare il soggetto non con la luce diretta, ma con la luce riflessa dalle pareti o da un pannello riflettente.
Per visualizzare come cambia l’effetto della luce del flash in base alla direzione dalla quale proviene si osservino gli esempi sotto riportati: Luce diretta
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La luce diretta del flash appiattisce l’immagine, i rilievi che formano il viso della bambolina non sono percepibili, la foto potrebbe essere tranquillamente quella di una maschera piatta. Se al posto della bambolina ci fosse stata una persona probabilmente avremmo avuto gli occhi rossi. Luce laterale
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Nella fotografia riportata sopra la parabola del flash è stata orientata in modo che la luce rimbalzasse sulla parete laterale prima di raggiungere il soggetto. I risultati sono evidenti: l’illuminazione appare molto più morbida, la luce laterale evidenzia i contorni del viso favorendo l’impressione di tridimensionalità, insomma l’effetto è molto più naturale. In questo caso, siccome la parete era colorata di una leggera tonalità salmone, la luce di rimbalzo a acquisito anche una tonalità più calda. Parabola orientata verso una parete alle spalle del fotografo Se desideriamo illuminare il soggetto con una luce diretta, ma più morbida possiamo ruotare la parabola del flash di 180°, cioè puntarla alle spalle del fotografo, indirizzandola leggermente verso l’alto, come mostrato nelle due immagini seguenti.
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Anche in questo caso il risultato sarà un’illuminazione più morbida e piacevole ed eviteremo, nel caso di persone ed animali, il fastidioso effetto “occhi rossi”. Parabola orientata verso l’alto Un’altra opzione consiste nell’indirizzare la parabola verso l’alto, verso il soffitto, come mostrato nell’immagine seguente. Si tratta ancora una volta di un efficace modo per diffondere la luce, ma con un’illuminazione come questa, siccome la parte bassa del fotogramma tende ad essere visibilmente più scura, conviene che il viso stesso del soggetto sia rivolto, leggermente, verso l’alto.
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La possibilità di orientare la parabola su entrambi gli assi è, a parere di chi scrive, la caratteristica più importante del flash, più importate della stessa potenza, dato che con le fotocamere attuali si possono impostare sensibilità piuttosto alte, e compensare in qualche maniera la scarsa potenza del flash. Facciamo un altro esempio di come il flash indiretto possa migliorare una fotografia. Nell’immagine qui sotto il flash diretto ha causato l’effetto “occhi rossi” (in questo caso sono “occhi gialli”, ma ci siamo capiti…) sul gatto.
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Foto ripresa con il flash in luce diretta.
Con la luce del flash indirizzata contro la parete, oltre ad ottenere un’illuminazione più diffusa, abbiamo evitato l’effetto “occhi rossi”.
Foto ripresa con la luce del flash indirizzata verso la parete.
Altre caratteristiche da considerare Nella scelta del flash si deve tener conto anche di altre caratteristiche. Ne indichiamo alcune, in ordine sparso. La parabola zoom motorizzata: il flash, attraverso la fotocamera, “legge” la focale dell’obiettivo montato e si predispone per coprire con il suo fascio luminoso l’angolo di campo corrispondente. E’ una funzione molto utile in quanto, con obiettivi tele, permette di fatto di aumentare la potenza del flash. Per inciso va aggiunto che alcuni produttori dichiarano il
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Numero Guida non per l’angolo di campo di un 50mm (su 24 x 36mm), ma per il valore di zoommata massima permesso dal flash (in tal modo il NG diventa apparentemente più alto). La copertura grandangolare: molti flash professionali coprono per lo meno l’angolo di campo di un 24mm (su formato 24x36mm) e, se vi è un diffusore integrato (un rettangolino di plastica semitrasparente che si abbassa all’occorrenza sulla sorgente luminosa), arrivano ad un angolo di campo di 18mm (su 24x36mm). La possibilità di apportare variazioni sulle impostazioni automatiche o di operare completamente in manuale: quasi tutti i flash di un certo livello lo consentono. Alcune regolazioni inoltre (ad esempio aumentare o diminuire il valore dell’esposizione di qualche stop) si possono apportare dalla fotocamera. La possibilità di operare in wireless: funzione molto comoda, consente di lavorare con il flash, utilizzando tutti gli automatismi, senza che questo sia fisicamente collegato con la fotocamera. La presenza di tale funzione dipende, oltre che dal flash, dalla fotocamera e, talvolta, dall’utilizzo di accessori dedicati. Bisogna consultare il manuale della fotocamera per vedere se tale funzione è attivabile, con quali flash e utilizzando quali accessori. Se siamo orientati ad all’acquisto di un flash di un produttore universale dobbiamo accertarci, consultando i dati tecnici, che tale funzione sia attivabile con la nostra fotocamera. La possibilità di sincronizzare sui tempi rapidi: il tempo minimo di sincronizzazione della fotocamera con il flash è imposto dall’otturatore. Tale tempo di sincronizzazione è indicato nei dati tecnici della fotocamera. In genere si tratta di un tempo compreso tra 1/100 e 1/250 di secondo. Se impostiamo un tempo più breve (ammesso che la fotocamera ce lo consenta), una fascia del fotogramma risulterà inevitabilmente scura. In alcune condizioni, come ad esempio quando si utilizza il flash solo per schiarire le ombre in pieno giorno, il tempo minimo di sincronizzazione può non essere sufficiente. Tale problema può essere superato con alcuni moderni flash dedicati che consentono una sincronizzazione su tutti i tempi di scatto, sacrificando una quota di potenza. Sul libretto della fotocamera è indicato se è possibile attivare tale funzione e con quali flash. Se siamo orientati ad all’acquisto di un flash di un produttore universale dobbiamo accertarci, consultando i dati tecnici, che tale funzione sia attivabile con la nostra fotocamera.
Gli accessori per il flash Esistono in commercio molti accessori volti a controllare nel migliore dei modi l’illuminazione quando si usa il flash. Una delle prime necessità che insorgono, quando si usa il flash esterno, è quella di posizionare la nostra fonte di luce nella maniera più idonea ad ottenere l’effetto desiderato. In altre parole, di solito non è la slitta porta flash della fotocamera il posto migliore dove montare il flash. L’illuminazione diretta e frontale, infatti, non è quasi mai la più indicata. Nella scelta del flash potremmo sceglierne uno con la parabola orientabile, che consente di far rimbalzare la luce contro una parete per ottenere un’illuminazione più morbida ed angolata. Questa soluzione però, per quanto comoda, presenta due svantaggi: la prima è che con con il lampo riflesso si perde molta della potenza del flash, mentre l’altra è che… semplicemente non funziona all’aperto, dove non ci sono pareti su cui far rimbalzare la luce.
Il cavetto TTL o P-TTL Una soluzione decisamente migliore è quindi quella di collegare il flash alla fotocamera mediante un cavetto TTL o PTTL, che consente di mantenere tutti gli automatismi, e che viene montato tra la slitta porta flash e l’illuminatore. In tal modo potremo disporre il flash in qualsiasi posizione desideriamo rispetto alla fotocamera, con l’unico limite costituito dalla lunghezza del cavetto. Per questo motivo dovremmo acquistarne uno abbastanza lungo. La maggior parte dei cavetti ha una guaina elastica, a spirale, che fa in modo che siano abbastanza corti a riposo, ma allungabili in caso di necessità. Tutti i produttori di reflex vendono cavetti TTL e P-TTL per i flash come accessori, ma è possibile comprarli anche di produttori universali, stando attenti a verificare la compatibilità con la propria fotocamera.
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Il cavetto TTL o P-TTL consente di lavorare con il flash staccato dalla fotocamera.
In realtà tutti le moderne fotocamere hanno anche un sistema di controllo del flash wireless, che consente di comandare uno o più lampeggiatori esterni direttamente attraverso il flash incorporato nella reflex, oppure con un apposito accessorio di controllo. Questi sistemi rendono in molti casi superato il cavetto TTL, ma a volte ricorrere al cavetto ha ancora senso dato che se occorre un accessorio di controllo del wireless (nei modelli di fotocamera che non lo effettuano tramite il flash incorporato), esso costa più del cavetto, e che il wireless potrebbe non funzionare troppo bene se il flash è posizionato troppo vicino alla fotocamera o dietro di essa. Insomma il cavetto TTL o P-TTL è ancora un accessorio abbastanza utile.
La staffa porta flash Il cavetto TTL consente di utilizzare il flash senza montarlo sulla slitta della fotocamera, ma tenere con una mano la fotocamera e con l’altra il flash è decisamente scomodo. In studio si utilizzano stativi per i lampeggiatori separati, ma all’aperto la soluzione più semplice e pratica è costituita dalla staffa porta flash, la quale consente di assicurare saldamente il lampeggiatore alla fotocamera e nel contempo di tenerlo decentrato rispetto alla linea obiettivo-soggetto. La fotocamera viene montata sulla staffa mediante la filettatura per il treppiede.
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Una staffa per il flash auto-costruita in alluminio. In commercio ne esistono decine di modelli dal costo spesso abbastanza contenuto.
Esistono in commercio diversi tipi di staffe che offrono svariate possibilità di configurazione. E’ anche possibile realizzare o fare realizzare da un fabbro una staffa secondo le proprie specifiche, in modo da ottenere un oggetto pienamente rispondente alle proprie necessità. La staffa è molto utile nella ritrattistica all’aperto, quando si vuole usare il lampeggiatore per schiarire le ombre del viso, ed è indispensabile nella fotografia macro, se non si possiede o non si vuole utilizzare un flash anulare.
Diffusori per il flash Per rendere più morbida la luce del flash si possono utilizzare degli appositi diffusori che si montano sulla parabola del lampeggiatore. Ne esistono in commercio svariate tipologie, quasi tutte dal costo contenuto, con le quali è possibile ottenere effetti piuttosto diversi. Uno dei diffusori più semplici è costituito da un semplice parallelepipedo di plastica opaca da incastrare sulla parabola del flash, come mostrato nella seguente fotografia:
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Il diffusore montato sul flash consente di ottenere una luce più morbida.
I filtri fotografici: introduzione I filtri fotografici si utilizzano per modificare la qualità della luce che entra attraverso l’obiettivo e va ad impressionare il sensore o la pellicola. Utilizzando uno o più filtri in fase di ripresa, quindi, si può correggere, modificare o trasformare l’immagine che si ottiene.
Utili e, in alcuni casi, indispensabili con la fotografia a pellicola, molti filtri sono stati efficacemente sostituiti dai software fotografici, con i quali è facile oggi ricostruire il medesimo effetto. Solo pochi sono i filtri ancora indispensabili nella fotografia digitale. Un consiglio generale, comunque, è quello di usare i filtri solo quando servono davvero per ottenere un determinato risultato fotografico. L’utilizzo di un filtro, infatti, influenza negativamente la qualità dell’immagine. Un altro suggerimento è quello di acquistare, per quanto possibile, filtri di buona qualità. Tipologie In commercio si trovano essenzialmente due tipi di filtri fotografici: • i filtri cosiddetti “a vite”, costituiti da un vetro montato su un supporto circolare che si avvita direttamente sull’obiettivo;
I filtri circolari si avvitano sull’obiettivo.
• quelli cosiddetti “a sistema”, che necessitano di un portafiltri da montare sull’obiettivo, nel quale si infilano i filtri, che hanno forma quadrata o circolare.
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Filtri da montare tramite portafiltri. In questo caso il sistema Cokin, uno dei più utilizzati dai fotografi.
Filtri circolari I filtri circolari vanno acquistati dello stesso diametro dell’obiettivo sul quale dovranno essere montati. Come si fa a sapere qual è il diametro dell’obiettivo? Si tratta di un dato riportato sull’obiettivo stesso, di solito sulla parte frontale, preceduto dal simbolo Ø. Un obiettivo sul quale è scritto Ø52 ha un diametro di 52mm. Quindi se vogliamo corredarlo di un filtro dobbiamo acquistarne uno del medesimo diametro. Cosa possiamo fare se abbiamo obiettivi di diverso diametro? Dobbiamo per forza comprare un filtro per ogni obiettivo? No, entro certi limiti possiamo usare degli anelli riduttori. Si tratta di anelli che, dotati di filettature di diametro diverso su ciascuna estremità, consentono di utilizzare un filtro su un obiettivo di diametro inferiore. Pertanto si può comprare un filtro del diametro giusto per l’obiettivo con la lente frontale più grande presente nel nostro corredo e utilizzarlo, con anelli adattatori, su obiettivi con lente frontale più piccola.
Anello riduttore. Consente di usare i filtri su obiettivi di diametro inferiore. In questo caso si può montare un filtro di diametro 67mm su un obiettivo di diametro 62mm.
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Un filtro polarizzatore di diametro 58mm montato su un obiettivo con lente frontali di diametro 52mm tramite anello adattatore.
Sistema a portafiltri Anche il sistema a portafiltri si monta con un anello adattatore sull’obiettivo. Sul portafiltri poi si inseriscono i diversi filtri. Il sistema è molto pratico e permette di comprare un unico filtro, da utilizzare poi con tutti gli obiettivi. È necessario acquistare solo un anello adattatore per ciascun obiettivo. Si tratta di una soluzione molto professionale.
Inoltre, vantaggio non secondario, il sistema portafiltri permette di utilizzare contemporaneamente più filtri.
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L’illustrazione tratta da un catalogo della Cokin, mostra la “componibilità” e la versatilità del sistema della nota casa produttrice.
La stessa cosa è più difficile, nella pratica, con i filtri circolari, perché montandone due o tre l’uno sull’altro si ingenerano delle fastidiosissime vignettature, specialmente se sono utilizzati su obiettivi grandangolari.
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In questa foto sono stati montati due filtri circolari in serie su un obiettivo grandangolare di focale 12mm su formato APS-c. Come si osserva il contorno del filtro entra nell’inquadratura. Per tentare di ovviare si possono usare i filtri con montatura più sottile denominati slim oppure passare ad un sistema a portafiltri.
Per ovviare almeno in parte a tali vignettature si possono comprare filtri circolari denominati “slim”, i quali hanno uno spessore più contenuto.
Il filtro UV e il filtro Skylight Filtro UV Il filtro UV (che sarebbe meglio chiamare filtro anti-UV) è un filtro che assorbe le radiazioni ultraviolette, riducendone gli effetti negativi sulla fotografia. Si tratta di effetti quasi sconosciuti ai fotografi più giovani, ma quelli più attempati ricorderanno le dominanti blu delle foto scattate in montagna o sulla spiaggia. Oltre alla dominante blu, si riscontrava a volte, sulla fotografia, la presenza di una “foschia” non rilevata ad occhio nudo. Tali effetti erano dovuti alla maggiore quantità di raggi ultravioletti presenti al mare o in montagna, raggi UV invisibili ad occhio nudo che però venivano, almeno in parte, impressionati sulla pellicola. Per escluderli bisognava usare un particolare filtro incolore, neutro, che impediva a tali raggi ultravioletti di raggiungere il supporto sensibile. Il filtro UV, per l’appunto.
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In montagna, a causa dei raggi UV, può apparire nelle foto una dominante blu.
L’uso di un filtro anti-UV permette di eliminare la dominante blu.
Perché ho usato verbi coniugati all’imperfetto? Perché la lunga battaglia contro i raggi UV è stata vinta da decenni. Gli obiettivi sono stati dotati di rivestimenti speciali che assorbono gli UV. La stessa cosa si può dire delle pellicole, dotate tutte di un efficacissimo strato anti-UV. Naturalmente anche gli attuali sensori digitali sono dotati di efficaci filtri anti-UV. La dominante blu dell’esempio fotografico riportato sopra, infatti, è stato ottenuta digitalmente. Nella fotografia originale non vi era traccia di dominanti, nonostante la foto fosse stata scattata oltre i 2000 metri e nelle ore centrali della giornata. Morale, il sistema obiettivo-sensore oggi come oggi è più che sufficiente ad eliminare le dominanti provocate dai raggi UV. Inoltre, qualora dovesse nonostante tutto permanere una lieve dominante, è facilissimo eliminarla attraverso la regolazione dei livelli utilizzando un qualsiasi software di fotosviluppo-fotoritocco. Di conseguenza il filtro anti-UV, a parere di chi scrive, è oggi completamente inutile.
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Filtro Skylight Il filtro Skylight costituiva un’alternativa al filtro UV. Si tratta infatti di un filtro leggermente rosato, che veniva usato per ridurre il colore blu della luce che raggiungeva l’emulsione, compensando la dominante fredda con la dominante calda introdotta dalla leggera colorazione del filtro. Per questo filtro valgono le stesse considerazioni fatte per il filtro UV: anche lo Skylight è diventato praticamente inutile con il progresso tecnologico di obiettivi, emulsioni e sensori.
Conviene usare filtri per proteggere l’obiettivo? Molti fotografi usano i filtri per proteggere l’obiettivo. Su alcuni siti web trovate la raccomandazione di usare un filtro UV oppure uno skylight a questo scopo, in modo da proteggere l’obiettivo da urti, polvere e graffi. La domanda che molti si fanno quindi è: conviene lasciare perennemente montato sull’obiettivo un filtro al fine di proteggerne la lente frontale? Ebbene, se siete un po’ emotivi e se siete preoccupati per l’integrità del vostro obiettivo, usare un filtro di protezione può tranquillizzarvi, ma questa abitudine ha una grave controindicazione. L’inserimento di un vetro davanti all’obiettivo, infatti, inciderà negativamente sulla nitidezza dell’ottica e la nuova superficie aria-vetro creerà riflessi indesiderati. Insomma, con un filtro montato si rovina un po’ la qualità delle foto. Se ne vale la pena dovete deciderlo voi. In realtà basta fare un po’ di attenzione, e usare sempre il paraluce. Quest’ultimo, infatti, è un ottimo strumento per proteggere la lente da urti accidentali.
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Per proteggere la lente frontale dell’obiettivo da urti accidentali è buona abitudine montare sempre il paraluce.
Per quanto riguarda la polvere, invece, basta pulire l’obiettivo con un pannetto in microfibra. Certo, quando si va a fotografare in spiaggia in una giornata ventosa, o in altre occasioni nelle quali si sa che il proprio obiettivo sarà sottoposto al rischio di contatto con acqua, fango o altri agenti atmosferici, montare un filtro protettivo potrebbe essere una scelta saggia. Ma in linea generale io considero una pessima abitudine quella di lasciare perennemente montato sull’obiettivo un filtro. Ad ogni modo, se decidete di usare un filtro protettivo, acquistatene uno di buona qualità, evitando quelli da pochi euro che si trovano online. Se comprate il filtro con l’unico scopo di proteggere la lente frontale dell’obiettivo, inoltre, non vi conviene prendere un filtro anti-UV, né uno Skylight, ma un filtro denominato Clear, che è perfettamente neutro ed è stato creato precisamente con l’unico scopo di fungere da lente protettiva.
Il filtro polarizzatore
Filtro polarizzatore.
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Il filtro polarizzatore è uno dei filtri più usati dai fotografi. Per capire come funziona il polarizzatore e in quali applicazioni può essere utile dobbiamo ragionare sul fatto che la luce che raggiunge il nostro apparecchio fotografico non viaggia con un’unica angolazione rispetto all’obiettivo. Una parte della luce viene deviata, riflessa. Si può pensare subito ad una finestra di vetro, o ad uno specchio d’acqua, che riflette parte della luce creando un’immagine fantasma sulla propria superficie. Ma bisogna dire che anche le goccioline di umidità ed altre particelle in sospensione, sempre presenti nell’atmosfera, deviano parte della luce, causando uno sbiadimento dei colori e un effetto foschia. Il filtro polarizzatore è composto da due vetri speciali, al cui interno vi sono dei cristalli che orientati in modo da permettere il passaggio solo alla luce che ha una determinata direzione, quella con un’inclinazione parallela all’asse di polarizzazione del filtro. Alla luce che ha inclinazioni diverse viene impedito il passaggio. In pratica, nell’obiettivo entra luce da un’unica direzione. Il funzionamento del polarizzatore è molto semplice. Una volta montato il filtro sull’obiettivo della macchina fotografica non bisogna far altro che ruotarlo, variando l’asse di polarizzazione, finché i cristalli non saranno orientati in modo da eliminare la maggior parte della luce parassita. L’effetto sarà visibile nel mirino della reflex. Analizziamo quali sono gli effetti prodotti dal polarizzatore. Far apparire più azzurro il cielo e più saturi i colori
In questa fotografia il contrasto tra il cielo e le nuvole è stato esaltato mediante l'uso del filtro polarizzatore. Anche l'intensità del blu è stata accentuata dall'uso del filtro.
La presenza di minuscole goccioline d’acqua e di altri corpuscoli riflettenti nell’atmosfera ha come effetto quello di sbiadire il colore del cielo, di aumentare l’effetto della foschia e di affievolire l’intensità dei colori della foto. Il filtro polarizzatore, eliminando la luce parassita che rimbalza in tutte le direzioni, può rendere molto più vivaci i colori dell’immagine, con effetti benefici soprattutto sul blu del cielo e sul contrasto con le nuvole. Riportiamo qualche esempio:
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Foto senza filtro polarizzatore.
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Foto con filtro polarizzatore. I risultati sono evidenti: il cielo è di un blu più intenso. Anche la colorazione delle foglie è più vivace.
Questa foto è stata scattata senza il filtro polarizzatore. I colori sono poco intensi e il cielo appare celeste anziché blu. Le nuvole non risaltano molto.
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L'uso del filtro polarizzatore ha reso più saturi i colori e ha fatto aumentare il contrasto tra il blu del cielo e il bianco delle nuvole.
Il polarizzatore riduce inoltre l’effetto foschia causato dalla luce parassita, che comporta una perdita di leggibilità dello sfondo nei paesaggi.
Foto senza filtro polarizzatore
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Fotografia con filtro polarizzatore. Oltre al blu del cielo, molto più intenso, e alle nuvole che risaltano di più, si osservino sullo sfondo le colline in lontananza: è evidente come siano rilevabili molti più particolari. L'effetto foschia è stato notevolmente ridotto.
Eliminare i riflessi Il polarizzatore può, entro certi limiti, eliminare i riflessi, ad esempio su una vetrina o su uno specchio d’acqua.
La foto ad una vetrina senza filtro polarizzatore. I riflessi provenienti dall'esterno impediscono di vedere bene il contenuto.
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Foto con filtro polarizzatore: gran parte dei riflessi sono stati eliminati dal filtro. Il miglioramento è piuttosto evidente.
Non a caso il filtro polarizzatore è molto utilizzato per fotografare il mare, al fine di ottenere immagini come questa, nella quale il filtro ha eliminato la luce che rimbalza sull’acqua permettendo di intravedere il fondo:
Utilizzando il filtro polarizzatore, in questa foto, è stato possibile eliminare i riflessi sulla superficie del mare, in modo da rendere l'acqua trasparente e intravedere il fondo. Il filtro polarizzatore è molto utilizzato per realizzare le foto che vanno sui cataloghi che pubblicizzano le destinazioni tropicali delle agenzie di viaggio.
Bisogna ricordare però che il polarizzatore non ha alcun effetto sulle superfici metalliche, come ad esempio gli specchi o le cromature delle auto e delle moto. Non pensate pertanto di usarlo per cancellare la vostra immagine che si riflette in uno specchio. Il polarizzatore funziona solo con le superfici trasparenti.
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Quale acquistare In commercio esistono due tipi di filtri polarizzatori, quelli definiti “lineari” e quelli definiti “circolari”. Attenzione a non farvi fuorviare dalla denominazione. L’aspetto esteriore è simile: un filtro rotondo dotato di filettatura per essere montato sull’obiettivo, con uno spessore maggiore rispetto ad altri filtri perché qui i vetri sono due. L’unica differenza è che sull’anello vi è una scritta “PL” per il lineare e “CPL” per il circolare. Anche il principio di funzionamento è lo stesso. I filtri polarizzatori circolari però hanno i cristalli orientati in modo da non creare “interferenze” con le fotocamere che hanno un sensore autofocus o un sensore per leggere l’esposizione posto dietro una superficie semitrasparente. Siccome molte fotocamere moderne adottano soluzioni del genere, l’uso di un polarizzatore lineare rischia di provocare un errore nell’esposizione o una difficoltà di messa a fuoco. Se prevediamo di utilizzare il filtro su una reflex digitale, quindi, conviene acquistare un polarizzatore di tipo circolare, anche se costa un po’ di più.
Un filtro polarizzatore circolare, denominato "CPL" e un filtro polarizzatore lineare, denominato "PL". Per le fotocamere moderne è meglio sceglierne uno circolare, anche se non sempre i lineari danno problemi. Chi scrive, per esempio non ha mai riscontrato inconvenienti usando i polarizzatori lineari su reflex digitali.
Ultime avvertenze… L’effetto del filtro polarizzatore è piuttosto variabile in quanto è legato soprattutto alla direzione della principale fonte di illuminazione rispetto al fotografo. Basta osservarne l’effetto nel mirino della reflex mentre lo ruotiamo. Se non ci sembra che la situazione cambi molto, basterà cambiare la nostra posizione rispetto al sole, ovviamente cambiando l’inquadratura. Il filtro polarizzatore assorbe parecchia luce, di solito almeno un paio di stop, teniamone conto per evitare foto mosse. Spesso ci toccherà alzare la sensibilità o utilizzare un treppiede.
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Il filtro ND
Filtri ND.
I filtri ND, o filtri a densità neutra (neutral density filters), sono tra gli accessori più utili nella fotografia di paesaggio. L’ND è un filtro grigio con opacità costante per tutti i colori dello spettro, che non altera in alcun modo le caratteristiche cromatiche dell’immagine: si limita solo ad assorbire parte della luce. In tal modo si possono usare tempi di esposizione più lunghi. Usando uno o più filtri grigi ND quindi è possibile, anche quando c’è molta luce, ottenere l’effetto del mosso dell’acqua, delle nuvole, o comunque di elementi dinamici nell’immagine, contrapposti ad altri elementi del panorama che invece restano statici. L’esempio più diffuso è probabilmente quello dell’acqua. Se si vuole ottenere il cosiddetto “effetto seta”, si può fotografare quando la luce ambiente è fioca, oppure si può utilizzare un filtro ND o, se necessario, più filtri ND montati l’uno sull’altro.
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Per ottenere un effetto come questo è necessario usare un tempo di esposizione variabile tra il mezzo secondo e i due secondi. Assorbendo la luce, un filtro grigio ND, permette di impostare tempi lunghi anche quando la luce ambientale è troppo forte.
I filtri ND sono disponibili sul mercato con differenti valori di densità, cioè con la capacità di assorbire una maggiore o una minore quantità di luce. Tale densità è indicata con un numero. Si vendono filtri con valori di densità 2, 4, 8, 16, 32. Un filtro con valore di densità 2, lascia passare solo metà della luce, quindi assorbe uno stop. In altre parole, se ad un dato diaframma l’esposizione corretta richiede un tempo di 0,5 secondi, inserendo un filtro ND2 l’esposizione corretta richiederà 1 secondo. Un filtro ND4 lascia passare il 25% della luce, quindi assorbe due stop. Pertando, per tornare all’esempio precedente, se senza filtro, ad un dato diaframma, l’esposizione corretta richiede un tempo di 0,5 secondi, con un filtro ND 4 richiederà 2 secondi. Procedendo lungo la medesima scala, un filtro ND8 lascerà passare solo il 12,5% della luce con un assorbimento di 3 stop. Un filtro grigio ND16 assorbirà 4 stop, un ND 32 assorbirà 5 stop.
Questa foto è stata scattata anteponendo all'obiettivo due filtri grigi: un ND8 e un ND4, per un assorbimento complessivo di 5 stop. Il tempo di esposizione è stato di 8 secondi, con una sensibilità di 80 ISO e un diaframma F/22. Senza l'utilizzo dei filtri grigi il tempo più lungo ottenibile sarebbe stato di 1/25 di secondo. Troppo breve per ottenere l'effetto del movimento dell'acqua.
I filtri grigi si possono utilizzare anche per “eliminare” le persone che si trovano davanti ad un monumento o ad un paesaggio. Impostando un tempo di scatto di vari minuti, infatti, ci ritroveremo con una foto nella quale gli elementi statici resteranno perfettamente impressi, mentre quelli che si muovono, come appunto le persone, scompariranno magicamente. I filtri grigi, che dovranno essere molto densi in questo caso (tre o quattro ND 16 in serie), ci permetteranno di ottenere questo effetto (bisogna anche sperare che qualcuno non decida di stazionare davanti al nostro monumento per qualche minuto nella stessa posizione, perché in tal caso la sua immagine verrà comunque registrata sul fotogramma).
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Il filtro ND graduato
I filtri ND graduati (graduated neutral density filters) sono filtri grigi digradanti, che si usano per assorbire la luce solo su metà del fotogramma. La differenza rispetto al semplice filtro ND, quindi, è che l’oscuramento riguarda solo metà del fotogramma. Inoltre la zona di passaggio dalla parte perfettamente trasparente a quella grigia, inoltre, è sfumato, in modo da apparire più naturale in fotografia.
Un filtro ND graduato del sistema Cokin.
Gli ND graduati sono disponibili, come tutti i filtri fotografici, sia nel formato quadrato per il sistema a portafiltri, sia nel classico formato circolare che si avvita sull’obiettivo. Si utilizzano quando c’è una forte differenza di luminosità tra le due metà del fotogramma. Spesso, infatti, se si include nella scena sia il cielo che il terreno, ci si accorge che la differenza di luminosità è tale da superare la latitudine di posa del sensore o della pellicola. In altre parole, in fase di ripresa si deve decidere se esporre per il cielo, sacrificando tutto quello che si trova a livello di terreno, che verrà “annegato” nell’oscurità, oppure esporre per il terreno, sacrificando il cielo che sarà inevitabilmente sovraesposto. Per comprendere l’utilizzo del filtro ND graduato si osservino le seguenti fotografie:
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Foto esposta per il cielo: tempo di scatto 1/6 di secondo; diaframma f/22. Come si vede il colore del cielo viene riportato correttamente ma gli scogli e il mare in primo piano sono inevitabilmente "affogati" nel nero della sottoesposizione.
Nella fotografia riportata sopra il fotografo ha deciso di esporre per il cielo in modo da catturare gli affascinanti colori del tramonto e la bella nuvola in alto. Questo però ha portato ad una sottoesposizione del mare e degli scogli in primo piano, perché la parte alta del fotogramma, contenente il cielo, è molto più luminosa di quella inferiore. Se si vuole salvare la leggibilità degli scogli, invece, bisogna misurare l’esposizione sui medesimi, ottenendo un risultato come questo:
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La foto esposta per gli scogli in primo piano (quelli in secondo piano appaiono ancora leggermente sottoesposti): tempo di scatto 2,5 secondi, sempre ad f/22. Come si vede i particolari degli scogli sono leggibili, ma il cielo è irrimediabilmente sovraesposto. I bei colori del tramonto sono annegati nel bianco.
Il cielo appare sovraesposto e i bei colori del tramonto sono scomparsi, “annegati” irrimediabilmente nel bianco. Utilizzando un filtro ND graduato invece possiamo ottenere un risultato come questo:
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Utilizzando il filtro ND graduato, con la parte oscurata rivolta verso l'alto, si può ottenere un effetto simile a questo: cielo e scogli correttamente esposti.
L’utilizzo di un filtro graduato permette pertanto di “ridurre” o “comprimere” la latitudine di posa della scena, in modo da poter esporre correttamente sia il cielo che il terreno. Purtroppo però l’utilizzo del filtro ND graduato comporta alcuni compromessi. Il più grave è che costringe ad adottare sempre una “composizione centrale” nella quale cioè la linea di demarcazione tra cielo e terra si trova al centro del fotogramma. Come sappiamo, invece, molto spesso nel comporre la foto è meglio seguire la regola dei terzi. Un altro problema da non sottovalutare è che il filtro rende molto meglio se usato dove vi è una linea dell’orizzonte netta di demarcazione tra la parte alta e quella bassa del fotogramma (ad esempio, per l’appunto, il mare), mentre se sono presenti alberi, colline, o un elemento qualsiasi che si estenda nella parte alta del fotogramma, l’effetto apparirà piuttosto innaturale. Per questi motivi molti fotografi preferiscono simulare l’effetto del filtro ND graduato in digitale. In che modo? Facendo due scatti, su treppiede, e unendoli in seguito con un programma di fotoritocco. In effetti anche le foto esemplificative sopra riportate sono state scattate con il fine di ottenere “l’effetto filtro graduato” a posteriori in post-produzione. Il risultato è, per l’appunto, quello mostrato nella terza foto, per la quale, quindi, non è stato utilizzato davvero il filtro graduato. La simulazione dell’effetto del filtro in post-produzione consente un maggior controllo sul risultato finale e di aggirare gli svantaggi connessi all’utilizzo dell’ND graduato. Una foto come quella riportata sotto, ad esempio, non si sarebbe potuta
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ottenere con l’utilizzo del filtro graduato in ripresa: in primo luogo perché la linea dell’orizzonte rispetta la regola dei terzi, e poi perché gli scogli frastagliati sarebbero apparsi innaturali, per metà correttamente esposti, per metà scuri.
Una foto come questa richiede che si simuli l'effetto del filtro graduato in post-produzione.
Bisogna però avvertire che alcuni fotografi, mentre accettano l’utilizzo dei filtri in ripresa, ritengono che un processo di post-produzione tanto spinto esuli da quella che si può veramente definire fotografia.
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Capitolo 4 - L'esposizione La coppia tempo/diaframma: introduzione Per ottenere buone fotografie è necessario saper controllare due parametri fondamentali: apertura del diaframma e tempo di esposizione. Il diaframma è un dispositivo che si trova all’interno dell’obiettivo. In pratica si tratta di un’apertura a diametro variabile. Fondamentalmente il diaframma serve per controllare la quantità di luce che, penetrando attraverso l’obiettivo, raggiunge il sensore.
La scala dei diaframmi. A f/2 corrisponde un diaframma molto aperto: passerà molta luce. A f/22 corrisponde un diaframma molto chiuso: passerà poca luce. Il tempo di esposizione viene controllato da un dispositivo interno alla fotocamera che si chiama otturatore. Attraverso l’otturatore noi (oppure l’automatismo della macchina fotografica) possiamo decidere per quanto tempo la luce raggiungerà il sensore.
Sulle vecchie reflex a pellicola di qualche anno fa era presente la scala dei tempi. Come si vede nella foto in alto, nelle vecchie reflex era presente una rotella che serviva per selezionare il tempo di scatto desiderato. Oggi vi è comunque una rotella di comando, ma il tempo selezionato viene visualizzato nel mirino della fotocamera. Attenzione: 1000 corrisponde ad un tempo di 1/1000 di secondo, 500 ad un tempo di 1/500 di secondo, e così via: 250= 1/250 sec.; 125= 1/125 sec.; 60= 1/60 sec.; 1 corrisponde ad 1 secondo. Sulle moderne reflex si possono in genere selezionare tempi compresi tra 1/8000 sec. e 30 secondi, più la posa B (bulb). 108
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La posa B permette di tenere aperto l’otturatore per tutto il tempo desiderato, consente quindi esposizioni lunghe, superiori ai 30 secondi impostabili normalmente dalle opzioni della fotocamera. La quantità di luce (regolata dall’apertura del diaframma) e il tempo di esposizione (regolato dall’otturatore) determinano la quantità totale di luce che raggiunge il sensore mentre scattiamo la fotografia. Essi sono i parametri fondamentali per ottenere una buona esposizione. Per capirlo meglio immaginiamo di voler riempire un bicchiere d’acqua.
Più apriamo il rubinetto, meno tempo ci vorrà a riempire il bicchiere. L’unica cosa a cui bisogna stare attenti è scegliere la giusta coppia apertura rubinetto/tempo di riempimento. Se sbagliamo per eccesso l’acqua si verserà, se sbagliamo per difetto il bicchiere resterà semivuoto. Allo stesso modo se sbagliamo la coppia apertura del diaframma/tempo di esposizione per eccesso avremo una foto sovraesposta come quella riportata sotto:
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Fotografia sovraesposta. Il sensore ha ricevuto troppa luce. Se sbagliamo la coppia apertura del diaframma/tempo di esposizione per difetto avremo una foto sottoesposta come quella sotto riportata:
Fotografia sottoesposta.Il sensore ha ricevuto poca luce. La foto corretta dovrebbe invece presentarsi così:
Fotografia esposta correttamente.
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Attraverso la coppia tempo diaframma però non si controlla solo la corretta esposizione, ma anche una serie di altri parametri che influenzano in maniera decisiva l’estetica dell’immagine.
La coppia tempo/diaframma: il diaframma Come abbiamo visto il diaframma regola l’apertura attraverso passa la luce che raggiunge il sensore. Per comodità, e per poter usare gli stessi parametri per ogni obiettivo, il valore del diaframma non è espresso in termini assoluti, ma in termini relativi, con un rapporto: “f/” dove f rappresenta la lunghezza focale dell’obiettivo. Ad esempio, per un obiettivo da 50mm, se il diaframma dichiarato è f/2, significa che il diametro del foro da cui passa la luce, con diaframma tutto aperto, è 25mm. Se invece abbiamo un obiettivo da 100mm, di cui è dichiarata l’apertura f/2, questo vuol dire che a diaframma tutto aperto il foro da cui passa la luce sarà di 50mm. C'è adesso da esprimere un concetto importante: indipendentemente dalla lunghezza focale dell’obiettivo, a diaframma uguale corrisponde il passaggio della medesima quantità di luce. Quindi, ad esempio, se impostiamo un diaframma di f/4 su un obiettivo di focale 50mm e su un obiettivo di focale 300mm, nonostante i due fori da cui passa la luce siano molto diversi tra loro, essendo quello del 300mm molto più grande di quello del 50mm, la quantità di luce che raggiunge il sensore sarà esattamente la stessa. Questa che segue è la scala dei diaframmi: f/1 – f/1,4 – f/2 – f/2,8 – f/4 – f/5,6 – f/8 – f/11 – f/16 – f/22 – f/32 – f/45 – f/64 Ad ogni scatto, detto in gergo “stop”, corrisponde il dimezzamento della quantità di luce che raggiunge il sensore. Se si “diaframma”, cioè si chiude il diaframma dell’obiettivo, da f/2 a f/2,8, cioè di uno stop, la luce che raggiunge il sensore sarà dimezzata. Se si diaframma di due stop, ad esempio portando l’apertura da f/8 a f/16, la quantità di luce che raggiunge il sensore sarà 1/4 rispetto a prima.
Ad ogni stop di chiusura si dimezza la quantità di luce che raggiunge il sensore. In questa scala f/2 rappresenta il diaframma più aperto, f/22 quello più chiuso (osservare la dimensione del foro). Attenzione perché spesso i principianti sbagliano su questo punto: trattandosi di una frazione il valore numericamente più alto corrisponde ad un diaframma più chiuso. Pertanto f/2 designa un diaframma più aperto di f/2,8 o di f/4. Il diaframma viene selezionato direttamente sulla macchina fotografica, attraverso una rotella di regolazione. Il valore selezionato può essere visualizzato all’interno del mirino. Naturalmente è possibile selezionare anche valori intermedi. Nelle reflex di solito si possono impostare passi di regolazione di 1/2 stop o di 1/3 di stop.
L’uso del diaframma e il controllo della profondità di campo
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Uno dei concetti più importanti da imparare quando ci si accosta alla fotografia è quello di profondità di campo. Solo quando si impara a controllare alla perfezione la profondità di campo attraverso il diaframma, infatti, si inizia a padroneggiare davvero lo strumento fotografico. Un obiettivo può mettere a fuoco esclusivamente su un determinato piano. Tutto ciò che si trova sul piano di messa a fuoco apparirà nitido, mentre tutto ciò che si trova dietro e davanti il piano di messa a fuoco apparirà sfocato, ossia poco nitido.
Tutto ciò che si trova davanti e dietro il piano di messa a fuoco risulta poco nitido, “sfocato”. Ciò avviene perché un punto che si trova sul piano di messa a fuoco sarà riprodotto esattamente come un punto anche nella fotografia ottenuta, mentre un punto che si trova avanti o dietro il piano di messa a fuoco sarà riprodotto come un cerchietto sulla stessa fotografia. Nella pratica però, davanti e dietro il piano di messa a fuoco vi è un certo intervallo in cui la sfocatura è talmente contenuta da essere impercettibile: l’osservatore continua a vedere i particolari dell’immagine come nitidi. Questo intervallo è chiamato profondità di campo. Si tratta dell’intervallo all’interno del quale il cerchio di confusione è talmente piccolo da essere comunque percepito come un punto dall’osservatore.
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La profondità di campo, l’intervallo nel quale ciò che si trova avanti e dietro il piano di messa a fuoco continua ad apparire nitido. Per capire meglio cosa è la profondità di campo, e come avviene gradualmente il passaggio dal piano di perfetta nitidezza al vero e proprio sfocato si osservi questa foto:
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Le linee illustrano l'estensione della profondità di campo.
Il controllo della profondità di campo è sicuramente uno dei concetti fondamentali della fotografia. La profondità di campo, infatti, non è sempre uguale, bensì variabile in base ad alcuni parametri: 1) La percezione personale: entro certi limiti, l’osservatore dell’immagine può percepire come nitidi dei particolari che sono leggermente sfocati. Di solito più si acquisisce l’”occhio fotografico”, più si diventa severi nel giudicare l’immagine perché si raffina la capacità di distinguere, nell’immagine, ciò che è a fuoco da ciò che non lo è. Tale percezione dipende anche dall’ingrandimento della fotografia. Su una stampa di piccole dimensioni l’immagine può apparire più nitida. 2) La lunghezza focale: per semplificare – e molto – la questione, si usa dire che nei teleobiettivi la profondità di campo è inferiore rispetto ai grandangoli. 3) La distanza del punto di messa a fuoco dal piano focale: se mettiamo a fuoco un soggetto vicino, a parità di lunghezza focale e di tutti gli altri parametri, la profondità sarà inferiore rispetto a quella che si ottiene mettendo a fuoco un soggetto più lontano. 4) L’apertura di diaframma, di cui parliamo adesso. Il diaframma e la profondità di campo Per farla breve, la chiusura del diaframma fa aumentare la profondità di campo. Più il diaframma è chiuso, infatti, più i raggi che colpiscono il sensore saranno perpendicolari ad esso. Più i raggi di luce sono perpendicolari al sensore, più il cerchio di confusione dei piani fuori fuoco è piccolo e si avvicina ad essere percepito come un punto. Questo restituisce una sensazione di nitidezza. Per capire cosa accade chiudendo il diaframma, si osservino le seguenti immagini.
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La messa a fuoco è stata effettuata sul palo in primo piano. È stato usato un obiettivo di focale 50mm a diaframma f/2.
Stessa lunghezza focale, ma diaframma chiuso a f/8.
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Stessa focale, ma diaframma chiuso a f/22.
Le tre immagini sopra riportate ben illustrano come la variazione dell’apertura del diaframma porti ad ottenere immagini molto diverse dello stesso soggetto. Sta al fotografo selezionare, in base alla sua esperienza e al suo senso estetico, il diaframma più adeguato a restituire l’immagine che vuole ottenere. Facciamo altri esempi:
Focale 50mm - diaframma f/1,7.
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Focale 50mm - diaframma f/8.
Un ulteriore esempio:
Focale 130mm - diaframma f/2,8.
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Focale 130mm - diaframma f/8.
Focale 130mm - diaframma f/22. Le tre immagini della tazzina sono molto utili a dimostrare come con un uso sapiente del diaframma si possano ottenere fotografie diverse. Per esempio, l’uso di un diaframma aperto, porta a far sparire le antiestetiche briciole sul tavolo. Viceversa un diaframma più chiuso restituisce una maggiore impressione di nitidezza generale. Quando utilizzare un diaframma aperto e quando utilizzare un diaframma chiuso? In generale, ma non è certo una regola, quando si fotografa un paesaggio si desidera che tutti i particolari della scena siano nitidi. Di solito quindi si opta per un diaframma più chiuso.
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Foto scattata con una focale di 18mm. L’apertura utilizzata è f/7,1, un diaframma abbastanza chiuso, che con questa lunghezza focale - grandangolo abbastanza spinto - permette di percepire come nitida praticamente tutta la scena, dalla strada in primo piano, all’albero posto su un piano intermedio, alle nuvole sullo sfondo.
Quando si fa un ritratto, invece, di solito di desidera dare risalto al soggetto. Lo sfondo potrebbe distrarre inutilmente. Ecco quindi la necessità di usare un diaframma piuttosto aperto, magari abbinato ad una focale medio-tele.
Il diaframma piuttosto aperto, f/2,5 ad una focale di 50mm, permette di far risaltare i visi in primo piano sfocando lo sfondo.
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La stessa cosa si può dire per la fotografia di animali. Spesso per dare maggior risalto al nostro amico a quattro zampe è preferibile “eliminare” lo sfondo, rendendolo così sfocato da risultare uniforma e poco invadente, come si vede nella foto sottostante, ottenuta con un teleobiettivo 150mm a diaframma f/2,8.
Focale 150mm, diaframma f/2,8.
La coppia tempo/diaframma: il tempo di esposizione Uno dei concetti chiave che deve apprendere chi si accinge ad imparare a fotografare è quello del tempo di esposizione perché, insieme al diaframma, è il parametro che ha maggiore influenza sulla fotografia che otterremo. Il tempo di esposizione è il tempo durante il quale l’otturatore rimane aperto per permettere alla luce di raggiungere il sensore (o la pellicola, ovviamente).
La scala dei tempi disponibile sulle attuali fotocamere reflex è la seguente: 1/8000 di secondo – 1/4000 – 1/2000 – 1/1000 – 1/500 – 1/250 – 1/125 – 1/60 – 1/30 – 1/15 – 1/8 – 1/4 – 1/2 – 1″ – 2″ – 4″ – 8″ – 16″ – 30″ – B (bulb) Per ogni scatto di questa scala, come avviene per la scala dei diaframmi, si parla di uno “stop” in più o in meno (si veda il paragrafo in appendice Il concetto di “stop” in fotografia). Ad esempio, se passiamo da 1/1000 a 1/500 abbiamo aumentato il tempo di esposizione di uno “stop”. Se passiamo da 16″ a 4″ abbiamo diminuito il tempo di esposizione di due “stop”. Va osservato che molti modelli entry level hanno come tempo più rapido disponibile 1/4000 di secondo. Inoltre, le fotocamere permettono di impostare anche i valori intermedi, a passi di 1/2 e di 1/3 di “stop”. La posa B (bulb) permette di mantenere aperto l’otturatore per tutto il tempo desiderato. Per utilizzare tale funzione è necessario dotarsi di un telecomando, o di un filocomando, esterno. Tenere fisicamente premuto il pulsante di scatto per molti secondi, infatti, causerebbe delle vibrazioni anche se la macchina fosse posta su un robusto treppiede, a scapito della nitidezza della foto.
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Nel selezionare il tempo di esposizione bisogna tener conto di un fattore determinante. Il tempo di esposizione è fondamentale per ottenere una foto “ferma”, oppure “mossa”. Questo vale sia per l’inevitabile tremolio delle mani che impugnano la fotocamera, sia per il movimento del soggetto stesso. Pertanto, se impugniamo la fotocamera a mano libera e vogliamo evitare una foto mossa, dobbiamo scegliere un tempo “di sicurezza”, cioè abbastanza veloce da annullare l’effetto del tremolio della mano e del movimento del soggetto. Quale può essere questo tempo di sicurezza? Mentre per quanto riguarda il movimento del soggetto si possono dare regole di valore generale, perché dipende dalla velocità e anche dalla direzione di quel movimento, per quanto riguarda il compensare del tremolio della mano qualche suggerimento è possibile darlo. Certo, tutto dipende anche da quanto è ferma la mano del fotografo, dalla corretta impugnatura della fotocamera, nonché dal peso di essa, tuttavia una regola empirica sempre valida è quella del reciproco della lunghezza focale. In altre parole, se abbiamo un obiettivo da 400mm, su una fotocamera dal sensore Full Frame (24x36mm), il tempo di sicurezza, il tempo massimo da impostare per avere la ragionevole certezza di avere una foto ferma, è 1/400 sec. Se il 400mm è montato su una macchina a sensore APS-c, con fattore di crop di 1,5x, va considerata la focale risultante apparente, cioè 600mm: il tempo di sicurezza diventa quindi 1/600 sec. Per fare un altro esempio, con un obiettivo da 50mm montato su una APS-c con fattore di crop 1,5x (focale equivalente 75mm), il tempo di sicurezza è di 1/75 di secondo. Si osservino le due fotografie sotto riportate:
Lunghezza focale effettiva 200mm su APS-c 1,5x (eq. 300mm), tempo di esposizione 1/15 sec. La foto risulta mossa.
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Lunghezza focale effettiva 200mm su APS-c 1,5x (eq. 300mm), tempo di esposizione 1/320 sec. La foto risulta nitida. C’è da dire che al giorno d’oggi tutti i produttori prevedono dei sistemi di stabilizzazione sull’ottica o sul sensore che permettono di arrischiare tempi molto più alti rispetto al reciproco della focale. Spesso un buon sistema di stabilizzazione permette di guadagnare dai 2 ai 4 stop.
La scelta del tempo di esposizione Quando scegliamo il tempo di esposizione dobbiamo sempre ricordare che ai fini della corretta esposizione esso è strettamente legato all’apertura del diaframma.
Si ricordi l’esempio del rubinetto:
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A parità di luce, ad una apertura del diaframma maggiore, corrisponderà un tempo di esposizione più breve. A cosa serve, però, scegliere un tempo di esposizione più lungo o più breve? Ebbene, variando il tempo di esposizione, si possono ottenere immagini molto diverse. Il primo rischio da valutare attentamente è il pericolo di ottenere una foto mossa se impostiamo un tempo di esposizione troppo lungo. Bisogna tener conto che oltre al tremolio della mano, di cui abbiamo parlato nel paragrafo precedente, un altro fattore che rischia di far venire la foto mossa è il movimento del soggetto. Tale movimento, purtroppo, non può essere compensato da alcun meccanismo. Quindi se desideriamo avere un soggetto in movimento che risulti bello fermo e nitido nella nostra foto, dobbiamo necessariamente utilizzare un tempo sufficiente a bloccarne il movimento. Si osservino i seguenti esempi che si basano su un soggetto sempre piuttosto difficile, gli uccelli in volo. Per bloccare il movimento di un uccello di solito è necessario un tempo piuttosto breve:
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Un tempo di 1/400 di secondo è bastato in questo caso per bloccare il movimento di questo gruccione in volo. Ma forse, anche per trasmettere il senso del movimento, il fotografo potrebbe decidere di usare un tempo di scatto più lungo al fine di trasmettere dinamicità alla sua fotografia bloccando solo parzialmente il soggetto:
Un tempo di 1/160 di secondo non blocca completamente il movimento degli uccelli. Si può osservare che le anatre in volo appaiono ben ferme, ma la punta delle loro ali appare mossa. Il fotografo ha ottenuto questa foto con la tecnica del panning, che consiste nel continuare a seguire il soggetto durante la fase di scatto. In tal modo il movimento orizzontale degli uccelli appare bloccato, mentre le ali, che si muovono dall'alto in basso, quindi in direzione diversa rispetto alla traiettoria seguita dagli uccelli e dalla fotocamera, appaiono mosse. Oppure il fotografo potrebbe cercare di sfruttare il movimento per ottenere volutamente un’immagine mossa per motivi creativi, per esempio per rendere la sua fotografia più onirica o pittorica:
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Con un tempo di 1/80 di secondo si ottiene un'immagine mossa. Si può tentare di utilizzare un tempo lungo a fini creativi, per ottenere un'immagine non convenzionale. I tempi lunghi sono molto usati per trasmettere il senso del movimento dell’acqua, come nella foto seguente:
I l tempo di 1/3 di secondo permette di rendere l'effetto del movimento dell'acqua. Naturalmente per ottenere effetti simili è necessario garantire la stabilità della fotocamera. Diventa pertanto necessario usare un treppiede.
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Tempo di scatto di 4 secondi. L'acqua del ruscello assume un gradevole effetto satinato. La fotocamera naturalmente era posta su un robusto treppiede. Per esercitarsi: - Se possedete una fotocamera che permette di impostare il programma a priorità dei tempi (di solito contrassegnato con [Tv]), impostatelo e poi variate i tempi con l’apposita ghiera. Osservate come la fotocamera varia i diaframmi di conseguenza. - Con una focale medio tele, intorno agli 80mm equivalenti, scegliete un soggetto perfettamente immobile e fotografatelo a mano libera con tempi diversi, che vanno da 1/500 di secondo a 4 secondi. Osservate attentamente le fotografie ottenute. - Se avete un treppiede, montateci su la fotocamera e fotografate un ruscello o una fontana con tempi variabili tra 1/2000 e 30 secondi. Utilizzate un telecomando, uno scatto flessibile o il ritardo di scatto di due secondi per minimizzare il pericolo di vibrazioni. Osservate attentamente le fotografie ottenute.
La sensibilità L'ultimo parametro fondamentale da padroneggiare per ottenere una perfetta esposizione delle nostre fotografie è la sensibilità del sensore o della pellicola. Cosa si può fare quando abbiamo aperto al massimo il diaframma dell’obiettivo ma l’esposimetro della fotocamera ci segnala ancora un tempo di esposizione così lungo che rischiamo ti ottenere una foto mossa? Le soluzioni sono diverse, dal treppiede a un appoggio di fortuna, all’uso del flash. Probabilmente però la soluzione più semplice consiste nell’aumentare la sensibilità. Cos’è la sensibilità? È la capacità posseduta dal sensore o dalla pellicola di lasciarsi impressionare dalla luce. Più è alta la sensibilità della pellicola, minore sarà la quantità di luce necessaria a creare l’immagine. Per questo motivo, fotografando con le pellicole, si sceglie un rullino ad alta sensibilità per lavorare in locali chiusi o la sera, quando la luce è poca, mentre si sceglie un rullino a bassa sensibilità quando si lavora all’aperto e di giorno, con molta luce. Le sensibilità sono codificate secondo lo standard ISO 5800:1987 in questo modo: Basse sensibilità ISO 25 – ISO 50 – ISO 100 Medie sensibilità
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ISO 200 -ISO 400 – ISO 800 Alte sensibilità ISO 1600 – ISO 3200 – ISO 6400 Altissime sensibilità ISO 12500 – ISO 54000
Il menu presente sulle fotocamere per selezionare la sensibilità. Ogni salto rappresenta un raddoppio della sensibilità, cioè un aumento di uno “stop”. Se, ad esempio, l’esposimetro ci indica, con una sensibilità di 100 ISO, un tempo di scatto di 1/25 di secondo, con diaframma f/4, se raddoppiamo la sensibilità passandola a 200 ISO, e lasciamo invariato il diaframma a f/4, dovremo usare un tempo di esposizione di 1/50 sec. Se passiamo a 400 ISO, lasciando sempre invariato il diaframma a f/4, il tempo di esposizione corretto diventerà 1/100 sec. Questo significa che per evitare il mosso, molto spesso basta impostare una sensibilità più alta. Perché allora non scegliere direttamente una pellicola veloce ed utilizzare sempre quella? Oppure perché non impostare di default la sensibilità più alta disponibile sulla nostra fotocamera digitale? Semplicemente perché le pellicole di bassa sensibilità, e le basse sensibilità impostabili sulla nostra fotocamera digitale, garantiscono una maggior risoluzione, una migliore resa dei colori e una “grana” inferiore. In altre parole, più è bassa la sensibilità, migliore sarà la fotografia. Per illustrarlo si osservino le immagini riportate sotto. Si tratta di crop al 100% di immagini scattate a diverse sensibilità. Appare evidente come all’aumentare della sensibilità le immagini si deteriorino. Diventa infatti sempre più visibile il cosiddetto “rumore digitale“. Un fenomeno dovuto al fatto che per ottenere una sensibilità più alta è necessario amplificare elettronicamente il segnale captato dal sensore.
Sensibilità: 100 ISO.
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Sensibilità: 1600 ISO.
Sensibilità: 6400 ISO. Le immagini sopra riportate mostrano chiaramente il deterioramento della qualità delle fotografie all’aumentare della sensibilità. Pertanto, anche se i tecnici stanno facendo miracoli nella guerra contro il rumore digitale, e ad ogni generazione le fotocamere fanno passi da gigante nel contenimento dello stesso, resta sempre valida la regola che se si desidera ottenere la migliore qualità delle immagini, bisogna impostare basse sensibilità. Il segreto consiste nel saper giocare abilmente con i tre parametri fondamentali della fotografia: diaframma, tempo di esposizione, sensibilità, sapendo che spesso dei compromessi saranno inevitabili. In linea generale, bisogna selezionare una sensibilità più alta solo se abbiamo bisogno di tempi più rapidi, per evitare il mosso o per congelare l’azione. Per esercitarsi: - Provate a modificare la sensibilità lasciando invariato il diaframma: osservate come cambia il tempo di esposizione in relazione alla sensibilità selezionata. - Scattate la stessa fotografia a sensibilità diverse, lasciando invariato il diaframma, poi osservatele attentamente sul monitor per vedere le differenze tra gli scatti.
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Appendice Cos’è il triangolo dell’esposizione? Per ottenere una foto correttamente esposta bisogna prendere in considerazione tre parametri: l’apertura del diaframma, il tempo di esposizione e la sensibilità. Questi tre parametri costituiscono il cosiddetto “triangolo dell’esposizione”.
Il triangolo dell’esposizione. Ognuno di essi gioca un ruolo fondamentale nel determinare la giusta quantità di luce che cadrà sul sensore, ed ognuno di essi è strettamente connesso agli altri, nel senso che variando uno di questi fattori, se si vuole ottenere la corretta esposizione della scena, bisognerà intervenire anche su almeno uno degli altri due. Un tempo, con la fotografia a pellicola, più che di “triangolo dell’esposizione” si parlava di “coppia tempo-diaframma“. Una volta inserita nella fotocamera una determinata pellicola, infatti, non si poteva intervenire con facilità sulla sensibilità. Pertanto gli unici due parametri sui quali si interveniva per raggiungere il corretto livello di esposizione erano il tempo di scatto e l’apertura del diaframma. Con il digitale invece si può intervenire sulla sensibilità con la stessa facilità con la quale si interviene su tempo e diaframma. Per questo motivo ha preso sempre più piede l’espressione “triangolo dell’esposizione”.
Il concetto di “stop” in fotografia “Stop”.
Non vi è conversazione tra fotografi in cui questa parola non sia pronunciata diverse volte. Coloro che non
conoscono il gergo fotografico restano piuttosto perplessi nel sentire espressioni quali “avresti dovuto aprire di uno stop”,
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“potevi diminuire la sensibilità anche di due stop”, “il sensore di quella fotocamera ha una latitudine di posa di otto stop” (affermazione non troppo corretta – bisognerebbe in questo caso parlare di “EV” invece che di “stop” e, anche se la questione è dibattuta, di “gamma dinamica” anziché di “latitudine di posa”- ma correntemente usata). Non c’è dubbio che una delle prime difficoltà che deve affrontare il principiante è quella di familiarizzare con il linguaggio specifico del mondo fotografico. Allora, cosa significa “stop” in fotografia? Molto semplicemente un aumento o una diminuzione della luce che raggiunge il sensore (o la pellicola) di un fattore due. In pratica “aumentare di uno stop” significa raddoppiare la quantità luce che raggiunge il sensore, “diminuire di uno stop” significa dimezzare la quantità della luce che raggiunge il sensore. Aumentare di due stop significa quadruplicare la luce che raggiunge il sensore, diminuire di due stop significa ridurre ad un quarto la luce che raggiunge il sensore. Si osservino le fotografie seguenti. Sono distanziate di uno “stop” l’una dall’altra:
- 2 stop
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- 1 stop
Esposizione corretta
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+ 1 stop
+ 2 stop Ma come si fa ad aumentare o diminuire la quantità di luce che raggiunge il sensore? Essenzialmente operando su due parametri: apertura del diaframma e tempo di esposizione. Riprendiamo la scala dei diaframmi: f/1 – f/1,4 – f/2 – f/2,8 – f/4 – f/5,6 – f/8 – f/11 – f/16 – f/22 – f/32. Il diaframma più aperto di un certo obiettivo è dato dal rapporto tra la lunghezza focale dell’obiettivo e il diametro della sua apertura f=F/d. f/1, quindi, in questa scala rappresenta il diaframma più aperto. Ad ogni successivo scatto la luce che entrerà nell’obiettivo risulterà dimezzata. Sono considerati obiettivi luminosi, quelli che hanno un’apertura di diaframma massima compresa tra f/1 ed f/2,8. Si 132
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tratta di obiettivi professionali e in genere piuttosto costosi. Gli obiettivi rivolti ad un pubblico meno esigente hanno un diaframma massimo molto più contenuto, di solito da f/3,5 a f/5,6. Quando si dice che un obiettivo è più luminoso di un diaframma rispetto ad un altro significa che è un obiettivo dotato di un’apertura di diaframma massima più grande di un stop. Ad esempio, un obiettivo 50mm f/1,4 sarà di uno stop più aperto rispetto ad un 50mm f/2.
La scala dei tempi presenti comunemente sulle reflex invece è questa: 30 secondi – 15 sec. – 8 sec. - 4 sec. – 2 sec. – 1 secondo – 1/2 secondo – 1/4 di secondo – 1/8 di sec. – 1/15 di sec. – 1/30 di sec. – 1/60 di sec. – 1/125 di sec. – 1/250 di sec. – 1/500 di sec. – 1/1000 di sec. – 1/2000 di sec. – 1/4000 di sec. – 1/8000 di secondo. Come si nota, al di là di qualche arrotondamento, ad ogni stop si raddoppia o si dimezza il tempo di esposizione, cioè va a colpire il sensore il doppio della luce o la metà della luce rispetto al valore impostato in precedenza. Un discorso a parte va fatto per la sensibilità. Il concetto di stop infatti è stato esteso anche a questo parametro. Così si dice, comunemente, che passando da 200 ISO a 400 ISO si aumenta la sensibilità di uno stop, mentre passando da 200 ISO a 100 ISO la si diminuisce di uno stop. Ovviamente però in questo caso non aumenta o diminuisce la quantità della luce che raggiunge il sensore, semplicemente aumenta o diminuisce la capacità del sensore di lasciarsi impressionare dalla luce. La scala delle sensibilità, comunemente usata, è questa: ISO 25, ISO 50, ISO 100, ISO 200, ISO 400, ISO 800, ISO 1600, ISO 3200, ISO 6400, ISO 12800, ISO 25600, ISO 51200.
È evidente che, per ottenere la corretta esposizione, possiamo intervenire su qualsiasi dei tre fattori (apertura di diaframma, tempo di esposizione, sensibilità) menzionati. L’unico limite è dato dalle conseguenze che variare l’uno o l’altro parametro ha sulla fotografia. Ad esempio, se variamo il diaframma cambieremo la profondità di campo, cioè la percezione di nitidezza davanti e dietro il punto di messa a fuoco. Se variamo il tempo dobbiamo stare attenti a che il movimento della mano o quello del soggetto non rendano la foto “mossa” (a meno che, ovviamente, non si tratti di un effetto voluto e controllato). Se variamo la sensibilità dovremo stare attenti all’insorgenza del cosiddetto rumore e all’abbassamento generale della qualità dell’immagine. Insomma, nello scegliere il valore di diaframma, tempo di esposizione e sensibilità dobbiamo lasciarci guidare dall’esperienza per ottenere la fotografia che abbiamo in mente.
Le fotocamere attuali, ovviamente, consentono regolazioni più precise di uno stop. Sono infatti possibili (basta selezionarne la relativa opzione dal menù) variazioni sia dei tempi che dei diaframmi che delle sensibilità a passi di 1/2 stop o di 1/3 di stop, per calibrare davvero con la massima precisione l’esposizione. Per fare un esempio, oltre al diaframma f/2,8 e al diaframma f/4, distanziati di uno stop, possiamo selezionare (se abbiamo impostato la variazione a passi di 1/3 di stop) anche i valori f/3,2 ed f/3,5. In tal caso, la ghiera che ruotiamo per scegliere i diaframmi, ad ogni scatto apporterà una modifica di 1/3 di stop. I valori che selezioniamo sono riportati nel mirino della fotocamera, come mostra l’immagine in basso:
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Nel mirino di una reflex troviamo le indicazioni relative al diaframma, al tempo di esposizione e alla sensibilità impostati, ed anche una barra dell'esposizione. Nel mirino della reflex, attraverso la barra dell’esposizione, possiamo anche ricevere delle indicazioni sulla corretta esposizione suggerita dall’esposimetro della fotocamera, e sulle variazioni che stiamo apportando, espresse proprio in termini di stop. Nell’esempio sopra riportato l’indice mobile è allineato con la tacchetta centrale della barra dell’esposizione, stiamo cioè seguendo i suggerimenti dell’esposimetro. Se intendiamo sovraesporre la fotografia di 1 stop e 1/3, non dobbiamo fare altro che allineare (operando su diaframma, tempo di esposizione o sensibilità) l’indice mobile con il valore desiderato, come mostriamo sotto:
Similmente se vogliamo sottoesporre di 2 stop dobbiamo far coincidere l’indice mobile con il valore -2:
Nell’uso pratico in ambito fotografico si usa sia il termine “Stop” che il termine “EV”, pur trattandosi di due concetti diversi.
Nel prossimo paragrafo vedremo cosa si intende con l'acronimo EV e perché, all’atto pratico, è possibile usare indifferentemente un termine o l’altro.
Il concetto di EV (valore di esposizione o valore esposimetrico) in fotografia In ambito fotografico si usa l’acronimo EV per indicare il Valore di esposizione (exposition value), che è una unità di misura della intensità luminosa espressa in funzione delle diverse possibili combinazioni della coppia tempo/diaframma. Questa grandezza fu elaborata da un costruttore di otturatori fotografici tedesco, Friedrich Deckel, attorno al 1950, proprio al fine di riassumere in un unico valore le diverse coppie tempo/diaframma possibili, e facilitare così la vita dei fotografi. Il Valore di esposizione è riferito alla sensibilità di 100 ISO ed è definito con la seguente formula, dove A è la l’apertura del diaframma mentre T è il tempo di esposizione:
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La formula che definisce il valore di esposizione.
Un medesimo valore EV si può esprimere con diverse coppie tempo/diaframma. Per esempio, se impostiamo un diaframma f/1 e un tempo di 1 secondo avremo un EV=0. Ma EV=0 sarà dato anche da f/1,4 e tempo di 2 sec., da f/2 e tempo di 4 sec., da f/2,8 e tempo di 8 sec. e così via… come mostra la seguente tabella dei valori di esposizione EV per una sensibilità di 100 ISO:
Apertura di diaframma (f/) Tempo (secondi)
1
1,4
2
2,8
4
5,6
8
11 16 22 32 45
60
-6
-5
-4
-3
-2
-1
0
1
2
3
4
5
30
-5
-4
-3
-2
-1
0
1
2
3
4
5
6
15
-4
-3
-2
-1
0
1
2
3
4
5
6
7
8
-3
-2
-1
0
1
2
3
4
5
6
7
8
4
-2
-1
0
1
2
3
4
5
6
7
8
9
2
-1
0
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
1
0
1
2
3
4
5
6
7
8
9
1/2
1
2
3
4
5
6
7
8
9
1/4
2
3
4
5
6
7
8
9
1/8
3
4
5
6
7
8
9
1/16
4
5
6
7
8
9
1/30
5
6
7
8
9
1/60
6
7
8
9
1/125
7
8
9
1/250
8
9
1/500
9
10 11
10 11 12
10 11 12 13
10 11 12 13 14
10 11 12 13 14 15
10 11 12 13 14 15 16
10 11 12 13 14 15 16 17
10 11 12 13 14 15 16 17 18
10 11 12 13 14 15 16 17 18 19
10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20
1/1000
10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21
1/2000
11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22
1/4000
12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23
1/8000
13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 Valori di esposizione per una sensibilità di 100 ISO.
La tabella mostra i Valori di esposizione compresi tra -6EV e 13EV con le relative coppie tempo diaframma. Cosa significa questa tabella? Facciamo un esempio. Una scena ha una luminosità di 8 EV. Per ottenere una fotografia correttamente esposta potremo scegliere le seguenti coppie tempo/diaframma: 1/250 sec. – f/1; 1/125 sec. – f/1,4; 1/60 sec. – f/2;
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1/30 sec. – f/2,8; 1/15 sec. – f/4 e così via… Questo ovviamente non significa che qualsiasi coppia impostiamo otterremo la medesima foto. Impostando coppie tempo/diaframma diverse otterremo foto diverse, ma tutte correttamente esposte . Bisogna ricordare che il Valore di esposizione rappresenta una effettiva unità di misura della luminosità presente in una scena. Ad esempio il valore EV=0 corrisponde a 2,5 Lux (unità di misura del flusso luminoso che incide sull’unità di area, accettato dal Sistema Internazionale). Questo significa che una scena che ha flusso luminoso per unità di area di 2,5 Lux (corrispondente a 0 EV) potrà essere correttamente esposta utilizzando un obiettivo con diaframma aperto a f/1 e tempo di esposizione di 1 secondo utilizzando una sensibilità di 100 ISO. Bisogna evidenziare che ogni aumento o diminuzione di 1 EV significa che la scena o il soggetto riceve rispettivamente il doppio o la metà della luce. Questo fa sì che, pur non essendo la stessa cosa (in quanto il valore EV rappresenta l’effettiva luminosità presente nella scena, mentre la parola “stop” si riferisce alla luce che raggiunge il sensore in base ai parametri impostati dal fotografo) spesso in fotografia l’espressione EV è usata come sinonimo di “stop” e, all’atto pratico, non cambia nulla.
Tra gli indicatori visibili nel mirino di una reflex vi è la scala della corretta esposizione che ci dice se i valori di apertura di diaframma e tempo di scatto impostati ci permettono di ottenere un'esposizione in linea con la luminosità della scena rilevata dall'esposimetro o se se ne discostano, e di quanto, in termini di EV o di "stop".
Alla luce di quanto detto sopra, però, e solo per amor di precisione, è bene puntualizzare che quando si parla della luminosità di una scena, bisognerebbe usare il termine EV, mentre quando si parla di correzioni o impostazioni apportate dal fotografo su diaframma, tempo di esposizione o sensibilità, bisognerebbe parlare di “stop”. Per esempio sarebbe più corretto dire che “una scena presenta una variazione di luminosità tra luci e ombre di 7 EV” (e non di 7 stop), mentre, al contrario, sarebbe più corretto dire che in una foto si è apportata una “correzione di + 2 stop” (e non di + 2 EV).
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Capitolo 5 – I controlli sulla fotocamera In questo capitolo spiegheremo quali sono e come si utilizzano i principali comandi presenti sulle fotocamere.
La ghiera delle modalità di scatto La ghiera delle modalità di scatto (o ghiera dei modi) è presente su quasi tutte le fotocamere reflex e mirrorless (anche se ultimamente, specie su queste ultime, tende ad essere sostituita da opzioni accessibili dal menu), ed è forse il comando più importante della fotocamera in quanto consente di impostare le modalità di esposizione, cioè il modo in cui verranno determinati, dal fotografo o dalla fotocamera, apertura del diaframma, tempo di esposizione e sensibilità, le tre componenti essenziali dell triangolo dell’esposizione.
Le ghiere dei modi sono un po’ diverse a seconda del costruttore e del modello di fotocamera, ma le opzioni selezionabili e i simboli che le contrassegnano, sono abbastanza simili e quasi sempre molto intuitivi. Per questo tutorial faremo riferimento alla ghiera dei modi di una Canon 650d, ma qualsiasi fotocamera abbiate le opzioni sono molto simili. Fate comunque riferimento al manuale di istruzioni, dove tutte le modalità di esposizione selezionabili mediante la ghiera sono riportate e illustrate. La ghiera dei modi può essere sostituita, su alcuni modelli, da opzioni di menu o da tasti funzione. Come funziona la ghiera dei modi Sulla ghiera dei modi sono riportate delle lettere o dei simboli grafici che rappresentano le diverse modalità di esposizione. Per selezionarli basta ruotare la ghiera fino ad allineare il simbolo che rappresenta il modo prescelto ad una tacchetta di riferimento. Alcune ghiere possono avere un fermo di sicurezza, ad esempio un bottoncino da premere per sbloccarle. Le diverse modalità di esposizione Modalità manuale [M]
Nelle fotocamere il simbolo [M] rappresenta la modalità manuale. Selezionando questa opzione il fotografo dovrà impostare manualmente, facendosi aiutare dalla scala dell’esposimetro presente nel mirino, sia l’apertura del diaframma che il tempo di esposizione. Si veda il paragrafo dedicato alla modalità manuale. Naturalmente il fotografo sceglierà anche la sensibilità ISO. Questa modalità viene usata dai fotografi che vogliono il completo controllo sull’esposizione della scena.
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Modalità a priorità ai diaframmi [Av]
Utilizzando la modalità [Av], cioè la priorità ai diaframmi, il fotografo seleziona l’apertura di diaframma, mentre la fotocamera abbina al diaframma scelto un tempo di scatto adeguato a fornire la corretta esposizione (si veda il tutorial sul Phototutorial Come impostare i diaframmi). La priorità ai diaframmi è molto utile quando si desidera avere il pieno controllo sulla profondità di campo ed è sicuramente una delle modalità di esposizione più utilizzate dai fotografi. Il fotografo potrà decidere se affidare la scelta della sensibilità alla fotocamera, impostando da menu AUTO ISO, o se impostarla personalmente. Naturalmente in questa modalità sono attive anche le funzioni di compensazione dell’esposizione e di bracketing automatico. Le Nikon utilizzano per questa modalità il simbolo [A]
La ghiera dei modi di una Nikon D3200.
Priorità ai tempi [Tv]
Scegliendo la priorità ai tempi [Tv] il fotografo si riserva il controllo sul tempo di scatto mentre la fotocamera si occuperà di abbinare al tempo selezionato un’apertura di diaframma opportuna a garantire la corretta esposizione. Questa modalità si sceglie ogni qual volta l’utilizzo di un particolare tempo di scatto diventa un parametro importante per la riuscita della foto. Ad esempio, se vogliamo congelare l’azione di un atleta che corre, imposteremo un tempo rapido, almeno 1/500 di secondo, mentre, nella stessa situazione, se vogliamo ottenere un effetto panning imposteremo un tempo di 1/30 di secondo o meno. Utilizzando questa modalità il fotografo deve preoccuparsi solo di impostare il tempo di scatto che gli consentirà di ottenere l’effetto voluto, al resto penserà la fotocamera. Naturalmente il fotografo potrà anche decidere se impostare la sensibilità ISO, o lasciare la scelta agli automatismi della macchina fotografica. Inoltre potrà usare le funzioni di compensazione dell’esposizione e di bracketing automatico. Sulle fotocamere Nikon la modalità priorità ai tempi è indicata con il simbolo [S].
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Modalità [A+]
Selezionando Auto o Full-auto [A+] si imposta la modalità completamente automatica. La fotocamera sceglie da sola diaframma, tempo di scatto e sensibilità. Si veda il paragrafo L’esposizione automatica: modi AUTO e PROGRAM. E’ una modalità adatta ai principianti che non vogliono rischiare di rovinare una fotografia. Se però si desidera imparare a fotografare è bene non utilizzarla. Sulla ghiera della Nikon la stessa modalità è indicata con il simbolo [Auto] e il disegnino della macchina fotografica in verde.
La modalità [P] La modalità [P] o Program, è simile alla modalità Auto, ma consente al fotografo di intervenire sulla coppia tempo-diaframma scelta dalla fotocamera. Ad esempio, se la fotocamera imposta la coppia f/8 – 1/250 di sec., muovendo la ghiera di regolazione il fotografo potrà impostare f/5,6 – 1/500 di sec., oppure f/11 – 1/125 di sec., e così via… Inoltre questa modalità lascia la possibilità di intervenire sulla sensibilità e di utilizzare le funzioni di compensazione dell’esposizione e di bracketing automatico. Si veda il paragrafo L’esposizione automatica: modi AUTO e PROGRAM.
La modalità [No Flash]
La maggior parte delle fotocamere entry level attivano automaticamente il flash quando l’esposimetro percepisce che nella scena da riprendere c’è poca luce. Tuttavia spesso potremmo desiderare di riprendere la scena senza la luce del flash, in luce ambiente, anche con il rischio di mosso, oppure se abbiamo con noi un treppiede. La modalità [No flash] impedisce alla fotocamera di attivare il flash e la costringe ad esporre la foto utilizzando solo la luce presente nell’ambiente.
I modi [Scene]
Sulle ghiere delle fotocamere entry level sono presenti dei simboli che rappresentano le principali situazioni fotografiche che possiamo incontrare, ad esempio ritratto, paesaggio, ripresa a distanza ravvicinata, e così via… Ognuno di questi simboli imposta
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un programma adatto alla situazione di ripresa specifica. Anche questi programmi sono adatti soprattutto ai principianti. Si veda il paragrafo L’esposizione automatica: l’uso dei modi “SCENE”.
Nelle fotocamere ad impostazione più professionale la ghiera dei modi non presenta i modi Scene, dato che un fotografo esperto difficilmente li utilizzerebbe. Troviamo invece spesso altri comandi che sulle fotocamere entry level sono assenti o sono azionabili solo da menu. Facciamo alcuni esempi.
La posa [B]
La posa B (bulb). La posa B consente di mantenere aperto l’otturatore per tutto il tempo deciso dal fotografo. (Per approfondire si veda il tutorial su Phototutorial La posa B). Se non è presente nella ghiera dei modi la posa B sarà comunque selezionabile mediante menu.
I modi user
I modi user. Contrassegnati da una [U] o dalla parola USER, si tratta di modalità di esposizione programmabili dall’utente. Il fotografo sceglierà le opzioni e le modalità operative e le memorizzerà. Quando selezionerà la modalità user la fotocamera si comporterà come richiesto dal fotografo in fase di programmazione.
Non è possibile prendere in esame tutte le opzioni disponibili sulle ghiere delle modalità di esposizione dei diversi produttori di fotocamere. Vi abbiamo indicato le modalità più diffuse e presenti su quasi tutti i modelli. Per eventuali specifiche modalità presenti sulla vostra fotocamera vi invitiamo a fare riferimento al libretto di istruzioni. Quali modalità utilizzare? Se si desidera solo portare a casa una buona foto, senza preoccuparsi troppo, si può tranquillamente ricorrere alla modalità automatica, o ai diversi programmini preimpostati. Se però si vuole davvero imparare a fotografare e si
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desidera avere il pieno controllo sulle proprie fotografie per ottenere esattamente gli effetti desiderati, bisogna imparare ad usare le modalità che consentono di impostare personalmente i parametri. La modalità manuale è ovviamente la più consigliata, ma anche la modalità a priorità dei diaframmi, che consente di controllare la profondità di campo attraverso il diaframma, e la modalità a priorità dei tempi, che consente di selezionare il tempo di esposizione adatto a bloccare l’immagine o ad usare a fini creativi il mosso, possono dare questo pieno controllo sull’immagine e portare ad ottenere esattamente la fotografia desiderata.
La modalità manuale
La modalità manuale permette di selezionare il diaframma e il tempo di esposizione desiderati.
In questa modalità si seleziona manualmente sia il tempo di esposizione che il diaframma. Una volta questo era l'unico modo di operare per ottenere una fotografia: non esistevano i programmi e il fotografo impostava sempre manualmente i due valori. Poi furono inventati i programmi. Il primo, e il più utile, fu quello della priorità ai diaframmi. Il secondo fu quello della priorità ai tempi. La maggior parte dei fotografi esperti di solito utilizza soprattutto l'automatismo a priorità dei diaframmi. Il motivo è semplice. Assegnando la priorità ai diaframmi è facile controllare la profondità di campo . Tuttavia è importante imparare ad utilizzare la modalità completamente manuale. Questo per due motivi. Il primo è che esercitandosi a scattare foto in manuale si riesce a percepire meglio il funzionamento dell’accoppiata base della fotografia: quella tempo/diaframma. In secondo luogo il saper operare manualmente ci permette di ottenere esattamente la fotografia che desideriamo, non necessariamente quella che ci suggerisce l’automatismo della fotocamera. Operate in questo modo. Posizionate la ghiera dei modi su [M] (il simbolo che indica l’esposizione manuale). Selezionate il diaframma desiderato. Una volta scelto il diaframma, operate con la ghiera dei tempi lasciandovi guidare dalla scala dell’esposizione o dal valore numerico che comprare nel monitor superiore della fotocamera e/o nel mirino. L’esposizione corretta la si avrà quando la scala dell’esposizione, presente sul display superiore e/o nel mirino avrà raggiunto il valore centrale. Il valore di sovraesposizione o sottoesposizione può essere indicato da un numero (si veda la foto seguente).
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1: Impostare la ghiera dei modi su M 2: Ghiera di regolazione dei diaframmi 3: Ghiera di regolazione dei tempi. In realtà solo i modelli professionali hanno la seconda ghiera, quella per regolare i tempi. Gli altri modelli utilizzano una sola ghiera per regolare sia i diaframmi che i tempi (si veda la foto 5). Di solito i tempi si regolano premendo un pulsante apposito mentre si ruota l’unica ghiera prevista 4: Il tempo diaframma selezionato 5: Il tempo di esposizione selezionato 6: Il segnale di corretta esposizione (in questo caso il valore indicato + 0,7 EV ci indica che avremo una sovraesposizione di 0.7 EV, per raggiungere il valore corretto dovremo variare il diaframma o il tempo di esposizione fino a che il valore indicato non sarà 0.0).
Come già ricordato, le reflex entry level hanno di solito una sola ghiera per regolare tanto i diaframmi che i tempi: qui sotto una Canon 550D.
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La ghiera dei modi di una Canon 550D.
1: Ghiera di regolazione dei tempi e dei diaframmi 2: Ghiera di impostazione dei modi: sono visibili i diversi programmi oltre che le posizioni [Av] ed [M] di cui parliamo in questo articolo. Con le bridge la modalità operativa è praticamente la stessa.
Ghiera dei modi e rotella di regolazione tempi/diaframmi su una “bridge” Fujifilm S7000.
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1: la ghiera di selezione dei modi 2: la ghiera di selezione di tempi e diaframmi.
L’esposizione automatica: modi AUTO e PROGRAM Sulla ghiera dei modi di molte macchine fotografiche sia compatte che reflex sono disponibili molte modalità d’esposizione. In questo tutorial ne prenderemo in considerazione due: “AUTO” e “PROGRAM”. Il modo “AUTO”, identificato in genere dall’icona di una macchina verde o dalla scritta “AUTO” sempre colorata di verde, è la modalità completamente automatica. Quando è impostata su questa posizione la macchina non solo gestisce automaticamente l’esposizione, ma sceglie anche la sensibilità da usare, e se usare o meno il flash. Su alcune fotocamere quando si usa questa modalità, la macchina cerca di capire che tipo di soggetto si sta fotografando e sceglie in automatico la coppia tempo-diaframma che secondo la sua programmazione è più adatta a quella foto.
Ghiera dei modi di una reflex impostata sul modo “AUTO”. Il modo “PROGRAM” lavora in modo simile a quello “AUTO” per quanto riguarda l’esposizione, selezionando in automatico la coppia tempo-diaframma migliore secondo la sua programmazione, ma lascia al fotografo la facoltà di scegliere la sensibilità da usare e la gestione del flash (che, volendo, può comunque essere lasciata in automatico anche in questo modo).
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Ghiera dei modi di una compatta impostata su “PROGRAM”. Detto questo, c’è da aggiungere che, anche se per un principiante (che ancora non ha molta dimestichezza con i modi a priorità di apertura o di tempo) fotografare in questo modo può essere semplice e veloce, per chi vuole imparare a fotografare sarebbe meglio evitare l’uso di questi modi. Il motivo è semplice: usandoli lasceremo che sia la fotocamera a decidere, in base ai suoi parametri preimpostati, quale diaframma e quale tempo utilizzare e non faremo lo sforzo di capire perché in un dato caso è meglio utilizzare una determinata coppia tempo diaframma piuttosto che un’altra. Inoltre la foto che otterremo verrà fuori così come la macchina ha deciso e non come noi l’abbiamo vista. Per questi motivi, se la nostra macchina ne ha la possibilità, è bene imparare a fotografare usando la priorità di tempo o di apertura.
L’esposizione automatica: l’uso dei modi “SCENE” Su tutte le compatte e su molte reflex, entry level e non, sono presenti sulla ghiera dei modi un numero variabile di simboli (su diverse macchine che non hanno la ghiera dei modi, o che ne hanno una semplificata, questi programmi sono accessibili tramite il menu). Questi modi non sono altro che variazioni preimpostate del modo PROGRAM. Mentre in quest’ultimo la macchina cerca di esporre nel modo migliore per una situazione generica, nei vari programmi “SCENE” la macchina esporrà tenendo conto della situazione scelta. Diciamo subito che su di una reflex questi modi sono di scarsa utilità, o meglio, possono essere utili per un neofita, ma il loro uso sarà progressivamente abbandonato man mano che si acquisiranno maggiori competenze fotografiche. Sulle reflex infatti possiamo personalizzare la scelta di tutti i parametri di ripresa, dal tempo di esposizione al diaframma al bilanciamento del bianco. Al contrario, su di una fotocamera compatta, che non ha la possibilità di personalizzare tali parametri, questi modi possono essere utili per forzare la macchina a esporre nel modo voluto. Vediamo alcuni di questi modi e come possiamo utilizzarli.
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RITRATTO. Imposta un diaframma molto aperto.* Su alcune macchine regola anche nitidezza e resa dei colori per rendere meglio l’incarnato del viso. Usandolo forziamo la macchina a scegliere diaframmi aperti, utile per staccare il soggetto dallo sfondo e per ottenere fotografie con una resa più morbida dei dettagli. PAESAGGIO. Imposta un diaframma molto chiuso.* Su alcune macchine aumenta la saturazione e il contrasto per far risaltare i dettagli. Da usare quando abbiamo bisogno della massima profondità di campo possibile, e di contrasto e saturazione elevati per esaltare il colore del cielo e della vegetazione e far risaltare i dettagli. SOGGETTI IN MOVIMENTO. Imposta il tempo più rapido possibile. Utile quando vogliamo forzare la macchina a usare tempi rapidi. Ad esempio, per congelare il movimento di una persona che corre o di un’auto, una bicicletta e via dicendo. RITRATTO NOTTURNO. Usa il flash insieme a tempi di posa lunghi. Si usa quando vogliamo fare ritratti notturni. Il tempo lento permette di evitare di avere lo sfondo completamente nero, mentre il colpo di flash espone correttamente il soggetto. Impostando questo modo bisogna usare il treppiede per evitare foto mosse o “strisciate”. Questi sono i programmi principali. Alcune macchine ne hanno molti di più, per questi ultimi fate riferimento al manuale d’istruzioni della vostra fotocamera. In genere non sono particolarmente utili, in quanto sono tutte lievi varianti di quelli principali. *Questo è un aspetto molto relativo su di una compatta, vista la grande profondità di campo tipica di queste macchine con sensore di piccole dimensioni.
L’esposimetro della fotocamera L’esposimetro è un dispositivo, presente in tutte le fotocamere, che legge la quantità di luce presente nella scena e che ci aiuta, quindi, ad ottenere la corretta esposizione. Esistono in commercio anche esposimetri “esterni”, ma essi sono utilizzati oggigiorno solamente dai professionisti e dai fotoamatori più raffinati.
Un esposimetro esterno Sekonic. L’esposimetro esterno va posto vicino al soggetto per misurare la luce che cade sullo stesso. Gli esposimetri possono essere di due tipi: a luce incidente o a luce riflessa. Quelli a luce incidente leggono, attraverso un sensore, direttamente la luce che cade sul soggetto. Gli esposimetri a luce riflessa, invece, leggono la luce che viene riflessa dal soggetto.
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Gli esposimetri interni delle fotocamere sono esclusivamente del tipo a luce riflessa. Leggono attraverso l’obiettivo (di qui la denominazione TTL, che significa “through the lens”) la luce che viene riflessa dal soggetto. Questo tipo di lettura ha il vantaggio di tener conto di eventuali filtri, che assorbono parte della luce, montati sull’obiettivo. Di contro ha lo svantaggio, essendo questi esposimetri tarati sul cosiddetto “grigio medio”, di falsare almeno in parte la lettura su soggetti neri o bianchi. Gli esposimetri del tipo “a luce incidente”, invece (quelli “esterni”), non hanno questo problema in quanto misurano la luce che cade sul soggetto, non quella riflessa dallo stesso. Però bisogna ricordarsi, se si usano filtri montati sull’obiettivo, di tenere conto del loro fattore di assorbimento. L’esposimetro interno Se abbiamo una reflex possiamo utilizzare l’esposimetro in due modi: possiamo affidargli in toto ogni decisione riguardante l’esposizione, oppure possiamo assegnargli solo la funzione di guidarci nella scelta della giusta coppia tempo/diaframma. Lasciamo all’esposimetro ogni decisione relativa all’esposizione quando: 1) lavoriamo in modalità Program (utilizzando la funzione denominata [P]), o utilizziamo i cosiddetti programmi preimpostati (i cosiddetti modi “scene” come ritratto, paesaggi, notturno, ecc…). In questi casi sarà l’esposimetro, ovviamente supportato dall’elaboratore della fotocamera, a decidere il tempo di esposizione e il diaframma (si vedano i paragrafi: L’esposizione automatica: modi AUTO e PROGRAM e L’esposizione automatica: l’uso dei modi “SCENE”). Ricordiamo comunque che quando stiamo utilizzando queste modalità (che su molte compatte sono le uniche disponibili), possiamo sempre apportare una correzione manuale all’esposizione attraverso l’apposito tasto, o intervenendo da menu (si veda il paragrafo: La compensazione dell’esposizione); 2) utilizziamo gli automatismi parziali cioè la priorità dei tempi [Av], o la priorità dei diaframmi[Tv], in quanto, una volta impostato manualmente uno dei due parametri, l’esposimetro seleziona l’altro in modo da ottenere la giusta esposizione. Naturalmente anche in questo caso possiamo intervenire sul valore scelto dall’esposimetro utilizzando il tasto di correzione dell’esposizione. Utilizziamo, invece, l’esposimetro della fotocamera solo come guida quando operiamo in modalità manuale [M] (si veda il paragrafo La modalità manuale). In questa modalità impostiamo noi sia il diaframma che il tempo di esposizione, ma nel mirino
appare una scala come questa
che ci permette di valutare se stiamo impostando una
coppia tempo/diaframma corretta. Nel mirino si vede un indicatore mobile che indica lo scostamento tra il valore di esposizione ottenuto con la coppia tempo/diaframma scelto da noi, e il valore percepito come corretto dall’esposimetro. Quando l'indicatore mobile è allineato con il valore zero della scala, come evidenziato nella seguente figura
siamo in linea con i suggerimenti dell’esposimetro. Quando invece ci discostiamo dal valore zero, stiamo impostando una sovraesposizione o una sottoesposizione.
Sottoesposizione di due stop.
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Sovraesposizione di + 1,3 stop.
Gli esposimetri delle moderne reflex possono misurare la luce in tre modi:
Sulle reflex è possibile selezionare tre modalità di misurazione della luce: spot, prevalenza al centro, o matrix.
1)
Misurazione spot:
in questa modalità la luminosità è misurata solo in un’area limitata al centro del mirino.
2)
Misurazione ponderata al centro:
la misurazione avverrà dando una certa prevalenza all’area centrale del fotogramma, ma prenderà in considerazione comunque tutta l’area inquadrata nel mirino.
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3)
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Misurazione matrix o multi-zona:
l’area del mirino viene divisa in un gran numero di piccoli settori e l’esposimetro rileva l’intensità della luce in ognuno di essi. Le diverse letture sono poi raffrontate con una serie di situazioni memorizzate nel computer della fotocamera che, in base all’analisi risultante, seleziona o suggerisce la corretta coppia tempo/diaframma.
Quale modalità usare? Diciamo subito che in una situazione di luce facile, cioè abbastanza uniforme, utilizzando le diverse modalità di esposizione probabilmente non riscontreremo differenze. In situazioni di luce difficile, invece, la scelta del corretto metodo di misurazione, può fare la differenza tra una foto buona e una da cestinare. La luce difficile è quella non uniforme, dove cioè le diverse aree del fotogramma sono illuminate diversamente. Tipiche sono quelle situazioni nelle quali il soggetto riflette una quantità di luce molto maggiore o molto minore rispetto allo sfondo, magari nel controluce.
Per esemplificare il problema riportiamo una situazione particolare: si doveva riprendere una abazia di colore bianco, peraltro in quel momento illuminata direttamente dal sole, comprendendo anche il paesaggio intorno, boscoso, e il primo piano, che era piuttosto in ombra. Una situazione che presentava una differenza di illuminazione, tra le diverse aree del fotogramma, di almeno 8 stop tra le aree illuminate e quelle in ombra… Abbiamo scattato tre fotografie, con i tre diversi sistemi di misurazione, badando sempre di puntare, al momento della misurazione, il centro del mirino sull’abazia bianca. Ecco i risultati: Misurazione spot
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Misurazione dell’esposizione in modalità spot. Dati di scatto: Apertura diaframma f/8, Sensibilità ISO 400, Tempo di scatto 1/4000 sec. Misurazione prevalenza al centro
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Misurazione dell’esposizione in modalità media ponderata. Dati di scatto: Apertura diaframma f/8, Sensibilità ISO 400, Tempo di scatto 1/250 sec.
Misurazione matrix
Misurazione dell’esposizione in modalità matrix. Dati di scatto: Apertura diaframma f/8, Sensibilità ISO 400, Tempo di scatto 1/250 sec. Guardando i risultati ottenuti si possono fare alcune considerazioni: 1) La lettura spot, con la zona centrale del mirino puntata sulla abazia bianca, ha effettuato la misurazione esclusivamente in quella piccola area. L’esposimetro ha selezionato un tempo di esposizione di 1/4000 di secondo. Il bianco della abazia ha generato una leggera sottoesposizione sulla stessa. Il resto della foto è notevolmente sottoesposto, in quanto tutte le parti della scena erano meno illuminate rispetto all’abazia, in particolare il primo piano. 2) La lettura matrix e la lettura a prevalenza centrale, in questo caso (ma capita spesso) hanno portato la fotocamera a fare le medesime scelte. Il risultato è una foto che in generale appare molto meglio bilanciata di quella effettuata con lettura spot, ma con un grosso difetto: l’abazia è molto sovraesposta. In realtà le differenze di luce nella scena erano così ampie da impedire di ottenere una illuminazione corretta per tutti gli elementi presenti. Quale foto è migliore? Dipende esclusivamente dal risultato che si desiderava ottenere. Pur essendo molto piccola l’abazia bianca tende inevitabilmente ad attirare lo sguardo dell’osservatore, e la sua sovraesposizione (come nelle foto 2 e 3) non è certo gradevole. D’altra parte anche una foto che presenti l’abazia correttamente esposta, ma circondata da un paesaggio sottoesposto non è molto bella. In realtà, si sarebbe dovuto scattare questa foto in una situazione di luce più equilibrata. A scopo didattico però, nell’ambito un corso di fotografia, queste immagini sono molto utili perché permettono di riflettere su come si comportano le diverse modalità di esposizione e su come operare di conseguenza. Quando usare la modalità matrix 151
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La modalità matrix cerca di indicare un’esposizione che permetta di riprodurre nel migliore dei modi la maggior parte della scena inquadrata. Per questo motivo va bene essenzialmente quando la luce è abbastanza uniforme e non ci sono forti differenze tra il soggetto e lo sfondo. Questo significa che va bene per la maggior parte delle fotografie, ma se ci si trova in una situazione particolare, come quella illustrata sopra, sarà difficile ottenere una esposizione corretta. In altre parole uno sfondo molto scuro potrebbe portare alla sovraesposizione del soggetto principale, specialmente se questo occupa una parte minoritaria del fotogramma e, viceversa, uno sfondo molto chiaro (come avviene nel controluce), potrebbe portare alla sottoesposizione del soggetto principale. Inoltre, anche in una situazione di luce semplice, siccome lo scopo della modalità matrix è quella di trovare una esposizione “intermedia” che vada bene per tutta la scena inquadrata, il rischio è sempre quello di “appiattire” le foto, salvando sia le luci che le ombre, ma finendo per sacrificare quei giochi di luci ed ombre che spesso rendono una fotografia interessante. Quando usare la modalità prevalenza al centro La lettura con prevalenza al centro, o media ponderata, è una modalità di esposizione diventata quasi del tutto inutile oggi che i sistemi di misurazione matrix sono diventati molto affidabili. Di solito, nella migliore delle ipotesi, tale modalità darà risultati paragonabili a quelli ottenibili con la matrix. Ad ogni modo la modalità di lettura con prevalenza al centro può dare buoni risultati quando il soggetto si trova nel centro del fotogramma e ne occupa un’area importante. Sia la modalità matrix che quella con prevalenza al centro sono indicate per ottenere un’esposizione corretta della scena, almeno nella maggior parte dei casi, ma non per una interpretazione creativa della scena. Quando usare la modalità spot La modalità di lettura esposimetrica spot è quella più affidabile e, se si desidera imparare a fotografare, sarebbe bene imparare ad utilizzare soprattutto questa. In tale modalità è possibile calcolare l’esposizione esclusivamente sul soggetto o sulla parte del soggetto che ci interessa, escludendo dalla lettura tutto il resto del fotogramma. In tal modo avremo la certezza che il soggetto della nostra foto sarà correttamente esposto. Questo non significa che utilizzando la modalità spot non possiamo tener conto anche di aree marginali del fotogramma. Anzi, con la lettura spot, se operiamo in manuale, possiamo leggere l’esposizione su tutte le aree del fotogramma che ci interessano, capire quali differenze ci sono in termini di stop, e decidere in piena autonomia quali dati di scatto impostare. Abbiamo cioè il pieno controllo del processo di esposizione. Un esercizio davvero utile per chi sta imparando a fotografare. La modalità spot permette di ottenere la corretta esposizione in alcune situazioni di luce non semplici, come ad esempio il controluce, oppure un soggetto bianco su sfondo in ombra, oppure un soggetto scuro su sfondo molto luminoso, un raggio di luce che filtra tra i rami, il tramonto, ecc… Facciamo un paio di esempi: Soggetto bianco su sfondo scuro
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Una situazione difficile per l’esposimetro: la garzetta bianca con uno sfondo in ombra… La lettura matrix e quella media ponderata avrebbero inevitabilmente portato alla sovraesposizione dell’uccello. La misurazione spot, effettuata sul soggetto bianco, ha permesso di risolvere la situazione.
Ritratto in controluce
Ritratto in controluce. La misurazione con prevalenza al centro e, sebbene gli algoritmi siano sempre più sofisticati, anche quella matrix, potrebbero portare ad una sottoesposizione del soggetto. La lettura spot invece, misurando l’esposizione solo sul soggetto permette di ottenere la corretta esposizione.
La compensazione dell’esposizione
Sia sulle reflex che sulla maggior parte delle compatte è presente un tasto estremamente utile: il comando della compensazione dell’esposizione.
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Imparare ad usarlo è fondamentale perché permette di bilanciare gli errori dell’esposimetro. Innanzitutto bisogna chiarire che l’esposimetro della fotocamera non è infallibile. Gli esposimetri sono tarati, infatti, sul cosiddetto “grigio medio”, un grigio che riflette il 18% della luce.
Il grigio medio o grigio 18%. Tale taratura sul grigio medio fa sì che la lettura della luce effettuata dalla fotocamera sia corretta nella maggior parte delle situazioni. Purtroppo però quando l’esposimetro è puntato su qualcosa di bianco, o di nero, la lettura diventa inaffidabile. Il tentativo, effettuato dall’esposimetro di “riportare” il nero al grigio medio, infatti, porta la fotocamera a sovraesporre la foto, cioè a riprendere la scena in maniera troppo chiara. Viceversa, se la lettura viene fatta su una superficie bianca, la fotocamera potrebbe sottoesporre la scena, cioè renderla troppo scura. Per esemplificare quanto detto si è ripresa la medesima scena, una serie di libri, puntando prima l’esposimetro verso un libro bianco, poi verso un libro nero, posti l’uno di fianco all’altro. I risultati esemplificano bene come l’esposimetro offra due letture diverse della scena, entrambe sbagliate.
FOTO A. Nello scattare questa fotografia l'esposimetro è stato puntato verso il libro bianco. Questo ha provocato un'evidente sottoesposizione. La fotografia riportata sopra, è stata scattata puntando l’esposimetro direttamente sul libro bianco. Questo ha provocato una evidente sottoesposizione. Per rendersene conto basta osservare l’istogramma dei livelli, chiaramente sbilanciato a sinistra. L’area gravemente sottoesposta, fino alla perdita del segnale, è indicata anche da quella spruzzata di giallo che si vede in alto a destra. In molte fotocamere, infatti, è possibile attivare una funzione che segnala le zone di di grave sovraesposizione e sottoesposizione, indicate rispettivamente con il colore rosso e il colore giallo lampeggianti.
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FOTO B. Nello scattare questa fotografia l'esposimetro è stato puntato verso il libro nero. Questo ha provocato un'evidente sovraesposizione. La fotografia riportata sopra è stata scattata invece puntando l’esposimetro verso il libro nero. Questo ha causato una netta sovraesposizione, evidente dalla lettura dell’istogramma, che segnala un’ampia zona sovraesposta a destra, e dal rosso lampeggiante che segnala la zona gravemente “bruciata”. Come si poteva ovviare? Con un po’ di esperienza e con il comando di compensazione dell’esposizione. L’esperienza ci dirà che l’esposimetro in una determinata situazione sarà sicuramente ingannato. Il comando della compensazione dell’esposizione ci permetterà di intervenire rapidamente. Premuto il pulsante, infatti, si attiverà, nel mirino della fotocamera e sul display esterno (se la nostra reflex ne è dotata), una scala della compensazione dell’esposizione simile a questa:
La scala per la correzione dell'esposizione. L’unità di misura è in “stop” : +1 (“+ 1 stop” o “+ 1 EV”) vuol dire che si è impostata la fotocamera in modo che fornisca un’esposizione alla luce doppia rispetto a quando indicato dall’esposimetro. Ovviamente -1 (“-1 stop” o “-1 EV”) significherebbe che impostiamo un’esposizione che è la metà di quella indicata dall’esposimetro, – 2 un quarto, e così via… La regolazione della compensazione si effettua attraverso una ghiera posta sulla fotocamera, di solito quella che normalmente seleziona il diaframma. Torniamo alle foto dei libri che abbiamo visto prima. Come si poteva intervenire con la compensazione dell’esposizione? Nel primo caso (FOTO A), quello in cui puntando l’esposimetro sul libro bianco abbiamo ottenuto una fotografia sottoesposta, si può impostare una compensazione di +1 stop. Il risultato sarebbe questo:
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FOTO C: impostando la compensazione dell'esposizione a + 1 EV, la scena ripresa nella FOTO A viene esposta correttamente. Nel secondo caso (FOTO B), impostando una compensazione dell’esposizione a -1, la foto viene esposta correttamente:
FOTO D: impostando la compensazione dell'esposizione a + 1 EV, la scena ripresa nella FOTO B viene esposta correttamente. Quando bisogna compensare? Ma quando può capitare di dover compensare l’esposizione? Le situazioni sono tante, ed è difficile prenderle in considerazione tutte. Soffermiamoci però su un caso piuttosto comune: le foto in presenza di un manto nevoso. La presenza della neve, con tutto quel bianco, mette in grave difficoltà l’esposimetro della fotocamera, portando spesso, se ci si affida all’automatismo, ad ottenere foto sottoesposte, come nel caso seguente:
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La presenza della neve ha ingannato l'esposimetro, portando ad una forte sottoesposizione. In una immagine scattata poco dopo il fotografo ha operato apportando una compensazione dell’esposizione di +0,7stop, ottenendo un’immagine decisamente migliore:
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Una correzione dell'esposizione di + 0,7 EV ha portato ad ottenere una fotografia corretta. Se invece abbiamo un soggetto scuro l’esposimetro della fotocamera può essere ingannato in senso contrario, ingenerando una sovraesposizione. È il caso della foto sottostante, nel quale il nero del gatta ha indotto la macchina fotografica a sovraesporre:
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Il colore nero del gattino ha ingannato l'esposimetro della fotocamera portando ad una sovraesposizione. Per ottenere una foto correttamente esposta si può operare sul comando della compensazione dell’esposizione, apportando una leggera sottoesposizione, in questo caso -0,3 EV si è dimostrato un valore sufficiente:
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Operando una compensazione dell'esposizione si è impostato un valore di -0,3 EV, ottenendo una fotografia correttamente esposta. Su quali parametri interviene la compensazione dell’esposizione? Dipende dal tipo di ripresa impostato. Se si sta operando in priorità ai diaframmi [Av], la compensazione interverrà sul tempo di esposizione. Il motivo è semplice. Se si opera in priorità dei diaframmi la fotocamera presume che il parametro fondamentale che interessa al fotografo in quel momento è il diaframma. Lo si lascia decidere quindi al fotografo e la compensazione interviene sui tempi. Viceversa, se si opera in priorità ai tempi [Tv], la compensazione interverrà sui diaframmi. Se la fotocamera è in program [P], la compensazione interviene sia sui tempi che sui diaframmi. Le fotocamere più sofisticate permettono di intervenire, volendo, anche sul parametro della sensibilità.
Il bracketing La tecnica del bracketing consiste nell’effettuare una serie di scatti variando i parametri dell’esposizione. In genere si eseguono tre scatti “a forcella”: uno per il valore che l’esposimetro suggerisce come corretto, uno in sottoesposizione, l’altro in sovraesposizione. A cosa serve tale tecnica? A trovare l’esposizione ottimale anche in situazioni difficili che possono ingannare l’esposimetro, oppure quando si è in dubbio sul giusto valore dell’esposizione o su come interpretare “fotograficamente” una scena. Le fotocamere reflex attuali dispongono di una funzione di bracketing automatico molto utile: si possono impostare valori di compensazione dell’esposizione compresi tra +2 e -2 EV (alcuni modelli arrivano a ± 3EV) a passi di 1/3 o di ½ EV.
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Il comando del bracketing automatico è di solito raggiungibile dal menu oppure dalle funzioni personalizzate della fotocamera, nell’area dedicata alla modalità di scatto, laddove si seleziona – per intenderci – lo scatto singolo o la raffica o l’autoscatto, ecc…
Il simbolo del bracketing automatico: la funzione è selezionabile nel menu "modalità di scatto". Si vedono infatti i simboli dello scatto singolo, dello scatto continuo, dello scatto con telecomando, ecc... Una volta selezionato il comando dobbiamo scegliere, in termini di EV – o stop – , la “distanza” tra gli scatti: nell’esempio sotto riportato è stato selezionato un valore di ± 1 EV:
Abbiamo selezionato la modalità bracketing automatico, la fotocamera eseguirà tre scatti, "distanziati" di 1 EV l'uno dall'altro. Il risultato su una fotografia potrà essere simile a quello delle foto esemplificative sotto riportate:
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La fotografia effettuata con i valori suggeriti dall'esposimetro.
Lo scatto effettuato a + 1 EV: una sovraesposizione di uno stop.
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Lo scatto effettuato a - 1 EV: una sottoesposizione di uno stop. Alcuni modelli di fotocamera permettono di selezionare anche il numero di fotogrammi, optando per 3, 5 o addirittura 7 fotografie con valori di esposizione differenti. Se ne abbiamo il tempo, e le condizioni di luce non sono di semplice interpretazione, possiamo avvalerci di questa utile funzione. Sceglieremo poi la fotografia che ci convince di più con calma, davanti al monitor del computer. Se utilizziamo un treppiede di fronte ad un soggetto statico, come un paesaggio, potremo in seguito utilizzare i fotogrammi per effettuare una simulazione del filtro grigio ND graduato, oppure per fare un vero e proprio HDR. Avvertenze Lavorando in bracketing, se stiamo fotografando dei paesaggi o eseguendo dei ritratti, conviene utilizzare la fotocamera in priorità dei diaframmi (modalità A o Av). In tal modo la compensazione riguarderà il tempo di esposizione e il diaframma rimarrà costante durante gli scatti garantendo il mantenimento per tutti gli scatti della medesima profondità di campo. Se utilizziamo la fotocamera in modalità program, infatti, la compensazione avverrà tanto sui tempi che sui diaframmi, e ciò provocherà un cambiamento della profondità di campo. Ovviamente se la fotocamera è impostata in priorità dei tempi il bracketing automatico varierà esclusivamente il diaframma. Teniamone conto quando decidiamo di fare un’esposizione a forcella automatica. Alcune fotocamere più dotate di funzioni offrono, oltre al classico bracketing dell’esposizione, anche il bracketing sulla messa a fuoco (cioè tra uno scatto e l’altro viene cambiato il punto di messa a fuoco), sul bilanciamento del bianco, sulla saturazione, sul contrasto, ecc… Insomma ci si può divertire a fare prove di ogni genere. L’utilità effettiva di tali funzioni è però per lo meno dubbia.
L’istogramma dei livelli Se avete una fotocamera digitale vi sarete senz’altro accorti di una funzione particolare: la possibilità di rivedere la foto appena scattata con, in sovrimpressione, l’istogramma dei livelli. Cos’è questo istogramma e a cosa serve? Ebbene, l’istogramma dei livelli indica semplicemente la quantità di pixel presenti nell’immagine per ogni livello di grigio. Si tratta di un diagramma cartesiano nel quale l’asse orizzontale rappresenta i livelli di grigio (da 0 a 255), mentre l’asse verticale rappresenta la quantità di pixel presenti su ciascun livello.
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L’istogramma dei livelli sovrimpresso all’immagine appena scattata sul monitor della fotocamera. Anche se non sempre i valori numerici sono indicati sul monitor della fotocamera, dal punto di vista dell’osservatore, il bordo sinistro dell’istogramma indica il valore di livello di grigio uguale a 0, cioè il nero, il bordo destro indica invece il livello di grigio uguale a 255, cioè il bianco. Pertanto l’istogramma fornisce una rappresentazione del livello di luminosità dell’immagine. Infatti, facendo riferimento all’immagine sopra riportata, il quadrante di sinistra dell’istogramma rappresenta le zone in ombra, il quadrante di destra rappresenta le alte luci, mentre i due quadranti centrali rappresentano i mezzi toni. Anche se non si può generalizzare, in un’immagine ben esposta in genere la maggior parte dei pixel si trova nei due quadranti centrali. L’istogramma pertanto è molto utile per capire se l’immagine appena scattata è correttamente esposta o meno. Per esempio, osservando la fotografia sopra riportata possiamo ricavare le seguenti informazioni: 1) non ci sono aree sovraesposte: infatti se si osserva la parte destra dell’istogramma, si nota che praticamente nella zona delle alte luci non ci sono pixel:
2) non ci sono aree gravemente sottoesposte: infatti la parte di sinistra dell’istogramma, pur presentando evidentemente una gran quantità di pixel nella zona in ombra, non si estende fino al bordo estremo:
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3) nel complesso l’immagine è pertanto abbastanza equilibrata, anche se tendente leggermente alla sottoesposizione, in quanto l’istogramma è comunque chiaramente spostato verso l’area sinistra (c’è da dire che gli esposimetri di molte fotocamere sono tarati per ottenere una resa simile al fine di evitare il rischio di ottenere foto sovraesposte: infatti è molto più facile, in fase di post produzione o di stampa, recuperare una foto leggermente sottoesposta rispetto ad una foto sovraesposta):
L’esempio sopra riportato dimostra come può essere utile saper leggere l’istogramma. Infatti non sempre sul monitor piccolino della fotocamera si possono individuare le aree sottoesposte e sovraesposte dell’immagine, né valutare la stessa immagine con precisione. L’istogramma invece non mente, e con una certa esperienza, se sappiamo leggerlo alla luce della scena che abbiamo ripreso, e dell’effetto fotografico che volevamo ottenere, ci aiuta a valutare con precisione la fotografia appena scattata. Per chiarirci le idee facciamo un altro esempio. Si osservino attentamente le tre immagini sotto riportate:
La foto è sottoesposta: si osservi l’istogramma spostato decisamente sul lato sinistro.
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L’immagine è esposta correttamente: si osservi l’istogramma con la curva “spalmata” su tutti i settori, senza toccare i bordi estremi.
L’immagine è sovraesposta: si osservi l’istogramma spostato decisamente verso destra. Naturalmente la lettura dell’istogramma va fatta alla luce della scena ripresa. A volte, infatti, istogrammi che sembrano sbilanciati, possono invece indicare una scena ripresa correttamente. Facciamo due esempi:
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L’istogramma sembrerebbe rappresentare una foto gravemente sottoesposta. Nella realtà lo sfondo nero era voluto dal fotografo per evidenziare il bel colore verde brillante e la texture della foglia. Pertanto l’immagine è esposta correttamente, nel senso che rispecchia esattamente ciò che il fotografo voleva ottenere. Si osservi peraltro come la parte della curva che rappresenta la foglia sia posizionata nell’area centrale dell’istogramma, a dimostrazione che quest’ultima è correttamente esposta.
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L’istogramma sembrerebbe rappresentare un’immagine gravemente sovraesposta. In realtà invece è stata ripresa durante una tempesta di neve, quindi con vaste aree completamente bianche, che sono chiaramente visualizzate nella parte destra dell’istogramma. Il fotografo ha sfruttato il bianco diffuso per “disegnare” gli elementi che compongono il paesaggio, quasi come se si trattasse di inchiostro nero su foglio bianco. Si osservi la presenza di pixel diffusa lungo l’intera scala tonale rappresentata dall’istogramma. Non si tratta pertanto di una classica foto “bruciata”.
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Capitolo 6 – Approfondiamo qualche concetto tecnico importante Controllare la profondità di campo Il concetto di profondità di campo è fondamentale in fotografia perché il saper controllare perfettamente l’estensione del piano di nitidezza, permette al fotografo di ottenere esattamente l’immagine desiderata e assegnare ad essa una valenza estetica oltre che documentativa. Cerchiamo di comprendere, attraverso questo tutorial, cosa è la profondità di campo (PDC), come incide sull’estetica della fotografia, e quali sono i parametri che la influenzano. Cosa si intende quindi con il termine PDC? Quando con un obiettivo mettiamo a fuoco un punto che si trova su un certo piano, appariranno accettabilmente nitidi anche punti che si trovano davanti e dietro il punto di messa a fuoco. Si crea qui di una sorta di “fascia di nitidezza” che comprende tutto ciò che appare nitido all’osservatore della foto. Questa “fascia di nitidezza” prende il nome di “profondità di campo.
La profondità di campo dipende da un considerevole numero di fattori, tra i quali alcuni sono legati alla percezione dell’osservatore della foto, e quindi difficilmente quantificabili. Ad esempio un osservatore più esperto e smaliziato capterà al primo colpo d’occhio quali sono le zone della fotografia “a fuoco” e quelle “non a fuoco”, mentre un osservatore non particolarmente esperto difficilmente ci farà caso.
Da cosa dipende la profondità di campo? La profondità di campo è legata essenzialmente a tre fattori: 1.la lunghezza focale; 2.il diaframma; 3.la distanza di ripresa.
In questo paragrafo escluderemo le formule matematiche, limitandoci a descrivere come questi tre parametri influenzano la profondità di campo.
Profondità di campo e lunghezza focale La profondità di campo è influenzata principalmente dalla lunghezza focale. Più è elevata la lunghezza focale, minore sarà la profondità di campo. Questo significa che, parlando in generale, i teleobiettivi hanno una ridotta profondità di campo mentre i
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grandangoli hanno una elevata profondità di campo. Attenzione però: la profondità di campo non è legata al concetto di teleobiettivo o di grandangolo ma proprio alla lunghezza focale in sé. Un obiettivo da 100mm per il formato aps-c è un medio-tele, mentre un obiettivo 100mm per banco ottico di grande formato è un grandangolo. Tuttavia a parità di ingrandimento sulla stampa, presenteranno esattamente la stessa profondità di campo. Questo è il motivo per cui le fotocamere compatte e le bridge dotate di sensore piccolissimo presentano sempre una profondità di campo elevatissima. In realtà anche utilizzando lo zoom alla sua focale più lunga, tale focale è effettivamente talmente corta (per una comune compatta siamo intorno ai 20mm) da non permettere di giocare con la profondità di campo, in quanto appare tutto sempre nitido ed è difficilissimo staccare il primo piano dallo sfondo. In effetti, questo è uno dei principali svantaggi delle compatte rispetto alle reflex.
Questa immagine mostra come varia la profondità di campo in funzione della lunghezza focale con obiettivi di diversa focale montati su fotocamera con sensore aps-c utilizzando per tutti il diaframma f/2,8 e la medesima distanza di ripresa.
Dall’osservazione dell’immagine riportata sopra possiamo fare queste considerazioni a beneficio di chi si è avvicinato da poco alla fotografia (si tratta ovviamente di semplificazioni e chiedo pertanto ai più esperti di perdonarmi): 1. Quando si desidera isolare il soggetto dallo sfondo (ad esempio nel ritratto) è meglio utilizzare una focale più lunga.
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2. Quando si vuole avere sia il primo piano che lo sfondo perfettamente nitidi (ad esempio nella fotografia di paesaggio) è meglio usare una focale più corta.
In questa foto l’uso del teleobiettivo (focale 400mm) ha permesso di ottenere una ridotta profondità di campo e quindi di sfocare lo sfondo in modo da dare risalto al soggetto.
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L’uso del grandangolo (focale 12mm) ha permesso di ottenere una grande profondità di campo, tanto che nella foto appare nitido sia il primissimo piano, l’amanita muscaria, sia lo sfondo.
Profondità di campo e diaframma Come abbiamo spiegato nel paragrafo L’uso del diaframma e il controllo della profondità di campo la PDC, a parità di lunghezza focale e di distanza di ripresa, è determinata dal diaframma scelto. Per esemplificare questo possiamo far riferimento alla seguente immagine che mostra come varia la profondità di campo, con un obiettivo di lunghezza focale 50mm, al variare dell’apertura del diaframma:
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L’immagine mostra come varia la profondità di campo al variare del diaframma. Per questo motivo, quando desiderate isolare un soggetto dallo sfondo, come ad esempio nel ritratto, oltre a scegliere una focale lunga, dovete anche usare un diaframma piuttosto aperto.
Profondità di campo e distanza di ripresa Anche la distanza del soggetto ripreso dalla fotocamera ha molta importanza sull’estensione della profondità di campo. A parità di lunghezza focale e di apertura di diaframma, la profondità di campo sarà più elevata se il soggetto è più distante dalla fotocamera.
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Più il soggetto è distante dalla fotocamera, maggiore sarà la profondità di campo nitido.
Questo significa che se desiderate staccare bene il soggetto dallo sfondo dovete essergli abbastanza vicini (compatibilmente con le altre esigenze estetiche).
Calcolare la profondità di campo Abbiamo già visto che saper controllare la profondità di campo è un passaggio indispensabile per chi vuole davvero imparare a fotografare. Dopo aver trattato quali sono i parametri che influenzano la profondità di campo andiamo a considerare, in questo paragrafo, come si fa a calcolare la PDC in ogni situazione di ripresa. Le cose si faranno leggermente più ostiche, ma speriamo di riuscire a semplificarle abbastanza. Cominciamo col dire che non è quasi mai necessario conoscere esattamente quale sarà la PDC che otterremo con determinati parametri di scatto. Nel novantanove per cento dei casi, anzi, basta avere solo un’idea di massima di quale sarà la PDC per scattare in tutta tranquillità. Tuttavia è bene approfondire l’argomento.
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Il primo concetto che dobbiamo chiarire è quello di cerchio di confusione. Il cerchio di confusione La profondità di campo è legata, non solo ai parametri menzionati sopra, ma anche all’ingrandimento della foto su stampa o a monitor. In una stampa di piccole dimensioni, infatti, possono apparire nitidi dei particolari che invece, quando vengono ingranditi, risultano evidentemente sfocati. Per questo motivo nella formula che calcola, sempre approssimativamente, la profondità di campo, che prenderemo in esame tra breve, è stato introdotto un parametro detto “cerchio di confusione”. Quando si mette perfettamente a fuoco un punto, esso viene riprodotto nell’immagine come un punto. Ma i punti che si trovano su un piano diverso vengono riprodotti come cerchiolini. Fino ad una certa dimensione però l’occhio umano non è in grado di distinguere il cerchietto e continua a vederlo come un punto. Pertanto finché i cerchietti vengono percepiti come puntiformi dall’occhio umano, quel piano è considerato ancora a fuoco. Quando invece l’occhio comincia a percepirli come cerchietti, siamo al di fuori del campo di fuoco. La profondità di campo abbraccia l’insieme dei piani nei quali i punti vengono ancora percepiti come tali dall’occhio umano. Convenzionalmente l’occhio umano percepisce come puntiformi tutti i cerchietti aventi un diametro inferiore a 0,25 millimetri, anche se ovviamente dipende dalla qualità della vista dell’osservatore. Ad ogni modo si è stabilito – quindi, ricordiamolo, si tratta solo di una convenzione – di calcolare il circolo di confusione per determinare la profondità di campo basandosi su una stampa convenzionale di 20×25 centimetri osservata da una distanza di circa 32 centimetri (pari alla diagonale del formato di stampa) da un osservatore dotato di normali capacità visive. Possiamo dire che osservando una stampa di 20×25 centimetri (8×10 pollici) da una distanza di circa 32 centimetri, tutti i cerchietti di diametro pari o inferiore a 0,25 millimetri ci appariranno come puntiformi”. Quanto detto sopra vale per le stampe. Se invece vogliamo individuare il circolo di confusione accettabile riferito ai diversi sensori dobbiamo considerare il numero di ingrandimenti necessario per raggiungere le dimensioni di 20x25cm e dividere per 0,25 tali ingrandimenti. Ad esempio, se partiamo da un negativo formato 24x36mm (Full Frame), il numero di ingrandimenti per ottenere una stampa di formato 20x25cm, calcolato sulla diagonale è di circa 7,4, che diviso 0,25 dà un circolo di confusione accettabile di circa 0,029mm (molti utilizzano 0,03mm). Per il formato Aps-c (Nikon – Canon – Sony), il circolo di confusione accettabile, calcolato secondo lo stesso metodo è di circa 0,02mm (0,019 per l’Aps-c Canon). Si tratta di parametri che, come abbiamo già ricordato, sono frutto di molte convenzioni e approssimazioni. Quindi non meravigliatevi di trovare una certa variabilità sui diversi siti Internet che trattano l’argomento. Ad ogni modo riportiamo qui il cerchio di confusione generalmente accettato per i principali formati di fotocamere reflex e mirrorless: Sistema quattroterzi e micro-quattroterzi: 0,015 mm Aps-c Canon: 0,019 mm Aps-c Nikon, Pentax, Sony: 0,02 mm Aps-H Canon: 0,023 mm Full Frame (24×36): 0,03 mm
La formula per calcolare la profondità di campo Fatta questa premessa sul cerchio di confusione non ci resta che passare alla formula che, mettendo in relazione lunghezza focale, diaframma, distanza di ripresa e cerchio di confusione, ci permette di calcolare la profondità di campo. Eccola:
La formula per calcolare la Profondità di campo (PDC): “D” è il diaframma; “F” è la lunghezza focale dell’obiettivo; “c” è il cerchio di confusione; “d” è la distanza del soggetto. 175
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Ovviamente, come abbiamo spiegato, e come è mostrato dal simbolo del “circa uguale” anziché da quello di uguale, la formula deve essere presa come semplicemente indicativa, perché molto dipende dalla percezione dell’osservatore della foto, e perché il concetto di cerchio di confusione è legato ad una convenzione.
Programmi che effettuano il calcolo per voi Se la formula riportata sopra vi ha spaventati non dovete preoccuparvi eccessivamente. Diciamo questo per tre motivi: 1) nel fare le fotografie vi occorre solo una valutazione di massima di quella che sarà la profondità di campo risultante dai parametri che impostate; 2) ci sono programmi on line e app per telefonini e tablet che calcolano la profondità di campo al posto vostro; 3) potete previsualizzare la profondità di campo che otterrete direttamente nel mirino della vostra reflex o sul live-view. Anteprima della profondità di campo con la propria fotocamera Quasi tutte le reflex e le mirrorless sul mercato permettono di valutare la profondità di campo prima di scattare attraverso la chiusura del diaframma. Potrebbero esserci delle differenze a seconda del modello (basta consultare il manuale per trovare come si attiva la funzione), ma quasi tutte le fotocamere hanno nei pressi del pulsante di scatto un comando, col simbolo del diaframma stilizzato, denominato “anteprima della profondità di campo”, che opera chiudendo il diaframma all’apertura di lavoro impostata dal fotografo e gli permette di osservare nel mirino, o nel live view della macchina l’effettiva estensione della zona nitida. Tranne che in applicazioni davvero particolari, questo comando è più che sufficiente a garantire il pieno controllo del fotografo sulla profondità di campo.
Il comando della previsualizzazione della profondità di campo presente sulle fotocamere reflex e mirrorless presenta l’iconcina del diaframma stilizzato.
L’iperfocale
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La distanza iperfocale è strettamente correlata alla di profondità di campo. Come sappiamo, oltre al piano su cui cade la messa a fuoco, a seconda del diaframma scelto, della focale utilizzata e della distanza del piano di fuoco dalla fotocamera, avremo una zona che apparirà comunque nitida, che viene chiamata profondità di campo. Ebbene, esiste, ad ogni focale e per ogni diaframma, una distanza di messa a fuoco tale che la profondità di campo si estenderà dall’infinito a una zona posta circa a metà della distanza di messa a fuoco. Questa distanza, chiamata iperfocale, coincide anche con la massima estensione della profondità di campo possibile ad una data focale e per quel particolare diaframma scelto. Ovviamente, più le focali sono corte, maggiore sarà la profondità di campo nitido ottenibile e più vicina sarà la distanza iperfocale. La seguente immagine chiarisce quanto fin qui espresso:
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L’immagine mostra come cambia la distanza iperfocale e l’estensione della profondità di campo al variare di focale e di diaframma. L’immagine mostra come cambia la distanza iperfocale e l’estensione della profondità di campo al variare di focale e di diaframma. Alla focale di 50mm, con diaframma f/11, la distanza iperfocale sarà di 7,63 metri, mentre la fascia di campo nitido si estenderà da circa 3,65m all’infinito. Questo significa che basta mettere a fuoco, usando manualmente l’apposita ghiera sull’obiettivo, sulla distanza di 7,63 metri e chiudere il diaframma a f/11 per avere un campo nitido che si estende per tutta la fascia mostrata dalla figura. Se si chiude il diaframma a f/22, invece, la distanza iperfocale diventerà 3,84m e la profondità di campo utile andrà da 1,69m all’infinito. Se utilizziamo invece un obiettivo da 18mm diaframmato a f/11 la distanza iperfocale sarà di 1 metro e avremo una profondità di campo che si estende da 50 centimetri all’infinito; chiudendo il diaframma a f/22 e focheggiando sulla distanza di 51 cm (l’iperfocale), avremo una nitidezza che si estende da zero fino all’infinito. Conoscere, anche approssimativamente, l’iperfocale è molto utile perché consente, se lo desideriamo, di estendere al massimo la fascia di nitidezza. Ad esempio, nella fotografia di paesaggio ha poco senso mettere a fuoco all’infinito e poi chiudere il diaframma al massimo, perché comunque non si può estendere la profondità di campo oltre l’infinito. Se desideriamo ottenere la massima estensione della nitidezza, è meglio mettere a fuoco su un piano intermedio, proprio il piano che corrisponde alla distanza iperfocale.
Mettere a fuoco sulla distanza iperfocale permette di estendere al massimo la profondità di campo. Può essere molto utile nella fotografia di paesaggio.
Calcolare l’iperfocale La formula che ci consente di calcolare la distanza iperfocale è la seguente:
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La formula per calcolare la distanza iperfocale: “D” è il diaframma; “F” è la lunghezza focale dell’obiettivo; “c” è il cerchio di confusione. Fortunatamente, non è necessario fare ogni volta i calcoli, perché esistono dei siti e delle applicazioni per gli smartphone che permettono di calcolare sia la profondità di campo che la distanza iperfocale, per qualsiasi focale e per qualsiasi diaframma utilizzato.
Trovare l’iperfocale utilizzando i riferimenti incisi sull’obiettivo Sugli obiettivi a focale fissa sono riportati la scala delle distanze di messa a fuoco e degli utili riferimenti che consentono di impostare facilmente la distanza iperfocale.
I riferimenti sugli obiettivi a focale fissa permettono di individuare la distanza iperfocale. Sul barilotto dell’obiettivo, infatti, di solito sono riportati, oltre alla distanza di messa a fuoco, anche delle linee corrispondenti ad alcune aperture di diaframma. Se avete un obiettivo di questo tipo vi basterà impostare sulla fotocamera uno dei diaframmi riportati sul barilotto (in questo caso ipotizziamo che abbiate scelto f/22). Dopo di che dovrete semplicemente allineare il simbolo di infinito con l’apertura di diaframma scelta, come mostrato nell’immagine in alto (a). Una volta fatto questo avrete scoperto anche la distanza iperfocale approssimativa per quel diaframma che corrisponde alla distanza di messa a fuoco (b), e saprete qual è il limite a voi più vicino della profondità di campo che coincide alla tacchetta corrispondente al diaframma scelto (c). Nel caso della foto di esempio la distanza di messa a fuoco è di 3metri (b) e la PDC si estende fino a 1,5m circa (c).
Il Bokeh Molto spesso si legge questa parola sui forum di fotografia, e per una volta non si tratta di un inglesismo ma di una parola di origine giapponese. Il suo ingresso nel gergo fotografico è avvenuto alla fine degli anni Novanta come traslitterazione in lingua inglese della parola giapponese 暈けo ボケche significa “sfocatura”. Bokeh quindi, in gergo fotografico sarebbe semplicemente l’equivalente di “sfocatura”, ma in realtà, avendo assunto una maggior profondità di significato, vuole definire il contributo che le parti fuori fuoco danno all’estetica dell’immagine.
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In definitiva quindi, quando si parla di bokeh, si discute della qualità estetica dello sfocato (“il bokeh di questo obiettivo non mi convince”, “che bel bokeh c’è in questa foto”). Alla piacevolezza del bokeh contribuiscono molti fattori che possono però riassumersi in due gruppi principali: 1. la progettazione dell’obiettivo; 2. l’abilità del fotografo.
La progettazione dell’obiettivo Gli obiettivi possono essere progettati per restituire uno sfocato piacevole. Non tutti gli obiettivi, infatti, hanno la stessa resa delle aree fuori fuoco. In generale gli obiettivi che vengono meglio ottimizzati dai produttori per restituire un bel bokeh sono i medio tele da ritratto e i supertele. Proprio nei generi fotografici del ritratto, della fotografia di moda e di cerimonia, nonché nella fotografia di animali selvatici, infatti, la resa dello sfocato riveste una particolare importanza. Anche nella fotografia macro è molto importante la resa dello sfocato. I fattori che entrano in gioco in fase di progettazione di un obiettivo che hanno ricaduta sulla resa dello sfocato sono molteplici, ma c’è un aspetto che riveste una notevole importanza. Si tratta della forma del foro del diaframma. In generale, anche se dipende dal gusto personale, viene considerato tipico del bel bokeh rendere sfocati e diffusi i punti di luce fuori fuoco. Inoltre, caratteristica del buon bokeh è la sfumatura morbida e graduale dai piani nitidi a quelli fuori fuoco. Ebbene, per ottenere queste caratteristiche è necessario che il foro del diaframma sia quanto più circolare possibile. Per questo motivo gli obiettivi da ritratto più raffinati sono contraddistinti da un diaframma con un alto numero di lamelle in quanto più alto è il numero di lamelle, più la forma del foro si avvicina a quella di un cerchio perfetto. Un diaframma a cinque lamelle, infatti, restituirà un foro a forma di pentagono, uno a otto lamelle, lo restituirà a forma di ottagono e così via, avvicinandosi sempre più alla forma perfetta del cerchio. Alcuni produttori arrivano a proporre lamelle di diaframma opportunamente sagomate per realizzare la forma circolare del foro.
Diaframmi di forma differente influiscono sul bokeh. Nelle fotografie in alto vediamo il confronto tra un diaframma a sei lamelle, che restituisce un foro a forma esagonale, un diaframma a otto lamelle, che restituisce un foro ottagonale, e un diaframma ad otto lamelle opportunamente sagomate per restituire un foro circolare. Il bokeh migliore dovremmo ottenerlo, ovviamente, con quest’ultimo obiettivo. Tuttavia i fattori progettuali che intervengono nella resa dello sfocato di un obiettivo sono tanti e non è detto che un obiettivo con diaframma a molte lamelle abbia poi un bokeh straordinario. Ovviamente, una parte importante è giocata anche dal gusto del fotografo, quindi sebbene ci siano obiettivi che vengono considerati dagli esperti il non plus ultra quanto a bokeh, spesso non vi è altra soluzione che provare un dato obiettivo che ci interessa e vedere come si comporta. L’abilità del fotografo Nella resa dello sfocato un ruolo molto superiore a quello dell’obiettivo lo gioca il fotografo. Ad esempio, abbiamo parlato della importanza del diaframma circolare ma il fotografo esperto sa che, a tutta apertura, tutti i diaframmi sono perfettamente circolari. Quindi in alcuni casi si può decidere, per avere un bello sfocato, di scattare a tutta apertura, mettendosi ad una distanza adeguata dal soggetto, e ponendo quest’ultimo alla distanza giusta dallo sfondo, in modo da avere la profondità di campo desiderata non operando sul diaframma, che può essere lasciato a tutta apertura, ma sulle distanze fotocamera-soggetto-sfondo (si veda il paragrafo La profondità di campo). Il fotografo – controllando il diaframma, la focale scelta, utilizzando un particolare obiettivo, decidendo quale sfondo utilizzare e a quale distanza, includendo nell’inquadratura punti luminosi o meno, e in mille altri modi – influenza in maniera determinante la resa dello sfocato. In effetti, una volta apprese le basi della fotografia ed ottenuti i primi risultati incoraggianti, bisognerebbe cominciare a lavorare proprio sulla resa delle parti fuori fuoco, perché il bokeh riveste una grande importanza nell’estetica della fotografia.
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Bokeh e ritratto. Come evidenziato dalla foto in alto le aree fuori fuoco contribuiscono in maniera determinante all’estetica della fotografia. Specialmente in alcuni generi specifici, come il ritratto.
Nella foto del bambino qui in alto il passaggio dalle zone a fuoco a quelle fuori fuoco è sfumato ma, anche a causa della sovraesposizione dello sfondo, si crea una “doppia linea” intorno alla guancia sfocata non propriamente piacevole.
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La foto dello stambecco qui sopra presenta un bokeh non troppo bello. Le aree fuori fuoco sono molto “dure” mentre avrebbero dovuto essere più morbide e sfumate. Se la resa dell’obiettivo è questa, meglio che lo sfondo sia più distante dal soggetto, o il soggetto più vicino alla fotocamera, per ottenere una maggiore sfocatura.
Nella fotografia del gruccione qui in alto si può notare che quando il soggetto è sufficientemente vicino, la focale utilizzata sufficientemente tele (in questo caso l’obiettivo è un 400mm), il diaframma sufficientemente aperto, e lo sfondo sufficientemente distante, si riesce ad ottenere uno sfondo perfettamente sfocato che dà risalto al soggetto.
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Bokeh e macrofotografia. Anche nella macrofotografia il bokeh è importante. Il passaggio dalle zone a fuoco a quelle sfocate deve essere graduale e sfumato.
La stessa cosa si può dire per lo still life, dove il passaggio dalle zone nitide a quelle sfocate deve essere sfumato e gradevole, come un questo caso.
Quale formato: RAW o JPEG? Le fotocamere reflex (e anche molte bridge, nonché le nuovissime mirrorless) permettono di salvare le fotografie in diversi formati. In genere è possibile scegliere tra il formato JPEG, salvabile a diverse risoluzioni, e il formato RAW. Alcune fotocamere offrono anche il formato TIFF.
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Il menu della fotocamera che permette di scegliere il formato dei file. Questa fotocamera consente di selezionare il formato RAW o il formato JPEG. L'opzione RAW+ serve per salvare le fotografie in entrambi i formati.
Se si sceglie di salvare nel formato JPEG si può decidere anche la risoluzione del file. Quali sono le differenze tra i formati? Quale conviene scegliere per i nostri lavori? Per capirlo è bene spendere due parole sui diversi formati. Il formato JPEG, acronimo di Joint Photographic Experts Group, un comitato ISO/CCITT che ha definito il primo standard internazionale di compressione per le immagini a tono continuo, è uno standard di compressione completamente aperto e ad implementazione gratuita, diventato rapidamente il più utilizzato al mondo. Il motivo è presto detto, a fronte di una piccola, quasi impercettibile perdita di qualità, i file JPEG sono spesso di dimensioni molto minori rispetto ad altri formati, come il TIFF. Il formato TIFF, acronimo di Tagged Image File Format, è un formato di file grafico bitmap (raster) messo a punto nel 1987 dalla società Aldus (che oggi appartiene alla Adobe). Il TIFF permette di stoccare le immagini senza perdere qualità, indipendentemente dalla piattaforma o dalla periferica usata, fino a 32 bit per pixel. Si tratta di un formato molto utilizzato che però presenta un problema: le notevoli dimensioni dei file. Il formato RAW (non si tratta di un acronimo, è una parola inglese che significa “grezzo”) salva invece il dati prodotti dal sensore della fotocamera senza elaborarli. In pratica non viene salvata un’immagine ma tutti i dati che la descrivono e che serviranno poi per ricostruirla. Siccome si tratta di dati elettronici, è possibile anche comprimerli fino a portarne le dimensioni a circa 1/3 dell’originale, senza alcuna perdita di qualità. Per ottenere l’immagine vera e propria sarà necessario “sviluppare” il RAW a posteriori con un apposito programma. Questa soluzione permette di non perdere alcuna informazione relativa alla nostra fotografia e nel contempo di mantenere una dimensione dei file ancora abbastanza contenuta. Va aggiunto che ogni produttore di fotocamera ha sviluppato un proprio formato RAW proprietario, che può essere anche diverso da modello a modello. Quindi, per ottenere l’immagine finale, è necessario avvalersi del programma che viene fornito in dotazione con la fotocamera, oppure affidarsi a programmi di terze parti, che contengono in memoria gli algoritmi per la demosaicizzazione delle immagini di ciascun modello di fotocamera, i quali vengono costantemente aggiornati man mano che sul mercato appaiono nuove fotocamere. Se cercate di aprire un file RAW su un computer nel quale non è istallato il “programma di sviluppo”, non riuscirete in alcun modo a vedere le immagini.
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La prima differenza importante da evidenziare è che salvando in formati diversi si ottengono file di dimensioni molto diverse. Per fare un esempio, l’immagine riportata sopra, scattata con una fotocamera da 16 megapixel, che nell’originale ha dimensioni di 4928×3264 pixel, assume le seguenti dimensioni a seconda del formato in cui viene salvata: RAW 28,4 MB (MegaByte) TIFF (a 16bit) 92,1 MB JPEG (altissima qualità) 8,75 MB
Vantaggi e svantaggi dei diversi formati JPEG Vantaggi: immagine già pronta; dimensioni contenute, il che significa che sulla scheda di memoria entreranno più fotografie (per fare un esempio che è solo indicativo, perché dipende dagli algoritmi di compressione, con la mia reflex da 16 megapixel, su una scheda da 8 giga è possibile salvare circa 535 foto in formato JPEG alla massima risoluzione e qualità, mentre nel formato RAW è possibile salvarne solo 233). Svantaggi: perdita di qualità dell’immagine; limitate possibilità di intervenire a posteriori per correggere eventuali errori nel bilanciamento del bianco e dell’esposizione; ulteriore perdita di qualità ad ogni successivo salvataggio. TIFF Vantaggi: immagine già pronta; nessuna perdita di qualità. Svantaggi: dimensioni del file molto grandi; limitate possibilità di intervento a posteriori per correggere eventuali errori di bilanciamento del bianco e dell’esposizione (superiori rispetto al JPEG, ma inferiori rispetto al RAW). RAW Vantaggi: nessuna perdita di qualità; possibilità di impostare in post-produzione il bilanciamento del bianco; grandi possibilità di correzione di eventuali errori nell’esposizione. Svantaggi: dimensioni più grandi rispetto al JPEG (nella scheda entrano meno foto); è necessario sviluppare il file a posteriori usando un programma adatto (il che richiede tempo).
Allora: quale formato usare? Dipende essenzialmente dalle proprie necessità. Se non si ha il tempo o la voglia di sviluppare i file in post-produzione, il formato JPEG, al giorno d’oggi garantisce comunque una qualità altissima. Bisogna però ricordarsi di effettuare un accurato bilanciamento del bianco prima di scattare, specialmente in situazioni di luce particolari, come la presenza di lampade fluorescenti, che possono ingannare la funzione di bilanciamento automatico del bianco della fotocamera. Bisogna inoltre ricordare che eventuali errori nella esposizione difficilmente saranno poi recuperabili in post-produzione. Per ovviare alla perdita di qualità che interviene sul file ad ogni successivo salvataggio, se si usa un programma di fotoritocco conviene aprire il file e salvarlo con un altro nome (ad esempio NOMEFILEcopy.JPEG), e poi lavorare su quest’ultimo. Se si vuole ottenere il massimo dalle proprie fotografie, e si ha il tempo e la voglia di sviluppare i propri file per ricavarne le immagini, conviene salvare in RAW. In tal modo eventuali errori nell’esposizione saranno recuperabili più facilmente in post-
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produzione. Inoltre, la possibilità di regolare il bilanciamento del bianco a posteriori, offerta solo dal formato RAW, è a mio parere quasi irrinunciabile per chi desidera il massimo della qualità. Per esemplificarlo si osservi la seguente foto, scattata in RAW+JPEG, opzione che permette di salvare in entrambi i formati.
Jpeg ottenuto in ripresa. L’immagine riportata sopra è il JPEG ottenuto direttamente dalla fotocamera al momento dello scatto, senza apportare modifiche. Come si vede la fotografia è leggermente sottoesposta, anche il bilanciamento del bianco automatico non la valorizza adeguatamente. Si osservi invece l’immagine ottenuta lavorando sul file RAW:
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L'immagine ottenuta dal file RAW, dopo aver modificato il bilanciamento del bianco e corretto la sottoesposizione.
Si è apportata una modifica manuale al bilanciamento del bianco, ottenendo colori più caldi e più vivaci. Si è poi corretta la sottoesposizione di circa uno stop. L’immagine appare più gradevole, il tutto senza perdita di qualità. Certo, un abile grafico potrebbe ottenere un risultato simile con un programma di fotoritocco, ma occorrerebbe molto più tempo di quello necessario per il semplice sviluppo del RAW, e comunque ci sarebbero delle notevoli perdita di qualità nel risultato finale.
La fotocamera segnala il formato scelto sul display e/o nel mirino. Avrete capito dalle mie considerazioni che io scatto quasi esclusivamente in RAW. Preferisco assicurarmi la massima qualità possibile, anche se poi dovrò perdere un po’ di tempo in più per “sviluppare” il file. Trovo tra l’altro che la fase di “sviluppo” sia parte integrante del processo fotografico, e che possa dare molte soddisfazioni. Inoltre la possibilità di salvare in file in RAW+JPEG, sacrificando solo un po’ di spazio sulla scheda, considerando anche la capienza delle schede di memoria attuali, permette di ottenere contemporaneamente sia il JPEG pronto per l’uso, sia il RAW, da archiviare e da riprendere eventualmente in seguito.
Il bilanciamento del bianco Sicuramente spesso ci abbiamo fatto caso: la luce che abbiamo a disposizione cambia continuamente.
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La luce del sole a mezzogiorno, quella del sole al tramonto, quella delle lampade al neon, quella delle lampade ad incandescenza, la luce di una candela, sono tutte diverse. Diverse per cosa? Essenzialmente per la loro lunghezza d’onda, che ne rende diversa la tonalità. Così la luce a mezzogiorno, in una giornata senza nuvole, è quasi perfettamente bianca, mentre la luce al tramonto ha una tonalità tra il giallo e l’arancione. Anche la luce delle lampade ad incandescenza, le classiche lampadine, ha una tonalità arancione, mentre le lampade fluorescenti hanno tonalità più bianche. Le diverse tonalità di colore della luce sono indicate in una scala di temperatura di colore espressa in gradi Kelvin:
La scala Kelvin.
Si dice che una fonte di luce ha una certa temperatura di colore (il grado Kelvin è in realtà un’unita di misura della temperatura) perché un corpo nero riscaldato a quella temperatura emette una radiazione luminosa di quel colore. Per una corretta resa cromatica della fotografia è necessario che la fotocamera legga la tonalità della luce presente nell’ambiente e calibri correttamente i colori della scena in base a questa. Per calibrare i colori la cosa migliore da fare è operare sulla resa del bianco, infatti, quando il bianco è correttamente bilanciato, lo saranno anche tutti gli altri colori. Ciò detto si può facilmente comprendere quanto sia importante il bilanciamento del bianco. Sulle fotocamere si può accedere alla funzione bilanciamento del bianco attraverso un pulsante dedicato o una voce di menu, di solito indicati con la sigla [WB], che sta per white balance. Aprendo questa voce di menu ci troviamo davanti ad una schermata di questo tipo:
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Analizziamo alcuni dei simboli della schermata, tenendo conto che a seconda del modello di fotocamera essi potrebbero essere diversi. Bilanciamento automatico del bianco. Quando selezioniamo questa opzione, la fotocamera opera in completo automatismo. E’ anche l’opzione su cui è settata la macchina fotografica di default. Bilanciamento del bianco per luce solare. Opzione da selezionare quando si scatta in pieno sole con il cielo limpido.
Bilanciamento del bianco per l’ombra. Da utilizzare quando il cielo è limpido ma il nostro soggetto si trova in una zona d’ombra. Bilanciamento del bianco per il cielo coperto. Opzione da selezionare se si sta operando con cielo nuvoloso.
Bilanciamento del bianco per luci fluorescenti, quelle che, spesso erroneamente, vengono definite comunemente “al neon”. Siccome sono di diverso tipo, ed emettono luce di lunghezza d’onda diversa, spesso sotto questa opzione si apre un ulteriore menu con altre opzioni per selezionare il tipo di illuminazione più simile a quello della luce dell’ambiente in cui operiamo. Bilanciamento del bianco per luce ad incandescenza, la classica lampadina, basata su un filamento di tungsteno, che dà una luce di tonalità gialla (che dal 2012 non sarà più usata nella Comunità Europea). Bilanciamento del bianco per la luce flash. È l’opzione da selezionare se la nostra fonte di luce principale è il flash.
Bilanciamento del bianco manuale. Per regolare manualmente il bilanciamento del bianco.
Come effettuare un corretto bilanciamento del bianco Di solito è meglio lasciare la macchina settata su “bilanciamento del bianco automatico” [AWB] . Le fotocamere moderne, infatti, hanno una funzione automatica di bilanciamento del bianco molto efficiente. Difficilmente sbagliano la temperatura del colore. Va inoltre considerato un altro fatto: è molto facile, una volta impostato un determinato parametro di bilanciamento del bianco, dimenticarselo e non pensarci più. Questo potrebbe portare, se la tonalità della luce cambia, ad esempio se da un interno illuminato da luci al tungsteno, usciamo all’esterno, oppure passiamo ad un interno con luce fluorescente, a ritrovarci con un bilanciamento del
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bianco completamente sbagliato. In altre parole, se impostiamo un determinato bilanciamento, dobbiamo poi ricordarci di cambiarlo quando cambia la fonte di luce. La mia esperienza mi dice che è molto facile dimenticarsene. Bisogna anche considerare un’altra cosa. Se abbiamo una reflex, una mirrorless o una bridge di fascia alta, e salviamo le nostre immagini in formato RAW, quello in cui i dati prodotti dal sensore della fotocamera vengono salvati senza alcuna elaborazione, il bilanciamento del bianco si potrà eventualmente regolare successivamente, in fase di sviluppo. Salvando in RAW, quindi, conviene senz’altro lasciare il bilanciamento sempre su [AWB] e poi intervenire, se necessario mentre sviluppiamo l’immagine. Questo è uno dei grossi vantaggi che il salvare i file in formato RAW comporta. Se invece preferiamo salvare i file in formato Jpeg, allora dobbiamo prestare molta attenzione a che il bilanciamento del bianco sia quello corretto in fase di scatto, perché operare a posteriori è piuttosto difficile e comporta anche il deterioramento della qualità del file. Il mio suggerimento in tal caso è di fare qualche scatto di prova, usando la regolazione automatica, e, solo nel caso questa non ci soddisfi, passare alla regolazione manuale. Dobbiamo prestare particolare attenzione quando scattiamo in interni, perché al giorno d’oggi sono diffuse lampade molto diverse per temperature di luce, e soprattutto le lampade fluorescenti tendono a mettere in difficoltà il bilanciamento automatico. Per fare un esempio, si osservi come la seguente foto, scattata con una luce proveniente da una comune lampada a risparmio energetico possa dar luogo a tonalità diverse.
Bilanciamento del bianco automatico.
Bilanciamento per luce fluorescente calda.
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Bilanciamento per lampada ad incandescenza.
Bilanciamento per luce solare.
Bilanciamento manuale. Come si può notare, il bilanciamento automatico della fotocamera non è riuscito a risolvere perfettamente la situazione. La stessa cosa si può dire dei tentativi di regolare il bilanciamento sui valori predefiniti per luce fluorescente, o per lampada ad
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incandescenza, per non parlare del bilanciamento per luce solare. L’unico modo per ottenere una foto cromaticamente corretta è stato quello di passare al bilanciamento manuale. Come effettuare il bilanciamento manuale del bianco Per effettuare il bilanciamento manuale bisogna selezionare la relativa opzione dal menu. Ogni fotocamera ha un menu diverso con tasti di accesso e grafica differenti, quindi la procedura indicata ha solo valore di esempio. E’ possibile che con fotocamere diverse essa cambi leggermente. Bisogna pertanto far riferimento al manuale della fotocamera.
Primo passo: selezionare l'opzione "bilanciamento del bianco manuale". Come si vede è possibile anche inserire direttamente la temperatura in gradi Kelvin della fonte di luce. A questo punto è necessario inquadrare qualcosa di bianco, tipo un foglio di carta o una parete, e premere il pulsante di scatto:
Secondo passo: la fotocamera ci chiede di scattare una fotografia a qualcosa di bianco, ovviamente illuminato dalla medesima fonte di luce che illuminerà poi la scena da fotografare. Vanno bene anche una parete o un foglio di carta bianchi.
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La fotocamera a questo punto ci chiederà di dare una conferma al fatto che vogliamo regolare il bianco proprio sull’immagine registrata. Bisognerà premere un tasto Ok o qualcosa di simile…
Terza fase: fotografato qualcosa di bianco il risultato potrebbe essere, come in questo caso, un colore diverso. Non c'è problema, basta confermare alla fotocamera che ciò che abbiamo fotografato è di colore bianco. Al nostro ok infatti la fotocamera renderà bianca l'immagine, e da quel momento sarà calibrata sul bianco, ovviamente finché continueremo ad usare la medesima fonte di luce. Fatto ciò si potrà anche correggere in maniera fine il bilanciamento del bianco per eliminare eventuali residue minime tonalità di altri colori.
Quarta fase: se non siamo soddisfatti del bianco ottenuto, possiamo sempre passare ad una regolazione fine da ottenere attraverso i tasti di controllo della fotocamera (fare riferimento al manuale). È comunque utile ricordare ancora una volta che tali regolazioni sono necessarie solo se si scatta in formato Jpeg. Se si scatta in formato RAW esse sono superflue perché il bilanciamento del bianco si potrà regolare successivamente, in fase di sviluppo dell’immagine.
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Capitolo 7 Elementi di composizione La geometria del fotogramma Se si desidera migliorare il proprio modo di fotografare bisogna far propri alcuni elementi di composizione fotografica. Comporre vuol dire disporre gli elementi principali della foto in modo da valorizzarli esteticamente. Supponiamo che il soggetto della fotografia sia una persona. Di solito la tendenza generale è quella di mettere la persona al centro della foto. Ebbene, raramente questa è la soluzione migliore. Cercherò di fornire alcuni elementi di base sulla composizione in fotografia limitando al massimo le spiegazioni tecniche, facendo piuttosto parlare le immagini. Una cosa fondamentale da imparare è che nell’area della fotografia ci sono delle zone che il nostro cervello considera più importanti di altri. Nel gergo fotografico vengono chiamati “punti forti“. L’occhio dell’osservatore tende automaticamente a iniziare la “lettura” della fotografia partendo da questi punti forti. Noi fotografi, pertanto, dobbiamo fare in modo che l’osservatore trovi proprio lì qualcosa di interessante. Ma come facciamo ad individuare questi punti forti? Un modo empirico molto semplice è quello di applicare la cosiddetta “regola dei terzi“. La regola dei terzi – che è una semplificazione del cosiddetto rapporto aureo basato sulla successione di Fibonacci, di cui si parla nel prossimo paragrafo consiste nel suddividere l’area del fotogramma utilizzando delle linee che dividono i lati del rettangolo in tre segmenti uguali. I punti forti si trovano nel punto di intersezione delle linee.
La regola dei terzi consiste nel suddividere il fotogramma utilizzando delle linee che dividono esattamente in tre parti uguali i lati del rettangolo. I punti forti si trovano alle intersezioni delle linee. In particolare, per noi occidentali che siamo abituati a leggere da sinistra verso destra e dall’alto verso il basso, il punto forte più importante è quello in alto a sinistra, seguito da quello in alto a destra, quello in basso a sinistra, quello in basso a destra. Cosa
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succede? Che l’occhio e il cervello inconsciamente si posano su questi punti forti alla ricerca di informazioni importanti che permettano di decifrare l’immagine. Il fotografo abile quindi disporrà in quei punti le informazioni di base, cioè gli elementi dell’immagine che vuole valorizzare. Attraverso quei punti passano anche le diagonali del fotogramma. Anche esse sono elementi fondamentali per la composizione.
Nel disporre gli elementi della fotografia si deve tener conto anche delle diagonali.
Proviamo a capire cosa significa tutto quanto abbiamo esposto sopra con degli esempi pratici. Si prenda ad esempio la seguente foto:
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Gli elementi fondamentali di questa fotografia sono disposti in modo tutt’altro che casuale.
Se si osserva con attenzione l’immagine ci si rende conto che gli elementi fondamentali della fotografia sono stati disposti in modo tutt’altro che casuale. Per rendersene conto basta osservare l’immagine con la griglia sovrapposta:
L’immagine con la griglia dei punti forti sovrapposta
Quali sono i punti forti dell’immagine e dove cadono?
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Ecco i punti che possiamo evidenziare. Si osservi con attenzione il punto del fotogramma in cui cadono: 1) Il muso dell’orso in primo piano, quello perfettamente a fuoco, cade quasi perfettamente su punto forte posizionato in alto a destra; 2) Sul punto forte in alto a sinistra cade il centro dell’orso che sta andando via; 3) I piedi dell’orso in primo piano poggiano sulla linea che divide il fotogramma in terzi; 4) La zampa posteriore dell’orso che va via è al centro del fotogramma; 5) Il muso dell’orso che va via è al centro del rettangolo piccolo che si trova in alto a sinistra. Quelli individuati sono tutti particolari importanti della scena, che si trovano in punti chiave del fotogramma, proprio lì dove il cervello dell’osservatore chiede che ci sia qualcosa di rilevante. Per leggere dal punto di vista compositivo questa fotografia possiamo però fare ancora altre considerazioni. Si osservi, ad esempio, come la posizione dei due orsi sia in rapporto con le diagonali.
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La posizione dei soggetti in rapporto con le diagonali. 1) Il muso dell’orso punta verso l’angolo in basso a sinistra; 2) La forma triangolare dell’orso e la direzione del suo movimento puntano verso l’angolo in alto a sinistra. Naturalmente queste considerazioni sono valide per ogni tipo di fotografia. Ecco ad esempio una foto di paesaggio:
Sovrapponiamole una griglia:
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Sono qui evidenziati alcuni accorgimenti compositivi attuati dal fotografo Si osservi come: 1) La linea dell’orizzonte sia disposta nelle immediate vicinanze della linea che definisce il terzo superiore del fotogramma; 2) La linea della montagna sia sulla diagonale del fotogramma; 3) La barca, un elemento importante dell’immagine, sia nelle immediate vicinanze di un punto di interesse.
Si osservi anche questa fotografia di ritratto:
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Anche nel ritratto è fondamentale seguire le regole della composizione Se sovrapponiamo la griglia ci accorgiamo che il fotografo non ha disposto gli elementi a caso:
Si noti come l’occhio sinistro della ragazza (gli occhi sono sempre elementi fondamentali nel ritratto) sia esattamente posto su uno dei punti forti. La stessa cosa si può dire della bocca. Si osservi inoltre come i capelli davanti al viso scorrano nella direzione della diagonale, e come sulla linea della diagonale sia disposta anche la spalla destra della modella. Sempre in direzione della diagonale, verso il basso, punta lo sguardo del soggetto. Per concludere alcune considerazioni: Non è necessario che gli elementi portanti dell’immagine cadano esattamente nei punti forti: è sufficiente una ragionevole approssimazione. Le regole della composizione, come tutte le regole, possono essere violate. In genere violare le regole porta ad effetti disastrosi, nella fotografia come nella vita, ma altre volte, poche volte, sapendolo fare, violando le regole si ottengono risultati straordinari, nella vita come nella fotografia. Quindi il mio consiglio (per quanto riguarda la fotografia, non certo la vita, che non sono affari miei) è quello di imparare le regole, applicarle finché non se ne acquisiscono gli automatismi, e poi cominciare a cercare strade alternative. Le fotocamere compatte, e oggi anche molte reflex dotate di live-view permettono di impostare una griglia sul monitor di visione, questa griglia è utilissima per imparare ad applicare le regole della composizione. La parola d’ordine è “decentrare”. Raramente un soggetto, posto al centro del fotogramma, viene valorizzato. Naturalmente, come già evidenziato, a volte si ottiene un risultato migliore violando una determinata regola. Nello scattare la fotografia sottostante, per esempio, ho valutato, a ragione o a torto, che posizionare la linea dell’orizzonte al centro, rendesse l’immagine più riposante ed equilibrata, in armonia con la sensazione che in me suscitava la vista di quel tramonto sul mare dai colori tenui.
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Talvolta la regola dei terzi si può violare: in questa fotografia la linea dell’orizzonte è stata posta al centro del fotogramma.
I mirini di molte fotocamere permettono di selezionare una griglia che aiuta il fotografo nella composizione.
Il monitor di una fotocamera con la griglia che aiuta il fotografo nella composizione.
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Per imparare ad usare efficacemente la regola dei terzi può essere molto utile, specie nella fotografia di paesaggio, il treppiede. Con la fotocamera posizionata sul cavalletto, infatti, si ha la tendenza a ragionare maggiormente sulla foto. Molto utile risulta anche il live-view delle moderne reflex digitali che permettono di impostare una griglia che suddivide il fotogramma in un reticolo di nove rettangoli che seguono la regola dei terzi.
La sezione aurea e la fotografia La sezione aurea, o rapporto aureo, ha colpito da molto tempo la fantasia di artisti e cultori di storia dell’arte in quanto sembra essere alla base della composizione in molti dipinti, sculture e opere di architettura. Tale ricorrenza dimostrerebbe, secondo molti, una particolare valenza estetica della sezione aurea: le opere realizzate tenendo conto della sezione aurea apparirebbero più belle e armoniose in quanto il cervello umano sarebbe naturalmente predisposto a trovare gradevole questa particolare proporzione. Particolarmente interessante, poi, è il fatto che in natura si può ritrovare questa proporzione in moltissimi elementi del mondo minerale, vegetale ed animale, dalla forma delle galassie a quella della conchiglia del nautilo, dalla disposizione dei semi di girasole, alle proporzioni del corpo umano… Tanto che alcuni vedono nella sezione aurea una specie di “firma di Dio”.
Una lumaca di mare, la cui conchiglia, nella forma, si avvicina molto alla spirale aurea. Naturalmente molti studiosi avvertono che la presunta presenza della sezione aurea in molte opere d’arte, in realtà, alla prova dei fatti, non sarebbe confermata, in quanto frutto di approssimazioni e di misurazioni che partono da punti scelti arbitrariamente dai sostenitori di tale teoria. Ma cosa è, nello specifico, la sezione aurea? Si osservi la seguente figura:
La sezione aurea, ovvero a:c=b:a
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Se si prende un segmento (c) e lo si divide in due lunghezze diseguali, (a) e (b), si ottiene la sezione aurea quando il tratto più lungo, (a), sta all’intero segmento come il tratto più corto, (b), sta a quello più lungo (a).
a:c=b:a oppure, volendo a:(a+b)=b:a
Rapporto aureo e serie di Fibonacci Il medesimo rapporto, espresso in termini numerici, è uguale a 1,61803398874989484820…(essendo un numero irrazionale si può continuare all’infinito). Ovviamente questo significa che: c = a * 1,618033… e a = b * 1,618033…
Il numero 1,61803398874989484820… è definito anche numero aureo ed è denominato φ. Il numero aureo può essere ottenuto, attraverso un’approssimazione via via sempre più precisa, se dividiamo tra loro due numeri consecutivi della serie di Fibonacci. Com’è noto, la successione di Fibonacci è quella sequenza di numeri interi naturale ciascuno dei quali è il risultato della somma dei due precedenti: 0, 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89, … Ebbene, una loro proprietà particolare è che se dividiamo due numeri successivi della sequenza, più i due numeri sono alti, più ci avviciniamo con maggior precisione al numero aureo: 1,61803398874989484820… Ad esempio: 144/89 = 1,61797752… 233/144 = 1,61805555… 377/233 = 1,61802575… 610/377 = 1,61803713… 987/610 = 1,61803278… 1597/987 = 1,61803444…
… Le proprietà matematiche del numero aureo sono notevoli ed interessantissime. Per fare un esempio, il quadrato e ilreciproco del numero aureo hanno le stesse identiche cifre decimali del numero stesso. Quindi φ al quadrato = 2,61803398… mentre 1/φ = 0,61803398… A motivo di queste particolari proprietà matematiche e del fatto che lo ritroviamo in molti elementi della natura, secondo molti, questo numero rappresenterebbe la chiave di una misteriosa e quasi magica armonia. Sono diverse le figure geometriche ottenibili utilizzando il rapporto aureo. Ne elenchiamo alcune delle più semplici, perché possono avere una certa valenza nella composizione fotografica. Rettangolo aureo Partendo da un segmento diviso in due in base alla sezione aurea, è possibile costruire il rettangolo aureo semplicemente disegnando il suo lato minore di lunghezza pari a quella del tratto maggiore del segmento, come si vede nell’immagine sotto riportata:
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Il rettangolo aureo.
Se, all’interno del rettangolo aureo, disegniamo un quadrato basato sul lato minore, otteniamo un nuovo rettangolo, anch’esso aureo, come si vede in questa immagine:
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Se dividiamo una rettangolo aureo disegnandovi un quadrato costruito sul lato minore (A) otteniamo un nuovo rettangolo (B), anch’esso aureo.
Spirale di Fibonacci Se continuiamo questa operazione di suddivisione per ottenere rettangoli aurei sempre più piccoli, come mostrato nell’immagine sottostante:
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Costruzione di rettangoli aurei sempre più piccoli.
e poi uniamo con quarti di circonferenza gli angoli dei quadrati contigui ai rettangoli aurei, otteniamo una spirale di Fibonacci, che è molto vicina alla spirale aurea, cioè alla spirale con fattore di accrescimento b pari al numero aureo φ:
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Spirale di Fibonacci.
La sezione aurea nella composizione fotografica Ma in che modo la sezione aurea torna utile al fotografo? Essa può avere una certa importanza nella composizione, cioè nella scelta della disposizione degli elementi principali all’interno della fotografia. In realtà, diciamolo subito, fino a poco tempo fa il normale fotografo non ha potuto fare riferimento alla sezione aurea ma si è dovuto accontentare di una sua semplificazione che è costituita dalla regola dei terzi. Essa consiste nel dividere idealmente il fotogramma in nove rettangoli, utilizzando delle linee che dividono i lati del rettangolo in tre segmenti uguali, e nel disporre i punti forti dell’immagine nelle intersezioni di questi. Nelle immagini in basso mettiamo a confronto una griglia ricavata dalla sezione aurea con la sua semplificazione denominata “regola dei terzi”.
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Griglia basata sulla sezione aurea.
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Griglia basata sulla regola dei terzi, che consiste nel suddividere il fotogramma utilizzando delle linee che dividono esattamente in tre parti uguali i lati del rettangolo. I punti forti si trovano alle intersezioni delle linee.
La difficoltà di applicare in fase di scatto la sezione aurea alla fotografia era dovuta al fatto che, fino a poco tempo fa, la maggior parte delle fotocamere non erano dotate di mirini traguardati che fungessero da guida. Ci si limitava, pertanto, a disporre i punti forti dell’immagine sul terzo del fotogramma, calcolato approssimativamente, ad occhio, dal fotografo che inquadrava. In realtà per alcune reflex e per quasi tutte le fotocamere professionali a banco ottico e medio formato, erano disponibili, come optional, dei vetrini speciali che suddividevano il fotogramma in base alla regola dei terzi o, più raramente, in base alla sezione aurea. Oggigiorno i live-view di molte fotocamere sono dotati di linee guida disegnate secondo la regola dei terzi, ed alcune anche secondo la sezione aurea. Non c’è dubbio che in futuro sempre più macchine fotografiche offriranno questa possibilità, permettendo di visualizzare nel mirino addirittura la spirale aurea. Tutto questo sarà molto utile per la composizione. Già oggi è possibile scaricare per gli smartphone applicazioni che consentono di vedere in trasparenza, nel mirino, mentre si utilizza la fotocamera, le linee guida per comporre secondo le regole della sezione aurea.
Una app che vi permette di sovrapporre alla fotocamera del vostro smartphone le linee guida della sezione aurea. Un bell’aiuto per la composizione. La sezione aurea nella post produzione Alcuni fotografi, per curare maggiormente la composizione delle proprie fotografie, le ritagliano in post produzione, per uniformarsi alla sezione aurea. Vediamo come si può operare. In fase di scatto è necessario tenersi “un po’ larghi”, adottando la regola dei terzi ad occhio come di consueto. In post produzione si va poi a ritagliare l’immagine operando come vi illustriamo adesso. Partiamo da una fotografia dove il soggetto, il gruccione, è correttamente decentrato:
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La foto di un gruccione dove il soggetto è decentrato.
Con un programma di elaborazione foto che consente l’utilizzo dei livelli si sovrappone alla nostra fotografia la gif trasparente di una griglia basata sulla sezione aurea o della spirale di Fibonacci (ce ne sono disponibili su Internet):
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La spirale aurea sovrapposta alla fotografia del gruccione.
Come si può notare basta davvero una piccola aggiustatina per far coincidere il punto di partenza della spirale aurea con l’occhio dell’uccello. È sufficiente quindi ridimensionare la spirale, badando però a bloccarne le proporzioni:
Per avere una composizione basata sulla spirale aurea basta ridimensionare la spirale, bloccandone le proporzioni, fino a farne coincidere l’inizio con l’occhio del soggetto.
Adesso, se ritagliamo la nostra fotografia, essa avrà una composizione basata esattamente sulla spirale aurea o di Fibonacci, che parte proprio dall’occhio del gruccione, tocca quasi alla perfezione l’estremità della coda dell’uccello, e va a finire nell’angolo superiore sinistro della fotografia:
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La composizione della fotografia è ora basata sulla spirale aurea.
Alcuni programmi di fotoritocco hanno integrato le linee guida legate alla sezione aurea, e perfino la spirale aurea nella propria funzione “ritaglio”. Un esempio è Photoshop, che consente di impostare linee guida basate sulla regola dei terzi, sulla sezione aurea, sulla spirale aurea e sulle diagonali:
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Quando ritagliamo una foto con Photoshop, possiamo selezionare la linea guida legata alla spirale aurea, come in questo caso (clicca sulla foto per ingrandirla).
Le linee Nella composizione fotografica uno degli elementi più importante di cui tener conto sono le linee. L’occhio umano tende naturalmente ad essere attratto da elementi geometrici. La linea rappresenta uno degli elementi più semplici e quindi di più forte attrazione. Nelle cose che osserviamo e fotografiamo spesso le linee sono ben tracciate e definite (si pensi agli elementi architettonici, o alla semplice linea dell’orizzonte), altre volte sono solo accennate, appena intuibili nella disposizione degli elementi della foto e spesso in quest’ultimo caso è la bravura del fotografo a valorizzarle pienamente con le scelte compositive.
La linea dell’orizzonte è forse quella con la quale più spesso il fotografo si deve confrontare. Scegliere dove posizionare l’orizzonte ha un’importanza fondamentale nella composizione fotografica.
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Quando fotografiamo elementi architettonici, naturalmente, ci troviamo di fronte a linee ben nette da disporre nell’inquadratura (foto di Lorenzo Salinari).
Spesso, specialmente di fronte ad elementi naturali, le linee sono solo accennate, create dalla mente umana che tende ad unire gli elementi come in questo caso dove gli uccelli in volo sono disposti secondo una linea diagonale (si veda l’immagine seguente).
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La “linea” diagonale formata dagli uccelli in volo.
Quando scattiamo una fotografia il rettangolo del mirino rappresenta il piano sul quale le linee saranno disegnate. Lo stesso si può dire dei bordi della immagine ottenuta. Per questo motivo la valenza estetica delle linee sarà determinata in primo luogo dal loro rapporto con i margini della fotografia, cioè del piano che le racchiude. Dato le fotografie hanno forma rettangolare (o, al limite, quadrata) le linee che assumono una maggiore valenza sono quelle parallele ai due lati o alla diagonale della foto. In altre parole le linee orizzontali, quelle verticali e quelle diagonali (queste ultime specialmente se partono esattamente da uno dei quattro angoli) sono quelle che maggiormente attirano l’attenzione della mente dell’osservatore. Le linee orizzontali Le linee orizzontali in genere producono una impressione di staticità e di tranquillità. Questo perché istintivamente noi cerchiamo un piano di appoggio orizzontale, una linea che ci richiami quella familiare dell’orizzonte. Quando, in una foto, individuiamo una o più linee orizzontali, esse ci trasmettono un senso di stabilità. Osservando la foto che segue possiamo notare che essa si sviluppa lungo direttrici orizzontali sia negli elementi artificiali (casa, ferrovia), sia in quelli naturali (nuvole). Il risultato è un paesaggio in cui predomina la sensazione di calma e stabilità, complici in questo anche i colori freddi, anche se vivaci, dominanti nella scena (verde e blu).
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La composizione in questa fotografia è basata su elementi che si sviluppano lungo direttrici orizzontali (si veda l’immagine che segue). Il risultato è un senso di calma e tranquillità.
Lo sviluppo orizzontale degli elementi della foto.
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Naturalmente essendo le direttrici orizzontali così importanti nell’economia della composizione (particolar modo se una di queste è la linea dell’orizzonte), bisogna meditare molto bene il loro posizionamento all’interno della fotografia, lasciandosi magari guidare dalla regola dei terzi, come in questo caso:
La posizione della linea dell’orizzonte, in particolare, deve essere ben curata. E’ importante che sia perfettamente parallela al bordo orizzontale della foto e che sia posizionata in un punto strategico dell’immagine.
Le linee verticali Nella composizione fotografica le linee verticali in genere rendono le immagini più dinamiche rispetto a quelle in cui prevalgono elementi orizzontali. Questo perché le linee verticali vengono istintivamente associate alla caduta per forza di gravità o al volo. Le linee verticali sono ovviamente presenti nelle costruzioni umane, ma hanno una estensione verticale paragonabile ad una linea anche gli alberi e la figura umana. In genere se il soggetto si estende in verticale si preferirà una inquadratura verticale, se non altro per riempire il fotogramma. Ricordiamolo quando fotografiamo una persona a figura intera, o degli alberi.
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Spesso quando il nostro soggetto si estende in verticale, un’inquadratura verticale consente di valorizzarlo meglio.
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Il susseguirsi di linee verticali parallele tra loro nella fotografia di questi alberi.
Quando però gli elementi verticali devono essere messi in relazione tra di loro, spesso una inquadratura orizzontale permette di ottenere risultati migliori, come mostra l’immagine che segue:
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I pali della linea elettrica, con estensione verticale, sono messi in relazione tra loro dall’inquadratura orizzontale.
Naturalmente anche nella disposizione degli elementi verticali all’interno della foto si deve prestare attenzione. Per esempio, si dovrebbe prestare attenzione a che gli elementi verticali siano paralleli al margine verticale della fotografia. Inoltre, ricordiamo che anche con gli elementi verticali la regola dei terzi funziona benissimo dal punto di vista della composizione dell’immagine.
In questa fotografia gli elementi sono disposti tenendo conto della regola dei terzi.
Le linee oblique
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Si osservi nuovamente la fotografia dei pali della luce. Se tracciamo una linea che collega i vertici dei pali tra loro, e un’altra linea che ne collega le basi, ci rendiamo conto che nella fotografia in realtà è possibile individuare anche due linee oblique.
Le linee oblique “nascoste” nella nostra fotografia.
Queste linee oblique, convergendo verso un unico punto (diventando cioè delle diagonali), trasmettono una sensazione di profondità alla foto. Il caso più elementare nel quale possiamo notare questo fenomeno è quando fotografiamo una strada, come mostriamo nelle immagini seguenti.
Le linee oblique, convergenti verso un unico punto, donano profondità alla foto (si veda l’immagine in basso).
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Le diagonali convergenti.
Le linee oblique, in generale, trasmettono un senso di dinamicità più accentuato rispetto alle linee verticali. È per questo motivo che spesso i fotografi preferiscono inclinare la fotocamera quando riprendono un monumento o un palazzo, per far diventare oblique delle linee verticali, e quindi “movimentare” un po’ l’immagine.
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Foto di Lorenzo Salinari.
I rapporti tra le linee nella composizione dell’immagine Naturalmente in una fotografia in genere non ci sono linee di un solo tipo. Nella maggior parte dei casi avremo a che fare con linee e direttrici verticali, orizzontali ed oblique che dovranno essere armonizzate nel migliore dei modi dal fotografo con le sue scelte compositive. In effetti comporre spesso non vuol dire altro che mettere in rapporto tra di loro e con i bordi della fotografia le linee che riusciamo ad individuare o ad indovinare nella scena che stiamo per fotografare. Ecco alcuni esempi:
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In questa immagine, oltre alla linea dell’orizzonte, è possibile individuare molte altre direttrici, quasi tutte oblique, che danno un senso di profondità alla scena.
Le linee individuate nella foto precedente.
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In questa fotografia il susseguirsi di linee orizzontali, nettamente predominanti nella scena, dona un senso di tranquillità e stabilità. La scelta di mettere la struttura verticale al centro dell’inquadratura, contribuisce alla sensazione di stabilità. Se si desiderava un maggiore dinamismo, si sarebbe dovuta spostare la struttura verticale in un punto decentrato (foto di Lorenzo Salinari).
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Le linee diagonali della strada donano profondità alla scena.
In questa foto è possibile “indovinare” delle direttrici orizzontali e oblique anche nella disposizione delle nuvole.
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Pochi elementi grafici, basati su una linea orizzontale e due linee leggermente oblique, nonché sull’accostamento di colori delicati, caratterizzano la composizione di questa foto.
Sovrapponendo a questa immagine la griglia della suddivisione secondo la regola dei terzi si apprezza il modo in cui è stata curata la composizione.
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Come fotografare… elementi di teoria dei colori Pochi fotografi riflettono su come utilizzare i colori nella fotografia. Dopotutto a differenza dei pittori, che scelgono quali colori utilizzare e come accostarli, i fotografi, specialmente quelli che si dedicano alla natura e al paesaggio, i colori li trovano già confezionati nella scena che intendono immortalare, e si devono limitare a catturarli: non è così?
La natura è la tavolozza dei colori del fotografo. In questa foto il colore dominante è il blu, con piccole spruzzatine di giallo, arancione, rosso e verde.
In realtà non è proprio così. Il fotografo di paesaggio spesso, anche se entro certi limiti, può decidere quali colori includere, e quali escludere da una scena, cambiando l’inquadratura, oppure può semplicemente riprendere lo stesso panorama in un momento diverso della giornata, o dell’anno. Un paesaggio marino avrà come tonalità dominante il blu, se ripreso di giorno, il violetto o il rosso-arancio se ripreso al tramonto. Un campo di grano sarà marrone al momento dell’aratura, verde mentre il frumento sta crescendo, giallo quando il raccolto è quasi maturo. Anche il fotografo, quindi, dovrebbe conoscere qualche elemento di teoria dei colori, visto che il risultato finale, l’effetto della fotografia sull’osservatore, dipende anche in buona misura dai colori presenti sull’immagine e dal loro accostamento.
Colori primari, colori secondari e colori complementari I colori si dividono i colori primari e colori secondari. I colori primari sono il blu, il rosso e il giallo. Si tratta di colori puri, che non si possono ottenere mescolando altri colori e che, quando vengono miscelati tra di loro, permettono di ottenere tutti gli altri.
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La ruota dei colori. Sono colori primari blu, rosso e giallo, sono colori secondari arancio, verde e viola.
Mescolando due colori primari otteniamo i colori secondari. Ad esempio l’unione di blu e rosso genera il viola, l’unione di rosso e giallo genera l’arancione, l’unione di giallo e blu genera il verde. Viola, arancione e verde sono colori secondari. La ruota dei colori mostra quindi i sei colori dello spettro. Tutti gli altri colori non sono altro che variazioni di tonalità di questi. I colori complementari tra di loro sono quelli che si trovano ai lati opposti della ruota dei colori, quindi sono complementari tra loro le coppie rosso-verde, blu-arancio, viola-giallo. Ogni coppia di colori complementari pertanto è composta da un colore primario e dal colore secondario ottenuto mescolando gli altri due primari (ad esempio la coppia di complementari rosso-verde è composta da un primario, il rosso, e da un secondario ottenuto dagli altri due colori primari, il verde formato dal giallo e dal blu). Quando si accostano i due colori complementari si ottiene il massimo effetto di contrasto possibile.
Complementari giallo-viola.
Complementari rosso-verde.
Complementari blu-arancio. . . . Colori primari Il blu è il colore del cielo sereno. Forse per questo motivo quasi universalmente al blu sono associate sensazioni di tranquillità, sicurezza, calma e serenità. Si pensi alla canzone “Nel blu dipinto di blu” o, più prosaicamente, al colore dei moduli delle polizze assicurative. Il blu viene usato spesso, nell’arte, come colore
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del vestito della Vergine Maria, per simboleggiarne la serenità e la purezza (specie nelle “annunciazioni”), sovente in contrapposizione ad un altro indumento di colore rosso che allude alla passione del Cristo.
Beato Angelico, Annunciazione. Il mantello della Vergine è blu, colore che simboleggia la purezza e la serenità, la veste invece è di colore rosso, colore che allude alla futura passione di Cristo.
Il blu è ovviamente molto presente nelle fotografie, specie quelle di paesaggio, in quanto è il colore del cielo e del mare. Quando il blu è dominante in un’immagine, gli stati d’animo associati a questo colore, serenità e tranquillità, si trasmettono all’osservatore della fotografia.
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In questa foto il blu, nelle sue diverse sfumature, è chiaramente il colore dominante, tanto da rendere l'immagine quasi monocromatica. Molti osservatori proveranno un senso di tranquillità e serenità osservando un'immagine come questa.
Il giallo Il giallo è il colore più luminoso. Esistono infinite sfumature di blu, dal chiaro allo scuro. Ma il giallo, non appena diventa più scuro si trasforma in un’altra cosa: un arancione, un giallo-verde. Kandinsky, profondo conoscitore dei colori, ha scritto che “il giallo ha una tale tendenza al chiaro che non può esservi un giallo molto scuro” (Cfr. Jean Chevalier – Alain Gheerbrant, Dizionario dei simboli, Rizzoli, 2001, volume I, p. 499).
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In natura il giallo è piuttosto diffuso, ad esempio nei fiori o nel piumaggio degli uccelli. Il giallo è il colore della luce e, per estensione, nell’arte, della divinità. Si osservi l’annunciazione del Beato Angelico: sono gialle le aureole della Vergine e dell’angelo, così come le parole divine pronunciate a Maria. I bambini scelgono il giallo per disegnare il sole. L’oro è una tonalità di giallo, e quindi questo colore viene associato alla ricchezza e alla sovranità. Il giallo è il colore di molti fiori e del grano quando è pronto per la mietitura, per questo motivo è associato alla primavera e, per estensione, alla rinascita. E’ un colore che suscita emozioni positive. Si dice che scelgano abiti ed accessori gialli le persone che hanno una forte personalità, che stanno bene con se stesse, estroverse, sicure di sé. Il giallo non passa inosservato, infatti è, dopo il rosso, uno dei colori più scelti per le auto e le moto sportive. Per lo stesso motivo sono gialli molti segnali stradali che indicano la necessità di prestare attenzione (si pensi al semaforo). In fotografia un particolare giallo, specie se associato a colori meno vivaci (come il verde o il marrone) attirerà l’attenzione dell’occhio dell’osservatore.
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Una ciciarella: molti uccelli presentano una colorazione, almeno in parte, gialla.
Il rosso Colore del fuoco e del sangue, il rosso rappresenta l’amore, l’energia vitale, la sessualità, la passione. Nella tonalità porpora, per via di una tradizione plurimillenaria, rappresenta il potere. Sicuramente il rosso è il colore che ha la forza psicologica più forte. Attira immediatamente l’attenzione. Non a caso i segnali stradali di pericolo e di divieto hanno questo colore. In una fotografia un particolare rosso, anche molto piccolo, cattura immediatamente l’occhio dell’osservatore. Un fattore da tenere sempre presente quando si include qualcosa di questo colore in un’immagine.
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In una fotografia se è presente un particolare di colore rosso di solito questo tende a catturare l'occhio dell'osservatore.
Colori secondari
Il verde Il verde è il colore della vegetazione e quindi uno dei colori più diffusi nella fotografia di paesaggio. Proprio perché onnipresente in natura, ne è diventato il simbolo. Nei climi temperati il verde è associato allo sciogliersi della neve e al ritorno della primavera, nei climi mediterranei alla natura rigogliosa e alle stagioni piovose, nei paesi aridi alle oasi e alla presenza di acqua: sempre quindi ad un principio vitale e ad un momento di esplosione di vita. Per tale motivo forse il verde è universalmente il colore dell’armonia, della vita che scorre senza intoppi, della tranquillità e della sicurezza, anche economica (si pensi al denaro), del “via libera” (come nel caso del semaforo semaforo).
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Una foto quasi monocromatica sul verde.
Per tale motivo nella fotografia, specie quella di paesaggio, il verde trasmette sensazioni di quiete e pace, anche se in genere conviene spezzare il verde includendo nell’immagine particolari di altri colori – magari vivaci – oppure giocando con grafismi e variazioni di tonalità, al fine di evitare una eccessiva monotonia. Spesso i fotografi assegnano al verde il solo ruolo di “sfondo” rispetto al vero soggetto della foto, come nella foto della cinciarella in alto. Il verde infatti è un colore ideale per fare da sfondo, in quanto considerato quasi da tutti come gradevole e poco invasivo.
Il verde spesso domina nei paesaggi, ma è meglio interromperne la monotonia giocando con grafismi e accostandogli altri colori: in questa foto al verde in primo piano si contrappone il marrone (colore poco invasivo) nello sfondo e il grafismo delle curve ondulate del terreno.
Bisogna considerare però che la percezione del verde varia non poco a seconda della tonalità. Un verde brillante evoca sensazioni positive, mentre un verde pallido viene associato alla malattia, alla decomposizione e alla morte.
L’arancione L’arancione è composto dal giallo e dal rosso e si presenta con una vasta gamma di tonalità intermedie tra i due primari che lo compongono.
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La tonalità arancione di una foto scattata al tramonto. Meno vivace del rosso, è comunque un colore che non passa inosservato: si pensi all’abito dei monaci buddisti. Di solito l’arancione trasmette sensazioni positive ed è associato all’energia, alla gioia e all’allegria. Colore intermedio sotto tutti gli aspetti, per esso valgono molte delle considerazioni fatte per il giallo e il rosso, dei quali è figlio. In natura è il colore di alcuni fiori e frutti, del piumaggio, del becco e delle zampe di diversi uccelli, e di molti tipi di foglie in autunno. Spesso quindi, nella fotografia di un bosco autunnale, l’arancione viene percepito come colore dominante.
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L'arancione, nella fotografia di paesaggio, è il colore principe dell'autunno. Fotograficamente parlando l’arancione, a meno che non si faccia una macro ad un fiore o ad una foglia autunnale, difficilmente sarà il colore principale di una fotografia, ma va ricordato che è un colore piuttosto forte: pur non essendo incisivo come il rosso, un particolare arancione tende sempre catturare l’attenzione dell’osservatore.
L'arancione tende a catturare l'attenzione dell'osservatore, come nel caso del pettirosso di questa foto.
Il viola Il viola è un colore poco diffuso in natura, se si eccettuano alcuni fiori e la colorazione assunta per pochi minuti dal crepuscolo.
“Composto in egual proporzione di rosso e di azzurro” il viola è il colore della temperanza, “di lucidità e di azione riflessa, di equilibrio tra terra e cielo, i sensi e lo spirito, la passione e l’intelligenza, l’amore e la saggezza” .(Jean Chevalier – Alain Gheerbrant, Dizionario dei simboli, Rizzoli, 2001, volume II, p. 560). Nella simbologia al viola sono associate la solennità, la mistica, la modestia, la timidezza, il crepuscolo, la morte intesa come passaggio ad altra vita. In genere il viola è considerato un colore piacevole e riposante. Bisogna però tener conto del fatto che, se nelle tonalità più brillanti è associato all’allegria, nelle tonalità più scure, con una forte presenza di blu, può essere percepito da alcuni come un colore molto triste, inquietante e deprimente. Si pensi all’uso del viola che fa Edvard Munch nel celebre “Sera sul viale Karl Johan”, per non parlare de “L’urlo”.
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Edvard Munch, Sera sulla via Karl Johann. La passeggiata al crepuscolo, tipica abitudine borghese, viene trasformata in una processione di fantasmi. I volti assomigliano a teschi giallognoli. L'orrore della scena, il senso di alienazione della figura solitaria, identificata con il pittore stesso, vengono accentuati dallo sfondo viola. Da notare il contrasto tra le finestre, illuminate in giallo e il viola dell'atmosfera. Viola e giallo sono due colori complementari. In fotografia il viola raramente è il colore predominante di un’immagine, a meno che ovviamente non si fotografino dei fiori di questo colore, oppure non si scatti al crepuscolo.
Nella fotografia di paesaggio il colore viola diventa protagonista per alcuni minuti al crepuscolo. Colori caldi e colori freddi
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I colori sono inoltre suddivisi, in base alle sensazioni che trasmettono, in caldi e freddi. Sono considerati colori caldi il rosso, il giallo e l’arancione. Sono considerati colori freddi il blu, il verde e il violetto.
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