UTOPIA NEL FUMETTO VIAGGIO AI CONFINI DELL’ARCHITETTURA
LUCA MARAZZINI 804361
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Una delle cose fondamentali nei fumetti è il portare l’occhio dentro l’immagine, e, in questo, l’architettura è un valido strumento perchè permette di guidare, di orientare lo sguardo attraverso un gioco di materiali e di luci.
François Schuiten
Spesso il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità o coraggio di fare.
Adriano Olivetti
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Introduzione
Architettura e Fumetto
L’Architetto Fumettista
L’Utopia nel Fumetto
Shō M
Riferimenti
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Introduzione Vorrei da subito precisare che questo lavoro non vuole essere una ricerca esaustiva sui temi e le contaminazioni di Architettura, Utopia e Fumetto, quanto piuttosto una raccolta di scritti che inquadrano alcuni aspetti dei molteplici scenari possibili. Solo in questi ultimi anni in Italia si riconosce il valore e l’utilità del Fumetto come strumento per l’Architettura, dunque questo lavoro tenterà di esplorare le interazioni tra queste due Arti, che considero nella mia visione ugualmente importanti. Si introdurrà la figura dell’Architetto Fumettista, una professione nuova ma che si sta diffondendo anche nel panorama italiano e che tengo ad analizzare per una mia auspicabile carriera futura. In ultima analisi, ma non meno importante, si parlerà dell’Utopia, un tema aperto a innumerevoli interazioni con il Fumetto e L’Architettura, che svolgerò aiutandomi con alcuni esempi. Infine ritengo doveroso citare fin da ora le tesi che hanno spazio in questa raccolta, “Sequenze urbane, la metropoli del fumetto”,dell’italiano Andrea Alberghini e “The Comic Architect: Words and pictures along the line between architecture and comics” dello statunitense James Benedict Brown, lavori pioneristici nella trattazione di questi temi e che spero abbiano un seguito negli anni a venire. Luca Marazzini
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SI PARTE!!!
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Fumetti e Spazio: architettura mentale Saggio di Benoit Peeters
I fumetti mantengono da sempre un legame privilegiato con l’architettura, sia essa reale o immaginaria. Negli anni successivi all’Esposizione Universale di Bruxelles del 1958, si vive il grande sogno dell’anno 2000, di cui troviamo eco nei fumetti. Di certo si sognava dell’anno 2000 già dall’epoca di Jules Verne e di Robida, ma solo adesso improvvisamente appare come una realtà vicinissima. Si vedono così fiorire innumerevoli immagini: ci sono nuovi materiali, nuovi veicoli, nuove idee urbane; si pensa a città sull’acqua, città sospese, città mobili, città smontabili, case in plastica: tutto quel filone che va da Archigram a Yona Friedman, di cui Michel Ragon si fa promotore nei libri sull’architettura che pubblica in questo periodo. Questo movimento coincide con la comparsa di quello che verrà definito il fumetto adulto: Guido Crepax, Jean-Claude Forest, i primi album di Druillet, eccetera. I fumetti degli anni Sessanta vogliono liberarsi dalla costrizione del legame con l’infanzia, vogliono esplorare nuovi temi, a cominciare dalle tematiche erotiche e politiche, ma anche nuove forme di albo, nuovi stili di colorazione e così via. Si sente l’influenza della pop art, del cinema di Godard; si ha l’impressione che lo spirito dell’utopia, l’idea di un mondo nuovo, in cui tutto o quasi sarà possibile, impregni il fumetto e le arti decorative di quegli anni. Queste idee, a cui il maggio ‘68 darà una nuova dimensione, sono già fortemente presenti a metà degli anni Sessanta. Ma si tratta inizialmente di un’utopia tecnologica dal tono globalmente ottimista: si ha la sensazione che ben 8
presto quasi tutto sarà possibile, che i mezzi di trasporto saranno modificati radicalmente, che la città e l’essere umano si libereranno dai vecchi fardelli, in senso proprio e in senso figurato. Tutto ciò è ovviamente contemporaneo all’euforia della conquista dello spazio: si pensa che si potrebbe forse lasciare la terra, essere capaci di abitare in stazioni nello spazio, ma anche conquistare altri pianeti, con modalità che non appartengono soltanto alla fantascienza. Questo stato d’animo trova risonanza particolare in un certo numero di fumetti che appaiono in quel periodo. Una serie come “Valérian” di Christin e Mézières è estremamente caratteristica di questo sentire, così come “Les Naufragés du temps” di Forest e Gillon. Senza dimenticare i primi album di Druillet e Moebius, o il Philémon di Fred: la scomposizione della pagina del fumetto, il modo di proporre nuove architetture all’interno della pagina corrispondono all’idea del mondo nel quale si potrebbe vivere. La libertà si impone ovunque, negli scenari e negli oggetti rappresentati, ma anche nelle forme e nei colori. La leggibilità di una storia non si basa più necessariamente sulla Iinearità, così come la città futura reinventa il proprio stile e i propri usi al di là del funzionalismo. Più ancora del cinema, i fumetti di quegli anni contribuiscono a creare questi nuovi spazi, a farci percepire questi nuovi modi di muovere e di vivere. I fumetti si sono liberati della propria pesantezza e contribuiscono a farci familiarizzare con uno spazio fluido, fluttuante, aereo. I fumetti erano senza dubbio vocati a comunicare questo sentimento di libertà, al di là del racconto e dei discorsi ideologici. Nei lavori di Rodolphe Tòpffer; intorno al 1840, si gioca già con il telegrafo. 9
In “Little Nemo” di Winsor McCay, intorno al 1910, ci si arrampica sui grattacieli e si fa scalo su Marte. Nelle prime avventure di “Tintin”, malgrado l’ideologia molto conservatrice del giornale che lo pubblica, Hergé riesce a trasmettere un a sensazione di velocità e modernità che ha contribuito moltissimo a sedurre i bambini degli anni Trenta: si inforcano le moto, si salta su gli aerei e ci si fa accalappiare dalla televisione che è appena stata inventata. Questa modernità sembra intimamente legata al medium fumetto. Per molto tempo, la visione che la maggior parte dei fumetti comunica - che la cosa sia cosciente o meno - è una visione ottimistica, e spesso euforica. Questo è particolarmente evidente negli album di “Spirou et Fantasio” disegnati da Franquin: le autovetture, le case, le strade trasmettono l’immagine di un mondo in cui molte cose diventeranno possibili, di un mondo mobile e colorato. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, il Belgio si è modernizzato più velocemente di altri paesi europei e ha subito l’influenza dell’american way of life con maggiore forza, e questo non è certamente estraneo al successo internazionale dei fumetti belgi. Con uno slancio ludico e giovanile, i fumetti belgi davano l’impressione che il futuro fosse desiderabile, che la scienza e la tecnologia avrebbero continuato a progredire. A generazioni di bambini, che vivevano in città di provincia, in abitazioni grigi e e tristi, i fumetti stessi sembravano una forma di liberazione. Settimanali come Tintin e Spirou, poi Pilote, hanno segnato profondamente l’immaginario di più generazioni di lettori, suscitando la voglia di diventare scienziati, ingegneri o architetti. I fumetti instillavano, per la loro stessa forma, il desiderio 10
del mondo di domani. Possiamo considerare l’”Atomium” - e gli albi di fumetti che si rifanno al corrispondente Style Atome - come un tentativo più o meno cosciente di rispondere allo shock di Hiroshima. L’atomo, la plastica, la velocità, il design, i robot sono percepiti come altrettanti segni positivi dell’ingresso in un nuovo mondo dove la crescita sarebbe stata senza limiti e la pace universale, dove si sarebbe viaggiato sempre più lontano e sempre più velocemente. Tutto ciò diventa difficile da capire per noi che siamo entrati da venti o trenta anni nel disincanto della modernità. La crisi energetica, le minacce ambietali, la caduta del muro di Berlino e la fine dell’utopia comunista ci hanno proiettato a poco a poco in un immaginario del tutto antagonista. AI giorno d’oggi, l’architettura degli anni Sessanta è diventata sinonimo di smaltimento dell’amianto e di violenze urbane. Quando si pensa alla plastica, si visualizza immediatamente il riciclo dei rifiuti; quando si evoca l’energia nucleare, non è più l’immagine dell’Atomium che ci viene in mente, ma quelle di Chernobyl e Fukushima. Abbiamo talmente introitato i concetti di surriscaldamento del clima e sfruttamento delle risorse naturali che ci è quasi impossibile immaginare il sogno proposto dalle macchine volanti e dalle città sospese. Molto prima dell’anno 2000, i fantasmi dell’utopia erano già spariti. Il grande sogno modernista è fiorito negli anni Cinquanta e Sessanta per spegnersi un poco negli anni Settanta e Ottanta. Più l’anno 2000 si avvicinava, più si capiva che non avrebbe avuto niente a che fare con le visioni che ne erano state proposte. Ironicamente e in maniera sintomatica, quello di cui 11
si parla alla fine degli anni Novanta è il millenium bug: una macchina che si inceppa , addirittura il contrario di un’utopia. Mi sembra, oggi, che queste evoluzioni dell‘immaginario si possano ritrovare nello svolgersi della serie di “Les Cités Obscures” che ho sviluppato a partire dal 1983 con François Schuiten. Il tema latente dei nostri primi albi, concepiti e di segnati durante gli anni Ottanta, è la critica dell’utopia. In “Les Murailles de Samaris”, “La fièvre d’Urbican de a Brusel”, riprendevamo i segni della modernità così come erano stati messi in scena alla fine del XIX secolo e all’ inizio del xx da Jules Verne, dai futuristi italiani e da Le Corbusier. Questi albi mostrano “il futuro del passato” o, forse ancora meglio, “il passato del futuro”. C’è la città-facciata de “Les Murailles de Samaris”, la città monumentale e totalitaria di Urbicande minacciata da un fenomeno fantastico che l’urbanista non può controllare, la città dai lavori incessanti di Brusel in cui politici e architetti sono completamente sopraffatti da ciò che accade. Certamente non ne avevamo piena coscienza mentre realizzavamo queste storie, ma oggi la loro simultaneità con il crollo delle grandi utopie ci appare evidente. E lo è ancora di più quando si guardano gli album di Bilal, dal momento che il suo legame con le realtà politiche e geografiche del nostro mondo è più diretto. Bilal ha avuto in particolar modo il talento di percepire e sintetizzare in maniera molto forte le immagini chiave del nostro futuro immediato. Più in generale, credo che i fumetti abbiano un’attitudine a convertire in segni sorprendenti e memorabili le immagini di un‘epoca. Riescono a impossessarsi di ogni tipo di elemento che ci circonda e a catalizzarlo. 12
“Les Cités Obscures”, Schuiten, Peeters
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Ciò è dovuto al fatto che i fumetti devono appropriarsi graficamente di tutti gli elementi che rappresentano: prospettive vaste oppure oggetti e volti; nessun segno viene trasmesso in maniera immediata, i fumetti li ricompongono e danno loro nuova forma. Ma quest’attitudine si deve anche alla modalità di lettura che il fumetto richiede: un fumetto non si esaurisce in una sola volta, lo si legge prima per la storia, poi lo si rilegge, soprattutto quando si è bambini. Lo si riprende soffermandosi sulle immagini che ci hanno colpito, le “vignette memorabili”, come le ha ribattezzate Pierre Sterckx. A questo riguardo, dietro la loro semplicità apparente, i fumetti sono probabilmente uno dei mezzi migliori per imprimere in maniera duratura un segno nell’immaginario del lettore. Il cinema è, per sua natura, fugace: le immagini si succedono velocemente, ogni fotogramma scaccia quello che lo precede. I clip, la televisione, internet propongono immagini ancora più furtive, mentre i fumetti funzionano per soste sulle immagini. Un elemento come il razzo lunare di Tintin si fissa nella memoria per sempre. Per quanto possiamo aver visto e rivisto le immagini reali della NASA, in qualche modo, non saremo mai andati sulla luna come l’abbiamo fatto con Tintin e il suo razzo a quadri rossi e bianchi: è un segno deciso, con un tratto lineare, con dei colori piatti; è uno sche ma quasi astratto, e perfettamente memorizzabile. Per descrivere buona parte dei fumetti contemporanei, l’idea di architettura mentale mi sembra la più indicata. È come se un’immagine prodotta dal cervello si stia sostituendo all’immagine della città come luogo fisico. Nella loro forma classica, i fumetti propongono piccoli mondi realizzati a una scala gradevole, immagini situate in uno spazio familiare, intimo, che si possa tenere 14
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sotto controllo e dominare. Lo stesso termine “vignetta” fa pensare a una casa, una capanna, una camera. Lo spazio globale della pagina è, a sua volta, analogo al fabbricato, all’abitazione condivisa, con i suoi piani, i suoi corridoi, le sue scale. La pagina (e ancor più la doppia pagina) esiste come un insieme che si comprende in un solo colpo d’occhio, ma al tempo stesso occorre prendersi il tempo di leggerla gradualmente. Vi si cammina senza perdersi. Si percepisce l’immagine globale prima di leggere pazientemente, si avanza, si torna sui propri passi. Questa doppia dimensione - tabulare e lineare - è una specificità essenziale del medium, che ho a lungo trattato nel mio libro “Lire la bande dessinée”. Ma in alcuni fumetti contemporanei, le vignette funzio-
Chris Ware ,“jimmy Corrigan Lint e Building Stories”
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nano soprattutto come frammenti della nostra realtà mentale; sono al tempo stesso simultanee e successive, esteriori e interiori, concrete e schematiche. Parecchi autori di oggi - a questo riguardo Chris Ware è il più emblematico, ma questo fenomeno è presente anche ne “In the Shadow of No Towers” di Spiegelman ad esempio, e in un buon numero di manga - sono riusciti, al di là di qualunque rappresentazione precisa degli immobili architettonici, a darci la sensazione di essere immersi in uno spazio urbano plurale e composito, in cui tutto è molto vicino e al tempo stesso molto lontano. La tavola dei fumetti ci propone un a visione quasi globale: i primi piani dei volti, i segni astratti, i piani di insieme coesistono in una sintesi di spazio e tempo, di movimento e immobilità del tutto originale. Con “jimmy Corrigan Lint e Building Stories” di Chris Ware, non siamo più in presenza di un montaggio sequenziale: piano di insieme, poi piano ravvicinato, primo piano, carrellata, eccetera. Ci si trova in una vibrazione particolare dell’istante, uno spazio complesso, al tempo stesso oggettivo e soggettivo, in cui le vignette esistono in maniera quasi sincrona. Sono come tanti frammenti di un puzzle che il lettore deve organizzare poco a poco. Sono pagine che potremmo definire neuronali, o rizomatiche. Nelle opere di Chris Ware c’è qualcosa che può ricordare “La Vie mode d’emploi”, il grande romanzo di Georges Perec, che è la descrizione di un immobile parigino: ci si trova contemporaneamente nel succedersi degli anni, nella successione dei piani, nella descrizione quasi statica, nella profusione dei racconti che si intrecciano. Non si lascia l’immobile e pertanto non si smette di viaggiare. 17
Sono sensazioni che albi come quelli di Chris Ware suscitano in maniera evidente. Ci si situa in un passato lontano e al tempo stesso nella modernità estrema, in uno spazio architettonico e al cuore dell’intimità di alcuni personaggi fragili. È un universo che è insieme esterno e interno, tranquillizzante e pericoloso, vasto e minuscolo, regressivo e prospettico. Si ha l’impressione, senza dubbio caratteristica degli anni in cui viviamo, che non si tratti più di proporre un nuovo modello urbano, ma di vivere con i frammenti sparsi della realtà che ci circonda, una realtà al tempo stesso minuscola e smisurata. Questo si percepisce bene nel mirabile inizio di ]immy Corrigan: si tratta della storia di un giovane che cerca il padre che lo ha abbandonato; ma questa storia, che ha una dimensione umana e psicologica, inizia con una visione di ordine cosmico. Ci si avvicina lentamente alla terra, poi ad una città, a una casa, e così via. Grazie a queste maniere così diverse di stratificare lo spazio e il tempo, di giocare con il tempo di lettura, i fumetti mi sembrano una forma assolutamente valida ancora oggi, e sono convinto che ci riserveranno ancora delle vere sorprese. Nati con Rodolphe Tòpffer negli anni Trenta (contemporaneamente alla fotografia), fioriti intorno al 1900 (nel momento in cui il cinema fa la sua apparizione), i fumetti sono stati in grado di sopravvivere all’apparizione della radio, della televisione o di internet poiché posseggono una loro specificità, con possibilità creative che appartengono solo al fumetto. Non è un mezzo audiovisivo, un parente povero del cartone animato: non gli manca né il suono né il movimento (non più di quanto le immagini manchino alla letteratura). È una forma plastica e narrativa che conti18
nua a inventare il proprio linguaggio. Di generazione in generazione, di paese in paese, di stile in stile, i fumetti hanno saputo reinventare, tematiche e lettori. Questo piccolo mezzo dall’aspetto così semplice, che ognuno può praticare a casa propria con un foglio di carta e qualche utensile poco costoso, continua a poter essere Ietto con piacere dai bambini e dagli adulti del XXI secolo. C’è probabilmente una complementarità fra la semplicità di questo mezzo e il cervello umano: questo modo di mettere insieme più figure nel breve spazio di una pagina, di far giocare parole e immagini in modo indissociabile, di proporre un disegno semplificato e preciso insieme, di oscillare costantemente fra realismo e caricatura. I fumetti stilizzano il nostro rapporto con il mondo, si potrebbe dire che lo “mentalizzano”. Per citare ancora una volta Chris Ware (ma vale ugualmente per Hergé, Hugo Pratt e molti altri autori) i fumetti ci trasmettono non tanto le cose, quanto la rappresentazione delle cose, non tanto gli oggetti quanto i segni a cui possono dare vita. Non si accontentano di mostrarci il mondo, rivolgono al mondo uno sguardo che lo decodifica in un solo colpo. Per il lettore, anche molto giovane, è senz’altro un modo di assimilare il mondo, di appropriarsene. Penso quindi che, anche se un giorno i fumetti non fossero più realizzati su carta, anche se fossero realizzati su altri supporti, murali o informatici, qualcosa della forma dei fumetti sarà in grado di conservare la propria validità. Se il fumetto non abdicherà a ciò che possiede di unico, ha ancora un grande futuro davanti a sè.
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Architettura e Fumetto I numerosi studi, che si sono interessati del fumetto e dell’architettura, in rapporto alle altre forme d’arte, però non hanno guardato con attenzione al rapporto tra queste ultime due. A occuparsi dell’argomento sono stati giovani studiosi, presumibilmente grandi lettori di fumetti, che hanno coniugato i loro studi e le loro ricerche universitarie con la passione per i comics. Due in particolare si distinguono: in Italia Andrea Alberghini che nel 1997 svolge la tesi di laurea in architettura sulla città nei fumetti, lavoro che verrà poi pubblicato nel 2000 con il titolo “Sequenze urbane. La metropoli nel fumetto”, all’estero, invece è James Benedict Brown che, nel 2007, presso la scuola di architettura della University of Sheffield, discuterà la tesi dal titolo “The Comic Architect: Words and Pictures Along the Line Between Architecture and Comics”. In entrambi i casi l’oggetto principale dell’osservazione è la città: e la sua rappresentazione nei fumetti: città utopiche, città reali, città postatomiche, città immaginate e immaginarie. Lo spazio urbano, osservato all’interno della cornice di una vignetta, inquadrato nel racconto di una storia, è il vero protagonista dei loro interessi. In particolare Alberghini si concentra sulla città perché, come scrive nelle conclusioni del suo lavoro, l’obiettivo è quello di spiegare qual è il reale contributo che il fumetto, in quanto mass medium, può dare alla comprensione dei “fenomeni urbani” che, sin dalle ambientazioni di Winsor McCay, costituiscono lo sfondo delle storie che rappresenta”. La rappresentazione della città nei fumetti dà sempre spunti di riflessione sul modo di vedere l’ambiente che l’uomo si costruisce per vivere. 22
Di contro, James Benedict Brown non si occupa solo della città nei fumetti ma anche di come il fumetto possa aiutare i processi di creazione dell ‘architettura. Il suo lavoro prova a dare risposta a due precise domande. Nella prima si chiede se i fumetti possano essere un modo diverso, per certi versi anche più sofisticato, di osservare e progettare l’architettura. Con la seconda vuole invece verificare se la struttura narrativa dei fumetti possa contribuire alla costruzione di processi architettonici. Le risposte le cerca sia in scala architettonica, attraverso l’analisi dei lavori di Joost Swarte e Chris Ware, sia in scala urbana, mediante flaneur di Parigi, di benjaminiana memoria, e flaneur di Manhattan visti con l’opera di Ben Katchor. Brown, intervistando i fumettisti di cui si è occupato, arriva a concludere che ognuno di loro ha un modo diverso di intendere e rappresentare l’architettura nelle proprie opere. Ma tutti riconoscono comunque l’importanza della figurazione di architetture e/o di città nelle loro storie. Solo nel 2010, alla rassegna Archi & BD, La ville dessinée realizzata alla Cité de l’architecture & du patrimoine di Parigi, viene trattato, per la prima volta all’interno di una grande manifestazione di richiamo internazionale, il tema del fumetto in relazione all’architettura. L’orientamento continua a essere di tipo urbanistico: si guarda alla città, rappresentata o immaginata nei fumetti, a cominciare da Paperopoli per finire alle metropoli futuristiche delle archistar contemporanee, passando dalla New York di Little Nemo ai grattacieli post 11 settembre 2001. Si mette in evidenza che le giovani generazioni di architetti, sempre più spesso, si avvalgono del fumetto come linguaggio, più diretto e incisivo, per comunicare le loro idee, i loro progetti. 23
Mentre si riconosce ai fumettisti la capacità visionaria di intuire i tempi che verranno tanto che, nei titoli a caratteri cubitali di un quotidiano italiano, si legge “disegnatori e sceneggiatori sono ormai i veri sismografi della modernità”. La capacità visionaria di vedere oltre nel tempo e di immaginare mondi e realtà che potranno venire in un futuro, più o meno lontano, è riconosciuta non solo a disegnatori e sceneggiatori o a certi architetti ma a tutti gli artisti in generale. La rassegna parigina mette in luce questi aspetti attraverso alcune pratiche architettoniche contemporanee che assumono caratteri “fumettistici”, sia nell’accezione positiva sia in quella negativa. In quella positiva quando gli architetti usano il linguaggio dei fumetti per la progettazione o la comunicazione dell’architettura o la promozione e divulgazione della propria attività professionale. In termini negativi quando il fumetto, la vignetta, registra e denuncia un’architettura fuori misura, surreale , inappropriata, deforme, eccessiva, perfino ironica. Il fumetto e l’architettura, nella mostra alla Cité de l’architecture & du patrimoine di Parigi, si incontrano anche nel cinema. Film come Metropolis, BIade Runner o il più recente Inception dimostrano come queste tre arti si integrino e completino con continue e spesso necessarie invasioni di campo linguistico. In Italia arrivano i riflessi di questo evento e del conseguente di battito e i giornali riempiono le pagine della cultura con titoli dai toni roboanti: Chi è I’archistar di Paperopoli?; Metropolis la città fantastica. Cinema & fumetto architetture per mondi futuri. Ci si accorge dell’interesse d’Oltralpe e comincia a maturare anche da noi una maggiore consapevolezza dello stretto legame ch e esiste tra il mondo della “letteratura disegnata” e quello della “musica congelata”, tanto 24
per usare due metafore che rimandano ad altre forme d’arte con cui fumetto e architettura hanno legami. Nello stesso anno della mostra parigina, negli Stati Uniti d’America, i professori Jorn Ahrens e Arno Meteling, docenti universitari rispettivamente di sociologia e di letteratura, curano la raccolta di saggi dal titolo “Comics and the City. Urban Space in Print, Picture and Sequence”. Il loro lavoro raccoglie diversi punti di vista sul dibattito che si è generato a seguito della pubblicazione di fumetti di notevole spessore letterario e artistico come: “Maus” di Art Spiegelman, “Il ritorno del Cavaliere Oscuro” di Frank Miller e “Watchmen” di Alan Moore e Dave Gibbons. Da questi lavori e da quelli che si registrano nel panorama europeo (fanno riferimento alle opere di Moebius, di Jacques Tardi, di Hugo Pratt e di Enki Bilal) è evidente come lo status di quel mezzo di comunicazione della cultura di massa si sia evolulo: così, “i fumetti” non si riflettono solo nella pletora degli adattamenti cinematografici o nella cultura sempre più globale dei fan, ma anche nell’uso diffuso in tutti gli aspetti della vita moderna dei loro contenuti, icone ed estetiche. Tuttavia sembra che, dopo tanta letteratura in materia di fumetti - da Eco a Eisner, da McCloud a Barbieri- la cultura cosidetta alta e soprattutto il mondo accademico resistano acora ad accettare il fumetto come espressione culturale, combinazione di contenuti letterari e di immagini di elevato valore artistico. Ahrens e Meteling adducono una duplice motivazione per questo stato d’ignoranza o di disattenzione da parte di un a certa classe di accademici. Essi sostengono che “soprattutto, l’ancor diffuso disprezzo accademico nei confronti dei fumetti sembra essere motivato da due fattori principali: per prima cosa, c’è un’ignoranza generale sulla varietà dei temi e dei soggetti offerti dai 25
Will Eisner, Last frontier.
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libri di fumetti, che coincide con la convinzione che i fumetti sono la provincia dei bambini o degli adulti semi-alfabetizzati. Il secondo fattore può essere fatto risalire alla specifica natura di questo medium, poiché i fumetti sono un unico mezzo ibrido che combina parole e immagine in una sequenza spaziale”. Stranamente sembra ch e qui si ripropongano i pregiudizi trattati da Eco, ormai quasi cinquanta anni orsono. Il mondo si divide sempre tra “apocalittici” e “integrati”. Non si conosce la varietà dei contenuti dei fumetti e il contributo che questi danno alla formazione del senso critico delle nuove generazioni di lettori. Non si riconosce che si tratta di un medium “multimediale” ante litteram, come afferma Eco. Esso è autentico, non è un‘ibridazione di altri linguaggio sistemi di comunicazione. La storia del fumetto nasce con l’uomo. E per usare le parole di Umberto Eco, “tranne che per i disattenti, per cui il fumetto rappresenta ancora un esempio di produzione commerciale riservata a fanciulli e analfabeti, questo genere “multimediale” (e sì , esso è pur sempre limitatamente tale, e ante litteram) presenta alcune curiose caratteristiche, almeno in termini di storia delle culture”. I saggi, in perfetto stile accademico, raccolti da Ahrens e MeteIing provano quindi a smontare questi pregiudizi, guardando alla città come luogo di incontro tra il fumetto e la realtà. Dopo un primo sguardo storico, la città è osservata nelle sue diverse sfaccettature: dalla dimensione di metropoli moderna con i suoi spazi vitali alle città dei supereroi; dall‘essere specchiata nei riflessi della vita quotidiana dei personaggi dei fumetti a quel sentimento di nostalgia “retrò futurista“ di certe ambientazioni retrò. Ognuno di questi aspetti urbani registrati dal mondo dei fumetti non fa altro che confer27
mare la complessità dell e città moderne. Complessità con cui deve fare i conti quotidianamente l’uomo urbano preso individualmente, così come è rappresentato da Will Eisner nel suo “New York. The Big City”: “viste da lontano, le grandi città sono un accumulo di grandi edifici,di grandi popolazioni e di grandi superfici. Questo per me non è “reale”. La grande città così com’è vista dai suoi abitanti è reale. La vera immagine è nelle fessure dei suoi pavimenti e intorno ai pezzi più piccoli dell a sua architettura, dove la vita quotidiana si affolla”. C’è più consapevolezza dei veri fatti urbani nelle parole e soprattutto nelle vignette di Will Eisner che in molti progetti di città pensati dagli urbanisti, accademici o professionisti. Il dibattito, anche a seguito della risonanza internazionale che hanno avuto questi eventi e pubblicazioni, si vivacizza e molti architetti e fumettisti prendono coscienza dei diversi punti di contatto tra queste due pratiche: le utopie, le distopie, lo spirito del tempo, il valore mediatico, le città sfondo della vita e delle narrazioni, le architetture ospiti della quotidianità e delle storie. Inoltre gli architetti che si sono dedicati al fumetto piuttosto che all’industria delle costruzioni vedono riconosciuto finalmente il valore dei loro lavori sia come fumetti sia come architetture. Nelle loro opere il confine tra architettura e fumetto è quasi inesistente e numerose rappresentazioni potrebbero essere facilmente costruite, come molte delle architetture dei loro colleghi archistar. Un esempio è dato dal progetto, mostrato in “Batman. Death by Design” , per la nuova Wayne CentraI Station dell’archistar di pura invenzione Kem Roomhaus. I riferimenti usati da Chip Kidd e Dave Taylor sono numerosi e incrociati. 28
Chip Kidd, Dave Taylor, “Wayne Center Station, Batman. Death by Design”.
Santiago Calatrava, “Palazzo delle Arti”, Valencia
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Per l’architettura organica dell’avveniristica stazione si rifanno all’opera di Santiago Calatrava, che usa strutture zoomorfe per le sue realizzazioni. Mentre il nome dell’archistar, Kem Roornhaus, così come la sua provenienza, di origini olandesi, non possono che essere, per assonanza e per luogo d’origine, un chiaro riferimento all’architetto olandese Rem Koolhaas. Viceversa accade che molte costruzioni reali sembrino proprio uscite dalle pagine di un fumetto di Chip Kidd o di Joost Swarte. Esemplari in questo caso sono la Glass Video Gallery di Bernard Tschumi a Groningen o certe architetture dello studio MVRDV, come il recente Chungha Building di Seul. Dopo tre anni dall‘evento parigino, il xv Salone Internazionale del fumetto di Napoli Comicon sceglie come tema il rapporto tra fumetto e architettura, quasi del tutto inesplorato in Italia. Il titolo, “2013: Fumetto &Architettura”, è declinato con la progettazione di una nuova e futuristica architettura, la C.O.M. (Comics Oriented Module). Il progetto, realizzato da Davide Coluzzi, con i progettisti di Spazimultipli e la collabo razione di Doppiavù Design, è una città- astronave immaginata, nella migliore tradizione utopistica, per ospitare spazi ed eventi dedicati al fumetto. C.O.M. è un vero e proprio museo itinerante contenente anche la Grande Biblioteca Mondiale del Fumetto, forse riferimento alla biblioteca immaginata da Dylan Horrocks per la sua Hicksville: In questo modo, così creativo e autentico, l’Italia sembra intenzionata a recuperare il ritardo accumulato in materia di architettura e fumetto. È solo di un anno prima, il 2012, il bel lavoro di Mélanie van der Hoorn: “Bricks & Balloons. Architecture in co30
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Davide Coluzzi, Spazimultipli, Doppiavù, “C.O.M.”
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mic-strip form”. La studiosa olandese che non si limita a mostrare l’esistenza del rapporto tra le due arti presentando i lavori di fumettisti che si avvalgono dell’architettura e degli architetti che usano i fumetti. Mélanie van der Hoorn si pone una serie di domande che meritano ulteriori riflessioni e approfondimenti. Organizza lo studio dell‘architettura in forma di fumetti in due grandi ambiti tematici: la critica architettonica e la progettazione architettonica, ovvero come il fumetto può essere uno strumento di critica ma anche di progetto. In questo senso, la ricerca di Mélanie van der Hoorn punta però quasi esclusivamente al mondo degli architetti che si avvalgono del fumetto per comunicare, progettare o anche autopromuoversi. Essa non si occupa invece di come i fumettisti guardino all’architettura o la usino nei loro lavori. Alla base delle sue riflessioni si chiede se fare architettura usando il linguaggio dei fumetti sia davvero una cosa seria e, di conseguenza, si chiede perché gli architetti che lo fanno non si esprimono invece con il linguaggio dei disegni architettonici. La risposta più facile da dare è che si usa il fumetto per la sua capacità e velocità di comunicare messaggi anche complessi. Nella società delle masse anche i mezzi di comunicazione più radicati e tradizionali - consideriamo tra questi anche l’architettura per il suo valore di mass medium - devono adeguarsi a sistemi meno tecnici e sempre più universali di comunicazione, per non restare annullati dai media più potenti. È come se l’architettura, come mezzo di comunicazione di massa, non bastasse più a se stessa. L’informazione architettonica per essere efficace deve usare altri canali e mezzi. Altrimenti il rischio che corre è quello di diventare un 33
medium debole, troppo depotenziato per portare avanti nuovi messaggi. Un’altra ragione, derivata in parte dalla precedente, è che l’architettura non costruita ha necessità di numerosi controlli prima di essere definitivamente realizzata. Controlli e valutazioni che oggi, seguendo le indicazioni di Bruno Zevi sulla rappresentazione dello spazio architettonico, vengono effettuati con tutti gli strumenti a disposizione dei progettisti: dalle immagini virtuali elettroniche ai modellini reali in scala ridotta; dagli schizzi a matita alle conseguenti piante, prospetti e sezioni; dai brevi filmati ai racconti a fumetti. Anche in questo caso si corre il rischio di scadere in una retorica architettonica autoreferenzia le fine a se stessa. Tuttavia avverte Umberto Eco che “l’architettura pare presentarsi come un messaggio persuasivo e indubbiamente consolatorio ma che possiede nel contempo degli aspetti euristici e inventivi”. Un ulteriore motivo è che la condizione di effimerità delle architetture disegnate consente al progettista libertà espressive e di immaginazione senza alcun confine oltre a quello della propria creatività. L’architettura dei fumetti rientrerebbe a pieno titolo nel paradigma effimero di quelle temporanee poiché, come abbiamo scritto in passato riferendoci alle opere nomadi di John Hejduk, l’importanza di questo tipo di espressione architettonica, a metà tra l’arte e l’alta tecnologia, non risiede solo nella forza figurativa delle realizzazioni ma sta piuttosto nel ruolo che l’effimero in architettura ha svolto e continua a svolgere in termini di sperimentazione e innovazione linguistica. Un contributo che il fumetto può dare alla disciplina architettonica è proprio nella direzione della sperimentazione, dell’ innovazione linguistico-formale e nelle possibili ricadute nell’architettura duratura, quella che 34
si realizza quotidianamente. La ragione di un uso sempre più diffuso del fumetto, in un’epoca di crisi in cui si costruisce poco, è spiegabile anche per le possibilità che da ai progettisti di comunicare messaggi che oltrepassano la mera dimensione estetica autoreferenziale per collocarsi nell’ambito del sociale come un momento per il confronto culturale. II valore di questo tempo della sperimentazione sta quindi nella libertà di trasgredire il sistema dei codici stabiliti, per proiettarsi verso nuove frontiere linguistiche e semantiche che mettano in discussione il fare consolidato. Non si tratta quindi di rompere solo con la prassi ma anche e soprattutto di rispondere in tempo reale alle nuove e continue istanze della società. Rientrano a pieno titolo in questo atteggiamento le espressioni d’avanguardia come: le architetture spaziali degli Archigram, come Living City e Plug-in-City; il design sociale e futuristico degli Archizoom e la loro No stop city; le figurazioni antigravitaziounli di Jimenez Lai nel suo Citizens of no Piace; le illustrazioni concettuali e 35
Joost Swarte e Mecanoo, “Toneelschuur Theatre”, Haarlem
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simboliche di Joost Swarte o le realizzazioni sperimentali come il Toneelschuur Theatre di Haarlem in Olanda. Una risposta più documentata alla domanda di Mélanie van der Hoorn la fornisce la storia e in particolare la storia dell’architettura come mezzo di comunicazione, Con l’aiuto degli studi di Virgilio Vercelloni e le ricostruzioni di Umberto Eco, è possibile dimostrare che architettura e narrazione sequenziale per immagini e/ o parole - fumetto ante litteram - si incontravano già in passato. Nei fatti le costruzioni funzionavano spesso da supporto alle storie di personaggi famosi, alle gesta eroiche di imperatori, alle rivelazioni di profeti al potere o di dittatori. Procedendo in ordine cronologico sparso, è fin troppo facile qui ricordare i geroglifici egizi e le scritte cufiche che istoriavano le architetture del Nord Africa o le pareti delle moschee islamiche. Il termine istoriare - adornare una superficie con la raffigurazione di immagini relative a fatti storici, sacri o leggendari - non a caso è usato per de scrivere le de-
Archigram, “Plug in City”
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corazioni di certe architetture. La seconda parte del significato della parola sembra la traduzione perfetta del fumetto moderno: raffigurare ovvero rendere con immagini storie, di qualunque natura esse siano. Un magnifico esempio di architettura istoriata con il fumetto (accordateci l’uso retroattivo del termine) delIe gesta di Traiano, è l’omonima Colonna di Roma. Lo stesso Vercelloni ci descrive così il monumento risalente al 113 d.c.: “il fregio della Colonna descrive, come fosse una storia figurata che si svolge a rotolo, le guerre daciche di Traiano ...”. E cos‘è una storia figurata che si svolge lungo un percorso, qualsiasi sia il suo andamento, se non un fumetto? Storia raccontata con immagini in sequenza. E cosa sono le icone della Via Crucis che riempiono le cattedrali cristiane? Le tappe di un percorso in sequenza di figurazioni che narrano la storia di un martirio. Ogni singola stazione di Cristo, indipendentemente dal supporto su cui è raffigurata o rappresentata, è come una vignetta che racconta sempre la stessa storia. Le stazioni sono racchiuse in cornici, così come le vignette, e quello che accade tra un margine di cornice e l’altro, così come tiene a precisare Scott McCloud, è “molta della magia e del mistero che sono nel cuore stesso dei fumetti”. Le stazioni-vignette della Via Crucis sono quattordici o al più quindici, in alcuni casi si aggiunge la Risurrezione, ma non basterebbero a raccontare da sole l’intera storia del martirio. Esse si completano con l’immaginazione del lettore che vede quello che non è rappresentato nello spazio vuoto tra una scena e l’altra, ricostruendo così l’intera storia. È lo stesso identico processo di lettura che si usa per i fumetti. Si potrebbe obiettare che rispetto al fumetto moderno sono assenti le parole. Ma la mancanza di parole rende 38
il mezzo paradossalmente ancora più universale. A tal proposito si riporta un aneddoto, raccontato con una punta di rammarico, da Guido Crepax: “quante volte miei “lettori” mi dicono (magari con entusiasmo) di avere “visto” le mie storie, ma di non averle “lette”! Questo mi aveva indotto a disegnare una storia (Lanterna magica) senza parole, trovando effettevamente un maggior successo nelle vendite del libro, più facilmente riproducibile all’estero senza la necessità di traduzione”. Amarezza comprensibile a parte, il fumetto resta assolutamente tale anche senza parole, solo con le immagini in sequenza. E la mancanza di un testo descrittivo della storia non è sempre a sfavore della facilità di lettura del fumetto. Infatti accade spesso che i “lettori” di fumetti con centrino la loro attenzione solo sul testo all’interno delle nuvolette, lanciando uno sguardo distratto ai disegni, non cogliendo dettagli e finezze utili alla maggiore comprensione del racconto. La raffigurazione di una storia solo con disegni, come spesso accade nei fumetti d’oggi, non va a detrimento dell’arte del fumetto ma è una delle possibili variazioni di questo modo di comunicare. Essa si avvale dell‘esperienza quotidiana collettiva per essere comunicativa e, per Will Eisner, “la mancanza di dialogo di supporto serve a dimostrare le possibilità insite nelle immagini tratte dall’esperienza comune”. Interi edifici, in passato, dovevano comunicare con le masse, non sempre abbastanza istruite per poter leggere libri o documenti. L’architettura fungeva da medium di comunicazione di massa così come sono stati considerati i fumetti all’inizio della loro storia moderna. Anche in questo architettura e fumetto si trovano apparentati. Ecco come doveva essere la cattedrale secondo 39
l’abate Surger nel XII secolo, così come riportato da Umberto Eco: “la cattedrale doveva diventare una sorta di immenso libro di pietra in cui non solo la ricchezza degli ori e delle gemme inducesse nel fedele sensi di devozione, e le cascate di luce dalle pareti aperte suggerissero l’effusività partecipante della potenza divina, ma le sculture dei portali, i rilievi dei capitelli, le immagini delle vetrate comunicassero al fedele i misteri della fede, l’ordine dei fenomeni naturali, le gerarchie delle arti e dei mestieri, le vicende della storia patria”. L’architettura come un immenso libro aperto istoriato con le vetrate colorate che raffiguravano gesta di Santi, scene di Apocalisse, rappresentazioni di Giudizi Universali, storie del Nuovo e del Vecchio Testamento, brani dei Vangeli, eccetera. L’esempio più lampante sono le numerosissime vetrate del Duomo di Milano, quasi tutte assimilabili alle pagine frangibili del grande fumetto della cristianità che in pochi si fermano a leggere perché sbalorditi dallo splendore della luce che le colora. Ma i meno distratti dagli effetti luminosi possono leggere, anche senza conoscere, o ripercorrere, riportandole alla memoria, le storie dei loro santi. Considerati questi pochi ma precisi esempi, possiamo sostenere che l’architettura del passato era forse più comunicativa di quella del presente. Le vetrate gotiche, sebbene ermeticamente chiuse, si aprivano a mondi di conoscenza perfino più delle facciate elettroniche degli edifici contemporanei o delle insegne delle costruzioni di Las Vegas. Un altro aspetto delle interferenze tra architettura e fumetto è quello che mette in evidenza Andrea Alberghini: se consideriamo il ruolo che l’architettura può assumere nella rappresentazione sociale degli individui o delle collettività, il rapporto tra questa e tutti gli altri linguaggi che comunicano con le immagini è di straor40
dinario interesse per le implicazioni, sia positive sia negative, che produce. Questa considerazione apre infatti a un altro mondo in cui l’architettura come mezzo di comunicazione si predispone alla propaganda estetica, all’estetizzazione della politica, alla diffusione delle ideologie, alla pubblicità commerciale o anche alla comunicazione culturale. Tutte cose che accadono, sono accadute e accadranno anche al fumetto, come medium di comunicazione di massa. Le strumentalizzazioni dei mezzi, così come le abbiamo appena elencate, non sono solo dell’arte del fumetto o dell’architettura ma di tutte le altre espressioni del fare umano. Né l’una né l’altra possono quindi essere accusate di condizionare, plagiare, deformare, influenzare, addomesticare il grande pubblico verso cui si rivolgono, solo perché hanno un vasto bacino di utenti/lettori. Può accadere, certo, per quel “carattere ancipite” di essere predisposto per usi a fin di bene o meno, ma non dipende dall’arte in sé ma da come viene utilizzata. L’incidente così è sempre in agguato, tuttavia in questa trattazione non affronteremo l’etica del fumetto, né dell’ architettura, né dell’ arte, tout court, per concentrare le riflessioni sui fatti estetici e sulla natura delle reciproche interferenze tra queste due discipline. Interferenze in questo caso non vuole essere sinonimo di disturbo, di sovrapposizione di una comunicazione su un’altra, ma va inteso, nel significato scientifico e tecnico del termine, come sovrapposizione di due fenomeni cooperanti e il conseguente sommarsi o elidersi dei loro effetti. Nell’epoca della crisi dell’architettura e della rivalutazione del fumetto come espressione artistica, architettura e fumetto si incontrano; la capacità di stare nel presente e di proiettarsi nel futuro. 41
www.archigram.net
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The Walking City di Ron Herron
Il manifesto dell’utopia architettonica come “Mobile Project” (Londra 1964) Walking City è a buon diritto il progetto che meglio evidenzia il legame intessuto da Archigram con i programmi di sperimentazione portati avanti in America e nell’ex Unione Sovietica dagli ingegneri aerospaziali negli anni Sessanta. Se la provocazione architettonica di Ron Herron (che nella prima stesura di Walking City del 1964 si avvale della collaborazione di Brian Harvey) guarda senza dubbio agli studi intrapresi nelle basi missilistiche statunitensi di Cape Kennedy, va anche detto che questi ultimi non costituiscono gli unici punti di riferimento; come ha notato Banham, un’altra musa ispiratrice di questa smisurata “città mobile”, le cui sembianze ricordano quelle di un inquietante “coleottero tecnologico”, è rappresentata dall’enorme piattaforma militare di Shivering Sands Fort realizzata nel 1943 al largo di Whitstable nel Kent e, non per caso, presente all’interno del numero sei della rivista “Archigram” in occasione della rassegna celebrativa che il gruppo inglese dedica ai fantastici Forties. La conturbante immagine meccanicistica di Walking City non è però solo figlia delle sperimentazioni compiute in campo tecnologico nei due decenni che la precedono: occorre infatti ricordare l’esistenza di un filone originario esaltante l’estetica della macchina che assume come termine a quo le tavole della Città Nuova di Sant’Elia del 1914, si alimenta con le fantasie costruttiviste post-rivoluzionarie del russo Cernikhov, per poi raggiungere la sua compiuta esplicitazione negli anni Venti, grazie al principio della machine à habiter, coniato da Le Corbusier nel 1921 per la Maison Citrohan, e, in seguito, nel 1923 con la pubblicazione del 44
suo pamphlet “Vers une Architecture”. In esso l’architetto originario di La Chauxde-Fonds preconizza per l’umanità un futuro sempre più meccanizzato nel quale le automobili, le navi e i velivoli avrebbero rivestito un ruolo sempre più centrale, tenuto conto degli incessanti progressi compiuti in campo tecnologico. E le intuizioni contenute in tale testo avrebbero trovato nel giro di pochi anni un immediato riscontro: si pensi alla Dymaxion House di Fuller del 1927 quale limpido paradigma di casa dominata dalla tecnologia. Eppure, nonostante la già pur considerevole carica rivoluzionaria di tali studi, nel progetto di Herron si ravvisa una novità sostanziale: l’architettura non si accontenta più soltanto di assomigliare ad una macchina ma ambisce ad avere la sua stessa capacità di movimento. A tal proposito il progettista di Walking City afferma: “L’idea era quella di una capitale mondiale in grado di essere in qualsiasi parte del mondo e in qualsiasi momento”. Ed è forse per rendere maggiormente realizzabile questa “visione” che diventa necessario il connubio tra l’estetica della macchina e quella del fumetto fantascientifico; laddove non ci sono le condizioni tecnico-costruttive adeguate, ecco che interviene la science-fiction: come potrebbe altrimenti funzionare l’illusoria geometria delle otto “gambe” telescopiche di Walking City senza una buone dose di immaginazione fumettistica? Una delle peculiarità dell’attività progettuale di Archigram, risiede proprio nella volontà di sbalordire coloro che si “affacciano” ai suoi studi, “esibendo” delle tavole minuziosamente dettagliate. Basta prendere in considerazione la sezione di Walking City per rendersi conto del grado di approfondimento raggiunto dal progettista che, non solo, fornisce precise indicazioni sulle dimensioni della città zoomorfa - per la quale prevede una larghezza di 180, una lunghezza di 400 ed un’altezza di 220 metri - quanto 45
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arriva anche a definire i collegamenti interni e le ubicazioni delle diverse funzioni urbane: dalle scuole alle aree commerciali, dagli uffici alle zone residenziali di cui disegna perfino ogni singola finestra. Alla luce di ciò si spiegano ancor di più le reazioni sgomente ed entusiaste seguite all’epifania del “mega-insetto” di Herron: da una parte, le critiche pungenti dell’urbanista greco Constantinos Doxiadis e di Sigfried Giedion relative alla “disumanità” che una tale architettura comporterebbe, dall’altra la soddisfazione incondizionata di Peter Blake che dalla poltrona dirigenziale di “Architectural Forum” non lesina complimenti ai sei architetti britannici, arrivando addirittura ad affermare che da quando “[…] Archigram “esplose”, il […] [suo] mondo […] non è stato più lo stesso”. È opportuno tuttavia rilevare che nonostante il direttore della prestigiosa rivista americana sia un accanito sostenitore del gruppo inglese, anch’egli dimostra un
certo imbarazzo quando gli viene chiesto un parere riguardo la compatibilità dell’uomo rispetto alle megastrutture archigrammatiche. La risposta di Blake trova riparo dietro il nome di Le Corbusier: egli infatti sostiene che così come “[…] [le machines à habiter propagandate dall’architetto svizzero] erano poetiche, analogamente lo sono quelle ideate da Archigram”. E conclude, con un abile quanto facile sillogismo dichiarando che se la poesia rappresenta il massimo linguaggio esprimibile dall’essere umano, le fantasie progettuali del gruppo inglese non possono essere tacciate di disumanità. Diversamente l’interrogativo posto da Giedion - “chi realizzerebbe un disegno così elaborato se non volesse che fosse preso sul serio?” - è ancor oggi quello che fotografa meglio l’irrisolta antinomia della “città mobile” ideata da Herron. L’ambiguità dunque resta e ci si chiede quale sia la dimensione giusta da assegnare alla “creatura” di Herron: è una minaccia per l’umanità (si pensi all’interpretazione forzata datane dall’“International Times”, quando, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, raffigurerà le Walking cities nell’atto di scagliarsi contro le abitazioni e quant’altro facesse parte di una città) oppure, come dichiara il suo artefice, è “una macchina dall’aspetto amichevole”? Probabilmente nessuna delle due affermazioni prevale sull’altra ma un aspetto è inconfutabile, ovvero la straordinaria forza evocativa e comunicativa trasmessa dalla sua immagine che si pone come rimedio, seppur utopico, alle “vuote affermazioni del Funzionalismo […] all’indolenza paralizzante […] degli accademici e delle figure istituzionali” allo scopo di risvegliare “il vecchio lascivo kraken meccanico del Modernismo dalle imperturbabili acque del mar morto dell’architettura corrente”. Per questo motivo nel corso della sua vita Herron ritornerà ripetutamente sul suo progetto più 47
caro, elaborandone svariate versioni di cui sostanzialmente muterà due punti: l’interazione tra le varie Walking cities e il luogo dove farle atterrare. Se riguardo al primo punto, il componente di Archigram stabilisce per le sue “città mobili” una serie di disposizioni fisse quali la presenza di braccia estendibili per “consentire il trasferimento di merci e materiali” e la dislocazione in esse di tutti gli “elementi che si sarebbero potuti trovare in una città funzionante” nell’intento di realizzare una sorta di Città delle Nazioni Unite, per la definizione del luogo più idoneo ad ospitarle permane un’idea di estrema indeterminatezza, tanto è vero che le scorgiamo “passeggiare” indifferentemente a New York, ad Algeri a contatto con il Plan Obus di Le Corbusier, nel deserto o addirittura su un territorio dalle sembianze lunari; e forse proprio in quest’ultima prefigurazione è nascosto un ulteriore messaggio, tanto inconscio quanto profetico, che Herron vuole lanciare all’umanità, invitando gli uomini ad ideare delle “città mobili” - e non importa quale sia il loro aspetto esteriore - per potersi assicurare la vita anche su di una superficie diversa dalla Terra.
Si riallaccia poi a questo discorso l’articolo seguente, estratto della rivista MAS Context n°20, un articolo che esplora questi argomenti da un punto di vista più architettonico: 48
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www.deviantart.com
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L’Architetto Fumettista Sembra giusto incominciare questo capitolo con le considerazioni di un grande architetto del Novecento: Le Corbusier. La sua opinione è assai singolare su disegno e architettura ed è stata espressa esplicitamente in “Sur quatre routes”, nel 1941: “un’architettura buona e nobile è espressa su carta da uno schema grafico così nudo che occorre un a vista interiore per scoprirne l’atteggiamento; questa carta è un atto di fiducia verso l’architetto che sa ciò che farà. Commercialmente, non vale niente come non vale niente la conquista di un diploma. Se è, come a Mosca, il popolo che deve decidere la scelta del palazzo, vale meno che niente. AI contrario, le truffe lusinghiere dell’architetto ambizioso solleticano gradevolmente il cliente che aspetta. Il disegno è, in realtà, la trappola dell’ architettura!”, Le Corbusier, davvero convinto dell’aridità del disegno tecnico o della illusorietà di quello architettonico, si avvaleva della grafica e anche di un fumetto ancora in nuce per comunicare con i propri clienti e per diffondere le proprie idee. Il modulor di Le Corbusier, strumento per il dimensionamento degli ambienti a misura dell’uomo standard, è rappresentato graficamente come un a sequenza di posizioni usuali che una figura umana, schematizzata ma ben proporzionata, assume: da seduto fino in piedi con il braccio alzato. L’unico commento di testo alla sequenza delle otto posizioni è dato dai numeri che rappresentano le varie misurazioni. L’illustrazione è qui assimilabile a una vera e propria strip: sequenza narrativa disposta in orizzontale. L’architetto franco-svizzero però non si limita a questo e, nel 1925, scrive una lettera a una potenziale clien68
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te, Madame Meyer, per convincerla a dargli l’incarico della realizzazione di una villa. La lettera è composta come una vera e propria pagina a fumetti con vignette disposte su due colonne e cinque righe. Ogni vignetta ha un breve commento scritto o sotto forma di didascalia o di nuvoletta. Non ci sono dialoghi ma solo le riflessioni e i commenti dell’architetto. Il dibattito su questo lavoro nasce da un articolo scritto da Judi Loach, nel 2005, e si sviluppa con le considerazioni di Mélanie van der Hoorn nel suo “Bricks & Balloons’“. L’interrogativo è se si tratti di una coincidenza, di una convergenza di vari mezzi di comunicazione o della consapevo le scelta di comunicare con un mezzo nuovo e più diretto. Una prima conclusione, che qui condividiamo, è che Le Corbusier ha usato, nella sua lettera, le vignette con piena coscienza e questo anche perché, come commenta Mélanie van der Hoorn, ha fatto leva su due condizioni tipi che del fumetto, l’avventura e il romanticismo. Inoltre, la composizione della pagina e la disposizione del commento scritto ricorda le prime strisce dei fumetti italiani, senza nuvolette ma con didascalie sotto le vignette, molto spesso in rima.
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L’aspetto fondamentale che Le Corbusier coglie nella rappresentazione a fumetti è proprio la potenza di questo mezzo di comunicazione. L’architettura ancora oggi, al pari dei fumetti, può produrre sensazioni comunicando direttamente al senso estetico e alla ricettività dei più sensibili emotivamente. “L’architettura provoca reazioni emotive, tanto a livello personale quanto nella società nel suo insieme: essa riflette le nostre vanità e le nostre aspirazioni, le nostre debolezze e le nostre ambizioni, e anche i nostri complessi”. Le parole di Deyan Sudjic confermano che l’architettura riproduce, come uno specchio, la società e gli uomini che l’hanno prodotta. L’architettura è quindi il riflesso del mondo che, paradossalmente, informa. Quest’ultima affermazione sull’architettura, tra tutte, fa il paio con quella per cui il fumetto non si limita a riflettere passivamente la società ma riflette criticamente sulla società. Le “nuvole parlanti” possono inoltre farlo con leggerezza ma anche con grande acutezza poiché il fumetto è “un linguaggio molto articolato e di assoluta precisione!” e “la lettura di un fumetto è un atto che coinvolge sia la percezione estetica che la comprensione intellettuale”. Architettura e fumetto possiamo quindi dire che si incontrano per scambiarsi contenuti e tecniche di comunicazione, per riflettere insieme il mondo e sul mondo. Il fumetto, ormai adulto, riflette i temi e sui temi della società e tra questi l’architettura e la città. Sempre più numerosi sono i fumettisti che si occupano di questi argomenti nelle loro storie; e se prima la città e le sue architetture erano lo sfondo per i racconti, oggi sono diventate le protagoniste, oggetti di una riflessione critica e non di una presa di atto neutra. 72
L’architettura, da par suo, ricorre ad altri linguaggi per comunicare in maniera meno tecnica e semplice i suoi messaggi. Gli architetti, soprattutto le nuove generazioni, si avvalgono del fumetto e dei suoi codici di comunicazione per trasmettere le loro idee e/o i loro studi. Nel resto di questo capitolo, si analizzerà una casistica significativa ma non esaustiva di esempi che rappresentano questi due rilevanti atteggiamenti e le loro differenti implicazioni ed eccezioni. Mélanie van der Hoorn è la prima a studiare il fumetto come “nuovo” mezzo di comunicazione degli architetti. Nel suo “Bricks & Balloons” si interessa in modo particolare di architettura raccontata sotto forma di fumetto. Le categorie che mette in campo per classificare i diversi modi d’uso dei balloons da parte degli architetti sono raccolte sia in termini di critica dell’architettura che di progettazione architettonica. L’enciclopedico lavoro di selezione e di classificazione vede riportata l’opera di numerosissimi autori (architetti, fumettisti, fumettisti-architetti e architetti-fumettisti) da Lai a Schuiten e Peeters, da Liberatore a Bézian, da OMA a TAM, da BIG a MVRDV. All’interno del primo dei due grandi raggruppamenti tassonomici - la critica architettonica - Mélanie van der Hoorn mette in evidenza: l’esplorazione in modo poetico-filosofico dell’interazione tra l’uomo e l’edificio; le visioni volutamente soggettive della realtà costruita; le posizioni critiche sulle apparenti strade sbagliate dell’architettura. Nella seconda grande categoria - la progettazione architettonica - si occupa di: presentazione delle persone e delle idee con i disegni; comunicazione vivace e vissuta dei disegni per il pubblico; creazione di un’architettura a fumetti. Alla fine del lavoro giunge alla conclusione che esiste una “sorprendente diversità di fumetti architettonici” e 73
che in un contesto simile è quasi impossibile riconoscere in modo chiaro le posizioni assunte dagli autori. Ciò nonostante Mélanie van der Hoorn evidenzia che ci sono alcune questioni teoriche che ricorrono e che vedono impegnati, anche se in modo autonomo e singolare, i diversi autori. Individua tre conflitti principali che sono confutati nei fumetti: il primo è quello tra parola e immagine che vede prevalere quest’ultima sulla prima; il secondo è la presunta “incompatibilità” tra la progettazione architettonica e la critica architettonica; il terzo è rappresentato dalla distinzione tra finzione e realtà del progetto di architettura ovvero la riconoscibilità dell’architettura di “carta” da quella costruita. L’autrice riconduce questo ultimo conflitto “alla natura ambigua dell’architettura rispetlo al materiale, al modo di rappresentarla e all’esistenza”. Le conclusioni della ricerca di Mélanie van der Hoorn, come anche le grandi categorie messe in campo per la lettura dei due fenomeni della comunicazione (architettura e fumetto), non verranno messe in discussione in questo lavoro ma sono prese in prestito come base di partenza delle prossime considerazioni. A differenza della studiosa olandese, si osserva anche come il mondo dei fumetti, dei non architetti, ha interpretato e interpreta l’architettura. Daniele Barbieri si è occupato di quest’ultimo tema in un breve scritto del 1991, ancora inedito, dal titolo: “L’immaginario architettonico. Città di un futuro passato”. Lo sguardo è rivolto principalmente alla città e alla dimensione narrativa dell’architettura. Egli afferma di essere interessato soprattutto al racconto e al rapporto tra racconto e architettura. Barbieri intende esplorare la maniera in cui l’immaginario collettivo è condizionato dalle rappresentazioni architettoniche tratte dalle 74
ambientazioni dei racconti e anche il processo inverso, ovvero come queste ultime possano contribuire alla costruzione dell’immaginario collettivo e in parti colare della città”. Il discorso si può anche dettagliare alla singola opera architettonica come elemento basilare della città per poi estenderlo all’intero concetto urbano. Si comincia proprio da questa fenomenologia: l’architettura dei fumetti e nei fumetti. In una vignetta di “Batman. Death by Design” si legge: “La crème de la crème di Gotham è alta in cielo, stanotte, all’inaugurazione di quello che è stato definito il night club più elegante del mondo, il Ceiling. E che vista, lì dove i padroni della città danzano e cenano in aria. L’architetto Kem Roomhaus lo descrive come un progetto molto semplice portato al suo estremo, creando un a nuova corrente di architettura deno75
Chip Kidd e Dave Taylor, festa del Ceiling, “Batman.Death by Design”
Chip Kidd e Dave Taylor, vista della caduta della gru, “Batman.Death by Design”
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minata minimassimalismo”. Il contenuto della nuvoletta, che agli occhi di chi non conosce le teorie di Rem Koolhaas pu ò sembrare si interessante, ma di pura invenzione, invece riprende e sintetizza il concetto di Bigness dell’architetto olandese, definendolo “minimassimalismo”. Infatti Koolhaas scrive che “la Bigness è il punto in cui l’architettura diventa insieme massimamente e minimamente “architettonica”: massimamente, per via dell’enormità dell’oggetto; minimamente per la sua perdita di autonomia, diventa strumento di altre forze, diventa dipendente”. Non vi è dubbio che gli autori di “Batman. Death by Design” conoscano le speculazioni teoriche di Koolhaas e i problemi della costruzione di un grattacielo e che dunque li abbiamo raffigurati realizzando l’avventura dell’uomo pipistrello e le architetture in cui è ambientata . La percezione trasferita è di un’ architettura estranea alla gente, prodotto di archistar indifferenti alle esigenze reali e concentrate solo sul proprio nome. Anche nella fantastica Gotham City si impongono le opere delle archistar contemporanee. La città di Batman, rappresentazione fantasiosa di New York , riflette teorie architettoniche attuali e si ispira a fatti reali. A guidare l’intero fumetto sono infatti due eventi realmente accaduti: il primo nel 1963, la demolizio e della Pennsylvania Station; il secondo nel 2008, il crollo di una gru nel centro di Manhattan. Il fumetto di Kidd e Taylor è un monito, evidente già nel titolo, e il messaggio che comunica è potente tanto quanto un intero saggio critico sull’architettura contemporanea e su quei processi con cui, purtroppo a tutt’oggi, si costruiscono e o demoliscono le nostre città: “Quello che rimane da capire è come una struttura concepita in maniera così ridicola possa essere stata presentata con 77
successo davanti a un consiglio cittadino così spaventosamente ingenuo, approvata alla cieca dal consiglio distrettuale , costruita male e in mani era grossolana dal Gotham Local 27, e abbia passato l’ispezione finale. Penso che il vero criminale qui debba essere ancora rivelato”. Purtroppo nella realtà non ci si indigna più, anche in questo la finzione l’ha superata. La New York di Eisner è invece reale. In “Contratto con Dio”, i quartieri più degradati, i caseggiati del Bronx sono i protagonisti e contengono quel disagio sociale delle classi di immigranti che fuggirono dalle loro terre di origine alla ricerca dell’America. I caseggiati raccontano la condizione di chi li abita, il disagio del diverso, ma anche quegli stili di vita insoliti messi a confronto. La loro architettura è quella degli edifici costruiti per ospitare numerosi abitanti e “il caseggiato era come una nave passeggeri in un mare di cemento”. Will Eisner racconta la città attraverso la drammatica quotidianeità dei suoi cittadini e la durezza dei luoghi in cui questa si svolge. Le ambientazioni non si allontanano mai dal dettaglio architettonico degli edifici o dei vicoli. Non serve a Eisner un’immagine a volo d’uccello per raffigurare la città; lo fa semplicemente soffermandosi sulle caratteristiche dei suoi edifici: le scale all’ingresso dei caseggiati; le scale antincendio sul retro; la forma e la dimensione del caseggiato stesso; l’orditura dei muri di mattoni rossi; i classici timpani sulle porte d’ingresso; il ritmo delle facciate. Nei racconti raccolti in “New York. The Big City” , è ancora più evidente la voglia di comunicare la città mediante i suo i luoghi più caratteristici e le sue piccole architetture: le grate vaporose delle strade; le fermate della metropolitana; gli idranti; i bidoni della spazzatura; le cassette della posta; i semafori stradali; i lampioni; le 78
Chip Kidd e Dave Taylor, vista della città, “Batman.Death by Design”(sopra) Will Eisner, “Il cantante di strada” (sotto)
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finestre ; i muri. E proprio nei muri, nelle pareti, Eisner riconosce l’elemento base di ogni architettura e di ogni città. “Dove esiste una città senza pareti che contengano la sua anima, attutiscano le sue urla e facciano da scenografia alla danza della sua vita? Se le pareti servono a proteggere e separare, non limitano e imprigionano allo stesso tempo? Sono quindi da amare o da odiare? ...dopotutto, le pareti non sono fatte dalla natura”. L’architettura non è fatta dalla natura ma dagli uomini. Questo è il messaggio di Eisner e come tale può essere bella o brutta, ospitale o perturbante, assurda, o sensata e tuttavia necessaria all’uomo, alla sua vita individuale e sociale. Il perturbante della vita è raffigurato nelle opere di Chris Ware e in particolare nella sua ultima graphic novel dal titolo “Building stories”. È il suburbano statunitense di Chicago che qui è rappresentato dalle case e dai luoghi in cui abita il personaggio principale, una giovane donna costretta ad affrontare la vita senza una gamba. Come per Eisner, i protagonisti della storia di Ware sono i palazzi assieme ai loro abitanti con la differenza sostanziale che in Building stories prendono la parola e commentano gli accadimenti. L’architettura narra in prima persona la vita che contiene, come a rispondere a quell’esclamazione assai comune: “Ah! Se queste mura potessero parlare”. Il fumetto di contro organizza il racconto secondo un’architettura innovativa per la storia dei comics: all’interno di una scatola, come quelle dei giochi da tavolo, sono contenuti quattordici fumetti differenti, per formato, dimensione e rilegatura. La storia può essere letta a partire da un qualsiasi momento della vita della protagonista, raffigurato in uno dei quattordici frammenti. È un fumetto decostruito per una lettura deco80
struita del racconto. È il lettore a ricostruire il significato complessivo o a soffermarsi sul singolo frammento. È un modo di descrivere, nel senso derridiano, la narrazione con le parole e le immagini. La filosofia e il messaggio del decostruttivismo hanno investito anche il mondo dei fumetti. A registrarlo è Francesco Vitale che scrive un saggio filosofico, dal titolo “Asterios Polyp” (Mitografie della decostruzione), sull’opera di David Mazzucchelli. Vitale analizza il fumetto di Mazzucchelli a partire dalla “mitografia” di Derrida, scrittura diversa dall’attuale perché si rifà a quelle iconografiche come i pittogrammi, i geroglifici, gli ideogrammi, eccetera. Una scrittura assai vicina al mondo dei fumetti, pluridimensionale come questo. Perché allora proprio Asterios Polyp, se la mitografia si può estendere al linguaggio tutto delle graphic novel? Altri concetti decostruttivisti sono contenuti nella scrittura di David Mazzucchelli: la voce narrante, il fratello mai nato del protagonista, sembra esplicitare il concetto per cui Derrida rigetta l’automatismo della scrittura occidentale, quella per cui si può enunciare “io sono morto”; l’alternanza di diverse sequenze narrative e temporali apparentemente opposte. Al di là delle interpretazioni decostruttiviste del modus narrandi dell’autore, in Asterios Polyp, l’architettura è davvero protagonista della storia. Asterios è un architetto e insegna architettura anche attraverso le pagine del suo fumetto. La storia si svolge anche in luoghi riconoscibili ed emblematici dell’architettura contemporanea come il monumento per i veterani del Vietnam di Maya Lin, a Washington. Il dramma psicologico che vive il protagonista comunica il travaglio e drammi vissuti da numerosi architetti. Anche alcuni fatti particolari sembrano rimandare alla 81
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David Mazzucchelli “Asterios Polyp”, vignette
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storia reale di altri architetti. Infatti non è difficile associare l’incendio dell’appartamento di Asterios a quelli che per ben due volte devastarono Talies in West di Frank Lloyd Wright. Mazzucchelli approda all’apice della sua carriera con la trascrizione sotto forma di fumetto del libro di Paul Auster “Città di vetro”. In quest’opera, che lo vede impegnato a lavorare con lo stesso Auster Paul Karasik, è il linguaggio a essere protagonista del racconto. Una storia di linguaggi declinata secondo un nuovo linguaggio da aggiungere a quella Babele riportata nelle pagine del fumetto stesso. L’architettura è quella di un a New York in cui si immedesimano i personaggi della storia fino a integrarsi con i mattoni dei suoi edifici. La grande metropoli è vista come un luogo in cui perdersi, dove “tutti i luoghi diventavano uguali e, nelle sue camminate migliori, riusciva ad avere la sensazione di non essere in nessun luogo”. Un nessun luogo però diverso da quello che abitano i personaggi di Jimenez Lai nel suo “Citizens of no place”: La città di grandi dimensioni fagocita i suoi abitanti in un paradossale processo di identificazione ed estraneazione. Il fumetto traduce in immagini l’opera di Auster assieme a questa interpretazione dell’architettura delle metropoli. Una raffigurazione ormai storica di New York, come città dalle dimensioni straordinarie ma fatta da architetture domestiche, è la rappresentazione onirica di Winsor McCay nei viaggi da sogno del suo “Little Nemo”. La metropoli diventa un grande giocattolo su cui volare o passeggiare; gli edifici sono tutti a portata di mano e volano insieme al nostro piccolo sognatore. A rappresentare una città in cui i sogni dei bambini diventano incubi per gli adulti è il giapponese Katsuhiro Otomo nel suo “Domu. Sogni di bambini”. 84
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Katsuhiro Otomo, veduta città in “Domu.Sogni di bambini”
Paul Auster, Paul Krasik e David Mazzucchelli, “Città di vetro”
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Con i suoi disegni realistici rappresenta la dicotomia tra adulti e bambini nel loro rapporto con l’architettura. In Domu i bambini, a differenza degli adulti, sanno socializzare, giocare, creare e sognare anche dentro un contesto urbano difficile. Di contro gli adulti, più pragmatici e meno sognatori, vivono una solitudine quotidiana, indaffarati come sono in azioni sempre finalizzate a scopi concreti. I sogni si trasformano in incubi, rappresentano le loro paure quotidiane; i loro limiti mentali abitano gli spazi costretti della città moderna, e sono ancor più limitati in quelle “gabbie architettoniche” di cemento armato. Luoghi così opprimenti e alienanti, che in qualche modo devono essere cancellati, distrutti. A distruggere davvero ogni cosa non sono solo i poteri extrasensoriali dei personaggi di Domu, ma è soprattutto l’arma nucleare che in “Akira”, opera prima di Otorno, ci con segna una Tokyo post atomica. L’architettura ridotta a ferraglia sembra essere premonitrice degli eventi dell’11 settembre 2001 e della capacità di costruire, quanto di distruggere propria dell’uomo. Le brevi storie di Tom Kaczynski, raccolte in “Beta Testing the Apocalypse”, misurano a partire da Minneapolis, attraverso diverse traiettorie spazio-temporali, il potenziale apocalittico dell’uomo. Il fumetto affronta il tema dell’architettura e delle megalopoli contemporanee per esorcizzare un destino che sembra inevitabile a cominciare dalla convivenza delle bidonville con le city fitte di grattacieli. Una fantasiosa forma di sabbia apocalittica si confronta con le architetture, reali e utopistiche, della Brüsel di Schuiten e Peeters. La prima architettura art nouveau di Victor Horta si staglia contro i grattacieli diafani di una Brüsel futurista mentre una sabbia bianca accecante invade ogni 87
interstizio della città, cancellandone le tracce. L’architettura qui non è solo lo sfondo della storia ma è usata per comunicare l’emergenza che una presunta catastrofe possa cancellare gli edifici sede della storia e dell’arte di un luogo. Sono le costruzioni la vera misura del disastro che si sta per consumare. L’architettura è comunicata come cifra della storia e della civiltà di una nazione, di un popolo, di una città, di un luogo. In “La casa dell’impiccato” (numero dieci della miniserie fan Dix), realizzata da Carlo Ambrosini per la Bonelli, l’architettura di Le Corbusier è invece solo lo sfondo della storia. Tuttavia, la sua raffigurazione è tale che il lettore ha chiaro il funzionamento della casa: la promenade architecturale; il tetto giardino; il primo piano poggiato su esili pilastri di calcestruzzo armato, i cosiddetti pilotis; la curvatura del blocco vetrato del piano terra costruita sul raggio di sterzata delle automobili che ivi vengono ricoverate; le finestre a nastro dentro cui si svolgono le scene significative del giallo. Il riferimento colto scelto dall’acuto Ambrosini è Ville Savoye a Poissy di Le Corbusier, inaugurata nel 1931. Nel fumetto la casa cambia il nome ma l’immagine è inconfondibile in quanto icona del Movimento Moderno. La storia dell’architettura entra nelle vicende del critico d’arte olandese, protagonista della serie, per essere raccontata a un vasto pubblico per la maggior parte inconsapevole di osservare una vera opera d’architettura moderna. Il fumetto si occupa di architettura perfino con ironia e satira con Klaus, architetto con alter ego da fumettista. I temi seri posti dall’architettura contemporanea vengono affrontati con un tono scanzonato e I suoi disegni, sebbene sembrino usciti dagli studi all’avanguardia, mettono in discussione le risposte che l’architettura contemporanea prova a dare. Ad esempio, il concorso 88
Katsuhiro Otomo: distruzione degli edifici intesi come “gabbie architettoniche”in “Domu”, (sopra); Tokyo postatomica in “Akira”, (sotto)
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Ville Savoye di Le Corbusier alias Villa Pommmard in “Jan Dix.La casa dell’impiccato” di Carlo ambrosini e Paolo Bacilieri (Lato); Tom Kaczynski, “Beta Testing the Apocalypse”
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per la ricostruzione delle Twin Towers dopo 1’11 settembre 2001 è pretesto per prendere in giro i disegni presentati alla competizione internazionale a inviti per sole archistar. La sua indagine si spinge anche oltre, e va alla ricerca, con risultati interessanti, delle analogie tra le architetture delle archistar e quelle dei cartoonist. Una prova è quanto riporta nelle pagine del suo blog mettendo a confronto la “Casa da Musica” di Oporto, realizzata da Koolhaas dal 1999 al 2005, con i disegni della megastruttura del Metabunker disegnata da Jodorowsky e Moebius nei primi anni Ottanta. La straordinaria somiglianza delle forme non deve far dubitare della autenticità del progetto di Koolhaas , ma fa, sì, pensare che la condizione di immaginare in libertà, propria dei creatori di fumetti, è spesso anticipatrice dei tempi. Questo accade perché, certe rappresentazioni si configurano come prefigurazioni di oggetti che ancora non si conoscono e non si riescono a realizzare. Il confine tra la progettazione di oggetti immaginari, funzionali al racconto, e la progettazione di oggetti reali, pensati per la costruzione, è davvero sottile. La progettazione, qualunque sia il suo scopo, creare mondi immaginari o creare mondi reali, si muove sempre con le stesse regole ed è sempre anticipatrice di cose che ancora non si hanno. Ciò nonostante è vero anche il contrario, la progettazione di immagini non sempre è anticipatrice ma può essere consequenziale. Barbieri infatti crede che le generazioni cresciute con le illustrazioni utopistiche dei racconti di fantascienza abbiano costruito un immaginario fortemente informato da quelle forme e che, quindi, da adulti la produzione di nuovi mondi, di fantasia o reali, somiglianti a quelli delle loro storie sia una conseguenza, a volte inconsapevole, altre intenzionale. Il confine tra il progetto d’architettura nel fumetto fan92
tascientifico e quello nella realtà si fa sempre più sottile e i travasi, volontari o involontari, sono comunque assai frequenti e riconoscibili. Joost Swarte, fumettista e progettista, incarna questo connubio tra architettura e fumetto, facendo diventare i suoi disegni architetture e viceversa. Nel suo intervento al Napoli Comicon del 2013 afferma che: “il fumetto mi ha dato una grande libertà di espressione. Ci incontravamo tra studenti (di architettura) con le nostre copie degli albi di McCay. Col tempo trovai che lo stile di Hergé fosse il più adatto al mio modo di esprimermi. Più studiavo architettura, più mi interessava la motivazione degli architetti... il contenuto dietro la decorazione di facciata ... quindi decisi di esplorare l’architettura attraverso i fumetti”, Il suo lavoro non è stato ancora tradotto italiano ma le sue collaborazioni con studi di architettura di fama internazionale sono ormai ben note. I Mecanoo progettano la nuova sede del teatro “Toneelschuur” sulla base dei disegni commissionati a Joost Swarte dall’amministrazione del teatro di Harlem. E il francese Christian de Portzamparc si avvale della sua consulenza per l’allestimento del museo dedicato a Hergé. Con l’architetto Sytze Visse realizza quello che qualcuno definisce un vero e proprio “progetto fumettistico”, un edificio per residenze sulla Willemsstraat di Amsterdam. L’edificio però non ha nulla di fumettistico a parte il fatto che è stato pensato anche da un fumettista ma anzi è coerente a una linea di pensiero architettonico che integra edifici della tradizione con nuove costruzioni. L’opera di Swarte oscilla tra avanguardia architettonica e riferimenti alla storia dell’architettura di cui è un appassionato studioso. Egli infatti interpreta le vetrate istoriate delle chiese gotiche come fumetti e le ripropone, secondo il suo perso93
Klaus, “In the Shadow of No Towers: Ten Years After”, (sopra) Klaus reinterpreta il Metabunker con la Casa della Musica di Rem Koolhaas a Oporto
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Joost Swarte con Sytze Visser, residenze sulla Willemsstraat di Amsterdam, (sopra)
Joost Swarte, illustazione per l’articolo di Nicholas Lemann, (lato); Bernard Tschumi, “Urban Glass House”, (sopra)
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nalissimo stile nel “Palazzo di Giustizia” di Arnhem e non solo. Questo interesse per l’architettura e la capacità di disegnare oggetti effettivamente realizzabili combinano con uno spiccato senso dell’ironia risolto con una grafie di forte impatto visivo. Nella illustrazione per un articolo di Nicholas Lemann, dal titolo “Get out of town. Has the celebration of cities gone too far?”, pubblicato sulla rivista “The New Yorker” del 27 giugno del 2011, Swarte sembra reinterpretare il progetto “Urban Glass House”di Tschumi. L’architetto americano, per il progetto commissionatogli dalla rivista “Time”, ipotizza che la metropoli densa possa offrire ancora spazi dove edificare, in cima ai grattacieli. Egli immagina case trasparenti che, come lanterne, marcano lo skyline della città. La trasparenza e la posizione, secondo Tschumi, farebbero da contrappunto all’azione, svolta da internet, di privatizzare la vita pubblica, rendendo invece pubblico il privato. Swarte invece disegna, così come Tschumi, case unifamiliari su grattacieli, ma con la differenza di immaginare residenze tradizionali. Il concetto che vi si può leggere è, per altri versi, diverso. Il disegno di Swarte è un modo per sottolineare il paradosso che l’impronta di uri grattacielo - dove vivono tantissime persone - è la stessa di quella di case unifamiliari – dove vivono al massimo cinque-sei persone - e che la dimensione della città che si sviluppa in verticale è comunque più anonima di quella a sviluppo orizzontale. Con un atteggiamento molto più ironico e dissacrante, perfino i cartoni animati, estensione dei fumetti, si sono occupati dell’architettura contemporanea, compiacenti gli stessi autori come Frank O. Gehry, che compare in una puntata della serie dei “Simpson”. Il discusso architetto canadese, dalle forme piegate e contorte, diventa iI progettista dell’amministrazione di Springfield, 96
Frank O. Gerhy, protagonista di una puntata de “I Simpson”, (sotto) il suo auditorium viene trasformato in una prigione.
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la cittadina dove vivono i Simpson, per la costruzione di un auditorium. Gehry è il primo architetto, e fino a oggi l’unico, a comparire nella famosa serie televisiva, che abitualmente ospita personaggi della realtà particolarmente in vista. Nella puntata si vede come il progettista trovi ispirazione da un foglio di carta accartocciato e gettato per strada; da questo immagina iI nuovo auditorium che però, a dispetto dell’enorme costo di realizzazione, non avrà fortuna. L’architettura di Gehry è infatti, prima, derisa dai ragazzini, che usano le superfici curve per giocarci con lo skateboard, e, dopo, è trasformata in carcere. Sebbene sia stato Gehry stesso a doppiare il suo personaggio nella versione inglese della puntata, di recente pare che l’architetto si sia pentito di questa apparizione e abbia dichiarato in un’intervista alla CNN che “Si tratta di una storia molto divertente, ma mi perseguita da anni. Chi ha visto l’episodio dei Simpson tende a crederci. E però fa anche bene a crederci se, dopo aver visto il cartone animato, guarda anche il film”, che Sydney Pollack ha dedicato a Gehry. In una scena è lo stesso architetto a dire , forse con fare autoironico, che riesce a trovare l’ispirazione anche dentro al cestino delle cartacce. Diversamente dai fumetti che, come abbiamo visto, fanno spesso riferimento alla realtà e al mondo costruito in chiave critica o ironica, esiste una letteratura che invece comunica iI modo in cui l’architettura può dare risposte serie ai problemi della società contemporanea, come l’immigrazione, la sostenibilità energetica, la salute delle persone, iI lavoro, eccetera. Un esempio di fumetti impegnati socialmente è dato dal lavoro di Raul Pàntaleo e di Marta Gerardi. In particolare “Destinazione Freetown”, una graphic novel italiana, racconta la storia di un emigrato che ritorna in patria. Khalid, il 98
protagonista, dopo essere stato in Italia da emigrante clandestino, ritorna nella sua Africa per scoprire che l’”Occidente Promesso” si trova invece proprio in quella terra, che aveva avventurosamente lasciato alla ricerca di un mondo migliore. Nelle ambientazioni della storia c’è l’architettura di Raul Pantaleo: “Quello che fa da sfondo al racconto fantastico di Khalid però è reale, l’abbiamo vissuto in questi anni di lavoro con l’organizzazione umanitaria Emergency che ha “prestato” i suoi ospedali al vagabondare del protagonista”. L’architettura non è solo lo sfondo della storia, ma diviene coprotagonista nelle pagine che le vengono dedicate in toto. Qui l’architetto prevale e gli edifici sono raccontati da più punti di vista: architettonico, come nel caso delle torri del vento del centro pediatrico di Nyala; tecnologico, come il sistema di condizionamento e di filtraggio dell’aria per il centro di cardiochirurgia di Khartoum; simbolico, nel caso della facciata o degli arredi di rattan a forma di animali del centro pediatrico di Bangui; finanziario, come nel caso del centro pediatrico di Port Sudan; sociale, nell’esempio del centro chirurgico di Freetown. L’architettura comunica, in ognuno di questi edifici, come può essere davvero utile senza rinunciare al suo valore estetico. Lo studio Tamassociati non è nuovo a queste sperimentazioni e già nel Superalmanacco intitolato “Il futuro ha fatto sboing”, la cui copertina è un omaggio a Amazing Archigram 4, racconta i propri progetti sotto forma di fumetti. È emblematico l’episodio dedicato alla Banca Etica di Padova, opera realizzata nel 2011; in esso si mettono in evidenza gli aspetti della sostenibilità dell’edificio attraverso il fare burlesco dei componenti di una band musicale, “invitata” dall’architetto a suonare per l’inaugurazione della banca. Nell’ultima pubblicazione sotto forma di fumetti di Raul 99
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Pantaleo e Marta Gerardi, “Architetture resistenti”, i due autori sono impegnati in un viaggio attraverso vari siti: gli stabilimenti Olivetti a Pozzuoli di Luigi Cosenza; il Museo dell’Olocausto nella Risiera di San Sabba a Trieste; il Parco Archeologico di Selinunte a Trapani; il Museo della Memoria per la strage di Ustica a Bologna; l’Auditorium temporaneo di L’Aquila di Renzo Piano. Ognuna delle opere rappresentate comunica con il linguaggio dei fumetti il messaggio che un’architettura bella ed etica si può ancora avere anche in Italia. Lo studio Tamassociati ha sposato il linguaggio dei comics anche per la grafica delle proprie pagine web, rientrando nella fattispecie degli architetti che con il fumetto promuovono anche se stessi e non si limitano a comunicare le loro opere o messaggi di natura etica. A riconoscergli il valore dell’uso di questo sistema di comunicazione è soprattutto chi non è architetto o fumettista, ma ha lavorato con loro, come Cecilia Strada: “ci sono tanti modi per raccontare una storia. Quello del fumetto è tra i più efficaci. Perché riesce a tenere insieme con forza il linguaggio della mente e quello del cuore”. Il fumetto è quindi uno strumento che consente agli architetti di aggiungere una dimensione narrativa personale, più legata all’esperienza umana di quanto non facciano i normali disegni di progetto. Serve quindi per comunicare con un potenziale “lettore” del progetto invece che con i tecnici. Ad esempio, è più efficace con i committenti, e anche con chi non conosce il processo di creazione dell’architettura, perché è meno formale. L’architettura ha infatti una fase “pratica” (quella della professione) in cui i disegni hanno una valenza tecnica descrittiva; c’è inoltre una fase teorica, filosofica in cui si indaga il principio di interazione uomo-spazio. Questa seconda fase può essere, 101
ed è stata, coadiuvata dal medium fumetto. Il progetto è declinato non solo nella sua dimensione spaziale ma anche in quell a temporale, nell’accezione di proiettare, dal latino gettare in avanti. In questo senso la dimensione narrativa del racconto ci proietta nel passato come nel futuro e in quest’ultima dimensione assume una vera e propria funzione progettuale. Il progetto è racconto di cosa sarà, prefigura il tempo futuro e non si limita a rappresentare il presente. La dimensione principale del progetto, quella di proiettarci nel futuro, è tipica anche di un certo genere di racconto. Proprio per questo la dimensione narrativa del medium fumetto ha svariate possibilità d’uso in architettura e apre a diversi modi di esplorare lo spazio e di fare ricerca sul progetto. L’architetto danese Bjarke Ingels, fondatore dello studio BIG, dice: “anziché mettere in fila saggi, testi esplicativi, disegni e immagini, ognuno col suo impaginato, abbiamo adottato la forma del fumetto per combinare parole e immagini e raccontare la storia che si nasconde dietro ogni progetto”. Il testo della citazione è contenuto per l’appunto all’interno di una nuvoletta introduttiva di Yes is more. L’architetto danese sceglie di raccontare le sue convinzioni architettoniche, il suo studio e i suoi progetti mettendo tutto sotto forma di un “archifumetto”, così come lo definisce nel sottotitolo. Svela un mondo complesso, fatto di continui compromessi ai quali Bjarke Ingels risponde Yes is more, che rappresenta il suo modo di intendere l’architettura. Il processo progettuale è comunicato non solo con disegni ma con foto, immagini virtuali e grafici. Nei fatti, Yes is more è a metà tra il fumetto vero e proprio e il fotoromanzo alla vecchia maniera dell’italiano Grand Hotel, fonte di ispirazione anche di Will Eisner. 102
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In “Byzantium” Koolhaas comunica con il fumetto i sentimenti degli architetti
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Nel caso di Bjarke Ingels il riferimento di partenza però non è di certo il fotoromanzo all’italiana, bensì il primo vero archifumetto realizzato da Peter Cook e dal suo studio Archigram per annunciare che una nuova utopia tecnologica era possibile: Amazing Archigram 4. Nel momento storico in cui si pubblicò il “fumetto spaziale” di Cook il mondo dell’architettura non era ancora pronto, tanto che alcuni componenti di Archigram si pentirono di averlo stampato. Si poteva pensare che fossero dei “fumettari” invece che uno studio di architetti seri. Tuttavia quel mezzo di comunicazione fu per molti l’occasione per conoscere il loro messaggio culturale. Nel tomo “S,M,L,XL.” di Rem Koolhaas è contenuto perfino un fumetto vero e proprio che, piuttosto che raffigurare edifici o città, affronta i problemi che l’architetto incontra nel suo rapporto con i politici e con i finanziatori/costruttori. Il messaggio è trasmesso nel modo più chiaro possibile tramite le espressioni caricaturali dei volti, il linguaggio senz a censure dei dialoghi, l’esultanza priva di false ipocrisie dell’architetto. Nessuna di queste condizioni poteva essere raccontata con un saggio o con un articolo. L’illusione, la rabbia e la soddisfazione finale dell’architetto, che è riuscito a mantenere la propria integrità artistica senza scendere a compromessi con nessuno, sono sentimenti che tutti conosciamo e in cui ci riconosciamo. In questo senso, indipendentemente dall’uso di disegni o di foto e parole e della loro composizione in sequenza, è più fumetto “Byzantium” di quanto non lo sia Yes is more o Amazing Archigram. Koolhaas, di contro, per il progetto del “Parco de La Villette” si avvale di una rappresentazione grafica di connotazione fumettistica ma non va al di là di un disegno colorato, un po’ strano per le rappresentazioni architet105
toniche tradizionali. Nella tavola sono contenute una serie di informazioni sugli spazi, la loro conformazione e gli eventuali usi. Questi ultimi sono raccontati con figure umane intente a svolgere azioni che chiaramente indicano l’uso a cui è destinato quell’ambito. Il disegno illustra, senza vignette e parole, l’organizzazione del parco che in un sol colpo d’occhio si rivela a chi lo legge. Il messaggio è architettonico, il medium è fumettistico. Jimenez Lai con i suoi fumetti architettonici invece esprime la ricerca disciplinare a confronto con le esigenze umane. Le sperimentazioni formali sono raccontate attraverso il medium dei fumetti per la complessità dei temi e la necessità del controllo spaziale. Nei suoi lavori l’architettura comunica se stessa senza veli nè metafore. Il ricercatore-fumettista non rappresenta il suo studio professionale o il modo di operare ma solo le esperienze della pratica architettonica e urbanistica, anche in chiave critica. Non a caso alla fine di “Citizens of no Place”, si chiede cosa sia l’architettura. Lai intende esplorare le potenzialità espressive e comunicative di questo mezzo di espressione che scioglie la creatività e libera la fantasia. Concludendo, dagli anni Sessanta con Archigram a oggi con archistar del calibro di Koolhaas, la figura dell’architetto si sta integrando con il mondo della comunicazione e in particolar modo con il medium del Fumetto. L’Architettura e il Fumetto comunicano, pur con modalità differenti, soprattutto il tempo e lo spazio. Il nuovo architetto-fumettista deve saper manipolare sapientemente queste due dimensioni, per meglio raccontare la storia e le origini dell’opera architettonica. Infine a parlare di questa nuova figura è James B. Brown nell’incipit della sua tesi di laurea: 106
Rem Koolhaas usa la rappresentazione fumettistica per descrivere il progetto per La Villete
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The Comic Architect: words and pictures along the line between architecture and comics Estratto dalla tesi di James Benedict Brown Relatore Dr. Renata Tyszczuk Università di Sheffield, Ottobre 2007
“Architecture is discussed, explained and identified almost entirely though its representations. Indeed, these representations are often treated as though they were architecture itself. Huge status is given to the imaginary project, the authentic set of photographs of the eminent critical account. This is a paradox. Architecture is fundamentally concerned with physical reality, yet we discuss and even define architecture (as opposed to building) through an elaborate construct of media representations: photography, journalism, criticism, exhibition, history, books, films, television and critical theory. ” Kester Rattenbury, This Is Not Architecture, London: Routledge, 2002, preface If we, as architects, students and academics are already conscious of the elaborate media constructs of photography, journalism, criticism, exhibition, history, books, films, television and critical theory, why are comic strips, cartoons and sequential art not considered as valid media for the presentation and discussion of the built environment? The depiction of architecture (normally at that brief moment between the completion of construction and the occupation of the building’s tenants) through images of frozen moments that are touched by neither occupation nor time denies both the participation of the user 108
and the process by which the building was designed. It denies both the presence and the participation of an ‘other’, elevates architecture from its purposeful role to the realms of aesthetics or even high art, and excludes those who will ultimately use the building. Judging and appreciating buildings, space and place solely by the appearance of their two dimensional representations blurs the line between the nature of the building and the nature of the representation, negating and eliminating both narrative and time. Comics, comix and graphic novels, however, have three potential advantages over traditional architectural photography. Firstly, sequential strip cartoons almost always feature a narrative element, thereby introducing a notion of time to the images. Crucially, it is not just the sequence of picture frames that mediate the passage of time, but also the space and time between the frames. Secondly, comics are unique as a representative medium, since they allow the reader to control and interpret the pace at which the narrative is experienced. And thirdly, since they are created with the entirely individual style and personality of the artist’s hand, they cannot be read without an appreciation of the artist’s interpretation. It is impossible to read a comic strip without encountering the nuances and style of the artist. So do comic strips offer a more sophisticated way of looking at, discussing and designing architecture? And can the particular narrative structure found in comics help these architectural processes?
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L’Utopia nel Fumetto Prima di addentrarci nel capitolo centrale di questo lavoro, ho voluto riportare un breve estratto di un fumetto d’autore: Elfo. In particolare leggendo quest’opera, “Sarà una bella società”, si avverte la sensazione di entrare a far parte di un viaggio, dalle più remote utopie del passato, risalenti persino al giardino dell’Eden, fino alle utopie degli anni Novanta. Sono121 Tavole che ripercorrono con stili di disegno diversi a seconda della storia, le tappe più importanti delle utopie del passato. Sarebbe inutile riportarle tutte in questa sede, dunque ne ho scelte alcune tra le più classiche ma che parlano già dello stile di questo fumetto e della volontà di comunicare queste vicende da parte dell’autore.
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Se c’è un tratto che ha contrassegnato la storia dell’ umanità e ne ha distinto l’evoluzione dal resto delle specie viventi, è il desiderio di andare oltre i propri limiti e confini contingenti - raggiungere la fantastica città di Utopia direbbe Elfo - ma per progettare la realtà occorre innanzitutto immaginarla. Immaginare una città è come progettare un edificio, vi sono molteplici aspetti da curare, primo fra tutti una particolare attenzione al contesto. Questo poichè è il contesto che da significato a un’architettura, come il Crystal Palace, progettato per L’Esposizione universale di Londra nel 1851, portatrice di una forte identità. Una idnetità così forte da essere riconosciuta universalmente anche in un’opera così effimera. Tuttavia non sempre accade che un’architettura generi un’identità. Molto più frequentemente ci si accorge di come alcune costruzioni siano vuote e totalmente fuori posto, slegate dal contesto e dal significato di cui dovevano essere portatrici. Una critica che è molto importante per controllare questi “errori” e che è presente già dagli albori di questa disciplina. Inoltre a proposito del fumetto come sguardo critico sulla realtà che rappresenta, Umberto Eco scriveva: “E il fumetto? Chi potrebbe dire oggi che non può essere piegato a fini critici?”. Il nostro geniale Eco aveva già visto oltre e oggi anche i fumetti più commerciali come Dylan Dog assumono questo atteggiamento critico nei confronti della realtà, anche di quella architettonica, che gli autori vorrebbero esorcizzare alla pari dei mostri contro cui è impegnato l’eroe protagonista. L’architettura, una certa architettura contemporanea soprattutto, è vista come l’orrore contro cui lottare per poter scongiurare disastri ambientali, sociali, umani, paesaggistici, culturali. È così anche nel numero 50 dal titolo “Ai confini del tempo”, dove è un grattacielo iper120
Il grattacielo Skyglass, in “Dylan Dog. Ai confini del tempo”, di Tizioano Sclavi e Luigi Piccato
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moderno detto Skyglass a diventare quartier generale di mostri preistorici e insetti. La metafora del grattacielo-razzo ci rimanda a quello che fu un filone davvero originale della ricerca architettonica utopica, la cui estetica fu fortemente legata alla cosiddetta “era spaziale”. Siamo negli anni ‘6070 dello scorso secolo, e in diverse parti del mondo si va affermando una ricerca su nuovi modelli abitativi e costruttivi, sulla scorta, ancora una volta, di una rinnovata fiducia nelle nuove scoperte scientifiche e del progresso tecnologico. È anche il momento dell’affermarsi dell’estetica pop, pertanto il fumetto diventa un medium di interesse anche nel campo della sperimentazione architettonica. Nella ricerca concettuale, il collettivo Archigram fu tra i primi ad avvalersi del fumetto come strumento di comunicazione. Scriveva Peter Cook nel 1964 nel quarto numero di Amazing Archigram: “II nostro documento è il fumetto spaziale, la sua realtà è nel gesto, nella progettazione e nel disegno naturale di un apparecchio inedito in questo decennio: la capsula, il razzo, il batiscopio, lo Zipark, le confezioni compatte. Sarà possibile per il futuro spaziale trovare un collegamento con gli edifici come oggetti costruiti? (...). L’architettura urbana a noi più prossima ha il grande difetto di non riuscire ad assimilare nella sua estetica globale gli oggetti in rapido movimento, ma qui l’estetica del fumetto è sempre stata più forte (...). Il razzo (vero e disegnato), gli scarabocchi futuristi e la città spaziaie hanno in comune una caratteristica positiva: il loro essere definitivi, importante soprattutto come contrappeso alla cosiddetta “architettura reale”. Noi mettiamo in relazione questo materiale con seri progetti, per creare spazi abitativi e destinati all’intrattenimento e la città, nel contesto del futuro prossimo”. 122
Jimenez Lai, unità d’abitazione in assenza di gravità, in “Citizens of no place”
La riflessione di Archigram quindi verte soprattutto su nuove forme urbane e su nuovi modelli abitativi, rivedendo il concetto di cellula abitativa già a sua volta esplorata, con altri intenti ed esiti, da Le Corbusier con la sua Unité d’habitation. Un esempio illustre ne è il progetto denominato “Plug-in City” realizzato nel 1964 da Peter Cook. Si tratta di una ipotetica città in cui unità residenziali modulari si connettono (plug-in) a una mega struttura centrale contenente le reti infrastrutturali, con possibili configurazioni sempre mutevoli in funzione delle rinnovate esigenze e dei nuovi sviluppi, e programmate per diventare obsolete dopo un periodo prefissato. Plug-in city è solo uno di una serie di visionari progetti realizzati dal gruppo (Walking City e Instant City ne sono altri esempi) in bilico tra megastrutturalismo e ricerca “sull’autodeterminazione e la libertà di scelta dell’individuo”. Le suggestioni offerte da Archigram hanno generato nel tempo uno stuolo di emuli e seguaci tra cui ricordiamo i nostrani Archizoom e Superstudio, esponenti italiani della cosiddetta Architettura radicale che si propose, 123
Jimenez Lai, “Point clouds” in “Citizens of no place”
Jimenez Lai, urbanesimo verticale, in “Citizens of no place”
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negli anni ‘60, di rinnovare i linguaggi dell’architettura, dell’arte e del design. La ricerca sull’unità abitativa non si è esaurita nel corso del tempo, e di pari passo con essa anche il fumetto ha trovato spunti originali per raccontarne le idee e, in alcuni casi, esprimerne le ansie. Una singolare opera di recente pubblicazione costituisce una miniera di riflessioni in tal senso in forma di graphic novel: si tratta di “Citizens of no place”, dell’ architetto di origine asiatica, ma operante a Chicago, Jimenez Lai. A dispetto di quanto dichiarato nel sottotitolo, non si tratta di una vera e propria graphic novel bensì di una raccolta di storie brevi in forma grafica sui temi dell’architettura, dell’abitare, dell’urbanistica. Ogni storia breve illustra molto liberamente un concetto in qualche modo legato all’ambito progettuale, anche in maniera del tutto trasversale. Si legge nella presentazione: “In equilibrio sulla linea tra narrativa e rappresentazione, il fumetto è un medium che facilita la sperimentazione su proporzioni, composizione, scala, sensibilità, plasticità dei personaggi, e sulla relazione tra le parti e il tutto, giacché la pagina diventa oggetto. Ma soprattutto, questo mezzo grafico permette di far confluire rappresentazione, teoria, critica, sceneggiatura e progetto”. I temi trattati sono disparati: urbanesimo verticale, modulo abitativo, ergonomia, originalità e massificazione, tipologie architettoniche. Ogni storia è preceduta da una breve introduzione di poche righe che esprime l’ intenzione dell’autore. Ad esempio, una di queste recita: “Per far sì che la cultura progredisca, gli architetti devono impadronirsi del potere delle idee non realizzate e coltivare proposte folli. Nel momento in cui realizzano ciò che sembra inimma125
ginabile, gli architetti pongono le premesse per nuove, tangibili realtà”. Lai abbraccia quindi apertamente la corrente utopistica architettonica, pur declinandola con sensibilità moderna, e il concetto dell’architetto come creatore di mondi. In questo, si mostra pienamente consapevole del retaggio culturale a lui pervenuto in tal senso: sicuramente molto deve alle esperienze di Archigram (tanto che nei ringraziamenti a fine libro lo cita esplicitamente come uno di quei soggetti senza il quale quest’opera non sarebbe mai stata concepita), e a tratti fa riferimento diretto ad alcuni progetti ideali del passato. Ad esempio la “Broadacre City” di Frank Lloyd Wright viene esplicitamente citata in una vignetta della storia “Noah ‘s Ark in space”. La Noah’s Ark è una città formata da due mappe urbane sovrapposte come fosse un sandwich; nello spazio tra l’una e l’altra fluttuano, in assenza di gravità, innumerevoli unità d’abitazione che dipendono energeticamente dalla struttura madre, cui si connettono periodicamente per rifornirsi di energia. È lo stesso concetto, rivisitato in maniera futuristica, della già citata “Plug-in City” di Peter Cook, ampliato da un’ulteriore riflessione sul modo di abitare in assenza di gravità e sulle conseguenze che questo comporta, in termini spaziali e funzionali, nella configurazione degli alloggi. Notevole l’ultima storia, “The future archaeologist”: un uomo compie accidentalmente un salto nel tempo in avanti di 10.000 anni, per scoprire che la sua civiltà, così come la conosceva, non esiste più. Un umanoide lo accoglie al suo atterraggio e lo guida sui luoghi in cui in origine doveva sorgere la sua casa. L’umanoide è un antropologo che ricerca sui modi di vivere e abitare del passato, e su questi temi interroga l’uomo: “Ho trovato alcuni modelli predominanti negli insegnamenti della 126
facoltà di architettura, in base ai libri che ho consultato, ma non riesco a trovare traccia di questo dibattito accademico nei miei ritrovamenti archeclogici “, alludendo al fatto che nei suoi scavi ha ritrovato soltanto tipologie architettoniche banali e distanti da quella teorizzazione. Una critica fortissima, questa, allo scostamento tra l’architettura teorica e quella pratica, esplicitata ulteriormente dall’autore nell’introduzione alla storia: “La forma delle nostre tipologie architettoniche più popolari verosimilmente rappresenterà la nostra cultura in futuro, e per questo motivo abbiamo bisogno di una massa critica di edifici che possano essere definiti architettura spettacolare. Abbiamo bisogno di più architetture esemplari per scrivere in anticipo la storia del nostro futuro!”. Questa semplice ma lucidissima considerazione è una potente critica alla pratica architettonica corrente e al tempo stesso un’ulteriore testimonianza dell’importanza della componente storica degli edifici, vista con una sensibilità del tutto diversa da quella di Ware ma con esiti tutto sommato coincidenti: gli edifici sono la nostra storia, sia che li guardiamo con occhio volto al passato, sia che li pensiamo in un futuro anche distante da noi. Le riflessioni di Lai nelle storie che costituiscono “Citizens of no place” potrebbero a tratti essere assimilati a idee progettuali in nuce; ma, in generale, si tratta di fiction architettoniche : non sono progetti realizzabili, e, in definitiva, non necessariamente desiderabili. La dimensione in cui prendono vita è un no place, un non-luogo, così come dichiara il titolo, i cui abitanti appaiono ben distanti da dinamiche sociali verosimili; si potrebbe dire, forse, una landa ancora inesplorata dell’isola di Utopia. Un’altra opera a fumetti, recentemente pubblicata, si spinge oltre sui temi dell’abitare futuro. Si tratta di “Beta 127
testing the Apocalypse”, anche qu esta una raccolta di stori e brevi, pubblicata nel 2012. Tom Kaczynski, autore di testi e disegni, è un vero e proprio fumettista, a di fferenza di Lai che è in primis un architetto, ma anche lui ha un background culturale nel campo dell’architettura. Lo stesso autore ha dichiarato in un’intervista di aver subito un fascino particolare dai suoi studi: “L’architettura è una disciplina che ho abbracciato principalmente perché quasi obbligatoria per chi è interessato all’arte. Me ne sono inn amorato, e più mi addentravo nella materia, più mi in fatuavo di tutti i temi che circondano la pianificazione urbana, le infrastrutture e come queste cose vengono realizzate. Ogni volta che facevo un qualsiasi progetto, bisognava fare ricerca archeologica sul sito. Come è nato qu esto sito? Ecco la planimetria originale; ecco come successivamente è stata modificata; ecco come un’ autostrada ha influenzato quest’area (...) È come se questo scavare nella storia del sito ti risucchiasse; veder come alcune scelte precise sono state fatte a un certo punto per determinare quello stato di cose (...) Ho portato tutto questo su un piano più ampio, filosoficamente parlando”. Ma non solo il processo progettuale che modella la realtà: Kaczynski usa questo mezzo per prefigurare una nuova realtà a venire. Sebbene si muova nel solco utopistico, non è una narrazione utopistica nel senso classico del termine, ossia generatrice di mondi desiderabili; si tratta piuttosto di quello che, con un termine più moderno, potremmo definire distopia, ossia la prefigurazione di un futuro e una società che incute disagio e timore. Kaczynski in questo mostra di aver subito più l’influsso della letteratura di I.G. Ballard che quella degli utopisti del XIX secolo. Le storie di Kaczynski sono intrise di una 128
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perenne ansia, una costante tensione negativa che è poi l’antefatto della catastrofe. Non si tratta infatti di racconti postapocalittici, bensi l’autore preferisce indagare quei meccanismi e quegli elementi non ancora compiuti ma capaci di generare l’apocalisse. Questi temi sono svolti tramite l’osservazione, ancora una volta, della forma della città e del modo di abitare. Nella storia in titolata “976 sq. ft.” un piccolo quartiere viene radicalmente cambiato dalla costruzione di un alto, modernissimo condominio di lusso, il quale con la sua presenza inquietante, e per la natura alienante dell’interno dei suoi alloggi, induce in tutto il vicinato una epidemia di disturbi psichici, dapprima comparsi come disturbi del sonno, poi sfociati in veri e propri disordini psichiatrici; il processo porta inevitabilmente all’annullamento umano del quartiere, i cui edifici vengono poi lentamente sostituiti da nuovi condomini in costruzione. In “Cozy Apocalypse” un a coppia si ritira a vivere in una villa di recente acquisto per tentare di rimediare alla crisi del matrimonio; una accidentale serie di eventi esterni (un’alluvione che allaga la casa e tutto il vicinato, il crollo della borsa con con seguente licenziamento del marito, l’incendio dell’auto di proprietà) costituisce una sorta di banco di prova per l’apocalisse alla quale i due si predispongono in solitudine, salvo poi essere bruscamente risvegliati da un a visita di un agente di polizia che innesca il ritorno al normale corso delle cose. Nella storia breve “The new”, un architetto di successo internazionale, da sempre affascinato dal potere iconico degli edifici singolari, viene letteralmente inghiottito da una non meglio identificata megalopoli, fatta di enormi slums che si sviluppano attorno a un nucleo storico, nei cui sotterra nei sopravvive la leggenda del primo architetto fondatore della città. 131
Il filo conduttore delle storie sembra essere dunque il quesito: cosa succede se introduciamo elementi di discontinuità, o destabilizzanti, nell’ordine delle cose proprio della società occidentale così come la conosciamo? Kaczynski è un autore statunitense, e in quanto tale è ben consapevole dei mutamenti sociali indotti da quello che è stato l’evento forse più rappresentativo degli ultimi anni, ovvero la spettacolare distruzione, per mano di un commando terrorista, delle torri gemelle del World Trade Center a New York, de1’11 settembre 2001. I giornali dell’epoca usarono titoli come “Attacco al cuore dell’America”, per sottolineare la fortissima valenza simbolica che quegli edifici, dominanti nello skyline di Manhattan, possedevano in relazione al modello di vita statunitense e occidentale in genere. Un evento epocale che ha cambiato il modo di vivere di molti americani, catalizzando ansie e paure pre-apocalittiche, e dando spunto a una vasta produzione culturale di vario genere (romanzi, film, fumetti); tra questi ricordiamo qui soltanto l’opera di Art Spiegelman, “In the shadow of no tower “(2004), una collezione di strisce apparse originariamente sul settimanale tedesco Die Zeit e poi raccolte in volume cartonato, con l’ aggiunta di alcune storiche tavole del fumetto americano classico (“Hogan’s Alley” e “Little Nemo in slumberland”, ad esempio). Il tema dell’elemento destabilizzante all’interno della città ci rimanda a quello che è un caposaldo indiscusso della letteratura a fumetti riguardante l’architettura, “La fièvre d’Urbicande”. Questa singolare storia, frutto di una prolifica collaborazione tra i belgi François Schuiten, disegnatore, e Benoit Peeters, sceneggiatore, ha luogo nella città di Urbicande e ha come protagonista principale Eugen Robick, urbatecte (un termine coniato 132
dagli autori, contrazione di urbanista e architetto) ufficiale della città di Urbicande, sul cui tavolo compare un apparentemente innocuo ma sconosciuto scheletro di cubo. Mentre prendiamo confidenza con le teorie architettoniche e urbane di Robick e della Commissione cittadina, improntate a un approccio totalizzante e autoritario, presto il cubo comincerà a crescere e molti plicarsi fino a invadere l’intera città con una maglia tridimensionale, che gli abitanti battezzano “la rete”, la quale genera ponti tra due parti della città in precedenza segregate l’una rispetto all’altra. I cittadini dunque si appropriano della megastruttura per rivoluzionare l’architettura della città, a dispetto dei piani di Robick e stravolgendone l’ordine fino ad allora esistente. Ma la crescita incontrollata della rete tridimensionale fa sì che dopo un po’ la città sia interamente inclusa in una sola delle sue maglie cubiche, rendendo di fatto non più utilizzabile la struttura; pertanto la commissione decide di ricostruirne le sembianze con materiali ordinari (acciaio, mentre il cubo originario era di una materia sconosciuta). Una storia complessa, che contiene, senza dubbio, numerosi piani di lettura. Fra i tanti, quello che qui è notevole rispetto a quanto finora esposto, è la posizione che gli autori assumono rispetto alle utopie architettoniche classiche. L’albo infatti inizia con una lettera di Robick alla Commissione cittadina, in cui l’urbatecte tesse le lodi dell’armonia che vince sul caos nel suo disegno della città; per far questo cita esplicitamente le architetture ideali di Etienne Boulleè e Hugh Ferris. Un forte richiamo all’utopia classica, dunque, destinata però a fallire per l’intervento di un elemento esterno e alieno. Lo stesso tentativo di ricreare artificialmente ciò che spontaneamente era stato generato dall’espan133
Peeters e Schuiten, “Guide des cites”, (sopra) ; Schuiten “La Fiévre d’Urbicande”, (sotto)
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dersi del cubo, non dà adito a scenari positivi, bensì suona com e un fallimento. Un elemento architettonico singolo può quindi trasformare l’utopia in distopia. Guardando le tavole di Schuiten, il pensiero non può non andare ai disegni della Ville Spatiale realizzati nel 1960 dall’architetto francese Yona Friedman. Il suo lavoro fa parte di quella corrente che fu definita megastrutturalismo, cui appartiene anche la già esaminata “Plug-in City” di Archigram. La Ville Spatiale è basata sulla cosiddetta “infrastruttura spaziale”: una griglia tridimensionale a più piani, sostenuta da pilastri ben distanziati tra loro. Questa infrastruttura costituisce la parte fissa della città, mentre la parte mobile, variabile, sarà costituita dalle separazioni murarie che delimitano le singole abitazioni dei cittadini, realizzate nei vuoti della griglia tridimensionale. La griglia può quindi estendersi al di sopra delle città esistenti, realizzando un livello ulteriore in cui la vita dei cittadini sia più adatta alle esigenze della vita moderna. Nella vicenda di Urbicande non ritroviamo la carica utopica positiva del progetto di Friedman; tuttavia, come la Ville Spatiale era stata concepita dal suo ideatore per “liberare” i cittadini dalle costrizioni dell’urbanesimo tradizionale, così anche il megacubo di Urbicande finisce per dare nuove possibilità abitative, rompendo la rigida gerarchia dell’architettura voluta da Robick. La fièvre d’Urbicande è il secondo episodio, in ordine di pubblicazione, di una ecceziona le serie realizzata dalla coppia Schuiten Peeters a partire dagli anni ‘80, nota com e ciclo delle “Cités Obscures”. I due autori belgi hanno creato un vero e proprio microcosmo di storie, ciascuna ambientata in (ma sarebbe 135
più corretto dire, in gergo cinematografico, interpretata da) una città di fantasia. Apparentemente ben distinte e isolate l’una dalle altre, le città oscure formano un a sorta di continente immaginario, tanto che gli stessi autori hanno prodotto una guida per orientarsi tra i vari siti e riconoscerne le caratteristiche peculiari, la “Guide des citès”, un sito internet ufficiale (Urbicande.be) che riproduce, tra l’altro, una mappa del continente, e L’Echo des citès, un fittizio giornale “locale”. Nell’introduzione al ciclo di storie, presente sul sito Urbicande.be a cura di Benoit Peeters, si legge: “Lo stesso nome Città Oscure è indicativo dell’importanza attribuita alla città. (...) La Città, in quanto istituzione autonoma e modello organizzativo, è la base della società Oscura e del suo principale sistema di governo, un po’ come è accaduto in Italia per secoli”. Si tratta quindi di organismi autonomi e compiuti in se stessi, vere e proprie macchine autosufficienti, ciascuna con un carattere autonomo. Così come per le Città invisibili di Calvino, ciascuna ha una peculiarità: nella Guida leggiamo quindi che Alaxis è la “Città del piacere”, Calvani è la “Città delle piante”, Mylos è chiamata “L’agglomerato industriale”, eccetera. E così come nell’opera di Calvino o nel Milione di Marco Polo, non sono i rispettivi abitanti a narrarne le storie, bensì occasionali visitatori (come in “Les Murailles de Samaris” oppure “La route d’Armilia”), ovvero chi, pur abitandovi da tempo, ne scopre caratteristiche fino ad allora sconosciute (come in La fièvre d’Urbicande o La Tour). Il senso di non appartenenza della voce narrante in tal modo amplifica l’effetto di straniamento che si respira lungo le pagine di ogni albo. Difatti i “mondi” creati da Schuiten e Peeters non sono affatto idilliaci; ogni storia è segnata inesorabilmente da fallimenti, delusioni o illusioni, decadenza e distru136
zione. C’è sempre un elemento ostile, o destabilizzante che rende l’esperienza delle città un’avventura solitaria e alienante. E in generale l’architettura delle città è un pretesto narrativo funzionale a tale scopo. Abbiamo già detto dell’ipercubo a Urbicande; un altro esempio notevole è contenuto nel primo albo della serie, “Les Murailles de Samaris”, in cui Franz, il narratore, viene inviato da una città vicina (Xhystos) a esplorare la città di Samaris, la cui peculiarità è che le facciate dei suoi edifici, le cosiddette quinte urbane, altro non sono che artifizi scenografici cangianti a favore dell’ osservatore, cui non corrisponde, sul retro, un coerente ambiente interno. Ne risulta una città in continuo movimento, destinata a ripresentarsi a volte in maniera ripetitiva e i cui abitanti sembrano manichini senza anima. Franz dice: “A volte avevo il sospetto - assurdo, ovviamente - che questa città misteriosa fosse concepita per intrappolare coloro che vi si avventurano - un’architettura perversa studiata per confondere il viaggiatore!”, sospetto che poi si rivelerà fondato una volta che Franz riesce a scoprire il meccanismo che muove Samaris. Tornato a Xhystos però subirà la delusione più cocente nel rendersi conto che la sua città è un simulacro al pari di Samaris, al cui richiamo seduttivo infine tornerà. L’idea narrativa di base - la realtà non è quella che appare - non è originale e appartiene di diritto a un filone filosofico e fantastico ampiamente esplorato (ad esempio nelle successive pellicole cinematografiche The Matrix e The Truman show), e probabilmente è possibile cogliervi echi delle teorie postmoderniste di Baudrillard, di poco precedenti a questo albo, sul rapporto tra realtà e simbolo: “Più ci si avvicina alla perfezione del simulacro (e questo è vero per gli oggetti, ma anche per le figure artistiche o per i modelli di relazione sociale 137
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e psicologica), più diventa chiaro (...) che ogni cosa sfugge alla rappresentazione, sfugge al proprio doppio e alla propria imitazione. In breve, non esiste realtà: la terza dimensione è solo l’immaginazione di un mondo bidimensionale, come la quarta lo è di un universo tridimensionale”. È dunque il mutare imprevedibile della forma delle città, e di pari passo con esso delle dinamiche sociali al suo interno, la costante che determina il senso di frustrazione e fallimento nei personaggi della serie. Non siamo quindi nel campo dell’Utopia classica dove città ordinate e virtuose determinano modi di vivere giusti e desiderabili, bensì nella seconda età dell’utopia, non ancora apocalittica come nell’albo di Kaczynski, ma pur sempre animata da un pessimismo di fondo. Sebbene la saga delle Città Oscure sia idealmente databile attorno agli inizi del xx secolo, era di grandi ottimismi tecnologici, come già notato in precedenza, il progressismo di fondo non dà luogo a esiti positivi per i personaggi, né per le città stesse nella loro forma architettonica e urbana. Perfino in Brüsel, l’albo in cui maggiormente prevale una sorta di ottimismo nei confronti del progresso scientifico, i grandi lavori urbani sfociano in distruzione, e i protagonisti infine fuggono dalla città, capitale modello del continente oscuro, verso Calvani, città popolata da splendide specie vegetali, come fosse un paradiso ecologico in cui rifugiarsi per guarire dalla malattia della modernità: “- Non so cosa troveremo ... l’importante è allontanarsi da Brüsel, lasciarci alle spalle tutta questa follia ... - Siamo stati tutti malati ... - Sì, malati di progresso”. Una sensibilità prettamente contemporanea che apparentemente cozza col gusto retrò delle ambientazioni disegnate, magistralmente, da Schuiten. Che siano gli edifici in stile art nouveau di Xhystos, o 139
le serre di cristallo di Calvani, o i grattacieli moderni in Brüsel, il segno di Schuiten è sempre complesso, elegante, ricco di dettagli e tratteggi, ben lontano in definitiva dalla ligne claire di cui il fumetto franco belga è stato paladino nel mondo, piuttosto a tratti somigliante alle incisioni di Piranesi. Ma anche questo è perfettamente funzionale allo scopo narrativo. Luis Miguel Lus Arana a tal proposito ha scritto che le Città Oscure hanno un che di artificiale, a dispetto del loro raffinato aspetto: “è come se ci trovassimo di fronte a una illusione palladiana, o una finzione scenografica, come se non ci fosse niente di reale al di là della decorazione”. Non solo Samaris, dunque, ma tutte le città posseggono un che di falso, di vuoto, di fittizio. Lo stesso Schuiten ha recentemente dichiarato di aver volutamente creato, forse esagerato, il senso di straniamento dovuto alle sue architetture, utilizzandolo come espediente narrativo: in un mondo ideale, ha detto, non c’è tensione, non c’è movimento e, dunque, non c’è storia. Potremmo dunque catalogare le Città Oscure nel novero della letteratura meramente fantastica? Nonostante la straordinaria carica visionaria espressa dai due autori belgi, questa sarebbe un a definizione riduttiva. Come ha correttamente notato Andrea Alberghini, in “Les Muraill es de Samaris” si avvertono gli echi di quella moda architettonica, in voga a Bruxelles negli anni..., nota col il nome di facadisme. Esso consiste nella demolizione degli edifici storici, preservandone soltanto le facciate per poi reintegrarle nella costruzione di nuovi edifici. Questo ci riporta alla mente di sicuro l’architettura di facciata di “Les Murailles de Samaris”, con la sua carica di alie nazione: ma un’eco polemica ancora più diretta contro questa moda architettonica si ritrova in Brüsel, in cui la condanna della distruzione progressiva dell’architettura storica dell’omonima città 140
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reale è palese e fortemente sarcastica. Anche qui dunque non solo visione, ma sguardo critico, esercitato per mezzo del “doppio” di fantasia di una città reale. La Brüsel oscura diventa il fantoccio contro cui lanciare gli strali della critica urbana e sociale alla Brüsel reale, sempre cangiante nelle sue innumerevoli influenze stilistiche (spagnola e olande se su tutte), un laboratorio di città che ha profondamente influenzato i due autori, permeandoli della problematicità generata da tale modus vivendi urbano. Sul ciclo delle Città Oscure, per la loro complessità tematica e la loro importanza stilistica e narrativa, sarebbe possibile scrivere un intero saggio dedicato. Seguiamone piuttosto il filo per esaminare la originalissima opera di un altro autore francofono, il francese Marc-Antoine Mathieu. Sceneggiatore e disegnatore al tempo stesso delle sue opere, è noto in gran parte per la sua innovativa serie “Julius Corentin Acquefacques, prisonnier des reves”, redatta a partire dal 1990 fino al recentissimo ultimo episodio “Le décalaqe”, uscito nel 2013. Acquefacques è l’anti-eroe per eccellenza: un modesto impiegato del Ministero dell’Umorismo, che tuttavia non ride mai, ritratto nelle sue disavventure in una città ostile, caotica, spersonalizzante. La città, costantemente presente e dettagliatamente rappresentata, è il vero controaltare del protagonista, vittima di meccanismi che ne annullano la dignità per ridurlo a ruota di un ingranaggio che, lungi dall’essere perfetto, scricchiola in ogni sua parte e non assolve alle funzioni cui è preposto. Le avventure di Julius sono surreali e grottesche, kafkiane, diremmo oggi, ma questo è un riferimento fin troppo ovvio: Acquefacques, se pronunciato alla francese, suona come Akfak, ovvero l’inverso di Kafka. Julius vive in un minuscolo appartamento, da solo, 142
Il vano corsa dell’ascensore usato come spazio abitativo, in “L’Origine” di MarcAntoine Mathieu (sopra); I controllori dello spazio vitale tendono i loro nastri, in “La Qu...” (sotto)
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perché vivere insieme a una donna comporterebbe “tre unità di spazio vitale in meno”. Anche i suoi amici vivono in alloggi precari: due di questi sono costretti, a intervalli regolari durante il giorno, a smontare letteralmente arredi e pavimento della casa perché questa è, in parte, realizzata attraverso il vano corsa dell’ascensore condominiale (“L’Origine”, 1990, primo albo della serie). Una originalissima metafora, e feroce critica, della anni presente crisi degli alloggi nelle grandi città francesi. Il tema viene ripreso nel secondo albo, “La QU....”in cui dei non meglio identificati “controllori dello Spazio Vitale” irrompono nell’appartamento di Julius per misurarne tutte le dimensioni, e infine arrestarlo per aver utilizzato impropriamente lo spazio a lui assegnato lasciando aperto un cassetto. I controllori lasciano nella casa di Julius un reticolo di nastri misuratori incrociati che diventa un labirinto inestricabile in cui è impossibile fruire ancora dello spazio (pochissimo) vitale. Per contro, le architetture pubbliche (il ministero, il palazzo di giustizia) sono imponenti, fino al punto da essere fuori scala rispetto all’uomo (in “La Qu...” Julius si trova davanti a un’architettura che ha una scalinata i cui gradini sono più alti di lui, quindi impossibili da scalare). A differenza delle Città Oscure, praticamente vuote e senza tracce evidenti di presenza umana, la città di Mathieu è affollatissima, le strade sempre piene di una massa anonima e indifferente che non si cura del prossimo, anzi ne ostacola le attività; lo stesso Acquefacques è sempre rappresentato dietro due spesse lenti che ne nascondono in parte le sembianze. Agli autori delle Città Oscure Mathieu inevitabilmente paga tributo. In un’intervista afferma: “Amo il lavoro di quegli autori che, tramite mondi immaginari, riescono a fare emerge re una riflessione , filosofica o sociologica. Schuiten 145
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e Peeters ci inducono a riflettere su cosa è l’agorà, la città ...”. Non solo un riconoscimento teorico: ne “La 2,333e dimensione” compare una citazione esplicita de “La fièvre de Urbicande”, di cui due tavole vengono riprodotte su altrettante sfere, come se fossero altri universi paralleli, mentre Julius e il suo petulante vicino vengono proiettati nello spazio tra mondi ( - L’immaginazione decisamente non ha alcun limite - In effetti... Se il vostro dio ha creato usando i dadi, l’ha fatto senza mai fermarsi. - Una cosa è sicura : il numero dei dadi è infinito. A meno che sia il numero delle facce dei dadi...o entrambi le cose insieme...). A proposito di Urbicande, un’analogia è possibile con un altro albo di Mathieu, non facente parte del ciclo di Acquefacques. “Mémoire morte”, pubblicato nel 2000, ha come protagonista un personaggio che, pur non essendo Acquefacques, gli somiglia parecchio, e non solo nell’aspetto. Nella città in cui Monsiuer Houffe vive, un giorno spunta un muro che taglia a metà una strada, di fatto isolando due parti l’una dall’altra; i muri cominciano a moltiplicarsi fino a creare segregazione totale della popolazione, ciascuna rinchiusa nel proprio piccolo isolato. Parallelamente si scatena un’epidemia di amnesia: i cittadini perdono la memoria cominciando a dimenticare le parole che compongono il linguaggio. La perdita della memoria è una metafora dell’oblio delle proprie origini. Il calcolatore in cui è depositata tutta la memoria della città dirà a Houffe: “l muri, sono i vostri muri. Può darsi che sia la sola cosa che vi resta ormai ... Quei muri sono in tutti voi, e non li avete distrutti finchè eravate in tempo. - È.... o..ormai...t...trop ...tardi? V...voi s ...sa pete ...c... cos a ...s ...succederà? - Ecco qui il vostro problema. Voi volete continuamen147
te conoscere l’avvenire ....Imparate prima a leggere il presente, e la vostra memoria servirà a qualcosa”. Come a Urbicande, è un elemento architettonico inaspettato, invasivo, a cambiare il corso della vita della città, rompendo l’isolamento degli individui , sempre più dipendenti da un sistema di informazione in tempo reale trasmesso tramite telefoni cellulari, e facendo sì che le origini vengano recuperate, restituendo alla città il suo nucleo circolare concentrico rimasto isolato nell’espandersi incontrollato e “rettilineo” del tessuto urbano. La città qui riveste dunque il ruolo di luogo in cui l’umanità vive, agisce, si sviluppa o si involve: la città è la casa dell’uomo, e in quanto tale va esaminata e criticata, ove necessario. Mathieu lo fa sempre con tono lieve: il carattere distopico della società da lui disegnata non dà spazio a una visione cupa e pessimistica quale quella che si percepisce nelle Città Oscure, perché è sempre stemperato in un alone di satira, ricadendo più nell’ambito del comico-grottesco che nel catastrofico. In questo Mathieu fa un uso magistrale del medium fumetto, sfruttandone appieno i punti di forza. A un livello più profondo, più strutturale, le storie di Mathieu su Acquefacques costituiscono una buona prova dell ‘idea che se c’è un medium principe nella città della Modernità, questo è il fumetto”. L’affermazione di Andrè Suhr è in buona parte vera e quindi condivisibile, tuttavia il fumetto, antico quanto l’uomo e le sue costruzioni, deve comunque condividere con l’architettura il ruolo di medium della modernità. Cosa sia nato prima, come si anticipava all’inizio di questo lavoro, non ha molta importanza rispetto a come oggi si relazionano questi due linguaggi. La presunta crisi dell’architettura si combina con l’attuale stagione di trasformazione del fumetto. 148
Entrambe le arti sono alla ricerca del loro compito nella società contemporanea: sono mezzi di comunicazione di massa, sono linguaggi, sono espressioni d’arte, sono ciò che i loro autori vogliono che siano ma anche ciò che la collettività vuole che siano. In questo rinnovamento del loro ruolo spesso si incontrano e si sostengono mediante un continuo travaso di significanti e di significati. Non è facile prevedere quanto durerà il loro , assai interessante, connubio; è invece fin troppo semplice dire, a conclusione delle nostre riflessioni, che questa commistione di cose del fumetto con cose dell’architettura delinea nuovi orizzonti per la ricerca in entrambi gli ambiti della cultura contemporanea. 149
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Shō M Nei capitoli precedenti si sono trattati innumerevoli temi che sono alla base di partenza per la mia considerazione. In particolare, come si è detto, l’architettura futuristica degli anni ‘60, aveva mostrato un futuro utopistico, legato a un progresso tecnologico praticamente illimitato che avrebbe sollevato l’uomo e le sue città a un livello superiore. Dopotutto le nuove frontiere tecnologiche, come lo sbarco sulla Luna, e le grandi metropoli, foreste di grattacieli, avevano impressionato e stimolato molteplici ambiti e discipline, producendo rappresentazioni di grande impatto. Archigram ad esempio, ma si può dire lo stesso di altri gruppi, ha puntato tutto sulla “meccanicità”, sullo sviluppo tecnologico della città e dell’urbanistica, stravolgendo i caratteri classici della tradizione. In questo periodo di grande fermento, anche politico, i fumetti si liberano dal loro carattere semplicistico, andando a indagare nuovi temi e nuove frontiere, posizionandosi come medium mondiale per la cultura giovanile prima, e per tutte le età in seguito. Grandi autori come Chris Ware o Eisner, aprono la strada a una contaminazione tra architettura e fumetto, delineando storie che hanno le città o addirittura gli edifici come coprotagonisti delle loro storie. Infatti la narrazione a fumetti si carica nei decenni a seguire, di un nuovo aspetto critico: il fumetto viene visto come riflesso della società. Il fumetto di Elfo è un esempio emblematico di come l’arte del fumetto sappia anche sinteticamente esporre con chiarezza un tema, in questo caso l’utopia, ripercorsa in tutte le sue tappe storiche dall’antichità a nostri giorni. Achitettura e Fumetto riscoprono sempre di più affinità e reciproche contaminazioni, dando esiti nuovi e innovativi. 152
Sono nate quindi delle collaborazioni proficue tra architetti e fumettisti, ad esempio il fumettista Joost Swarte e lo studio Mecanoo, collaborano per la costruzione di un teatro a Haarlem in Olanda. Inoltre il fumetto si occupa anche di parlare di utopie, descrivere il mondo come dovrebbe essere, oppure mostrarne le debolezze e contraddizioni in rappresentazioni distopiche come le città delle Città Oscure, dei fumettisti belgi Peeters e Schuiten. Dopo gli anni Ottanta le utopie tecnologiche erano già sparite e di loro non restavano che distorsioni distopiche, spesso legate alle narrazioni di fantascenza. Sono di questi anni i successi della serie “Incal” di Jean Giraud alias Moebius, carichi di una visione onirica e fortemente legata all’utopia. L’autore qui propone oltre ad un intreccio narrativo emozionante, una ambientazione piena di riferimenti simbolici e ricca di citazioni che caratterizzano le sue tavole sin dai primi lavori. Nel 2000, pubblica poi, in una interessante commistione con il manga, il fumetto “Icaro”, insieme a Jiro Taniguchi. Nel fumetto si riconosce subito lo stile di Moebius, inoltre il manga risalta la cura nel dettaglio nelle tavole, con un effetto realistico sorprendente. Anche “Azark” tra i suoi capolavori ricerca una utopia legata a diversi mondi possibili, sviluppando contesti e architetture futuribili o legate al fantasy. Dal punto di vista dell’architettura invace, in quegli anni si vede la nascita di una nuova figura professionale, interrogata da James Brown nella sua tesi e ricca di numerosi sviluppi: L’architetto-fumettista. É una questione interessante e non banale da affrontare. Come si è detto vi sono innumerevoli punti di contatto tra Architettura e Fumetto, entrambe narrano una storia, comunicano all’osservatore, indirettamente insegnano o trasmettono un messaggio. Non è chiaro fin dove è possibile risalire all’orgine di questa interazione, tuttavia abbia153
Jean Giraud alias Moebius, Jiro Taniguchi, “Icaro”
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Jean Giraud alias Moebius, “Incal”
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mo testimonianza che persino Le Corbusier ha sfruttato il fumetto per una più immediata comprensione del progetto da parte della commitenza, è il caso dell lettera a Madame Meyer. Rem Koolhaas tra le archistar recenti ha pubblicato un fumetto, “Byzantium”, narrando i retroscena della progettazione e mostrandone le innumerevoli vicissitudini. Molti studi di architettura oggi ripercorrono questa strada, primo fra tutti lo Studio BIG, del danese Ingel Bjarke. Nel fumetto manifesto, “Yes is More”, mostra i progetti del suo studio ricorrendo alla narrazione a fumetti con pregievoli risultati. In altri casi si usa il fumetto per istruire o semplicemente diffondere un’idea o un punto di vista, inserendo quel coinvolgimento narrativo: la lettura mentale, che fa propria l’esperienza della lettura. È il caso di “Architetture Resistenti” di Raul Pantaleo e Marta Gerardi, che mostrano in un quadro grafico semplice ma efficacie una vicenda, pretesto per far conoscere alcune architetture del panorama italiano. Dunque il fumetto ancora come strumento comunicativo, tuttavia nella tesi di Alberghini si tratta anche del suo coinvolgimento nella fase di progettazione architettonica. Alberghini come altri autorevoli architetti si sono chiesti se questo fosse possibile e in che modo il fumetto potesse aiutare la progettazione. Una risposta completa non si è ancora trovata, si tratta di un campo ancora aperto alla sperimentazione che deve dare ancora i suoi frutti. Un altro tema che si è trattato solo marginalmente è quello del manga giapponese e delle sue interazioni con l’utopia. Data la grande varietà di manga oggigiorno è sempre più difficile selezionare fumetti di grande qualità e che rispondono alle esigenze che questo lavoro cerca di 156
Lebbeus Woods, “Lower Manhattan”
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Akira Toriyama, “Dragon Ball”, veduta della sede della Capsule Corporation
Jean Giraud alias Moebius, “Azark”
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affrontare, perciò se ne citeranno solo alcuni. Tra questi il più diffuso e di più grande successo su scala mondiale è senza dubbio il manga “Dragon ball”, di Akira Toriyama edito su Shonen Jump nel 1984. Senza addentrarsi nella trama di manga mainstream, si segnala l’ambientazione della storia. Infatti la sceneggiatura vede una società terrestre futuristica, suddivisa nel mondo in cinque gradi megalopoli, unite sotto uno stesso governo centrale. L’architettura di queste città è prevalentemente futuristica, con forme a igloo o tonteggianti, ispirazione dall’high-tech, che contaddistingue anche tutti i mezzi di trasporto terrestri e non. È ben noto l’interesse dell’autore per l’alta tecnologia, e i suoi disegni hanno ispirato molte generazioni, contribuendo persino nella creazione di modelli automobilistici e di design. Per quanto riguarda l’architettura aliena, Toriyama si rifà alle ambientazioni horror esoteriche, molto simili a quelle di grandi film come “Alien”, di Ridley Scott, o alle costruzioni aliene di “Azark” di Moebius. Un fatto non del tutto casuale poichè Moebius stesso ha collaborato nelle scenografie del film “Alien”, inoltre come ulteriore prova, Toriyama inserisce una forma Xenomorfa tra gli antagonisti che ricorda proprio l’alien. Un altro esempio di fama mondiale, ma che si sofferma su una distopia futura, è il famoso manga “Neon Genesis Evangelion” di Yoshiyuki Sadamoto in collaborazione con lo studio Gainax, del 1995. La storia è ambientata in un lontano futuro dell’umanità, dove la Terra è stata devastata da una esplosione di proporzioni mondiali, causando il quasi totale annientamento del genere umano. Inoltre i spravvissuti dopo anni vengono attaccati da una nuova minaccia esterna, che mette a dura prova la loro resistenza. Si tratta di una trama ricca di riferi159
Yoshiyuki Sadamoto “Neon Genesis Evangelion”
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Yoshiyuki Sadamoto, studio Gainax, “Neon Genesis Evangelion”, vista panoramica di Neo Tokyo 3 (sopra); veduta dell’interno della cupola del Geofront
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menti cabalistici, ebraici e biblici, che contamina numerosi temi in una produzione molto interessante. Le simbologie utilizzate non esulano il campo dell’architettura, infatti la città capitale del giappone, Neo Tokyo 3, ultima metropoli dopo numerose distruzioni e ricostruzioni, si erge sopra una cupola sotterranea ampia diversi kilometri: il Geofront. Il riferimento potrebbe essere l’architettura visionaria ottocentesca, in particolare il Cenotafio di Newton di Boullèe, nel cui centro l’autore fa ergere la sede centrale in una piramide di vetro, e in sommità la città. Questa per proteggersi dai numerosi attacchi ha previsto grattacieli che si ritraggono all’interno della cupola sotterranea, permettendone la difesa. Anche qui come in molti manga si trovano ambienti urbani ad alta tecnologia, principalmente grattacieli high-tech, contrapposti alla campagnia rurale e ai sobborghi urbani esterni, tipici dell’architettura giapponese. La distopia è in quest’opera l’avvicinarsi di una inevitabile fine del mondo e dei suoi abitanti, in una serie di episodi di grande drammaticità e che conduce la storia a richiudersi un un cerchio perfetto ritornando all’origine del giardino dell’Eden. Infine tra i manga più famosi e longevi di oggi, “One Piece” di Eiichiro Oda, del 1997, è il fumetto più conosciuto. In un mondo quasi totalmente coperto dall’acqua i vari popoli sopravvivono su innumerevoli isolette, in un’ambientazione ricca di temi e protagonisti. Si tratta di un manga di pirati, ma questo non deve limitarne la visione, poichè i molti temi finora affrontati, tra cui il dispotismo, il razzismo e l’utopia ne fanno a tutti gli effetti una grande opera. La lettura approfondita di questo manga, per quanto ricca e interessante, esula lo scopo di questo lavoro, si 162
Eiichiro Oda, “One Piece”, veduta dell’isola di Water Seven
Eiichiro Oda, “One Piece”, vista da sotto, l’isola giudiziaria di Enies Lobby (sopra), isola di Weatheria, un’isola nel cielo (sotto)
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prenderà in considerazione quindi il solo aspetto architettonico. In particolare poichè la storia si dipana attraverso un viaggio verso un mitico tesoro, l’autore ha intelligentemente cercato di variare l’ambiente e le caratteristiche di ogni isola. Ad esempio le architetture del deserto si riconducono ai paesaggi del mediooriente, ricercando nell’architettura musulmana preziosi elementi per la loro composizione. Si descrivono grandi centri cittadini come grandi barraccopoli, a seconda del contesto Oda disegna con stili diversi. Vi sono poi le isole stravaganti come “Water 7”, che funziona come un grande cantiere navale simile a una fontana, qui i riferimenti sono la città lagunare di Venezia (di fatto nella storia quest’isola deve affrontare l’acqua laguna), oppure le isole sospese nel cielo dove si riprendono stili bizantini, ricchi di decorazioni. Tra le ultime isole c’è poi quella di “Dressrosa”, tipicamente nello stile spagnolo, presenta architetture omaggio a Antonio Gaudì, oltre che un Colosseo per le arene. Recentemente infatti, Oda tende a cercare riferimenti per le sue sceneggiature in città realmente esistenti, che manipola con l’immaginazione, per meglio adattarle alla storia. Una menzione particolare va invece alle architetture governative o militari, che si rifanno a quelle dello shogunato giapponese, dell’epoca feudale. È quindi presente da un lato la ricerca di nuove città, spunto per il fumetto e la sua spinta fantastica, e allo stesso tempo una presenza storica tipica del pensiero giapponese, che si ritrova nella grande maggioranza dei manga. In “One Piece” dove il tema del viaggio e dell’amicizia si interseca con numerose contaminazioni, è fondamentale trovare in ogni luogo una forte caratterizzazione, per non cadere nella ripetitività, e l’architettura qui emergie per la sua forte comunicazione (emerge 164
Eiichiro Oda, “One Piece”, vedute dell’isola di Dressrosa
lo spirito del luogo). Il lettore riscopre luoghi già visti, e riconosce architetture e stili per la loro funzione (ad esempio l’architettura militare), oppure li ricerca, scoprendo nuovi orizzonti. È un mondo “parallelo” al nostro, una utopia di pace che presenta varie contraddizioni, come nella realtà. Pur essendo per un pubblico giova165
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ne, l’autore è riuscito a farne un manga di due livelli di comprensione: uno più semplice per i giovani e uno più colto per gli adulti, che in giappone bisogna ricordare essere un numero considerevole di lettori. Dalla mia esperienza posso dire che il Fumetto ha sempre coltivato tutti i temi della società e in particolar modo l’utopia. Che si tratti di fantasy o fantascenza, i fumetti hanno indagato ogni aspetto della questione, descrivendo società nuove, impossibili, perfette, critica della società che viviamo, per trovare nuove strade da percorrere. Di fatto il cinema oggi trae spunto sempre più frequentemente dai fumetti, che insieme ai videogiochi rappresentano lo strumento dell’immaginazione più diffuso, per tutti non solo per i più piccoli. Indubbiamente il fumetto è per divertire, un passatempo, ma il suo valore non deve esserne sminuito: tutti noi e in particolare parlo per le generazioni a me più vicine, siamo stati grandemente influenzati da questo potente sistema mediatico. Il fumetto ci ha comunicato temi, storie e valori, che nel bene o nel male hanno caratterizzato le nostre scelte e i nostri comportamenti nella vita. Un esempio banale è il ritorno turistico ed economico che ha avuto il giappone in questi ultimi anni. I giapponesi hanno esportato la loro cultura tramite il manga, e con essa il loro stile di vita, la loro storia. Anche l’america ha venduto l’ideale della supernazione, del supereroe nei fumetti, ma anche valori come la famiglia, che è il nucleo portante della società americana. Oggi un grande fumettista è potenzialmente al livello di un grande architetto, salvo che i campi di azione sono molto diversi. Però i mangaka (disegnatori di manga) di questo livello sono veramente pochi. Ma questo non deve scoraggiare, in questo lavoro si è visto come l’architettura trae spunti dal fumetto e viceversa, il fumetto a 167
una grande forza comunicatrice che può essere sfruttata. L’architettura nasce sempre con una grande immaginazione, la forma perfetta nella mente dell’architetto, che però deve scontrarsi ed essere ridimensionata dalla realtà. Ma nel fumetto vive la sola fantasia, qui si possono realizzare utopie, analizzarle, discuterle, criticarle. Non è impossiblile dunque creare un connubbio tra queste due materie: l’architettura userebbe il fumetto come strumento di comunicazione per diffondere il suo messaggio alle masse; il fumetto invece trarebbe dall’architettura la rappresentazione di luoghi densi di significati, dando più spessore alle sue sceneggiature. Spesso dimentichiamo quanto queste materie sono legate tra loro. Entrambe utilizzano la stessa disciplina mediativa, il disegno, come strumento di rappresentazione. Infatti vi sono dei casi di architetti non interessati alla costruzione, un’esempio può essere Piranesi. Sebbene nessuno dei suoi lavori è mai stato realizzato egli ha grandemente contribuito nella ricerca nel campo architettonico, creando atmosfere che oggi vengono utilizzate nel fumetto (è il caso di “Asterios Polyp” di Mazzucchelli). Il disegno è stato da prima dell’avvento della fotografia, l’unico strumento per rappresentare la realtà attraverso immagini. Ma le immagini disegnate non rappresentano solo la realtà che l’autore vedeva, esse rispecchiavano anche un mondo interiore, che a parole non si sarebbe riuscito a descrivere. L’olandese Maurits Escher diceva “un’immagine mentale è qualcosa di completamente diverso da un’immagine visiva. Anche se ci sforziamo non possiamo mai realizzare la perfezione che c’è nella nostra mente e che noi, a torto, crediamo di vedere”. Il disegno non è impersonale, parla della vita dell’autore. L’artista ne può fare un’opera d’arte, basti pensare 168
alle sanguigne di Raffaello o Michelangelo, un’architetto ne trarrà vedute prospettiche e schizzi di grande fascino. Lo schizzo progettuale è spesso la base dell’idea architettonica e il fulcro delle fasi di definizione della forma. Il fumetto diventa tecnico invece quando deve descrivere scenografie fantastiche o fantascentifiche, collocando con cura i suoi personaggi in ambientazioni plausibili. Infine il fumetto può contare su una dimensione in più rispetto la rappresentazione architettonica: il tempo. Il disegno tecnico in se non ha profondità, il fumetto invece con le sue vignette crea delle sequenze temporali che scandiscono la storia. Si può affermare perciò che l’architettura è l’arte che che si contraddistingue per la gestione dello spazio, mentre il fumetto tra linfa vitale dalla gestione del tempo. Ne consegue l’importanza della narrazione che come si è visto, conduce a un’immedesimazione del lettore con i temi della storia. In architettura è l’atmosfera del luogo che suscita in noi emozioni. Un buon fumetto o una bella architettura non necessitano per forza di un colto background; prova ne è che anche i bambini, fin dalla tenera età, colgono questa emozione. Il mio auspicio è che architettura e fumetto possano completarsi in un arte nuova che voglia rinnovare e diffondere nuove idee. L’architettura per progettare, il fumetto per verificare e raccontare nuovi stili di vita, nuove forme architettoniche, nuove società. Fare architettura utopistica con il fumetto. E in futuro magari sarà possibile fondare una disciplina vera e propria, che conduca a una critica della società, mostrando allo stesso tempo nuove possibilità, ma per realizzare questo domani, oggi la scelta spetta a noi.
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