ARTHUR CONAN DOYLE L'abisso di Maracot (The Maracot Deep, 1927/28) A Charles Berlitz e August Piccard La Storia Di Headiey Mi hanno consegnato questi documenti perché ne curassi la pubblicazione; comincerò quindi col ricordare la scomparsa della nave Stratford, partita un anno fa per un viaggio di studio della vita negli abissi marini, per ricerche oceanografiche. La spedizione era stata organizzata dal professor Maracot, il celebre autore di Morfologia dei Lamellibranchi e di Formazioni Pseudo Coralline. Insieme con Maracot si trovava il dottor Cyrus Headiey, che era stato assistente all'istituto Zoologico di Cambridge nel Massachusetts e, quando vi fu la spedizione, era vincitore di una borsa di studio ad Oxford. Il capitano Hovvie, un esperto marinaio, comandava un piroscafo con un equipaggio di ventitré uomini tra cui un americano proveniente dai Cantieri Merribank di Filadelfia. Tutte queste persone oggi non ci sono più, e l'unica notizia che si sia avuta di quella sfortunata imbarcazione ci viene da una nave norvegese che, durante la grande tempesta dell'autunno del 1926, vide affondare un bastimento la cui descrizione corrispondeva allo Stratford. Una scialuppa di salvataggio con la scritta Stratford venne rinvenuta più tardi vicino al luogo del naufragio, insieme ad alcuni tralicci del ponte della nave, un salvagente e un troncone di albero. Tutto questo, unito alla mancanza di qualsiasi altra notizia, sembrò confermare nel modo più assoluto la perdita della nave e del suo equipaggio. Il cui destino pare inoltre avvalorato dallo strano messaggio radio ricevuto allora: che, sebbene fosse in massima parte incomprensibile, lasciava ben pochi dubbi sulla sorte della nave. Ma di questo riparleremo più avanti. Invece, c'erano parecchi punti assai dubbi concernenti la crociera dello Stratford, che provocarono all'epoca vari e disparati commenti. Uno era la curiosa segretezza osservata dal professor Maracot. È vero che era famoso per il suo disprezzo e l'atteggiamento di sospetto che nutriva nei confronti della stampa: ma questo suo modo di fare oltrepassò ogni
limite, quando si rifiutò non solo di dare informazioni ai cronisti, ma proibì a qualunque rappresentante della stampa di salire sulla sua nave durante il periodo in cui sarebbe rimasta ormeggiata al Molo Albert. Altre chiacchiere si crearono in seguito ad alcune nuovissime e singolari strutture dell'imbarcazione, atte a renderla più idonea al lavoro nelle profondità marine, e tali voci trovarono conferma da parte della ditta Hunter & C. di West Hartlepool, dove il battello aveva subìto queste modifiche. Si mormorava anche che l'intera chiglia fosse staccabile, notizia questa che attirò l'attenzione degli assicuratori dei Lloyds, i quali concessero la polizza non senza molte difficoltà. Comunque ben presto lo Stratford cessò di interessare la gente, fin quando la sorte della spedizione non tornò improvvisamente e clamorosamente al centro dell'attenzione, come al tempo dell'inizio della crociera. Esistono infatti non meno di quattro documenti che forniscono una versione dei fatti ben diversa da quella ufficiale. Il primo è una lettera scritta dal signor Cyrus Headiey, dalla capitale della Gran Canaria, all'amico Sir James Talbot, del Trinity College di Oxford, approfittando dell'unica occasione in cui lo Stratford toccò terra dopo aver lasciato il Tamigi. Il secondo è lo strano appello radio cui alludevo poc'anzi. Il terzo è costituito da quella parte del Giornale di Bordo dell'Arabella Knowles che tratta della sfera di vetro. L'ultimo è il sorprendente contenuto di quest'ultima: un manoscritto che, o è frutto di un incredibile scherzo, oppure in caso contrario apre un capitolo inedito della storia dell'uomo la cui importanza non può essere sottovalutata. Dopo questa premessa, rendo ora di pubblico dominio la lettera del signor Headiey, che debbo alla cortesia di Sir James Talbot e che prima non era mai stata divulgata. La lettera reca la data: 1 ottobre 1926. LETTERA Di CYRUS S. HEADLEY A SIR JAMES TALBOT Caro Talbot, ti spedisco questa mia da Port de la Luz dove ci siamo ancorati per qualche giorno di riposo.
Il mio miglior compagno di viaggio è stato il capomacchinista Bill Scanlan il quale, dato che è mio compatriota e ha un ottimo carattere, va molto d'accordo con me. Tuttavia questa mattina sono solo, dato che lui a suo dire ha «un appuntamento con una gonnella». Come vedi, parla esattamente come gli Inglesi si aspettano che faccia un vero yankee... Eppure lo accetterebbero subito come uno della loro razza! Soltanto l'impressione mi fa sentire un «ospite» quando sono in compagnia dei miei amici inglesi . Penso che non riuscirebbero mai a capire che sono uno yankee, anche se lo volessi! D'altra parte, con te la situazione è diversa, per cui consentimi di dire che troverai solo «puro Oxford» in questa lettera che ti sto scrivendo. Hai conosciuto Maracot alla Mitra e dunque sai bene che razza d'uomo sia! Mi sembra di averti già detto che mi ha trovato per caso per questo lavoro. Aveva chiesto al vecchio Somerville dell'Istituto Zoologico, che gli mandò quel mio articolo sui granchi di mare e... il gioco era fatto! Naturalmente sono felice di poter lavorare su argomenti che mi sono congeniali, ma avrei desiderato che non mi fosse capitata una mummia vivente come Maracot. E quasi inumano nel suo isolamento e per la dedizione al proprio lavoro. «Il duro più duro del mondo», lo chiama Bill Scanlan, eppure non si può fare a me no di ammirare una così totale dedizione. A parte la scienza, non esiste nulla per lui. Ricordo come ridevi quando gli chiesi che cosa avrei dovuto leggere per prepararmi all'impresa, e lui rispose che avrei dovuto studiarmi l'edizione completa delle sue opere e, come relax i Plankton-Studien di Haeckel. Oggi non lo conosco certo meglio di quanto lo conoscessi allora, quando lo incontrai in quel salotto di Oxford High. Non parla mai, e il suo viso ascetico e serio il volto di un Savonarola o, forse meglio, d'un Torquemada non fa mai trasparire allegria. Il naso lungo e affilato, i piccoli occhi grigi scintillanti, strettamente ravvicinati sotto le sopracciglia cespugliose, la bocca imbronciata dalle labbra sottili, le guance incavate da una vita ascetica e di pensiero, lo rendono assolutamente unico. Maracot vive in una sorta di altopiano mentale, fuori dalla portata dei comuni mortali. A volte credo sia un po' matto.
Pensa, ad esempio, a quello straordinario congegno che ha costruito. . . Ma ho deciso di raccontarti le cose per ordine, e alla fine giudicherai tu. Ti racconterò tutto dal principio. Lo Stratford è una bella nave, anche se piccola, che tiene bene il mare ed è particolarmente adatta al suo compito; stazza milleduecento tonnellate, ha ponti puliti e larghe e solide murate fornite di ogni possibile congegno per scandagliare, sciabicare, dragare, rimorchiare. Naturalmente è dotata di potenti argani a vapore per trainare le reti a strascico e di un gran numero di diversi dispositivi di vario genere, alcuni dei quali mi sono abbastanza familiari, mentre altri appaiono alquanto strani. Le nostre confortevoli cabine sono situate sotto coperta con un ottimo laboratorio completamente attrezzato per i nostri studi specifici. Aveva la reputazione d 'essere una nave misteriosa ancor prima di partire, e ho scoperto ben presto che tale voce non era priva di fondamento. Le prime operazioni furono abbastanza normali: virammo verso il Mare del Nord e immergemmo gli strascichi una o due volte per brevi tratti ma, dato che la profondità media del mare non superava i 18 metri e noi eravamo particolarmente attrezzati per le grandi profondità, sembrò più che altro una perdita di tempo. Nel complesso, ad eccezione di comuni pesci da tavola, di pescecani, calamari, meduse e di alcuni depositi sui fondali della solita argilla melmosa alluvionale, non trovammo nulla degno di nota. In seguito doppiammo la Scozia, avvistammo le FarOer e scendemmo lungo il Wyville-Thomson-Ridge, dove abbiamo avuto più fortuna. Quindi navigammo verso sud alla volta della destinazione vera e propria della nostra crociera: la zona di mare compresa tra la costa africana e le Canarie . Una notte senza luna ci incagliammo vicino a Fuert-Eventura ma, salvo questo fatto, il viaggio fu privo di storia. Durante queste prime settimane ho cercato di fare amicizia con Maracot, ma non è facile. In primo luogo è l'uomo più assorto e sprofondato nei propri pensieri del mondo. Ricorderai come sorridesti quando diede un penny al fattorino dell'ascensore convinto di trovarsi in un taxi! Quasi sempre è perso nei propri pensieri e sembra del tutto lontano da dove si trova o da quello che sta facendo .
Inoltre è taciturno in sommo grado. Lavora in continuazione su certe carte nautiche e fogli di appunti che fa immediatamente sparire non appena sto per entrare nella sua cabina. È mia ferma convinzione che Maracot abbia in mente un progetto ma, fintantoché siamo costretti a toccare qualche porto, continua a tenerlo per sé. Questa è l'impressione che ho avuto, e ho scoperto che Bill Scanlan è del medesimo avviso. «Dite, signor Headiey», se ne uscì fuori una sera mentre sedevo in laboratorio ad analizzare il grado di salinità di alcuni campioni proveniente dai nostri scandagli idrografici, «cosa immaginate abbia in mente questo tipo? Cosa pensate che intenda fare?» «Suppongo», risposi, «che faremo quello che il Challenger e un 'altra dozzina di navi oceanografiche hanno fatto prima di noi, aggiungendo alcune nuove specie al catalogo dei pesci e qualche altra linea di livello alla carta batimetrica. » «Assolutamente no ! », replicò lui . «Se questa è la vostra opinione, avete preso un granchio. Ma soprattutto: cosa ci sto a fare qui, io» «Nell'eventualità che le macchine vadano in avaria. .», azzardai. «Macché macchine! I macchinari della nave sono stati costruiti da MacLaren l'ingegnere scozzese. No, signor mio, non è stato per far andare un motore ausiliario che i Cantiffi Merribank hanno mandato qui il loro migliore specialista Se mi danno cinquanta verdoni la settimana, non è certo per nulla. Venite e capirete. » Prese di tasca una chiave e aprì una porta sul retro del laboratorio che permetteva l'accesso, attraverso una scala a pioli del boccaporto, a una sezione della stiva che era completamente sgombra da un capo all'altro, eccetto che per quattro grandi oggetti scintillanti seminascosti dalla paglia di enormi casse d'imballaggio. Erano lisce lastre di acciaio con elaborati bulloni e rivetti lungo gli orli Ciascuna lastra misurava circa 9 metri quadrati di larghezza e circa 4 centimetri di spessore, con un'apertura circolare nel mezzo di 46 centimetri. «Che diavoleria è mai questa?», esclamai sbalordito. La strana faccia di Bill Scanlan qualcosa a metà strada fra un comico e un pugile si aprì in un largo sorriso di fronte al mio stupore. «E la mia creatura, il mio pupillo», rispose. «Sì, signor Headiey, questo è il motivo per cui mi trovo qui.
E c'è un pavimento d'acciaio per questi marchingegni: è in quella grande cassa laggiù. E, naturalmente, c'è una specie di soffitto a cupola, con un grande anello per agganciare una catena o una fune. E ora guardate qui la chiglia della nave.» C'era una grande piattaforma quadrata di legno, con viti che sporgevano ad ogni angolo: si capiva subito che era possibile toglierla. «C'è un doppio fondo, una specie di doppia chiglia», continuo Scanlan «Forse questo tizio è un po' tocco o forse ne sa molto più di noi ma, se ho capito bene, Maracot intende montare una specie di cabina d'acciaio le finestre sono le aperture circolari e calarla attraverso la chiglia della nave. Ha anche sistemato dei riflettori, e suppongo che progetti di farli funzionare attraverso gli oblò per vedere che cosa va a passeggio sul fondo del mare.» «Avrebbe potuto sistemare una lastra di cristallo sotto la nave come fanno nelle barche delle Isole Catalina, se questa fosse la sua intenzione», risposi «L'avete detta giusta!», esclamò Bill Scanlan, grattandosi la testa. «Per ora non ne so niente. L'unica cosa sicura è che sono stato inviato qui per obbedire ai suoi ordini e per aiutarlo meglio che posso con quel dannato e strambo marchingegno; fino ad oggi Maracot non mi ha detto niente, e io non gli ho chiesto niente, ma cercherò di ficcare il naso in giro e, prima o poi, verrò a sapere tutto quello che c'è da sapere.» Fu così che mi avvicinai per la prima volta al nostro mistero. Navigammo per un po' in acque sporche e torbide dove in seguito cominciammo a fare dei prelievi del fondo marino con reti a strascico, a nord-ovest di Capo Juba, proprio al limite dello Zoccolo Continentale, prendendo e annotando la temperatura dell'acqua e la percentuale di sale. E un progetto per così dire «sportivo», questo continuo dragare gli abissi marini con uno strascico di pelle di lontra largo 6 metri, per trattenere qualunque cosa si trovi nella sua scia, a volte per la profondità di circa mezzo chilometro pescando in tal modo una certa quantità di pesce, ed altre volte a quasi un chilometro di profondità, da dove si portavano su pesci completamente diversi. Era come se ogni livello dell'oceano fosse un continente a sé, con i suoi propri abitanti. In altre occasioni, dal fondo del mare veniva tirata su con la sciabica una mezza tonnellata di gelatina rosa pallido che era la sostanza vivente alla
base della vita messa a nudo, o forse soltanto melma di pteropodi che sotto l'occhio del microscopio si frammentava in milioni di minuscoli globi cilindrici dalla superficie reticolare, pieni di fango. Ma non voglio annoiarti con brotulidi e macruridi, ascidie e oloturie, polizoi ed echinodermi: puoi comunque facilmente immaginare la varietà di messi dell'oceano e quali diligenti mietitori siamo stati noi! Eppure continuavo ad aver l'impressione che il cuore di Maracot fosse lontano mille miglia dal lavoro che stavamo facendo e che altri progetti si agitassero in quella sua strana, lunga e sottile testa di mummia egizia. Tutto mi sembrava quasi una finzione, finché il vero scopo del viaggio non fosse venuto alla luce. Questo è tutto quello che sono venuto a sapere, fino al mio sbarco a terra in quest'ultimo periodo di breve sosta, dato che leviamo l'àncora domattina presto. Ma ora è meglio che vada, perché c'è una grossa grana che è scoppiata sul molo, tra Maracot e Bill Scanlan. Bill è un attaccabrighe fenomenale e, a suo dire, ha «un maglio in ogni pugno»: ma, con una mezza dozzina di meticci armati di coltello tutt'intorno, la faccenda sta assumendo una brutta piega, ed è tempo che mi butti nella mischia per dargli una mano. Riprendo a scrivere. Dunque, sembra che il professore abbia affittato uno di quei trabiccoli che gli abitanti del luogo chiamano «taxi», e abbia scorrazzato per mezza isola studiandone la conformazione geologica, scordandosi peraltro che non aveva con sé il danaro per pagare il noleggio. Quando è giunto il momento di pagare, non è riuscito a farsi capire e il taxista si è subito impossessato del suo orologio come pegno. Questo gesto ha fatto arrabbiare Bill Scanlan, che ha fatto partire il suo celebre pugno, e sicuramente si sarebbero ritrovati con la schiena a terra ridotti come puntaspilli se non avessi sistemato la faccenda con un paio di dollari per il conducente e una mancia speciale di cinque dollari per l'occhio nero che si era buscato. Così tutto è finito per il meglio, e ho notato che Maracot si dimostrava «più umano» di quanto l'avessi mai visto prima. Più tardi, quando siamo tornati sulla nave, mi ha chiamato nella sua piccola cabina e mi ha ringraziato. «A proposito, signor Headiey», mi chiese, «sbaglio, o non siete sposato?» «No» risposi, «non lo sono.»
«qualcuno dipende da voi?» «No.» «Bene!», continuò. «Non ho parlato prima dello scopo di questo viaggio perché, per ragioni personali, desideravo rimanesse un segreto. Una di queste ragioni è che temevo che qualcuno potesse anticiparmi. Quando certi progetti scientifici si sanno in giro, può capitare quello che accadde a Scott per colpa di Amundsen. Se Scott avesse preso le mie precauzioni, sarebbe stato lui e non Amundsen a giungere per primo al Polo Sud. Per questo motivo non ho fatto parola con nessuno dei miei piani, dato che il mio obiettivo è importante come lo fu il Polo Sud per Scott. Ma ora siamo alla vigilia di una grande avventura e non c'è alcun rivale che possa rubarmi l'idea; domani partiremo per quella che è la meta reale del nostro viaggio.» «E quale sarebbe?», chiesi. Si chinò leggermente in avanti, il volto acceso da una luce fanatica. «La nostra meta», rispose in tono solenne, «è il fondo dell'Oceano Atlantico.» E qui mi devo fermare un momento... perché aspetto che tu riprenda fiato, come accadde a me quando udii quelle parole. Se fossi uno scrittore, suppongo dovrei fare una pausa, ma dato che sono soltanto un cronista di quanto accadde, ti posso dire che sono rimasto un'intera ora nella cabina del professor Maracot, e che sono venuto a conoscenza di un mucchio di cose che ho appena il tempo di accennarti prima che l'ultimo battello costiero parta con la corrispondenza. «Sì, giovanotto», proseguì, «potete scrivere liberamente tutto quel che volete, adesso, perché, prima che la vostra lettera giunga in Inghilterra, avremo già fatto il grande tuffo!» A questo punto si mise a ridere sotto i baffi perché, a modo suo, aveva un qual certo senso dell'umorismo. «Sì, vecchio mio, "tuffo" è proprio la parola adatta in quest'occasione: sarà un tuffo storico ricordato negli annali della Scienza. Consentitemi di spiegarvi, innanzi tutto, che secondo me l'opinione corrente riguardo l'enorme pressione dell'oceano a grandi profondità è completamente errata. Mi sembra ovvio supporre che debbano esistere degli altri fattori che neutralizzano tale effetto, benché non sia ancora in grado di dirvi in cosa consistano. Questo è uno dei problemi che dovremo risolvere.
E ora lasciate che vi chieda: quale pressione c'è da aspettarsi sotto quasi due chilometri d'acqua?» I suoi occhi ardevano attraverso le lenti cerchiate di tartaruga. «Non meno di una tonnellata per centimetro quadrato», risposi. «Questo è stato dimostrato al di là di ogni possibile errore.» «Il dovere di ogni ricercatore sperimentale è sempre stato quello di confutare le opinioni comunemente accettate. Usate il cervello, giovanotto! Avete trascorso il mese pescando alcune delle più delicate forme di vita abissale, creature talmente fragili che era difficile trasferirle dalla rete nella vasca senza rovinare le loro forme delicate. Vi sembra tanto plausibile, in questo caso, l'enorme pressione che si eserciterebbe su di esse?» «La pressione,» risposi, «si compensa da sé. È la stessa dentro e fuori.» «Parole, soltanto parole!», gridò, scuotendo con impazienza il volto scarno. «Avete riportato in superficie pesci del tipo Gastrostomo Globulare: non sarebbero dovuti essere compressi sino diventare completamente piatti se la pressione fosse come dite? Guardate le nostre reti: non sarebbero state schiacciate all'imboccatura della sciabica?» «Ma scusate: e le esperienze dei palombari?» «Certamente, costituiscono una valida obiezione al mio punto di vista. I palombari vanno incontro ad un tale aumento di pressione da compromettere quello che è forse l'organo più sensibile del corpo, l'orecchio. Ma il mio piano non prevede che si sia esposti alla pressione. Saremo calati sul fondo in una cabina di acciaio con oblò di cristallo in ogni lato per l'osservazione. Se la pressione non è forte abbastanza da spezzare quattro centimetri di acciaio al nichel temprato due volte, non ci farà alcun danno. E un po' un ampliamento dell'esperimento dei fratelli Williamson a Nassau, che senz'altro conoscete. Se le mie previsioni si dimostreranno sbagliate... be', nessuno dipende da voi o vi aspetta. Moriremo in una grande impresa. Naturalmente, se siete d'avviso contrario posso tentare da solo.» Mi è sembrato il piano più pazzesco che avessi mai sentito; ma sai quant'è difficile resistere ad una sfida.
Nicchiavo per pensarci su «Che profondità intendete raggiungere?», gli chiesi C'era una carta idrografica appuntata sul suo tavolo, e Maracot aveva collocato la punta del compasso su una zona a sud-ovest delle Canarie: «L'anno scorso ho fatto alcuni rilevamenti da queste parti», ha risposto, «c'è un abisso di grande profondità: circa 7600 metri . Sono stato il primo a scoprirlo. E mi auguro che in futuro lo troviate segnato sulle carte nautiche come l'Abisso di Maracot.» «Buon Dio!», esclamai. «Non penserete di scendere in un abisso di tal fatta?!» «No, no», ha risposto sorridendo. «Né la catena d'aggancio, né i tubi dell'aria giungono oltre un chilometro. Stavo appunto per spiegarvi che tutt'intorno a questo crepaccio abissale che senza dubbio è stato prodotto da eruzioni vulcaniche molto tempo fa corre una linea irregolare di scogli che non distano più di mezzo chilometro dalla superficie.» «Mezzo chilometro! 500 metri!», gridai. «Sì, approssimativamente mezzo chilometro. È mia intenzione farci calare su questo banco sottomarino nella nostra cabina pressurizzata e studiata per le alte profondità. Un telefono collegato via cavo con la nave-base ci permetterà di riferire costantemente circa la nostra posizione. Non dovrebbero sorgere problemi: quando desidereremo risalire non avremo che da dirlo.» «E per l'aria?» «La pomperanno nella cabina quelli della nave-appoggio.» «Ma sarà buio pesto!» «Questo, temo sia inevitabile. Gli esperimenti di Fol e Sarasin nel lago di Ginevra dimostrano che neanche i raggi ultravioletti giungono a tale profondità. Ma che importa? Useremo una potente illuminazione elettrica sfruttando i motori della nave, e tale luce sarà accresciuta da sei pile di Hellesens da due volt collegate insieme, in maniera da ottenere una corrente di dodici volt. E un faro segnaletico Lucas dell'esercito, adibito a riflettore mobile, farà benissimo al caso nostro. Altre obiezioni?» «Se i tubi dell'aria si aggrovigliano?» «Non dovrebbero aggrovigliarsi. Ad ogni modo abbiamo una riserva d'aria compressa in bombole della durata di ventiquattro ore. Siete soddisfatto? Verrete anche voi?» Non è stata una scelta facile.
La mente lavora in fretta e la fantasia crea immagini vivide: mi è sembrato di vedere quella scatola nera nelle profondità primordiali, di sentire l'aria viziata respirata più e più volte, di osservare le pareti che s'incurvavano; si piegavano verso l'interno, si laceravano, fendendosi alle connessure dei rivetti mentre l'acqua zampillava dai fori dei bulloni, filtrava all'interno, salendo lentamente dal pavimento. Una morte, lenta, atroce. Ma, alzando gli occhi, ho incontrato lo sguardo fiero di quel vecchio fisso su di me, con l'esaltazione di un martire della Scienza. È irresistibile questo tipo di entusiasmo che rasenta la pazzia, ma che è nobile e disinteressato. Mi sono acceso anch'io al fuoco del suo entusiasmo; puntellandomi bene sui piedi ed ergendomi in tutta la mia statura gli ho teso la mano dicendo: «Dottore, sarò con voi sino alla fine». « Lo sapevo . Non è stato certo per quel poco del vostro sapere che vi ho scelto, mio giovane amico: no», ha aggiunto sorridendo, «e neanche per la vostra conoscenza dei granchi marini. Vi sono bene altre qualità che possono essere molto più utili, nel prossimo futuro, e sono la lealtà e il coraggio.» Così, dopo questo elogio, mi ha congedato; il mio futuro è ormai impegnato da una promessa e le mie precedenti convinzioni sono andate in pezzi. Bene, l'ultimo battello costiero sta per partire, e stanno chiamando per la corrispondenza. Non riceverai più mie nuove, caro Talbot, oppure ti giungerà una lettera degna d'esser letta. Se ciò non accadesse, puoi procurarti una lapide galleggiante, e lasciarla cadere in qualche posto a sud delle Canarie, con la scritta: «Qui, o nei paraggi, giace quello che i pesci hanno lasciato del mio amico». Cyrus J. Headiey Il secondo documento del caso Stratford è l'incomprensibile messaggio radio che fu intercettato da diversi battelli, tra cui il vapore postale Arroya. Fu captato alle tre del pomeriggio del 3 ottobre 1926, il che dimostra che fu inviato due soli giorni dopo che lo Stratford aveva lasciato la Gran Canaria (si veda la lettera riportata più sopra), e che corrisponde approssimativamente al momento in cui il brigantino norvegese avvistò un vapore che affondava in un ciclone a 370 chilometri a sud-ovest di Porta de la Luz.
Ecco il contenuto del messaggio: Nave quasi capovolta. Situazione disperata. Già perduti Maracot, Headiey Scanlan. Circostanza incomprensibile: trovato fazzoletto Headiey estremità scandaglio alto mare. Dio ci aiuti! S.S. Stratford Questo fu l'ultimo, strano messaggio che giunse dalla sfortunata nave, e parte di esso era talmente singolare da poter esser imputabile a una sorta di delirio dell'operatore. D'altra parte, non lasciava adito alcuno a dubbi circa la sorte del battello. La spiegazione ammesso che si possa accettarla come tale della vicenda, è da ricercarsi nel resoconto (finora tenuto segreto) relativo alla sfera di vetro, e innanzitutto bisognerebbe dar più risalto alla brevissima notizia che fino ad oggi è apparsa sulla stampa circa il ritrovamento di tale sfera. Cito verbatim dal Giornale di Bordo della Arabella Knowles, comandata dal capitano Amos Green, in viaggio da Cardiff, con un carico di carbone, per Buenos Aires: DAL GIORNALE DI BORDO DELL'ARABELLA KNOWLES Mercoledì, 5 gennaio 1927. Lat. 27° 14', Long. 28° Ovest. Tempo calmo. Cielo azzurro con basse formazioni di cirri. Alla seconda mezz'ora del secondo Turno di Guardia, il primo ufficiale annuncia di aver avvistato un oggetto scintillante emergere alto sul mare e quindi rimpiombare in esso. La sua prima impressione era che si trattasse di qualche strano pesce ma, esaminando attentamente l'oggetto con un binocolo, scopre che si tratta d'un globo, o d'una palla, argentata, e che è talmente leggero da fluttuare più che galleggiare, sulla superficie dell'acqua. Mi ha invitato ad osservarlo e anch'io l'ho visto: grande come un pallone da calcio, luccicava a circa mezzo chilometro dalla fiancata di tribordo.
Ho fatto fermare le macchine e ho inviato sul posto una scialuppa al comando del secondo ufficiale che ha raccolto l'oggetto e l'ha portato a bordo. Ad un attento esame, è risultato trattarsi di una sfera fatta di un vetro molto resistente e gonfiata con una sostanza così leggera che, quando è stata gettata in aria, fluttuava come il palloncino di un bambino. Essendo quasi trasparente abbiamo potuto vedere al suo interno qualcosa di simile ad un rotolo di carta. Tuttavia il materiale è talmente resistente che incontriamo grande difficoltà nello spezzare la sfera per entrare in possesso del suo contenuto. Il martello non riesce ad incrinarla, ed è stato soltanto quando il capomacchina l'ha infilata sotto un pistone del motore che siamo riusciti a frantumarla. A questo punto mi spiace dover dire che la sfera si è letteralmente dissolta in polvere luminosa, sicché è stato impossibile raccoglierne qualche campione da esaminare. Perlomeno abbiamo recuperato il foglio che conteneva e dopo averlo attentamente studiato, siamo giunti alla conclusione che si tratta di un documento molto importante che abbiamo conservato con l'intenzione di consegnarlo nelle mani del console inglese non appena raggiungeremo Rio de la Plata. Prima da ragazzo, poi da adulto, ho trascorso trentacinque anni sul mare, ma questa è la cosa più strana che mi sia mai accaduta, e della stessa opinione è ogni uomo a bordo della nave. Lascio scoprire il significato di tale faccenda a persone più colte di quanto non lo sia io. Questo l'antefatto del resoconto di Cyrus J. Headiey, che mi accingo a presentare esattamente come fu scritto. A chi sto scrivendo? Forse al mondo intero: ma, poiché questo è un indirizzo un po' vago, mi rivolgo all'amico Sir James Talbot, dell'Università di Oxford, per la semplice ragione che la mia ultima lettera era indirizzata a lui e questa può esserne considerata la continuazione. Sono cento a uno le probabilità che questa sfera, se mai dovesse vedere la luce del giorno e non venisse inghiottita da un pescecane, fluttui sulle onde e attiri l'attenzione di una nave di passaggio: eppure tento lo stesso; anche
Maracot ne sta mandando su un'altra e così, in due, forse riusciremo a far sapere la nostra meravigliosa avventura al mondo. Che poi il mondo ci creda è un altro paio di maniche: ma chiunque guardasse la sfera con il suo rivestimento di vetro e notasse il gas al suo interno, capirebbe senz'altro di trovarsi di fronte a qualcosa di straordinario. In ogni caso, tu non la getteresti da parte senza leggere, Talbot. Se qualcuno desidera conoscere l'antefatto della nostra attuale situazione e quello che stiamo tentando di fare, può trovare la risposta in una lettera che ti scrissi il primo ottobre dello scorso anno, la notte prima di lasciare Porta de la Luz. Per Giove! Se avessi immaginato quello che ci aspettava, credo che mi sarei nascosto dentro qualche barca tirata in secco, quella notte. Eppure, malgrado tutto, anche con gli occhi sbarrati, ho voluto sempre restare accanto al professore e aiutarlo fino in fondo. Ripensandoci, non ho dubbi: rifarei tutto quello che ho fatto. Bene, credo sia meglio riferire ogni cosa dal giorno in cui lasciammo la Gran Canaria. Appena ci allontanammo dal porto, il vecchio Maracot fu pervaso da un sacro fanatismo: il tempo di agire era giunto finalmente, e tutta l'energia trattenuta fino a quel momento risplendeva in ogni suo gesto. Assunse la guida e il comando della nave, di ogni persona e di ogni cosa che conteneva, e uniformò tutto e tutti alla sua volontà; l'allampanato, distratto studioso, era di colpo svanito, e al suo posto vi era una dinamo umana, scoppiettante di vitalità e fremente per la grande energia che la sosteneva. Gli occhi, dietro le lenti, splendevano come la luce di un faro Sembrava dotato del dono dell'ubiquità, dato che si trovava con temporaneamente e immediatamente in ogni posto, per valutare e controllare i dati sulla sua carta, comparendo dal comandante per determinare la posizione della nave, trascinandosi dietro Bill Scanlan, e incaricando me di un sacco di piccoli lavori. Eppure era preciso e metodico, e seguiva uno scopo ben definito. Dimostrò un'insospettata conoscenza dell'elettricità e delle questioni meccaniche, e trascorreva quasi tutto il suo tempo in compagnia di Bill Scanlan lavorando al congegno che aveva progettato: sotto la sua supervisione, Bill lo stava montando accuratamente, pezzo per pezzo.
«Dite, signor Headiey, non è splendido?», mi chiese Bill il mattino del secondo giorno. «Venite a dare un'occhiata! Il professore è un tipo in gamba, nonché un meccanico rifinito!» Ebbi subito la sgradevole impressione di stare guardando la mia bara, anche se dovevo ammettere che si trattava di un degno mausoleo. Il pavimento era stato fissato alle quattro pareti di acciaio e vi erano degli oblò avvitati al centro di ciascuna di esse. Vi si accedeva mediante una piccola botola sul soffitto, mentre una seconda botola era stata collocata alla base. Il batiscafo d'acciaio era sostenuto da una gomena dello stesso materiale, sottile ma robustissima, che scorreva su un argano azionato dal poderoso motore che usavamo per le sciabiche, per arrotolarle o per svolgerle. La gomena, a quanto mi dissero, era lunga circa un chilometro: l'argano era fissato a delle bitte in coperta. I tubi di gomma per l'aria erano della stessa lunghezza, e il cavo del telefono era collegato ad essi, come pure il filo di alimentazione delle luci elettriche che, in tal modo, venivano messe in funzione dalle batterie della nave, benché dentro il batiscafo avessimo un piccolo impianto autonomo. La sera di quel giorno furono fermati i motori. La marea era bassa, e una grande nuvola nera che saliva all'orizzonte faceva presagire una burrasca imminente. L'unica nave in vista era un brigantino che batteva bandiera norvegese, e osservammo che l'equipaggio terzarolava le vele, come se si aspettasse una tempesta. Per il momento, tuttavia ogni cosa appariva tranquilla, e lo Stratford rollava dolcemente sull'oceano blu e profondo, increspato qua e là di spuma per la brezza degli alisei. Bill Scanlan entrò rumorosamente nel mio piccolo laboratorio, in preda ad un'eccitazione che non gli avevo mai visto prima, nonostante il suo carattere impetuoso «Signor Headiey», disse, «abbiamo calato il congegno in un'apertura nella chiglia della nave. Pensate che il capo intenda immergersi con quella cosa là?» «Senza dubbio, Bill. E io scenderò con lui.» «Dovete essere matti, voi due, per pensare una cosa simile. Ma non vi lascerò andare da soli.» «Non è affare vostro, Bill.» «Che possa diventare più giallo di un cinese con l'itterizia, se vi lascio andare da soli! Merribank mi ha mandato qui per controllare il
marchingegno di Maracot e, se quel marchingegno scende sul fondo del mare, è sicuro come il sole che io sarò là a tenerlo d'occhio. Dovunque finiscano queste pareti d'acciaio, là è l'indirizzo di Bill Scanlan, a prescindere che i suoi compagni siano folli o meno.» Era inutile stare a discutere con lui, e così un altro membro si aggiunse al nostro piccolo club di suicidi: ormai non restava che aspettare. Lavorammo senza sosta per tutta la notte, controllando e verificando ogni pezzo. Dopo una colazione piuttosto mattiniera, scendemmo nella stiva, pronti per l'avventura. Il batiscafo era stato calato per più di metà attraverso l'apertura nella chiglia, e vi entrammo uno alla volta mediante la botola superiore, che venne chiusa e avvitata alle nostre spalle. Il capitano Hovvie, con una faccia da funerale, strinse la mano ad ognuno di noi mentre gli passavamo davanti. Quindi venimmo calati di qualche altro metro, il soffitto della cabina d'acciaio fu abbassato sopra le nostre teste, e sotto il pavimento penetrò l'acqua dell'apertura della chiglia attraverso cui stavamo scendendo: era il momento della verità. Avremmo verificato subito se il batiscafo di Maracot era o no adatto a tenere il mare. La cassa di acciaio superò bene la prova: le connessioni erano state fissate al millimetro, e non notammo alcuna infiltrazione d'acqua. Poi l'argano a motore cominciò a funzionare, srotolando la gomena di acciaio, e ci trovavamo sospesi nell'oceano, sotto il livello della chiglia. Ci trovavamo all'interno di una piccola stanza, abbastanza comoda, e mi meravigliai dell'abilità e preveggenza con cui era stata sistemata ogni cosa. L'illuminazione elettrica non era ancora in funzione, ma la luce del sole splendeva luminosa dagli oblò, filtrando nell'acqua color verde bottiglia. Piccoli pesci guizzavano qua e là, come striature d'argento sullo sfondo verde. Dentro c'era una specie di alta pedana circolare, e, sistemati su di essa, un quadrante di profondità, un termometro, e altri strumenti. Sotto la pedana aveva trovato alloggio una fila di bombole che rappresentavano la nostra riserva di aria compressa nell'eventualità che i tubi dell'aria esterna fossero venuti a mancare o non funzionassero perfettamente.
I tubi esterni sboccavano internamente sopra le nostre teste e il cavo del telefono pendeva accanto ad essi. Sentimmo la voce funerea del capitano «Siete fermamente determinati a scendere?», chiese. «Sì, siamo tutti d'accordo», rispose con impazienza il professore. «Ci farete calare lentamente e terrete costantemente qualcuno al ricevitore. Vi riferirò sulle nostre condizioni. Quando raggiungeremo il fondo, restate in attesa finché vi darò istruzioni. Fate attenzione che la gomena di aggancio non si tenda troppo fatela srotolare con un movimento lento, di un paio di chilometri all’ora, senza sforzarla. E ora calate!» Gridò queste ultime parole come un pazzo. Era il momento più importante della sua vita, la realizzazione dei sogni a lungo accarezzati. Per un attimo fui paralizzato dal pensiero che ci trovassimo nelle mani di un abile, convincente paranoico. Bill Scanlan dovette pensare la stessa cosa, perché mi guardò con un triste sorriso, toccandosi la fronte. Ma, dopo questo eccesso incontrollato, la nostra guida riprese istantaneamente il suo solito autocontrollo. Del resto, bastava osservare l'ordine e la precisione che dimostrava ogni dettaglio intorno a noi, per sentirci rassicurati sulle sue capacità mentali. Ma ora tutta la nostra attenzione si rivolgeva alla nuova, meravigliosa esperienza che ogni istante porta con sé. Lentamente, la cabina stava scendendo verso il fondo dell'oceano: la luminosità verde pallido dell'acqua cambiava in oliva scuro, diventando poi di un meraviglioso blu; un intenso, profondo blu, che gradualmente mutava in un porpora quasi nero. Scendevamo lentamente, dolcemente: 30, 60, 90 metri. Le valvole funzionavano alla perfezione, e respiravamo bene e con naturalezza come sulla coperta della nave. L'ago del profondimetro si spostava lentamente sul quadrante luminoso: 120,130, 150 metri. «Come state?», tuonò una voce ansiosa sopra di noi. «Mai stati meglio in vita nostra!», gridò Maracot in risposta. Ma la luce ormai svaniva: eravamo circondati da uno spesso crepuscolo grigio che mutava rapidamente nell'oscurità più profonda. «Alt!», gridò Maracot.
Il movimento discendente cessò: ci trovavamo sospesi a due centotredici metri dalla superficie dell'oceano. Sentii lo scatto dell'interruttore e, subito, fummo inondati da una luce dorata che si spandeva all'esterno attraverso gli oblò fino a perdersi in lontananza nel deserto d'acqua intorno a noi. Con le facce incollate agli spessi cristalli, ognuno davanti ad un oblò, guardavamo un panorama che nessun uomo aveva mai visto prima. Fino ad allora avevamo conosciuto quelle profondità abissali studiando i pochi pesci che erano stati troppo lenti per evitare la nostra rete a strascico o troppo stupidi per sfuggire all'amo. Ora potevamo vedere quel meraviglioso mondo acquatico come era in realtà. Se l'obiettivo della creazione è stato l'uomo, allora sembra strano che l'oceano sia più densamente abitato della terraferma. Broadway il sabato notte o Lombard Street il pomeriggio di fine settimana, non sono più affollati dei grandi spazi del mare. Attraversammo gli strati più vicini alla superficie, dove i pesci sono quasi privi di colore o hanno tonalità caratteristiche del loro habitat: ultramarino di sopra e color argento di sotto. Qui potevamo osservare pesci di ogni forma e tinta concepibile: delicati naselli o larve di anguilla guizzavano attraverso il fascio di luce come raggi d'argento luccicanti; la sinuosa forma serpentina della murena, e la lampreda d'alto mare, scivolavano lontano serpeggiando; la nera scorpena, tutta bocca e aculei, restava stupidamente a bocca spalancata davanti alle nostre facce che l'osservavano. Altre volte era una seppia che passava nel fascio di luce del riflettore, lasciandosi portare dalla corrente e gettandoci uno sguardo sinistro con occhi quasi umani; ancora, certe forme di vita cristalline entravano in scena con la grazia e il fascino dei fiori. Un enorme sgombro si scagliò selvaggiamente più e più volte contro il nostro oblò finché l'ombra cupa di uno squalo lungo due metri e mezzo piombò su di lui facendolo sparire tra le sue fauci spalancate. Il professor Maracot sedeva estasiato, con il quaderno di appunti sulle ginocchia, scribacchiando osservazioni e tenendo contemporaneamente un monologo fatto di borbottii e commenti scientifici. «Cos'è quello? Ah sì, una Chimoera Mirabilis, come riportato dal Sars . Povero me ! Ecco là un Lepidopus, ma di una specie sconosciuta, a quanto posso vedere.
Guardate quel Macruro, signor Headiey: il suo colore è assai differente da quello che abbiamo trovato nella rete.» Una volta soltanto fu preso alla sprovvista, quando una grande creatura ovale passò velocemente davanti al suo oblò portandosi dietro una coda oscillante, tanto lunga che non ne distinguemmo l'estremità. Confesso che, al momento, rimasi perplesso quanto il professore: fu Bill Scanlan a risolvere l'enigma. «Penso che sia passato apposta al nostro fianco, forse per scherzo, forse per ricordarci che non siamo soli quaggiù...» «Sicuro! Certo», replicò Maracot sorridendo. «È un Plumbus Longicaudatus. Ma di una specie sconosciuta, signor Headiey, con coda a corda e una sorta di sagolascandaglio sul muso: così, può fare "rilevamenti" del fondo marino e circoscrivere una sua zona, delimitare un suo territorio. Tutto bene, capitano! », esclamò poi. «Potete calarci più giù!»' E scendemmo ancora. Il professor Maracot spense la luce elettrica e rimpiombammo un'altra volta in un buio di pece, ad eccezione del quadrante luminoso del profondimetro, che segnava la nostra costante discesa. Il batiscafo oscillava dolcemente ma, d'altra parte, stentavamo a percepire ogni altro movimento. Soltanto la lancetta del profondimetro indicava la terrificante profondità a cui ci trovavamo. Adesso eravamo scesi a più di 300 metri e l'aria era diventata viziata. Scanlan girò la valvola di scarico e l'atmosfera migliorò subito. A 460 metri ci fermammo dondolando nel cuore dell'oceano con le luci nuovamente accese. Qualche grande massa scura passava accanto a noi, ma era difficile capire se si trattasse di un pesce-spada, di uno squalo degli abissi o di qualche mostro di specie sconosciuta. Il professore girò in fretta il riflettore. «Qui corriamo i maggiori pericoli», disse; «ci sono creature, negli abissi, davanti a cui la nostra cabina di acciaio è come un'arnia sotto la carica di un rinoceronte.» «Balene, forse», esclamò Scanlan. «Le balene possono sopportare grandi profondità», convenne il professore. «Una balena groenlandese è stata arpionata e poi riportata in superficie da circa 1800 metri di profondità. Tuttavia, se non è ferita o molto spaventata, nessuna balena scende tanto.
Forse era un calamaro gigante: si trovano un po' a tutte le profondità.» «La fortuna ci assiste: i calamari sono troppo molli per arrecarci qualche danno. Ci sarebbe da ridere se un calamaro riuscisse a praticare uno squarcio nell'acciaio al nickel di Merribank!» «È ben vero che i loro corpi sono mollicci», replicò il professore, «ma il becco di un calamaro gigante potrebbe facilmente tranciare una sbarra di ferro, e un colpo di quel temibile becco sfonderebbe i nostro oblò spessi tre centimetri come se fossero di cartapesta.» «Perdiana!», gridò Bill, mentre riprendevamo il nostro viaggio negli abissi. E finalmente ci posammo sul fondo senza scosse, gentilmente. L'impatto era stato talmente morbido che non ce ne saremmo neanche accorti se non fosse stato per il riflettore che, quando si girò, ci permise di vedere un groviglio di cavi tutt'intorno. Questo groviglio rappresentava un grande pericolo soprattutto per i tubi dell'aria perché avrebbe potuto ostruirli: ma, ad un grido improvviso di Maracot, ci rendemmo conto, con sollievo, che i cavi erano stati ben tesi di nuovo. Il profondimetro segnava 550 metri di profondità. Giacevamo immobili su un crinale vulcanico nel fondo dell'Atlantico. Sul Fondo Dell'abisso Ad un certo punto ebbi l'impressione che stessimo provando tutti la medesima sensazione. Non volevamo far nulla o vedere nulla, quanto piuttosto starcene un po' tranquilli per realizzare la meraviglia di quell'impresa: ossia che ci trovavamo esattamente sul fondo di uno dei più grandi oceani del mondo. Ma, ben presto, l'irreale paesaggio intorno a noi, illuminato in tutte le direzioni dalle luci di bordo, ci richiamò davanti agli oblò. Ci eravamo posati su un letto di fitte alghe «Cutleria Multifida», disse Maracot, le cui frange ondeggiavano intorno a noi, mosse da qualche corrente sottomarina, come i rami di un albero dalla brezza d'estate. Non erano lunghe al punto d'impedirci la visuale, tuttavia le grandi foglie lisce, brunite dalla luce del riflettore, fluttuavano di quando in quando davanti agli oblò. Oltre alle alghe potevamo scorgere scorie e fanghiglia di un materiale nerastro disseminato di creature dai bellissimi colori: oloturie, ascidie,
echinie ed echinodermi, fitte come una collina inglese in primavera lo è di giacinti e di primule. Questi fiori del mare color rosso vivo, porpora intenso, e rosa delicato, erano sparsi in profusione lungo un crinale di colore nero-carbone. Qua e là grandi spugne sporgevano da aperture nella nera roccia e alcuni pesci di media profondità, anch'essi vestiti di smaglianti colori, attraversavano il nostro fascio luminoso. Eravamo completamente assorbiti da quello scenario fantastico quando una voce ansiosa risuonò dal cavo del telefono. «Allora, vi piace il fondo? Tutto bene? Non fermatevi troppo perché il mare comincia ad agitarsi, secondo me non promette nulla di buono. Avete aria a sufficienza? Posso fare qualcosa per voi?» «Tutto bene, capitano!», gridò Maracot allegramente. «Ci fermiamo un altro po'. Siete un'ottima balia. Stiamo bene come se fossimo nelle nostre cabine sulla nave. Tra poco cominciate a spostarci lentamente.» Eravamo giunti nella zona dei pesci luminosi, ci divertivamo a spegnere le luci e, nell'oscurità più assoluta un'oscurità in cui una lastra fotografica avrebbe potuto essere esposta per un'ora senza registrare alcun assorbimento di raggi ultravioletti osservavamo la fosforescente attività nell'oceano. Vedevamo tanti piccoli punti luminosi che si spostavano con regolarità su uno sfondo di velluto nero, come una nave passeggeri quando, di notte, diffonde luce attraverso la lunga linea degli oblò. Una creatura terrificante, nelle tenebre esterne, digrignava denti luminosi su uno sfondo biblico; un'altra sfoggiava lunghe antenne dorate, e un'altra agitava un batuffolo di fiamma sulla testa. Fin dove giungeva il nostro sguardo, punti scintillanti brillavano nel buio, ognuno assorto in proprie attività, accendendo la propria scia di luce come i taxi notturni all'ora degli spettacoli nello Strand. Ma presto il dottore riaccese le nostre luci riprendendo l'osservazione del fondo. «Ci troviamo a grande profondità, ma non sufficiente per procurarci qualche deposito caratteristico», disse. «Questi sono assolutamente al di fuori del nostro raggio d'azione. Forse in un'altra occasione, con una gomena d'aggancio più lunga...» «Perché non tagliate questa?», grugnì Bill. Maracot sorrise.
Vi siete abituato subito alle grandi profondità, Scanlan. Ma questa non sarà la nostra unica immersione.» «Per L'Inferno!», borbottò Bill. «Non desiderate altro che tornare nella stiva dello Stratford. Avrete osservato, signor Headiey, che per quanto possiamo spingere il nostro sguardo attraverso la fitta vegetazione di idrozoi e spugne silicee, il fondale qui è di pietra pomice e di scorie di basalto, segno di un'antichissima attività plutonica. Inoltre, sono in cline a pensare che questa sia una conferma delle mie teorie: cioè, che questo crinale fa parte di una più vasta formazione di origine vulcanica e che l'Abisso di Maracot scandì queste parole assaporandole costituisce il ripido pendio esterno di una montagna. Mi ha colpito l'idea che sarebbe un interessante esperimento far spostare lentamente il nostro batiscafo lungo questo crinale finché non raggiungiamo l'orlo dell'abisso: potremo così verificare di che tipo sono le formazioni rocciose in quel punto. Mi aspetto di trovare un crepaccio di notevoli proporzioni che precipita ad angolo acuto negli abissi dell'oceano.» L'esperimento mi pareva piuttosto pericoloso, perché chi poteva dire per quanto la gomena, che ci teneva ancorati alla nave appoggio, poteva reggere alla corrente che ci spostava lateralmente, senza spezzarsi? Ma per Maracot, che si trattasse di lui stesso o di altri, il pericolo non esisteva se era necessario compiere un'osservazione scientifica. Trattenni il respiro e guardai Bill Scanlan, quando un lento movimento della nostra conchiglia d'acciaio, scostando la fitta vegetazione di alghe, ci permise di osservare che la gomena era tesa al massimo. Teneva magnificamente, e con gentilissima e veloce progressione cominciammo a scivolare sul fondo dell'oceano. Maracot, con una bussola in mano, gridava ordini sulla direzione da seguire al capitano Hovvie e, occasionalmente, ordinava di sollevare di più il batiscafo per evitare qualche ostacolo. «Difficilmente questo crinale basaltico è lungo più di due chilometri», spiegava. «Sulla mia carta ho contrassegnato l'abisso ad ovest del punto dove abbiamo effettuato il tuffo. Di questo passo, lo raggiungeremo tra breve.» Scivolavamo senza alcun intoppo sulla distesa vulcanica, ornata di ondeggianti alghe dorate e abbellita dagli sgargianti gioielli creati dalla natura che fiammeggiavano fuoriuscendo dal loro scrigno di giaietto.
Improvvisamente, il professore si precipitò al telefono gridando: «Alt! Ci siamo!» . Un mostruoso precipizio si era aperto d'un tratto sotto di noi. Era un luogo spaventoso, una vera visione da incubo. Neri dirupi di basalto sprofondavano a piombo nell'ignoto. Gli orli dell'abisso erano delimitati da ciondolanti laminarie, come felci che sovrastavano qualche gola di montagna; ma, oltre quel tremolante limite, c'erano soltanto le nere pareti del baratro. Il bordo roccioso s'incurvava lontano da noi, e tuttavia l'abisso poteva avere qualsiasi ampiezza, perché le nostre luci a stento penetravano l'oscurità sottostante. Quando puntammo in basso un riflettore segnaletico Lucas, esso irradiò la sua luce dorata, riflessa dalla parete, penetrando giù finché il nero precipizio attenuò e poi annullò il suo bagliore. «È stupefacente!», esclamò Maracot, guardando fuori con una singolare e compiaciuta espressione sul volto magro e appassionato. «Non saprei dirne la profondità e se sia o meno superato da altri. C'è l'Abisso di Challenger, profondo quasi 8000 metri, vicino alle Isole dei Ladroni; c'è l'Abisso del Pianeta di 9760 metri, al largo delle Filippine. E ve ne sono molti altri, ma è probabile che l 'Abisso di Maracot sia unico per la pendenza della sua discesa; ed è inoltre rimarchevole che sia sfuggito alle osservazioni di tanti esploratori idrografici che hanno compilato la carta sottomarina dell'Atlantico. È indiscutibile...» Si era fermato nel mezzo d'una frase, e un'espressione di grande interesse e sorpresa gli si era scolpita sul viso. Guardando sopra le sue spalle, Bill Scanlan e io fummo pietrificati da quello che i nostri occhi vedevano con terrore. Qualche grande creatura stava salendo nel fascio luminoso che avevamo proiettato nell'abisso. Laggiù, dove la luce moriva nel l'oscurità della voragine, riuscivamo a stento ad intravvedere le nere, ondeggianti sembianze di un corpo mostruoso che saliva lentamente. Nuotando in modo sgraziato saliva con guizzi pesanti verso l'orlo dell'abisso. E quando si fece più vicino, colpito in pieno dalla luce del riflettore, potemmo distinguerne chiaramente la forma mostruosa. Era un animale sconosciuto alla scienza, eppure singolarmente simile a creature familiari.
Troppo lungo per essere un granchio gigantesco e troppo corto per ricordare un'enorme aragosta, richiamava la forma del gambero d'acqua, con due enormi pinze aperte per lato e un paio di antenne lunghe quasi cinque metri che si agitavano davanti ai neri, stupidi, lugubri occhi. Il carapace, di colore giallo, era largo circa tre metri, ed era lungo complessiva mente, senza considerare le antenne, non meno di nove metri. «Meraviglioso!», gridò Maracot, scribacchiando disperata mente sul suo quaderno. «Occhi semi peduncolati, lamelle elastiche, famiglia dei crostacei, specie sconosciuta. Crustaceus Maracoti... Perché no? Perché no? » «Lasciamo perdere il nome: mi sembra proprio che si stia dirigendo verso di noi!», esclamò Bill. «Dite, Doc, non credete sia meglio spegnere le luci?» «Ancora un attimo, che prendo nota delle sue articolazioni!», urlò il naturalista. «Sì, sì, proprio così», borbottava Maracot. Quindi fece scattare l'interruttore e ci ritrovammo nel buio pesto, rotto soltanto dalle luci fosforescenti all'esterno, come meteore in una notte senza luna. «Quella bestia è di certo la più brutta del mondo!», disse Bill asciugandosi la fronte sudata. «Mi sento come la mattina dopo una sbronza di Prohibition Iloosh!» «È senz'altro terribile a vedersi», commentò Maracot, «e probabilmente ancora più terribile avere a che fare con lui, se fossimo esposti davvero a quelle mostruose chele. Ma, protetti dalla nostra cassa di acciaio, possiamo permetterci di esaminarlo in sicurezza e con tutta comodità.» Aveva finito di parlare, quando sentimmo un colpo, come di piccone, sulla parete esterna, quindi uno strascicato raspare e grattare che terminò con un altro secco colpo. «Gente, questo vuole entrare!», urlò Bill Scanlan allarmato. «Perdinci! Potevamo scrivere Vietato l'Ingresso su questo trabiccolo.» La sua voce insicura dimostrava quanto fosse forzata quell'allegria, e confesso che le ginocchia mi tremavano perché ero conscio del mostro in agguato che oscurava ancor di più il buio degli oblò, passandovi davanti, per studiare quella strana conchiglia, che una volta spezzata, poteva contenere il suo pasto «Non può farci niente di male», disse Maracot, però il suo tono di voce era poco convincente. «Ma è meglio liberarci di lui » Attraverso il telefono diede una voce al capitano gridando «Sollevateci di una decina di metri».
Qualche secondo dopo ci sollevammo dalla spianata di lava dondolando dolcemente nell'acqua silenziosa. Ma la terribile bestia era ostinata: quasi subito udimmo di nuovo il raspare delle antenne e i colpi secchi delle chele mentre ci girava intorno tastando il batiscafo. Era spaventoso restare in silenzio nel buio e sapere che la morte era vicina. Se quella poderosa tenaglia si fosse abbattuta sull'oblò, quest'ultimo avrebbe retto? Questa era la muta domanda che ci tormentava. Ma, improvvisamente, un pericolo imprevisto e più immediato ci sovrastò: il rumore proveniva adesso dal soffitto del nostro piccolo abitacolo, che cominciò ad oscillare avanti e indietro, ritmicamente. «Buon Dio!», gridai, «ha afferrato il cavo! Lo spezzerà!» «Dite, Doc, non vi sembra sia il caso di emergere? Mi pare che abbiamo visto quello che ci interessava, e per Bill Scanlan è ora di tornare a casa. Fate sollevare la cabina e spostatela immediatamente.» «Ma il nostro lavoro non è finito!», obiettò Maracot. «Abbiamo appena iniziato l'esplorazione dell'orlo dell'abisso. Lasciatemi vedere quanto è ampio. Quando avremo raggiunto l'estremità della voragine, sarò ben felice di risalire.» Quindi gridò nel cavo telefonico: «Tutto bene, capitano: spostateci per un paio di miglia finché non vi dirò di fermarci». Ci muovevamo lentamente sopra il bordo dell'abisso. Dato che l'oscurità non ci aveva salvato dall'attacco dell'animale, decidemmo di riaccendere le luci. Uno degli oblò era completamente coperto da quello che sembrava essere lo stomaco della creatura. La testa e le chele gigantesche erano al lavoro sopra di noi, e continuavamo ad oscillare come una campana. La forza del crostaceo doveva essere enorme. Quale uomo si era mai trovato nella nostra situazione, con diecimila metri d'acqua al di sotto e un simile mostro di sopra? Le oscillazioni si facevano sempre più forti. Un'esclamazione eccitata del capitano piovve giù dall'alto perché si era reso conto dei sussulti del cavo di traino, mentre Maracot balzava in piedi con le mani protese in alto, in un gesto disperato. Pur trovandoci all'interno dell'abitacolo, udimmo distintamente lo stridio dei cavi che si spezzavano e, un istante dopo, precipitavamo nello sconfinato abisso che si apriva sotto di noi. Ogni volta che ripenso a quel momento, mi sembra di sentire il disperato grido di Maracot.
«I cavi, sono spezzati! Non possiamo far niente! Siamo morti ormai!», urlò, aggrappandosi al ricevitore. «Addio capitano, addio!» Furono le nostre ultime parole nel mondo degli uomini. Non stavamo precipitando velocemente, come potresti pensare, Talbot. A dispetto del peso, la nostra sfera vuota e colma d'aria aveva una certa spinta di galleggiamento, per cui affondavamo lentamente e dolcemente nella voragine. Udii un lungo graffiare stridente quando scivolammo attraverso le chele della creatura che era stata la causa della nostra rovina, e quindi, con un lento moto a spirale, cominciammo a scendere nelle profondità abissali. Trascorsero circa cinque minuti prima che raggiungessimo il limite massimo del cavo telefonico e che questo si strappasse come un filo; il tubo dell'aria si spezzò nello stesso momento e l'acqua salata zampillò gorgogliando attraverso le valvole. Con mani agili e svelte, Bill Scanlan annodò le estremità dei tubi di gomma all'interno dell'abitacolo, bloccando in tal modo le infiltrazioni d'acqua, mentre il professore svitava immediatamente i rubinetti dell'aria compressa, che fuoriuscì sibilando dalle bombole. La luce era mancata nell'attimo in cui era stato strappato il cavo ma, anche al buio, il professore riuscì a collegare e a mettere in funzione le pile Hellesens, che accesero alcune lampadine sul soffitto. «Dovrebbero durare sette giorni», disse con un sorriso forzato. «Almeno moriremo alla luce.» Quindi scosse la testa tristemente e un sorriso gentile illuminò le sue fattezze spettrali. «Quanto a me, sono tranquillo. Ormai sono vecchio, e ho già fatto la mia parte nel mondo. L'unico mio rimorso è di aver permesso a due giovani come voi di seguirmi quaggiù. Avrei dovuto assumermi ogni rischio da solo!» Gli strinsi la mano con semplicità per rassicurarlo, e d'altra parte non mi sentii di dire nulla. Anche Bill taceva. Scendevamo piano, e la nostra discesa era scandita dalle cupe ombre dei pesci che volteggiavano davanti agli oblò: sembrava quasi che stessero volando in alto piuttosto che fossimo noi a sprofondare. Oscillavamo ancora, e a quanto potevo vedere, non c'era nulla da fare per evitare di affondare con il batiscafo inclinato che ruotava su se stesso. Per fortuna il nostro peso riuscì a bilanciare l'inclinazione e ben presto il pavimento si raddrizzò.
Dando un'occhiata al profondimetro, vidi che avevamo raggiunto la profondità di 1853 metri. «Vedete? È come dicevo», sottolineò Maracot con un certo autocompiacimento. «Dovete aver notato la mia relazione, negli Atti della Società Oceanografica, circa la pressione e la profondità. Vorrei tanto poter tornare indietro, non fosse che per avvertire il mondo e confutare il professor Bulow dell'Università di Giessen che osò contraddirmi.» «Perdinci! Se potessi tornare nel mondo per dire una parola, non la sprecherei certo con un capoccione intellettuale!», disse Bill. «C'è una bimba a Filadelfia, che piangerà quando le diranno che Bill Scanlan se n'è andato. Eppure è un ben triste modo di morire!» «Non potremo mai più tornare», dissi stringendogli la mano. «Che razza di uomo da poco sarei stato se non fossi venuto con voi?», replicò. «No, era ed è il mio incarico, e sono contento di non aver mollato!» «Per quanto ancora possiamo averne?», chiesi al professore, dopo una pausa. Lui fece spallucce. «Avremo comunque il tempo di vedere il vero fondo dell'oceano», rispose. «Nelle bombole c'è aria sufficiente per la maggior parte del giorno. Piuttosto sono un guaio i gas residui, l'anidride carbonica che espiriamo e che finirà col soffocarci. Se almeno potessimo sbarazzarcene!» «Mi sembra impossibile.» «Abbiamo una bombola di ossigeno puro; l'avevo portata per ogni eventualità. Piccole quantità, di quando in quando, ci aiuteranno a tenerci in vita. Avrete osservato che ci troviamo attualmente a 3700 metri di profondità?» «Perché dovremmo cercare di rimanere in vita? Prima finirà, meglio sarà!», risposi. «Questo si chiama parlare!», gridò Scanlan. «Diamoci un taglio, e che sia finita!» «E rinunciare così alla più straordinaria visione che mai uomo abbia osservato!», esclamò Maracot. «Sarebbe tradire la scienza. Registriamo i fatti fino alla fine, anche se dovranno restar sepolti per sempre assieme ai nostri corpi. Comportiamoci coraggiosamente fino all'ultimo.» «Sportivo il professore!», gridò Scanlan. «È il migliore della banda! D'accordo, stiamo a vedere come va finire.»
Ci sedemmo pazientemente sulla pedana stringendone i bordi con dita nervose perché oscillava e vibrava, mentre i pesci fosforescenti passavano rapidi in tutte le direzioni all'esterno degli oblò. «Ci troviamo ora a 5500 metri di profondità», ci fece osservare Maracot. «Immetto un po' di ossigeno, signor Headiey, perché l'aria è molto viziata. Ah, dimenticavo», aggiunse con un risolino soffocato, «d'ora in poi questo sarà l'Abisso di Maracot. Quando il capitano Hovvie riporterà la notizia, i miei colleghi dovranno ammettere che la mia tomba è anche il mio monumento. Perfino il professor Bulow...», e proseguì borbottando elucubrate lagnanze scientifiche. Sedevamo silenziosi, osservando l'ago del profondimetro che segnava 7400 metri di profondità. Ad un certo punto urtammo violentemente contro qualcosa di pesante che ci fece sobbalzare forte, tanto che temetti ci saremmo rovesciati. Poteva esser stato qualche pesce enorme, oppure avevamo urtato contro qualche sporgenza della parete dell'abisso lungo il quale stavamo affondando. A suo tempo, l'orlo della voragine ci era sembrato stupefacente e ora, guardando ad esso dall'inconcepibile profondità in cui eravamo sprofondati, ci appariva solo come la superficie, il principio dello spaventoso precipizio. Continuavamo a scendere in moto vorticoso attraverso la distesa d'acqua verde cupo. Il profondimetro segnava ormai 7620 metri. «Siamo vicini alla fine del viaggio», disse Maracot . «Il mio rilevatore Scott, lo scorso anno, indicò 7927 metri nel punto più profondo. Tra pochi minuti sapremo qual è il nostro destino. Forse l'impatto ci schiaccerà. Forse...» E in quel preciso istante toccammo il fondo. Neanche un bimbo viene posato dalla madre su un lettino di piume con la stessa delicatezza con cui noi approdammo nel punto più abissale dell'Oceano Atlantico. La morbida, densa, elastica melma su cui ci posammo, fu un perfetto cuscino che ci evitò anche il pur minimo rumore. Rimanemmo immobili sui nostri sedili, e fu un bene, perché eravamo appollaiati su una specie di altura sporgente, coperta da fanghiglia viscosa e gelatinosa, e ci mantenevamo in equilibrio su di essa, oscillando piano, con quasi metà del pavimento dalla nostra batisfera che sporgeva privo di alcun supporto.
C'era pericolo di capovolgerci ma, alla fine, ci stabilizzammo e rimanemmo immobili. In quel mentre il professore Maracot, sgranando gli occhi che teneva fissi sull'oblò, gettò un grido di sorpresa e spense precipitosamente la luce. Con nostro immenso stupore, potevamo vedere chiaramente. C'era una fantasmagorica luce nebbiosa, all'esterno, che filtrava attraverso gli oblò come il riflesso dorato di un mattino d'inverno. Ci affacciammo per guardare quella strana scena e, anche senza l'ausilio delle nostri luci di bordo, ci era possibile spingere lo sguardo in ogni direzione, per qualche centinaio di metri, distinguendo chiaramente ogni cosa. Sembrava impossibile, inconcepibile ma, non fosse che per l'evidenza dei sensi, quello era un dato di fatto: il fondale dell'oceano era luminoso. «Perché no?», esclamò Maracot, dopo che eravamo rimasti in silenzio per qualche minuto davanti a quella meraviglia. «Come: ho potuto non pensarci subito? Che cos'è questa fanghiglia di pteropodi o globigerina, se non il prodotto della decomposizione, lo sbriciolarsi dei corpi di miliardi di miliardi di creature organiche? E forse la decomposizione non è accompagnata da una luminosità fosforescente? Dove mai, in tutta la creazione, potevamo vedere un simile fenomeno se non qui? Ah! è triste aver avuto una tale dimostrazione, ed essere nell'impossibilità di comunicare al mondo la nostra scoperta.» «Eppure», obiettai, «abbiamo raccolto mezza tonnellata di fanghiglia a suo tempo, senza scoprire traccia di questa luminosità.» «L'ha perduta, senza dubbio, nel lungo tragitto dal fondo alla superficie. Ma cosa volete che sia mezza tonnellata in confronto a questa sterminata distesa di densa putrescenza? E pensate», grido, preso da un'eccitazione incontrollabile, «che le creature del mare pascolano su questo tappeto organico come le mandrie sui prati in terraferma!» Mentre parlava, un branco di pesci neri, grossi e tozzi, si dirigeva verso di noi, nuotando sul fondo dell'oceano, frugando con il muso tra le fitte spugne e mangiando mentre si spostava. Un'altra gigantesca creatura di colore rosso, come una stupida vacca dell'oceano, ruminava davanti al mio oblò, mentre altre pascolavano qua e là, sollevando la testa di quando in quando per guardare lo strano oggetto che era apparso improvvisamente tra di loro.
Non potevo non ammirare Maracot che, in quell'atmosfera viziata, seduto all'ombra della morte, obbediva ancora al richiamo della Scienza e prendeva appunti sul suo quaderno. Senza seguire un criterio preciso come lui, anch'io prendevo nota mentalmente di quel che rimarrà per sempre indelebilmente stampato nella mia memoria. I fondali più profondi dell'oceano sono fatti di argilla rossa, che qui era coperta dalla grigia fanghiglia abissale che originava distese ondulate fin dove giungeva il nostro sguardo. Questa pianura sottomarina non era omogenea, bensì rotta da numerose alture tondeggianti come quella su cui eravamo appoggiati, che luccicavano nella luce spettrale. Tra queste piccole colline, sciamavano grandi nuvole di strani pesci, molti dei quali del tutto sconosciuti alla scienza, che sfoggiavano ogni sfumatura di colore, anche se il nero e il rosso predominavano. Maracot li studiava con un'eccitazione a stento trattenuta, continuando a prendere appunti. L'aria si era fatta estremamente viziata, e ancora una volta potemmo salvarci soltanto con una nuova immissione di ossigeno. Abbastanza stranamente, avevamo tutti una gran fame dovrei anzi dire che eravamo affamati e ci gettammo avidamente sulla carne in scatola e sul pane imburrato, innaffiati da whisky e acqua, che la previdenza di Maracot aveva previsto. Con i sensi ridestati da questo spuntino, sedevo davanti al mio oblò morendo dalla voglia di una sigaretta, quando i miei occhi scorsero qualcosa che mi fece vorticare strani pensieri e presagi nella mente. Ho già detto che la grigia pianura ondulata era disseminata di strani tumuli o alture. Una di queste alture, particolarmente estesa, si stagliava davanti al mio oblò a una distanza di dieci metri. Mi sembrava di vedere, con mia grande sorpresa, una specie di segno particolare che si ripeteva con regolarità sino a perdersi dietro la curva dell'altura. Quando ci si trova così vicini alla morte, è facile attribuire un'importanza sensazionale alle cose di questo mondo, ma trattenni il respiro e il cuore cessò di battere per un attimo quando mi resi conto d'improvviso che era un fregio quello che stavo osservando, un fregio consunto e rovinato, e che soltanto una mano umana poteva aver scolpito quelle figure ormai sbiadite.
Maracot e Scanlan, da me chiamati, si precipitarono al mio oblò guardando fuori, completamente sbalorditi davanti ai segni dell'onnipresente forza dell'uomo. «È un fregio, certo!», gridò Scanlan. «Forse queste rovine erano il tetto di un edificio. E anche queste altre. Dite, capo, siamo forse atterrati in qualche cittadina?» «È una città antica», disse Maracot. «La geologia insegna che una volta i mari erano continenti, e i continenti erano mari, ma ho sempre messo in dubbio l'idea che, in tempi recenti come il Quaternario, ci possa esser stato uno sprofondamento dell'Atlantico. Eppure il racconto di Platone, che riportava la tradizione egizia dell'Atlantide, ha trovato alla fine una prova e una convalida. Le formazioni vulcaniche qui intorno confermano che tale sprofondamento, dovuto ad attività sismica, c'è stato davvero.» «Queste cupole, queste costruzioni, seguono uno schema regolare», osservai. «Comincio a credere che non siano abitazioni separate, quanto piuttosto le cupole che ornavano il tetto di un unico, grande edificio.» «Penso abbiate ragione», disse Scanlan, «infatti ce ne sono quattro, piuttosto ampie agli angoli, e altre, più piccole, in linea con queste. Senz'altro è un edificio, dato che riusciamo a vederne i contorni! Vi troverebbero posto i Cantieri Merribank al completo! E ancora avanzerebbe spazio!» «È sprofondato fino al tetto inseguito alla pressione sovrastante», disse Maracot. «D'altronde non si è rovinato. A grandi profondità la temperatura si mantiene un po' sopra lo zero, e ciò arresta il processo di disgregazione. Anche la dissoluzione dei residui bàtici, che ricopre il fondo dell'oceano e fortunatamente ci offre questa luminosità, dev'essere molto lenta. Ma, mio Dio questo non è un fregio, è un'iscrizione.» Senza dubbio aveva ragione: lo stesso simbolo si ripeteva e ricorreva uniformemente. Quei segni erano, indiscutibilmente, lettere di un qualche alfabeto arcaico. «Ho scritto un saggio sui Fenici, e vi è qualcosa di allusivo e familiare in questi caratteri», disse Maracot. «Bene, abbiamo visto una città sommersa di grande antichità, amici miei, e portiamo con noi nella tomba un altro stupefacente frammento di conoscenza. Non c'è altro da apprendere, ormai; il nostro libro del sapere si è chiuso. Sono d'accordo con voi: prima finirà, meglio sarà.»
La fine non poteva tardare: l'aria stagnante e viziata era divenuta così pesante, per l'anidride carbonica che avevamo espirato in tutto quel tempo, che l'ossigeno delle bombole stentava a farsi strada. Restando seduti immobili, riuscendo a fatica ad inspirare una boccata d'aria più pura, mentre l'esalazione velenosa saliva lentamente e inesorabilmente. Il professor Maracot incrociò le braccia con espressione rassegnata e chinò la testa sul petto. Scanlan era già stato sopraffatto dai miasmi e strisciava boccheggiando sul pavimento. Mi girava la testa e sentivo un peso intollerabile sul petto. Chiusi gli occhi, mentre stavo perdendo rapidamente i sensi. Poi li riaprii per dare un ultimo sguardo a quel mondo che abbandonavo, e fu allora che barcollai gettando un rauco grido di stupore. Un volto umano ci stava osservando attraverso l'oblò! Deliravo? Afferrai una spalla di Maracot, scuotendolo violentemente. Lui balzò a sedere nel vedere quell'apparizione, sbalordito e senza parole. Se la vedeva come la stavo vedendo io, non era certo un'allucinazione. Era un viso lungo e sottile, di carnagione scura, con una corta barbetta a punta e due occhi vivaci che scrutavano in fretta qua e là, con sguardi interrogativi, i particolari della nostra situazione. Un grande stupore si era dipinto anche sul volto dell'uomo. Le nostre luci erano accese e doveva essere stata una ben strana e vivida scena per lui quella che presentavamo ai suoi occhi, in quella minuscola camera della morte, dove un uomo giaceva privo di sensi e altri due lo guardavano con le sembianze contratte e stravolte di chi sta morendo, i volti cianotici per l'incipiente asfissia. Con le mani ci massaggiavamo la gola, e i nostri petti sussultanti erano un evidente messaggio di disperazione. L'uomo fece un cenno con la mano e si allontanò precipitosamente. «Ci ha abbandonato!», gridò Maracot. O è andato a cercare aiuto. Aiutatemi ad appoggiare Scanlan al sedile: se resta disteso sul pavimento, per lui è finita.» A fatica trascinammo Scanlan sul sedile, e gli facemmo appoggiare la testa su un cuscino. Aveva il viso ormai grigio e borbottava in delirio, ma il polso batteva ancora «Forse c'è ancora una speranza per noi», riuscii a dire. «Ma è pazzesco ! », esclamò Maracot . «Come può un uomo sopravvivere sul fondo dell'oceano? Come fa a respirare? Di certo si tratta di
un'allucinazione collettiva. Mio giovane amico, stiamo semplicemente impazzendo!» Guardando quel paesaggio solitario, grigio e desolato, e quella cupa luce spettrale, pensai che forse Maracot aveva ragione. Poi, improvvisamente, percepii un movimento. Ombre indistinte fluttuavano lontane attraverso l'acqua. Ben presto assunsero i con torni definiti di figure in movimento. Un folto gruppo di persone si spostava velocemente sul letto dell'oceano, diretto verso di noi. Un istante dopo erano ammucchiati davanti agli oblò, indicandoci e gesticolando in un'animata discussione. C'erano alcune donne tra la folla, ma in maggioranza erano uomini e, tra questi, una figura poderosa con una gran testa e una fitta barba nera, che doveva essere chiaramente un personaggio di riguardo. Ispezionò velocemente la nostra batisfera d' acciaio e, poiché il bordo di questa sporgeva dalla cupola su cui eravamo posati, riuscì a vedere la botola a cerniera sul fondo del pavimento. Ci fece allora un cenno e, con dei segni energici e decisi ci invitò ad aprire la botola dall'interno. «Perché no?», osservai. «Possiamo scegliere tra l'annegare e il morire soffocati. Non ce la faccio più a restare qua dentro.» «Forse non annegheremo» disse Maracot. «L'acqua che entrerà dal portello non potrà superare il livello dell'aria compressa. Date un po' di brandy a Scanlan. Dovrà fare uno sforzo, fosse anche l'ultimo.» Feci bere a Bill un sorso di brandy. Lo inghiottì e si guardò in torno con occhi stupiti. Cercavamo di tenerlo in posizione eretta sul sedile, reggendolo uno per parte. Era ancora stordito, ma in poche parole gli spiegammo la situazione. «Esiste il pericolo che si formi del gas di cloro se l'acqua raggiunge le batterie», disse Maracot. «Aprite tutte le bombole d'aria perché, più pressione riusciamo ad ottenere, meno acqua entrerà. Ora datemi una mano a sbloccare la botola.» Curvatici sul portello, facemmo leva con tutto il nostro peso, dando uno strattone violento alla botola sul pavimento, benché compiendo quel gesto, mi sentissi come uno che ha deciso di suicidarsi. L'acqua verde, brillante e scintillante sotto le nostri luci, entrò gorgogliando e cominciò a salire, giungendo rapidamente all'altezza delle caviglie, poi delle ginocchia, e quindi alla cintola dove si fermò.
Ma la pressione dell'aria era quasi insopportabile. Ci ronzava la testa e i nostri timpani scoppiavano. Non avremmo potuto resistere molto in quell'atmosfera. Soltanto aggrappandoci alla rete delle provviste evitammo di cadere dentro l'acqua sotto di noi. Dal punto in cui ci trovavamo, non riuscivamo a guardare dagli oblò né ad immaginare che cosa si stava facendo per la nostra salvezza. Del resto ci riusciva difficile immaginare che fosse possibile fare qualcosa per noi: eppure quella gente, e specialmente il loro capo dalla corta barba, aveva un'aria così decisa e risoluta da infonderci qualche speranza. Improvvisamente vedemmo il suo viso comparire nell'acqua sotto di noi e, un attimo dopo, era passato attraverso l'apertura circolare della botola e si era arrampicato sulla pedana, cosicché era adesso al nostro fianco: la sua figura era tozza e vigorosa, non più alta delle mie spalle, ma ci esaminava con grandi occhi bruni colmi di una sicurezza quasi divertita, che sembravano dire: «Poveri diavoli, pensate di trovarvi in un grosso guaio, ma io posso aiutarvi facilmente». Solo allora mi resi conto di un fatto stupefacente: l'uomo, ammesso che fosse della nostra razza, indossava un involucro trasparente che gli copriva completamente la testa e il corpo, lasciando libere le gambe e le braccia. Era talmente trasparente che non eravamo riusciti a vederlo nell'acqua, ma adesso che si trovava all'aria accanto a noi, l'involucro brillava come argento benché rimanesse limpido e trasparente come il vetro più pregiato. Sulle spalle, sopra quella che senza dubbio era una guaina protettiva, portava una curiosa sovrastruttura tondeggiante: sembrava una scatola oblunga, perforata in più punti. Nell'insieme l'uomo aveva un aspetto curioso, come se avesse le spalline. Dopo che il nostro nuovo amico si fu unito a noi, un'altra faccia apparve nell'apertura della botola, spingendovi attraverso qualcosa che sembrava una gran bolla di vetro. Furono fatte passare tre di queste bolle che ora galleggiavano sulla superficie dell'acqua. Quindi furono fatte salire sei piccole scatole e la nostra nuova conoscenza ce le agganciò, a due a due, una per spalla, con delle cinghie, finché furono sistemate esattamente come le sue. Alla fine mi convinsi che quello strano popolo non aveva infranto alcuna legge dalla natura per sopravvivere, e compresi che, mentre una cassetta, in qualche maniera sconosciuta,
produceva ossigeno, l'altra assorbiva i residui della respirazione, l'anidride carbonica. Quindi ci fece indossare le bolle trasparenti, agganciandole con delle fibbie e chiudendole ermeticamente, mediante bande elastiche, sulla parte superiore delle braccia e sulla cintola, cosicché non potesse entrarvi neanche una goccia d'acqua. All'interno delle bolle respiravamo magnificamente, e fu una gioia per me osservare Maracot che mi guardava con gli occhi scintillanti dietro le lenti, mentre il largo sorriso di Scanlan mi assicurava che il vitale ossigeno aveva fatto il suo dovere e che Bill aveva trovato un'altra volta il suo buon umore. Il nostro ignoto salvatore ci guardò ad uno ad uno con soddisfazione, quindi ci fece cenno di seguirlo attraverso la botola sul fondo dell'oceano. Una dozzina di mani volenterose si protesero per aiutarci a scendere attraverso il portello e per sostenere i nostri primi, vacillanti passi sul fondo melmoso dell'oceano. Ancora oggi non riesco a dimenticare quell'impressione meravigliosa! Eccoci là, tutti e tre, sani e salvi e a nostro agio, sul fondo di un abisso d'acqua di quasi diecimila metri. Dov'era quella terrificante pressione che avevano congetturato tanti scienziati? Non eravamo più oppressi di quanto lo fosse il pesce appetitoso che ci nuotava intorno. Era pur vero, rispetto al modo in cui i nostri corpi erano stati progettati, che eravamo protetti da queste delicate campane di vetroperaltro più dure del più forte acciaio ma anche i nostri arti, che erano esposti, non percepivano nulla di più d'una certa costrizione che avremmo imparato presto a ignorare. Era una sensazione meravigliosa, trovarci insieme, e ci girammo a guardare l'abitacolo da cui eravamo sgusciati fuori. Avevamo lasciato le batterie in funzione, e ora vedevamo finalmente che oggetto straordinario fosse, con i fasci di luce gialla che fuoriuscivano dagli oblò e dalla botola mentre nuvole di pesci si raccoglievano davanti ai portelli. Dopo avergli dato un ultimo sguardo, il capo prese Maracot per mano, e noi lo seguimmo in quella fanghiglia, camminando lentamente sulla superficie viscosa. Fu allora che ci capitò un caso ancor più straordinario che stupì, oltre noi stessi, anche i nostri nuovi compagni.
Sopra le nostre teste era apparso un piccolo oggetto scuro, che scendeva dall'oscurità soprastante oscillando, finché non toccò il fondo, a breve distanza da dove ci trovavamo. Era, naturalmente, lo scandaglio d'alto mare dello Stratford, che faceva un sondaggio dell'abisso cui doveva venir associato il nome della nostra spedizione. Capivamo bene che la tragedia della nostra scomparsa aveva differito quell'operazione, ma che dopo una breve pausa sarebbe stata portata a termine; avevamo già intuito la traiettoria verticale dello scandaglio, sperando, in cuor nostro, che terminasse almeno vicino a noi. Apparentemente, sulla nave non si rendevano conto di aver raggiunto il fondale, perché lo scandaglio giaceva immobile nella melma. Sopra di me si allungava il cavo che, attraverso diecimila metri d’acqua, ci univa al ponte della nave. Almeno fosse stato possibile scrivere una nota e attaccarla allo scandaglio! L'idea era assurda: eppure, perché non avrei dovuto mandare qualche messaggio che dimostrasse che eravamo ancora vivi? La mia giacca era coperta dalla campana di vetro e mi era impossibile raggiungerne le tasche, ma dalla cintola in giù ero libero, e il fazzoletto doveva trovarsi in una tasca dei calzoni. Lo tirai fuori, legandolo all'estremità dello scandaglio. Il peso stesso fece scattare il suo meccanismo automatico, e quasi subito vidi la bianca pezzuola di lino volare in alto, verso un mondo che non avrei mai più potuto rivedere. Il nostro nuovo amico aveva esaminato i 35 chilogrammi di scandaglio con grande interesse, e finalmente, dopo esser riuscito nel suo intento, riprendemmo il cammino. Avevamo percorso qualche centinaio di metri passando tra le cupole, quando ci fermammo davanti ad una piccola porta quadrata, con solide colonne ad ogni lato, e un'iscrizione sull'architrave. Era aperta, ed entrammo in una grande stanza spoglia. Era un pannello mobile, manovrato da una leva dall'interno, che si richiuse dietro di noi. Naturalmente non potevamo udire niente dentro i nostri caschi di vetro ma, dopo qualche minuto, ci rendemmo conto che doveva essere in funzione qualche pompa potente, perché vedemmo il livello dell'acqua abbassarsi rapidamente sotto di noi.
In meno d'un quarto d'ora ci trovammo su di un pavimento di pietra ancora bagnato d'acqua, mentre i nostri amici erano intenti a sganciare le chiusure delle nostre trasparenti guaine protettive. Un attimo dopo stavamo respirando aria perfettamente pura in un'atmosfera calda e ben illuminata, e l'oscuro popolo dell'abisso, sorridente e vociante, ci si affollava intorno festoso e con gesti di amicizia. Era uno strano linguaggio rauco quello che parlavano e noi non ne comprendevamo neanche una parola, ma il sorriso sui loro volti e la luce d'amicizia nei loro occhi erano una lingua comprensibilissima, anche in quegli abissi sotto il mare. Gli abiti trasparenti erano appesi a pioli numerati infissi nella parete, e quella gente amabile, un po' spingendoci un po' guidandoci, ci fece entrare in una stanza più interna che si apriva su un lungo corridoio con il pavimento inclinato coperto di fanghiglia. Quando la porta si chiuse dietro di noi, non c'era più niente che potesse ricordarci il fatto stupendo che eravamo gli ospiti involontari di una razza sconosciuta che viveva sul fondo dell'Oceano Atlantico, tagliati fuori per sempre dal mondo cui appartenevamo. Ora che quello sforzo terribile era stato condotto a termine ci sentivamo esausti. Persino Bill Scanlan, che era un piccolo Ercole, trascinava i piedi sul pavimento, mentre Maracot e io eravamo felici di poterci appoggiare alle nostre guide. Anche se mi sentivo sfinito, camminando osservavo ogni cosa. Era evidente che l'aria era prodotta da qualche macchina perché fuoriusciva in piccoli sbuffi da aperture circolari praticate nelle pareti. La luce diffusa veniva generata, chiaramente, con un sistema che si basava sul fluoro, secondo quel procedimento che aveva attirato l'attenzione degli ingegneri europei dato che poteva sostituire filamento e lampadina. Splendeva da lunghi cilindri di vetro trasparente fissati alle cornici dei corridoi. Ciò è quanto vidi fino al momento in cui la nostra discesa si arrestò e fummo introdotti in un vasto salone coperto di pesanti tappeti ed elegantemente arredato con seggiole dorate e divani inclinati che facevano affiorare vaghi ricordi di tombe egizie. La folla si era allontanata, e con noi rimase soltanto l'uomo con la barba in compagnia di due servi. «Manda», ripeté più volte indicando se stesso.
Quindi, additandoci ad uno ad uno, scandì le parole Maracot, Headiey e Scanlan, finché non riuscì a pronunciarle perfettamente. Poi ci fece cenno di sederci, e mormorò qualcosa ad uno dei servi che si allontanò subito ritornando poco dopo insieme a quello che sembrava un attempato gentiluomo dai capelli bianchi e la lunga barba, con un bizzarro copricapo conico di tessuto nero. Non rammento se ti ho detto che quella gente vestiva tuniche variopinte, lunghe fino alle ginocchia, e che calzava alti stivali di pelli di pesce o zigrino. Questo personaggio doveva essere evidentemente un medico, perché ci esaminò attentamente uno per volta, appoggiando una mano sulle nostri fronti e chiudendo gli occhi come se stesse captando una qualche impressione mentale sulle nostre condizioni di salute. Apparentemente non fu per nulla soddisfatto, perché scosse la testa, dicendo parole gravi a Manda. Quest'ultimo mandò via di nuovo il servo, che tornò quasi subito con un vassoio di cibo e una fiasca di vino che erano stati preparati per noi in precedenza. Troppo stanchi per domandarci chi fosse quella gente, pensammo che, per il momento, la cosa migliore fosse mangiare. Più tardi fummo condotti in un'altra stanza, dove erano pronti tre letti: mi distesi immediatamente su uno di questi. Ho solo un vago ricordo di Bill Scanlan che si trascinava stancamente e si stendeva «Quel sorso di brandy mi ha salvato la vita», disse «Ma dove ci troviamo?» «Non ne so più di voi.» «Bene, sono pronto per la nanna», esclamò con voce sonnolenta, girandosi nel letto «Sapete? Quel vino era ottimo. Ringrazia…» Furono le ultime parole che udii, perché sprofondai nel sonno. In visita ad Atlantide Al mio risveglio non riuscii subito a capire dove mi trovavo. Gli eventi del giorno prima mi sembravano un incubo indistinto e non riuscivo a credere che fossero realmente accaduti. Smarrito, guardavo la grande stanza spoglia, priva di finestre, dalle pareti grigie, osservavo le linee di luce tremolante, color porpora, che correvano lungo le pareti, i mobili che arredavano la camera e, infine, posai gli occhi
sui due letti, da uno dei quali proveniva un sonoro, stridulo russare che già a bordo dello Stratford avevo imparato ad associare a Maracot. Mi pareva troppo grottesco per essere vero e, soltanto quando toccai con le dita la coperta tessuta con una strana stoffa, forse fibra essiccata di qualche pianta marina, riuscii a realizzare l'inconcepibile, meravigliosa avventura che ci era capitata. Stavo ancora riflettendoci su, quando udii una fragorosa risata: Bill Scanlan si era messo a sedere sul letto e mi guardava. «Buongiorno, amico!», gridò, quando vide che ero sveglio, e continuò a ridere. «Mi sembrate di buon umore», gli risposi alquanto stizzito. «Non vedo che cosa ci sia da ridere.» «Anch'io ero di malumore appena svegliato», mi disse di rimando, «poi mi è venuta un'idea che mi ha fatto ridere.» «Vorrei ridere anch'io: di che si tratta?», gli chiesi. «Bene, vecchio mio, ho pensato quanto sarebbe stato comico se ci fossimo legati tutti e tre allo scandaglio dello Stratford dato che, con quegli armamentari di vetro, avremmo potuto respirare benissimo: figuratevi il vecchio Hovvie quando avesse visto tutta la nostra banda risalire alla superficie. Avrebbe pensato di averci preso all'amo! Perdinci che storia!» Le nostre risate svegliarono il professore, che si tirò su a sedere sul letto con la stessa espressione stupita che avevo io poco prima. Dimenticai i nostri guai, ascoltando divertito i suoi commenti contraddittori: da un lato era felice alla prospettiva di un tale campo di nuovi studi, dall'altro era amaramente dispiaciuto all'idea di non poter riferire i risultati della sua impresa ai suoi confratelli scienziati sulla terraferma. Finalmente, tornò ai problemi del momento. «Sono le nove», disse guardando il suo orologio da tasca. I nostri orologi segnavano tutti la stessa ora, ma era impossibile capire se fosse giorno o notte.. «Dobbiamo tenere un calendario», continuò Maracot, «ci siamo immersi il 3 ottobre, e abbiamo raggiunto questo posto la sera dello stesso giorno. Quanto abbiamo dormito?». «Senz'altro per un mese filato!», disse Scanlan; «non ho dormito tanto da quella volta che Mickey Scott mi ha costretto a far lo dopo sei turni in fabbrica.»
Dopo esserci lavati e vestiti secondo le regole del vivere civile notammo che la porta era stata chiusa, ed era chiaro che per il momento dovevamo considerarci prigionieri. Nonostante l'apparente mancanza di ventilazione, l'atmosfera si manteneva perfettamente pura, e scoprimmo che questo era possibile grazie ad una corrente d’aria che entrava da alcuni piccoli fori praticati nelle pareti. E doveva anche esserci una specie di riscaldamento centrale perché, malgrado non fosse visibile alcuna stufa, la temperatura si manteneva piacevolmente calda. Osservai una manopola su una delle pareti, una specie di pulsante e lo premetti. Come sospettavo, era un campanello, perché la porta si aprì istantaneamente, e un piccolo uomo bruno, vestito di una tunica gialla, apparve nell'apertura. Ci guardava con aria interrogativa, con occhi castani, grandi e gentili «Abbiamo una certa fame», disse Maracot, «puoi portarci del cibo?» L'uomo scosse la testa e sorrise. Era evidente che le nostre parole gli erano totalmente incomprensibili. Scanlan provò a parlargli in slang americano, ma ricevette lo stesso sorriso vuoto. Ma, quando aprii la bocca e feci il gesto d'introdurvi le dita, il nostro ospite annuì vigorosamente allontanandosi in fretta. Dieci minuti dopo la porta si aprì di nuovo, e apparvero due servitori in giallo che spingevano un tavolino scorrevole. Ci fossimo trovati al Baltimore Hotel, non avremmo ricevuto un trattamento migliore. Davanti a noi erano sistemati, in bell'ordine, caffè, latte caldo, panini, una deliziosa sogliola e miele. Per una buona mezz'ora fummo troppo occupati a mangiare, per domandarci da dove proveniva quel cibo o come se l'erano procurato Quando finimmo ricomparvero i due servitori: spinsero fuori il tavolino e richiusero accuratamente la porta alle loro spalle. «Sto diventando nero e blu a forza di pizzicarmi», disse Scanlan. «E un sogno o realtà? Eh, professore, visto che ci avete portato quaggiù, penso sia compito vostro spiegarci almeno che ve ne sembra.» Il professore scosse la testa. «Anche a me tutto questo sembra un sogno: ma che sogno! Che storia per il mondo, se soltanto potessimo raccontarla!» «Una cosa è sicura», aggiunsi io. «C'era senz'altro qualcosa di vero nell'antica leggenda di Atlantide, e parte di quel popolo, min qualche modo
straordinario, deve essere riuscito a cavarsela e a sopravvivere.» «D'accordo, se la sono cavata», se ne uscì fuori ad alta voce Bill Scanlan, grattandosi la testa a forma di proiettile, «ma che sia dannato se riesco a capire come fanno ad avere l'aria, l'acqua fresca e tutto il resto! Forse, se quel bel tipo con la barba che abbiamo visto questa notte torna a squadrarci da capo a piedi, potrà anche spiegarci questa faccenda.» «E come potrebbe se non parliamo la stessa lingua?» «Bene», disse Maracot, «cercheremo di servirci di quel che abbiamo osservato. Una cosa, almeno, l'ho capita: l'ho dedotta dal miele che abbiamo mangiato questa mattina a colazione. Era senza dubbio miele sintetico, lo stesso che da tempo abbiamo imparato a produrre sulla Terra. E se riescono a produrre miele sintetico, perché non caffè o farina? Le molecole degli elementi sono come mattoni sparsi tutt'intorno a noi: dobbiamo semplicemente imparare come usare certi mattoni a volte uno solo per ottenere una determinata sostanza. Lo zucchero diventa amido, e tutti e due alcool, a seconda di come spostiamo i mattoni. E cosa può spostarli? Il calore. L’elettricità. O forse altre forze che noi non conosciamo. Alcune di queste energie trasformano addirittura se stesse: e il radio diventa piombo o l'uranio si trasforma in radio, senza che noi interveniamo minimamente.» «Pensate dunque che sfruttino una chimica avanzata?» «Ne sono certo! Dopotutto, non c'è "mattone" elementare che non sia a loro disposizione. Possono ottenere facilmente idrogeno e ossigeno dall'acqua di mare: la grandissima quantità di vegetazione marina è anche un deposito di azoto e carbonio, e i sedimenti abissali costituiscono una grande riserva di calcio e fosforo. Con la perizia dovuta e un'adeguata conoscenza, cosa c'è che - non potrebbero produrre?» Il professore aveva pranzato allietandoci con questa dissertazione chimica, quando la porta si aprì ed entrò Manda, rivolgendoci un saluto amichevole. Lo accompagnava lo stesso vecchio d'aspetto venerando che avevamo incontrato la notte precedente. Doveva godere fama d'essere un dotto, perché tentò di rivolgerci diverse frasi probabilmente in lingue diverse, che per noi risultarono tutte egualmente incomprensibili. Allora si strinse nelle spalle e si rivolse a Manda, che diede un ordine ai due servi vestiti di giallo poi si mise ad aspettare accanto alla porta.
I servi scomparvero ritornando quasi subito con un singolare schermo sostenuto da due pilastrini per lato. Era identico ad uno dei nostri schermi cinematografici, ma splendeva e brillava nella luce. Lo sistemarono contro una delle pareti, quindi il vecchio misurò accuratamente con i passi una certa distanza e la segno sul pavimento. Rimanendo dove si trovava, si voltò verso Maracot e gli toccò la fronte, indicando lo schermo. «Completamente matto», disse Scanlan. «Non ha le rotelle a posto.» Maracot scosse la testa per dimostrare che eravamo imbarazzati. Lo stesso fece il vecchio. Poi, evidentemente, gli venne un'idea e indicò se stesso; si girò verso lo schermo, fissandolo con gli occhi, e concentrandosi profondamente. Quasi immediatamente la sua immagine apparve sullo schermo davanti a noi; allora indicò noi stessi e, un attimo dopo, il nostro piccolo gruppo sostituiva la sua immagine sullo schermo. L'immagine non corrispondeva esattamente alle nostre sembianze: Scanlan sembrava un cinese e Maracot una specie di mummia, tuttavia l'intenzione dell'operatore era di riprodurci così come apparivamo ai suoi occhi. «E un'immagine mentale!», gridai. «Esattamente», disse Maracot. «Questa è senza dubbio l'invenzione più meravigliosa che abbia mai visto, ed è una combinazione di telepatia e televisione, che a stento comprendiamo sulla terra.» «Non avrei mai creduto di vivere tanto da vedermi al cinema ammesso che sia io quella faccia di formaggio da cinese», disse Scanlan. «Ehi, se potessi far avere queste notizie all'editore del Ledger, tirerebbe fuori tanti di quei soldi che vivrei tranquillo per sempre. Faremmo la nostra fortuna se potessimo salvarci.» «Questo è il guaio», dissi. «Per Giove, metteremmo in subbuglio il mondo intero se soltanto potessimo tornarvi. Ma chi sta chiamando a cenni?» «Il vecchio mago vi vuole perché gli diate una mano, professore.» Maracot occupò il posto del vecchio, e il suo forte, acuto cervello, mise a fuoco l'immagine alla perfezione. Vedevamo Manda e poi un'altra immagine dello Stratford quando lo avevamo lasciato. Sia Manda che l'anziano scienziato annuirono, approvando alla vista della nave, e Manda ci fece un rapido gesto con le mani indicando dapprima noi e poi lo schermo.
«Vogliono che gli raccontiamo ogni cosa: questa sì che è un'idea!», gridai. «Vogliono sapere, attraverso le immagini, chi siamo e come siamo finiti quaggiù.» Maracot annuì a Manda per mostrargli che aveva capito e aveva cominciato a proiettare un'immagine del nostro viaggio, quando Manda alzò una mano e lo fermò. Ad un suo ordine, i servi rimossero lo schermo e i due Atlantidi ci fecero capire a gesti di seguirli. Era un palazzo enorme, e camminammo corridoio dopo corridoio finché giungemmo finalmente in un grande salone con i sedili disposti in file come in un'aula universitaria. Da un lato c'era un ampio schermo come quello che avevamo già visto; davanti ad esso si assiepava una folla di almeno mille persone che emise un mormorio di benvenuto al nostro ingresso. La folla era composta da persone di entrambi i sessi e di tutte le età, uomini bruni con la barba e giovani donne belle e dignitose. Ma ci fu possibile osservarli solo un attimo perché ci fecero accomodare subito in prima fila; Maracot si sistemò in un podio di fronte allo schermo, le luci vennero abbassate, e gli diedero il segnale d'incominciare. Devo dire che il professore fece egregiamente la sua parte. Dapprima vedemmo la nostra nave uscire dal Tamigi e un fremito di eccitazione percorse la folla in attesa, alla vista di uno scorcio d'una città moderna; quindi, sullo schermo, apparve una mappa, con segnata una rotta. Fu poi la volta del batiscafo con il suo equipaggiamento, cosa che strappò alla folla un mormorio di sorpresa. In seguito ci vedemmo immergerci e raggiungere il ciglio dell'abisso . Allora apparve l'immagine del mostro che era stato la causa del nostro disastro: «Marax! Marax!», gridò la folla, alla vista dell'animale. Era evidente che lo conoscevano e lo temevano. Scese uno spaventoso silenzio quando la creatura cominciò a tastare goffamente il cavo di aggancio del batiscafo, e un gemito di orrore quando i cavi si spezzarono e precipitammo nell'abisso. In un mese di tentativi e di spiegazioni, non avremmo raggiunto il nostro scopo con tanta chiarezza come in quella mezz'ora davanti allo schermo. Quando quella specie di film ebbe termine, ci espressero in ogni maniera la loro simpatia, affollandosi intorno a noi e battendoci le spalle per farci capire che eravamo i benvenuti.
Fummo presentati ad alcuni dei capi, ma quello che doveva essere il più alto in grado, benché apparisse della stessa estrazione sociale e vestisse come gli altri, se ne stava pensoso per conto suo. Gli uomini indossavano tuniche color zafferano, lunghe fino ai ginocchi, e portavano cinture e alte calzature di un duro materiale squamoso che doveva essere la pelle di qualche creatura marina. Le donne erano bellissime, drappeggiate in foggia classica, con abiti lunghi e sciolti di tutti i colori: rosa, celeste, verde, ornati di perle e di lamine opalescenti di conchiglie. Molte di loro erano adorabili a paragone delle donne sulla terra Ce n'era una. . . ma è giusto raccontare i miei sentimenti più intimi in uno scritto che sarà di pubblico dominio? Ti dirò soltanto caro Talbot, che Mona è figlia di Scarpa, uno dei capi di questa gente, e che dal primo giorno del nostro incontro, ho letto nei suoi occhi scuri un'espressione di simpatia e di comprensione che mi ha toccato il cuore, perché la mia gratitudine e ammirazione vanno a lei sola. Ma non è il caso, per ora, di dire di più su questa squisita fanciulla. Basti dire che un sentimento nuovo e forte era entrato nella mia vita. Quando scorsi Maracot che involontariamente gesticolava in compagnia di una donna graziosa, mentre Scanlan aveva inscenato una pantomina per dimostrare convenientemente la sua ammirazione ad un gruppo di ragazze sorridenti, mi resi conto che anche i miei compagni avevano scoperto il rovescio della medaglia della nostra situazione. Se eravamo morti per il mondo, avevamo peraltro trovato una nuova vita quaggiù, che compensava in parte quello che avevamo perduto. Più tardi, Manda e altri amici ci fecero visitare nuovi quartieri dell'immenso palazzo. Si era talmente incassato nel fondo del mare, con il trascorrere dei secoli, che era possibile entrarvi soltanto dal tetto, e da quest'ultimo diversi corridoi e passaggi conducevano sempre più in basso, fino a raggiungere il pianoterra vero e proprio, che distava ormai dal tetto parecchie centinaia di metri . Qui il pavimento era stato scavato in più punti, e vedemmo diversi passaggi che si irradiavano in tutte le direzioni, conducendo nelle viscere della terra. Ci fecero visitare anche i macchinari che producevano l'aria e le pompe che la immettevano nell'intero edificio. Maracot sottolineò con meraviglia e ammirazione che non solo miscelavano l'azoto con l'ossigeno, ma che
congegni più pericolosi producevano altri gas che dovevano essere argo, neon, e componenti minori dell'atmosfera, che soltanto da poco cominciavamo a conoscere. Altro oggetto di grande interesse erano gli apparecchi che distillavano l'acqua, rendendola potabile, e le enormi installazioni elettriche; e tuttavia, nell'intrico e nel dedalo dei macchinari, ci riusciva difficile discernere i dettagli. Ma posso assicurare che vidi con i miei occhi e, saggiai di persona, sostanze chimiche gassose e liquide che venivano versate nelle varie macchine e qui, trattate con il calore, la pressione e l'elettricità, si trasformavano in farina, tè, caffè o vino deliziosi. Un’altra considerazione che avemmo occasione di fare, dopo aver visitato in più occasioni il palazzo che in gran parte non ci era precluso, fu che lo sprofondamento nel mare doveva esser stato previsto, e che la difesa e la protezione dall'irrompere delle acque erano state approntate molto prima che la terraferma s'inabissasse nelle onde. Naturalmente era logico supporre che tali precauzioni fossero state prese prima di quel terribile avvenimento, ma ormai avevamo la precisa sensazione che l'intero, gigantesco edificio fosse stato costruito e progettato con il preciso scopo di diventare una sorta di arca di salvezza. Le grandi storte, gli apparecchi distillatori e gli altri macchinari che producevano aria, cibo, acqua e quant'altro potesse occorrere, erano incassati nei muri e facevano parte integrante, evidentemente, dell'edificio originale, così come i laboratori dove venivano fabbricate le campane di vetro, e la gigantesca pompa dell'acqua. Ognuno di quegli apparecchi era stato progettato e costruito con abilità e preveggenza da quel popolo straordinario che, a quanto avevamo capito, si era diretto fino al momento del disastro in due direzioni: l'America Centrale e l'Egitto, lasciando tracce della sua presenza anche in queste terre, quando quella d'origine s'inabissò nell'Atlantico. Questa gente cioè i discendenti di coloro che non avevano abbandonato Atlantide erano naturalmente decaduti rispetto agli antenati, e alla fine il progresso si era fermato, ristagnando, ed essi si erano limitati a conservare solo alcune delle conquiste scientifiche e intellettuali dei loro avi, ma senza aver la forza e l'energia di farle progredire. Disponevano di potenzialità meravigliose eppure, stranamente, non erano stati in grado di evolversi ulteriormente e non avevano aggiunto nulla alla straordinaria eredità del passato.
Sono certo che Maracot, disponendo di tali conoscenze, avrebbe conseguito ben presto nuovi, grandi risultati; riguardo a Bill Scanlan, con la mente pronta e l'abilità tecnica che gli erano caratteristiche, trafficava in continuazione ai macchinari, e le migliorie che vi apportava dovevano sembrare a quelle gente meravigliose quanto i loro congegni lo erano stati ai nostri occhi. Quando ci eravamo immersi, aveva portato con sé l'amatissima armonica a bocca, che era divenuta una gioia continua per i nostri nuovi amici che gli sedevano intorno in gruppetto estasiati, come faremmo noi ascoltando Mozart, mentre Bill suonava le canzoni dei negri d'America. Ho già detto che non potevamo visitare tutto l'edificio e voglio aggiungere qualche chiarimento su questo punto. C'era un corridoio in pendenza, consunto dall'uso, sul quale vedevamo passare in continuazione la gente, e tuttavia le nostre guide lo evitavano sempre durante le nostre visite ai piani del palazzo. Questo fatto aveva destato naturalmente la nostra curiosità, e una sera decidemmo di correre il rischio di farvi una capatina esplorativa per conto nostro. Perciò dormimmo fuori della nostra stanza, e ci dirigemmo alla volta del quartiere sconosciuto quando c'era poca gente in giro . Il corridoio ci condusse ad un'altra porta ad arco, che sembrava fatta d'oro massiccio. Dopo averla aperta, ci trovammo in una stanza enorme che formava un quadrato lungo non meno di settanta metri per lato. Tutt'intorno, le pareti erano dipinte di vividi colori e abbellite di pitture stupende e di statue di creature grottesche con giganteschi copricapi, simili alle insegne regali degli Indiani d'America. All'estremità della grande sala c'era una colossale figura seduta, con le gambe incrociate come un Buddha, ma del tutto priva di quell'aspetto benevolo che traspare dalle placide fattezze di Buddha. Al contrario, questa era una figlia dell'Ira con la bocca spalancata e gli occhi feroci: questi ultimi erano rossi, e il loro effetto era sottolineato da due luci elettriche che splendevano attraverso di essi. Nel suo grembo era stato ricavato un grande forno che, avvicinandoci, scoprimmo esser colmo di ceneri. «Moloch!», disse Maracot. «Moloch o Baal. . . l'antica divinità dei Fenici.» «Buon Dio», gridai ricordando vaghe reminiscenze della vecchia
Cartagine. «Non ditemi che questo popolo gentile si dedica a sacrifici umani!» «Ehi, dite un po' !», esclamò Scanlan, ansiosamente. «Spero che li facciano in famiglia, se proprio devono. Non vorranno infilarci là dentro per una riverniciatina a caldo» «No, penso che abbiano imparato la lezione», gli risposi. «È la propria cattiva sorte che insegna a un popolo ad avere pietà degli altri.» «Avete ragione», disse Maracot frugando tra le ceneri, «è il vecchio dio dei loro avi, ma senz'altro il suo culto non è più sanguinario. Queste sembrano ceneri di pane bruciato. Ma forse ci fu un tempo...» Le nostre supposizioni furono interrotte da una voce dura vicina a noi, e scoprimmo diversi uomini in abiti gialli e con alti cappelli che erano evidentemente i Sacerdoti del Tempio. Dall'espressione dei loro volti avrei detto che eravamo prossimi a diventare le ultime vittime sacrificali per Baal, e uno di loro in quel momento estrasse un coltello dalla cintura. Con grida e gesti selvaggi ci spinsero immediatamente fuori dal loro sacro altare «Perdinci!», urlò Scanlan. «Se non mi levano le mani di dosso, li pesto! Ehi tu, rompiscatole, tira via le mani dalla mia giacca!» Per un momento temetti che sarebbe scoppiata quella che Scanlan chiamava «una rissa a botte-da-orbi», dentro il sacro recinto. Fortunatamente riuscimmo ad allontanare Bill senza che volassero colpi, e riguadagnammo il rifugio della nostra stanza: avevamo capito che la nostra scappatella era stata risaputa e disapprovata. Tuttavia c'era un altro tempio che ci fecero visitare liberamente, cosa che ebbe l'inaspettata conseguenza di schiudere un rozzo e imperfetto metodo per comunicare e parlarci. Questo secondo tempietto era sito ad un piano più basso del primo ed era una stanza semplice, priva di ornamenti o di particolari decorazioni, ad eccezione di una antica statua d'avorio collocata ad un'estremità, che raffigurava una donna che impugnava una lancia, con una civetta appollaiata sulla spalla. Un uomo molto anziano era il custode della stanza e, nonostante la sua età, era chiaro che apparteneva ad un'altra razza più forte, più bella. Mentre Maracot ed io stavamo osservando la statua d'avorio, chiedendoci dove mai ne avessimo visto un'altra simile, il vecchio si rivolse a noi additando la statua e disse: «Thea».
«Per Giove!», esclamai. «Parla in greco!» «Thea Athena!», ripeté l'uomo. Non c'erano dubbi: «La dea... Atena». Quelle parole erano inequivocabilmente greco antico. Maracot, la cui mente prodigiosa aveva assimilato la conoscenza da ogni branca dello scibile umano, cominciò subito ad interrogare il vecchio, ponendogli domande in greco classico, domande che venivano comprese solo in parte, mentre le risposte venivano date in un dialetto talmente antico da risultare quasi inintelligibile. Tuttavia, almeno in parte, riuscivano a capirsi; in tal modo Maracot aveva trovato una specie di interprete con il cui aiuto poteva in qualche modo comunicare con i nostri salvatori. «È una prova importante», disse Maracot quella sera con la sua voce stentorea e con il tono di chi si rivolge a una classe di studenti, «dell'attendibilità delle leggende. C'è sempre un fondamento di verità in ogni leggenda anche se, con il trascorrere degli anni, questa viene distorta. Forse sapete o probabilmente non sapete («Scommettiamo!», giunse da Scanlan) che, al tempo della distruzione della grande isola, c'era una guerra in corso tra i Greci primitivi e gli Atlantidi. Il fatto è menzionato da Solone, nella descrizione di quel che apprese dai Sacerdoti di Sais. Possiamo immaginare che ci fossero dei Greci prigionieri degli Atlantidi, che alcuni di loro prestassero servizio al Tempio e che, naturalmente, abbiano portato con sé la propria religione quando sopravvenne il disastro che fece inabissare l'isola. Il vecchio che abbiamo incontrato oggi, da quanto ho capito, è l'attuale sacerdote del culto greco e forse quando ne sapremo di più, apprenderemo qualcosa di nuovo su quell'antico popolo.» «Se lo tengano pure il loro idolo», disse Scanlan. «Immagino che, se volete un buon calco in gesso, sia meglio quello di una bella donna che non quello di quel chiacchierone con gli occhi rossi e la carbonaia sulle ginocchia!» «Per fortuna non possono sentirvi», risposi. «Altrimenti fareste la fine di un martire cristiano.» «No, finché posso suonare loro un po' di jazz», fece di rimando Bill. «Ormai hanno bisogno di me: non possono farne a meno.» Era gente allegra, e la nostra vita scorreva piacevolmente, ma c'erano ci sono momenti in cui il cuore tornava alla patria che avevamo perduto, e io
avevo sempre davanti agli occhi i cari, vecchi cortili di Oxford, o gli olmi secolari del campus di Harvard. In quei primi giorni mi sembravano tanto lontani quanto può esserlo un paesaggio lunare, e soltanto adesso, in modo oscuro e incerto, sento rinascere in me la speranza di poterli rivedere. 4Un'escursione sul fondo dell'oceano Pochi giorni dopo il nostro arrivo, i nostri ospiti o «custodi» eravamo spesso in dubbio su come chiamarli ci invitarono ad un'escursione sul fondo dell'oceano. Sei di loro, incluso Manda, ci accompagnarono. Ci riunimmo nella stanza di uscita in cui eravamo stati accolti da principio, che ora eravamo in condizioni di esaminare un po' più da vicino. Era un luogo molto grande, lungo almeno 30 metri per lato, con basse pareti, verdi per la vegetazione marina che vi era cresciuta, e macchiate d'umidità. Tutt'intorno alla stanza correva una lunga fila di pioli, con dei segni che presumo fossero numeri, e a ciascuno di essi era appesa una campana di vetro semitrasparente e un paio di cassette da spalla che garantivano la respirazione sott'acqua. Il pavimento era lastricato di pietre consumate sì da formare piccole cavità: i passi di molte generazioni, che creavano l'illusione di piccoli stagni d'acqua poco profonda. Anche questa sala era illuminata dai soliti tubi al fluoro che correvano lungo le cornici. Eravamo chiusi nei nostri rivestimenti di vetro e ci consegnarono un duro e appuntito bastone di un metallo luminoso. Poi, a gesti, Manda ci ordinò di afferrare una ringhiera che correva intorno alla stanza, mostrandoci con i suoi compagni come dovevamo fare. Comprendemmo subito il loro intento perché, mentre la porta si apriva lentamente, l'acqua del mare entrò scrosciando con tale violenza che ci avrebbe travolti senza questa precauzione . Crebbe rapidamente, fin sopra il livello delle nostre teste, eppure la pressione che sentivamo era lieve. Manda faceva strada verso l'uscita e, pochi istanti dopo, ci trovavamo un'altra volta sul fondo dell'oceano, lasciandoci alle spalle il portale aperto, pronto ad accoglierci al ritorno.
Guardandoci intorno, nella luce fredda e spettrale che brillava debolmente illuminando la distesa del fondo marino, potevamo spingere lo sguardo in ogni direzione per almeno mezzo chilometro. Quello che ci sorprese fu osservare, proprio al limite del campo di visibilità, un fascio di luce particolarmente luminoso. E Manda si diresse proprio a quella volta, mentre il nostro piccolo gruppo lo seguiva in fila indiana. Era un cammino faticoso, reso difficile dalla resistenza che opponeva l'acqua, e inoltre i piedi sprofondavano nella fanghiglia morbida; ma ben presto ci fu possibile distinguere chiaramente quella strana e forte luce. Era il nostro batiscafo, l'ultimo ricordo della nostra esistenza sulla terraferma, che giaceva inclinato su una delle cupole del grande edificio su cui si era adagiato; tutte le luci erano accese, e brillavano in quel crepuscolo. Per tre quarti era pieno d'acqua, ma la pressione dell'aria imprigionata aveva protetto quella parte dell'abitacolo in cui erano sistemate le installazioni elettriche. Fu uno spettacolo strano, guardarvi dentro e vedere l'interno familiare con i sedili e gli strumenti ancora al loro posto, mentre alcune creature marine nuotavano all'interno, come pesciolini in una bottiglia. Ci infilammo nel batiscafo, l'uno dopo l'altro: Maracot per recuperare un quaderno di appunti che fluttuava, Scanlan e io per raccogliere alcuni effetti personali. Anche Manda e uno o due dei suoi entrarono nel batiscafo, esaminando con il massimo interesse il profondimetro, il termometro e gli altri strumenti collocati sulle pareti. Più tardi, ci allontanammo portando alcuni strumenti con noi. Può essere di grande interesse scientifico sapere che la temperatura, nei più profondi abissi marini in cui mai l'uomo sia sceso, è di cinque gradi centigradi; la decomposizione chimica che avviene nella fanghiglia del fondo, determina valori di temperatura più elevati che non negli strati superiori del mare. La nostra piccola spedizione tuttavia aveva uno scopo definito, oltre che permetterci un po' di moto sul letto dell'oceano. Stavamo infatti andando a caccia di cibo. Di quando in quando vedevo i nostri compagni sferrare un colpo verso il basso con il loro bastone appuntito, infilzando ogni volta un grosso pesce, scuro e piatto, che non era un rombo, peraltro assai numeroso nei paraggi,
ma che si celava così perfettamente nel fango che bisognava aguzzare al massimo la vista per scorgerlo. Ben presto due o tre di questi pesci penzolarono dalle spalle di ciascuno degli uomini; Scanlan e io acquisimmo quasi subito una certa destrezza, e ne catturammo un paio a testa, mentre Maracot camminava come in sogno, del tutto perduto nel suo stupore dinanzi alle bellezze dell'oceano che si offrivano ai suoi occhi, e faceva al contempo interminabili discorsi che non potevamo udire, ma che intuivamo dall'espressione del suo viso. All'inizio, le grandi distese grigie dei fondali ci avevano fatto un'impressione di monotonia, ma presto scoprimmo una grande varietà di formazioni diverse, dovute alle correnti di profondità che vi scorrevano attraverso come torrenti sottomarini. Queste correnti avevano scavato canali nella melma soffice, e soprattutto, avevano messo in luce il fondo vero e proprio sotto la fanghiglia Quest'ultimo era costituito essenzialmente di argilla rossa, alla base di qualsivoglia formazione sul fondo del mare, ed era fittamente disseminato di oggetti bianchi che immaginai fossero conchiglie; tuttavia, quando le esaminammo da vicino, risultarono essere ossa di balene e denti di squalo o di qualche altro mostro marino. Uno di questi denti, che volli raccogliere, era lungo ben 40 centimetri, e tirammo un sospiro di sollievo sapendo che un tale mostro terrificante frequentava abitualmente gli strati più alti dell'oceano. Secondo Maracot, quel dente apparteneva, o meglio era appartenuto, ad un'orca assassina gigante o Orca Gladiator; questo fatto ci richiamò alla mente gli squali più terribili che egli aveva catturato, e che recavano sui loro corpi cicatrici tali da dimostrare inequivocabilmente che si erano scontrati con animali ancora più grandi e formidabili. C'era una particolarità del fondale oceanico che colpiva l'osservatore: come ho già avuto modo di dire, è quella luce fredda che emettono le grandi masse organiche, corrompendosi in una lenta e fosforescente putrescenza. Ma, al di sopra, l'oceano è nero come la notte. Ricorrendo a un paragone, quella luce ricordava un pallido giorno autunnale, con nere e spesse nubi temporalesche basse sulla terra. Da quella volta nera cadeva una lenta, incessante nevicata di minuscoli fiocchi bianchi, che brillavano sullo sfondo cupo: erano i gusci e le conchiglie delle chiocciole di mare e di altre piccole creature, che vivono e muoiono nei diecimila metri d'acqua tra il fondo e la superficie dell'oceano
e, benché parecchie di queste vengano dissolte dalla melma in cui si adagiano, molte altre, con il trascorrere dei secoli, formavano quei depositi che avevano sepolto la grande città nella cui parte più alta abitavamo attualmente. Spezzando ogni vincolo con la terra, ci eravamo spinti nelle tenebre del mondo sottomarino, e ben presto scoprimmo prospettive radicalmente nuove. Ci apparvero davanti figure in movimento e, come ci avvicinammo, ci accorgemmo che si trattava di una folla di uomini, ognuno nel suo rivestimento di vetro protettivo, che si trascinavano dietro larghe slitte riempite di carbone. Era un lavoro pesante, e i poveri diavoli chini e affaticati tiravano con fatica le funi di pelle di squalo che fungevano da guide. Un uomo, che sembrava il capo, comandava ogni piccolo gruppo e ci accorgemmo che sia gli operai che i capi erano evidentemente di razze diverse. I primi erano alti, con gli occhi azzurri e i corpi poderosi; gli altri, come ho già detto, erano di carnagione scura, con caratteri quasi negroidi e corpi tozzi e grossi. In quel momento non potevamo andare a fondo del problema: tuttavia ebbi l'impressione che una razza fosse schiava dell'altra, e Maracot era dell'opinione che dovevano essere i discendenti di quei Greci fatti prigionieri, la cui dea avevamo visto nel Tempio. Prima di giungere alla miniera incontrammo alcuni gruppi di schiavi, ciascuno che trascinava una slitta. Qui i depositi sottomarini e le formazioni di sabbia sottostanti erano stati rimossi, ed era stato portato alla luce un grande pozzo formato da vene alternate di argilla e carbone, strati che ricordavano ère precedenti che ora giacevano sul fondo dell'Atlantico. Ai vari livelli di questo scavo gigantesco, vedevamo uomini al lavoro: chi spaccava carbone, chi lo raccoglieva e lo sistemava in ceste, chi infine lo portava fino alla superficie del pozzo. La miniera era talmente grande che non riuscivamo a scorgere l'altra estremità di quel pozzo gigantesco, che generazioni di operai avevano scavato nel letto dell'oceano. In seguito il carbone, trasformato in energia elettrica, diventava la sorgente di quella forza motrice che faceva funzionare l'intero apparato di macchinari di Atlantide.
A proposito: è interessante ricordare che il nome dell'antica città era stato tramandato correttamente dalle leggende perché, quando lo pronunciammo per la prima volta davanti a Manda e agli altri, dapprima ci guardarono stupiti che lo conoscessimo, e quindi annuirono vigorosamente per dimostrarci che avevano capito. Attraversando il grande pozzo di carbone o meglio allontanandoci lungo una sua diramazione sulla destra giungemmo a una catena di basse falesie di basalto, dalle superfici chiare e scintillanti come il giorno in cui erano emerse dalle viscere della Terra; le loro cime, qualche centinaio di metri più in alto, si stagliavano indistinte sullo sfondo cupo. Le pendici di queste falesie vulcaniche erano coperte da una fitta giungla di alte alghe, che erano cresciute su dei giacimenti di corallo nati quando la Terra era giovane. Per un po' vagammo lungo il margine di quel sottobosco marino mentre i nostri amici lo frugavano con i loro bastoni facendone uscire un'incredibile quantità di strani pesci e di crostacei e, di quando in quando, ne catturavano un esemplare per cibo. Camminavamo da circa un'ora, distraendoci piacevolmente quando vidi Manda fermarsi improvvisamente e guardarsi intorno con allarme e sorpresa. Quei gesti in un certo senso costituivano un linguaggio, dato che i suoi compagni ne compresero subito il significato: il professor Maracot era scomparso. Alla miniera di carbone era sempre rimasto con noi, e poi ci aveva accompagnato fino alle falesie basaltiche . Era assurdo supporre che ci avesse oltrepassato, e dunque doveva trovarsi, evidentemente, in qualche punto della giungla d'alghe alle nostre spalle. Benché i nostri amici fossero preoccupati, Scanlan e io, che conoscevamo abbastanza le eccentricità e le distrazioni di quel brav'uomo, eravamo convinti che non ci fosse motivo di allarmarsi, e che lo avremmo trovato ben presto, magari in estasi davanti a qualche forma di vita marina che lo aveva affascinato. Perciò ritornammo sui nostri passi, e non avevamo percorso che un centinaio di metri, quando lo vedemmo. Stava correndo, con un'agilità del tutto insospettata in un uomo come lui. Anche il più scarso degli atleti, del resto, diventa un campione quando la paura fa novanta! Protendeva le mani in avanti, come per chiedere aiuto, inciampando e incespicando goffamente.
Aveva le sue buone ragioni per mettercela tutta, dato che tre orribili creature si stavano avvicinando pericolosamente ai suoi polpacci: erano granchi tigre, a strisce nere e bianche, ognuno grosso quanto un cane Terranova. Per sua fortuna, i granchi non erano viaggiatori veloci, dato che sgambettavano di sbieco sul fondo dell'oceano, a un'andatura leggermente più rapida dell'atterrito fuggiasco. D'altra parte avevano maggiore resistenza... e senza dubbio avrebbero chiuso le loro formidabili chele su di lui in pochi minuti, se non fossero intervenuti i nostri amici . Si lanciarono in avanti con le loro aste appuntite, e Manda accese una potente torcia elettrica che portava appesa alla cintura, davanti ai due orribili mostri, che si rifugiarono velocemente tra le alghe scomparendo alla vista. Maracot si sedette su un mucchio di corallo e il suo viso dimostrava che l'avventura appena conclusa l'aveva sfinito. .. Più tardi ci raccontò di essersi inoltrato nella giungla di alghe con la speranza di catturare quello che gli era sembrato un raro esemplare di Chimoera d'alto mare, e che era inciampato proprio nel nido dei feroci granchi tigre, i quali immediatamente si erano lanciati al suo inseguimento. Soltanto dopo una lunga sosta, fu in condizioni di riprendere il viaggio. Dopo aver costeggiato le falesie basaltiche, giungemmo alla meta successiva. La grigia pianura dinanzi a noi era coperta, in questo tratto, da alture irregolari e da basse sporgenze, che ci fecero capire che la grande e antica città si trovava lì sotto. Era stata completamente sepolta nel fango, come Ercolano dalla lava o Pompei dalla cenere; c'era poi un altro ingresso, in questa zona, che non era stato scavato dai superstiti del Tempio. Quest'entrata era formata da una lunga trincea in pendenza, che terminava in un'ampia strada con edifici su ciascun lato. Qua e là le mura dei palazzi erano sbrecciate o crollate, perché non erano costruzioni solide come quella che aveva protetto il Tempio, ma all’interno, nella maggior parte dei casi, erano rimaste esattamente come quando era sopravvenuta la catastrofe; con l'unica eccezione dei cambiamenti operati dal mare, che avevano modificato le stanze, a volte in maniera insolita e bellissima, in altri casi davvero orribile.
Le nostre guide non ci incoraggiarono ad esaminare i primi edifici che raggiungemmo, ma ci fecero fretta finché sbucammo davanti a quella che, senza dubbio, doveva esser stata la cittadella centrale o il palazzo attorno al quale gravitava l'intera città. I pilastri, le colonne, gli immensi cornicioni scolpiti, i fregi, le scale di quel palazzo superavano di gran lunga qualunque edificio avessi mai visto sulla Terra. A prima vista, mi ricordò le rovine del Tempio di Karnak, a Luxor e, singolare coincidenza, le decorazioni e le incisioni semicancellate assomigliavano moltissimo a quelle dei maestosi resti accanto al Nilo: perfino i capitelli delle colonne a forma di loto erano gli stessi. Era straordinario passeggiare sui pavimenti di marmo, decorati con mosaici a scacchiera, di quelle vaste sale ornate da statue imponenti che ci guardavano dall'alto delle pareti, e poter osservare, come osservammo quel giorno, grandi anguille d'argento che passavano serpeggiando sopra di noi, mentre miriadi di pesci, spaventati dalle nostre luci, fuggivano sciamando in ogni direzione. Ci spostavamo di stanza in stanza, studiando i resti di quella grandiosità e, occasionalmente di quella grandiosa stravaganza che, a quanto dicevano le antiche leggende, attirò l'ira e l'invidia degli dèi su quel popolo. Una piccola stanza, stupendamente smaltata di madreperla, brillò di vivide e variopinte opalescenze quando la luce delle nostre torce la illuminò. In un angolo c'era una piattaforma di metallo dorato su cui era stato collocato un letto dello stesso materiale: sembrava davvero la camera di una regina, ma sul letto c'era adesso un disgustoso calamaro nero e il suo corpo viscido si sollevava e si abbassava in un ritmo lento e furtivo, tanto da sembrare un cuore malvagio che ancora batteva al centro del palazzo perverso. Mi sentii quasi sollevato, e come me gli altri miei compagni, quando le nostre guide ci condussero di nuovo all'aperto, ma avemmo modo di dare ugualmente un'occhiata ad un anfiteatro in rovina e ad un frangiflutti alla cui estremità sorgeva un faro, il che dimostrava come la città fosse stata ai suoi tempi un porto. Ben presto lasciammo quei luoghi di sinistri presagi e ci trovammo un'altra volta sulla familiare pianura abissale. Ma le nostre avventure non erano finite, perché ce ne occorse un'altra, che allarmò tanto i nostri amici quanto noi stessi.
Stavamo tornando sui nostri passi, verso casa, quando uno dei capi indicò verso l'alto con allarme. Guardando in quella direzione, uno spettacolo straordinario si offrì ai nostri occhi. Dalla nera oscurità delle acque soprastanti, emergeva una figura cupa ed enorme che puntava in basso a gran velocità. Dapprima ci sembrò una massa informe, ma quando si avvicinò maggiormente, potemmo distinguere chiaramente il corpo senza vita di un pesce mostruoso, squarciato in modo tale che le interiora fluttuavano dietro di lui mentre affondava. Senza dubbio i gas interni lo avevano sostenuto a galla negli strati più alti dell'oceano finché, fuoriusciti in seguito alla decomposizione o agli attacchi degli squali, il peso lo aveva fatto precipitare verso il fondo del mare. A dire il vero, durante l'escursione sottomarina, avevamo già visto parecchi grandi scheletri spolpati dai pesci, ma quest'animale salvo lo squarcio del ventre era intatto. I nostri compagni ci afferrarono in fretta, con l'intenzione di spostarci dalla traiettoria del grande pesce che cadeva, ma si rassicurarono quasi subito vedendo che non ci avrebbe neanche sfiorato. Gli elmetti di vetro ci impedirono di udire il tonfo, che pure dovette essere prodigioso, quando il corpo smisurato si abbatté sul fondo dell'oceano, ma vedemmo la melma schizzare lontano, come fango colpito da una pesante pietra. Era un capodoglio, lungo circa 22 metri e, dalle espressioni concitate e felici di quella gente sottomarina, compresi che si sarebbero copiosamente serviti del grasso del cetaceo. Tuttavia, per il momento, abbandonammo la carcassa e, poco dopo, eravamo di nuovo davanti al portale d'ingresso, con nostra grande soddisfazione, dato che eravamo stanchi morti non essendo abituati alle escursioni sul fondo del mare. Alla fine, spogliati delle nostre campane di vetro, ci ritrovammo sani e salvi sul pavimento bagnato della camera stagna. Alcuni giorni dopo la seduta cinematografica in cui avevamo raccontato alla comunità le nostre peripezie per immagini, fummo invitati ad uno spettacolo dello stesso tipo, ma molto più maestoso e solenne, che in modo chiaro e meraviglioso ci mise al corrente della storia di quel popolo straordinario.
Non m'illusi che quello spettacolo fosse stato approntato unicamente a nostro beneficio, essendo piuttosto propenso a credere che quegli avvenimenti venissero ricordati pubblicamente, di quando in quando, per conservare vivo il senso della tradizione, e che la parte di storia cui ci fecero assistere fosse soltanto un intermezzo di una lunga e complessa cerimonia religiosa. Ma, comunque sia, voglio descriverti esattamente quanto accadde. Ci fecero accomodare un'altra volta nella grande sala dove il professor Maracot aveva proiettato le nostre avventura sullo schermo. Vi era radunata l'intera comunità, e noi prendemmo posto sul podio d'onore giusto davanti al grande schermo luminoso. In seguito, dopo un lungo canto che doveva essere una sorta di inno patriottico, un uomo anziano dai capelli bianchi lo storico o il cronista di quel popolo si fece strada tra il pubblico acclamante verso il punto focale di fronte allo schermo, sul quale iniziò a proiettare le vivide immagini dell'ascesa e della decadenza della sua gente. Vorrei riuscire a comunicarti la drammaticità e l'immediatezza di quelle scene. Maracot, Scanlan e io perdemmo completamente il senso del tempo e dello spazio, del tutto assorbiti da quello spettacolo, mentre il pubblico, profondamente commosso, gemeva e versava lacrime alla rievocazione della tragedia che descriveva la rovina della terra natale e la distruzione della stirpe d'Atlantide. Le prime immagini descrivevano l'antico continente nel suo splendore e nella sua gloria, così come la loro memoria era stata tramandata nei secoli di padre in figlio. Quasi vedessimo con gli occhi di un uccello, sotto di noi si stendeva una stupenda campagna ondulata, sconfinata e diligentemente irrigata, con grandi campi di grano, frutteti ondeggianti, deliziosi ruscelli e colline boscose, punteggiata di laghi e di alture pittoresche. Questo ubertoso paesaggio era disseminato di villaggi, fattorie e bellissime case signorili. Quindi la scena si spostò sulla capitale, Atlantide, una città sul mare, meravigliosa e fastosa, con il porto affollato di galee, i moli stipati di mercanzie; la difesa e la protezione della città erano assicurate da alte mura con bastioni turriti e cinte di fossati, il tutto costruito in scala gigantesca.
Le vie e le case si estendevano nell'entroterra per molte miglia e, nel centro della città, sorgeva un castello merlato o cittadella, così imponente e maestoso da sembrare un edificio di sogno. Poi le immagini sullo schermo luminoso ci mostrarono i volti di coloro che erano vissuti in quell'età dorata, vecchi saggi e venerandi, virili guerrieri, santi sacerdoti, donne belle e dignitose, bambini adorabili: una vera apoteosi della razza umana. Ma, subito dopo, la scena cambiò completamente: vedemmo immagini di guerra, sulla terra e sul mare. Vedemmo razze nude e indifese calpestate e disprezzate nel corso di scorrerie di uomini armati a cavallo e con grandi carri da combattimento; vedemmo i tesori accumulati dai vincitori. Ma, più le ricchezze aumentavano, più i visi sullo schermo si facevano animaleschi e crudeli. Decadevano di generazione in generazione. Ci furono mostrati i segni di dissolutezza lussuriosa e di degenerazione morale che indicavano il prevalere della materia sullo spirito. Sport brutali, sempre a spese degli altri, avevano sostituito i virili esercizi di un tempo. Non esisteva più la tranquilla e semplice vita in famiglia, né l’amore per le arti e la cultura: vedevamo, al contrario, l'immagine di un popolo scontento e superficiale, che si trascinava da un passatempo all'altro, in cerca di nuovi piaceri, subito messi da parte, per trovarne altri sempre più innaturali e perversi. Col tempo si vennero formando due classi sociali: l'una, ricchissima, guardava esclusivamente al soddisfacimento dei sensi; l'altra, poverissima, aveva la sola funzione di sottostare ai capricci dei padroni, per quanto malvagi potessero essere. Ancora una volta, la scena sullo schermo cambiò. Apparvero riformatori che lottavano disperatamente per strappare la nazione a quella perversa decadenza e per indirizzarla nuovamente verso gli alti modelli di vita del passato, che erano stati dimenticati. Vedemmo quegli uomini gravi discutere e difendere la propria causa con il popolo; ma furono disprezzati e scherniti proprio da coloro che cercavano di salvare. E i loro più feroci oppositori furono soprattutto i Sacerdoti di Baal, i quali avevano gradualmente permesso forme, spettacoli e cerimonie di culto che avevano preso il posto dell'antica spiritualità, evoluta e altruista.
Ma i riformatori non si lasciarono spaventare né intimidire; continuarono a lottare per la salvezza del popolo, e i loro volti assunsero un'espressione ancora più grave e che quasi ispirava paura, come di uomini che dessero un terribile avvertimento, quasi l'eco di una visione spaventosa al di là dello loro stesse menti. Parte di coloro che ascoltavano sembravano dar loro retta e spaventarsi a quelle parole; ma la maggioranza voltò loro le spalle ridendo e sprofondando sempre più nel pantano del vizio. Venne infine il tempo in cui i riformatori abbandonarono la lotta, come uomini che non potessero far più nulla, lasciando il popolo degenerato al suo destino. Quindi assistemmo a una scena stupefacente. Uno dei riformatori, uomo di grande forza fisica e mentale, guidava tutti gli altri. Aveva ricchezza, influenza e poteri che non sembravano appartenere del tutto a quel mondo. In una sorta di trance lo vedemmo comunicare con degli Spiriti Superiori; e fu lui ad insegnare al suo popolo tutta la scienza scienza che superò in splendore ogni nostra moderna conquista che permise la costruzione di un’arca o rifugio contro la catastrofe imminente. Ci apparvero moltitudini di operai al lavoro, e le mura dell'arca crescevano, mentre folle di cittadini spensierati stavano a guardare o si facevano beffe alla vista di tali inutili precauzioni. Altri discutevano con quell'uomo prodigioso e sembravano dirgli che se aveva tanta paura, poteva benissimo andarsene in qualche terra più sicura. Per quanto potevamo capire, lui rispondeva che molti dovevano venire salvati all'ultimo momento, e che per loro restava nel nuovo Tempio della Salvezza. Nel frattempo, andava raccogliendo nel Tempio quelli che lo avevano seguito e li tratteneva colà, perché lui stesso non conosceva il giorno e l'ora della catastrofe benché Forze oltre l'umano l'avessero assicurato che era imminente. Così, quando il rifugio fu completato e le porte stagne pronte e verificate, attese a piè fermo la sorte funesta, assieme alla famiglia, agli amici, ai discepoli e ai servi. E la Maledizione arrivò. Fu terribile a vedersi persino in quelle immagini sullo schermo. Soltanto gli dèi sanno cosa accadde realmente.
Dapprima vedemmo una montagna d'acqua colossale e lucente sollevarsi ad un'incredibile altezza dall'oceano tranquillo; poi cominciò a spostarsi, miglio dopo miglio, come una grande collina scintillante di schiuma, che acquistava sempre maggior velocità. Due piccole galee, sballottate sulla cresta dell'onda, furono ben presto fatte a pezzi; poi si abbatté con inaudita violenza sul porto, spazzando via la città, le strade e le case, come un tornado su un campo di grano. Vedemmo la gente sui tetti delle case guardare con terrore la morte che si avvicinava, con visi stravolti, occhi sbarrati, bocche contorte. Si tormentava le mani e farfugliavano discorsi insensati in un parossismo di panico. Quelli che avevano deriso e schernito l'apocalittico avvertimento, ora chiedevano pietà al Cielo, prostrandosi a terra o inginocchiandosi con braccia protese in frenetiche e incoerenti invocazioni. Non c'era più tempo ormai per raggiungere l'arca, oltre la città, ma a migliaia si precipitarono verso la Cittadella che sorgeva sulla collina più alta, e i cui bastioni formicolavano di folla E tuttavia, improvvisamente, il Castello cominciò a sprofondare, e ogni cosa con esso. L'acqua si era riversata fin nei più intimi recessi della terra, dove i fuochi centrali l'avevano trasformata in vapore, che aveva squassato le fondamenta stesse di Atlantide. La città sprofondava sempre di più, mentre l'assemblea e noi stessi gettavamo un grido a quella devastante visione. Il molo si spezzò in due tronconi e scomparve, il faro superbo rovinò tra le onde; i tetti affioranti dall'acqua sembravano file ordinate di scogli rocciosi, come frangiflutti, ma ben presto furono sommersi. Rimase la Cittadella solitaria, sulla superficie, quasi una mostruosa nave, finché anch'essa cominciò a scivolare nell'abisso, lasciandosi dietro una spuma di mani che invocavano aiuto. Il dramma spaventoso era finito, e il mare vincitore si stendeva sul continente scomparso; un mare che non recava tracce di vita sulla superficie, ma che tra giganteschi vortici e turbini di vapore mostrava i resti della tragedia, sballottati qua e là. Cadaveri di uomini e d'animali, sedie, tavoli, capi di vestiario, cappelli fluttuanti e balle di mercanzia, tutto questo galleggiava e ondeggiava in un enorme ribollio.
Poi, lentamente, il mare si placò, e una grande, sconfinata di stesa d'acqua, liscia e brillante come argento vivo e illuminata da un fosco sole basso sull'orizzonte, divenne la tomba della terra che gli dèi avevano giudicato e condannato. La storia era terminata. Non ci sentimmo di chiedere altro, perché riuscivamo ad immaginare benissimo quello che era accaduto inseguito: il lento, spietato affondare di quella grande terra negli abissi dell'oceano, sempre più giù, tra convulsioni vulcaniche che sollevavano picchi sottomarini intorno ad essa, finché si era venuta ad estendere per miglia e miglia di quello che è oggi il letto dell'Atlantico. E la città sconvolta e devastata giaceva accanto al rifugio in cui si era radunato un piccolo gruppo di sopravvissuti sconvolti dall'orrore. Finalmente comprendevamo com'erano riusciti a continuare a vivere, che uso avevano fatto dei diversi mezzi di cui li aveva dotati la previdenza e la scienza del loro grande Maestro: come quest'ultimo avesse insegnato loro tutte le sue arti prima di morire, e in che modo una cinquantina o sessantina di superstiti fossero cresciuti sino a formare una grande comunità che aveva dovuto farsi strada scavando nelle viscere della terra man mano che aumentavano i suoi membri. Un'intera biblioteca non avrebbe potuto spiegarci più chiaramente di quella serie di immagini proiettate sullo schermo e di quant'altro riuscimmo a dedurre per conto nostro lo svolgersi degli avvenimenti. Tale era stato il destino, e tali le cause di quel destino, che aveva travolto la grande terra d'Atlantide. Un giorno lontano, quando quella fanghiglia si sarà trasformata in calcare, forse la grande città sommersa verrà sollevata un'altra volta verso la luce da un nuovo respiro della natura, e il geologo del futuro, scavando nella cava, non troverà selci né conchiglie, ma i resti di una civiltà scomparsa e le tracce di una remotissima catastrofe. Soltanto una cosa ci lasciava perplessi: quanto tempo era trascorso dalla tragedia? Il professor Maracot scoprì un efficace metodo per fare una stima approssimativa. Tra i molti edifici secondari del colossale palazzo c'era una grande cripta che fungeva da luogo di sepoltura dei capi. La pratica della mummificazione era stata ed era assai diffusa come in Egitto e nello Yucatàn, e in numerose nicchie situate nei muri trovavano posto file interminabili di queste sinistre reliquie del passato.
Manda indicò con orgoglio l'ultima nicchia della serie e ci fece capire che era stata preparata per lui. «Se fate una media dei re europei», disse Maracot in tono professionale, «scoprirete che si sono succeduti cinque sovrani ogni secolo. Possiamo usare lo stesso sistema qui. Naturalmente non sarà esatto al cento per cento, ma ci fornirà una ragionevole approssimazione. Ho contato le mummie: sono quattrocento.» «Il che farebbe circa ottomila anni?» «Esattamente. E questa cifra collima, fino a un certo punto, con la stima fatta dallo stesso Platone. La tragedia avvenne senz’altro prima che iniziassero le testimonianze scritte degli Egiziani, e questo ci porta ad un periodo compreso tra i sei ed i settemila anni dai giorni nostri. Sì, sono convinto di poter dire che abbiamo visto con i nostri occhi una sorta di filmato della catastrofe avvenuta almeno ottomila anni fa. E, del resto, per sviluppare una civiltà come quella di cui abbiamo osservato le tracce, devono necessariamente trascorrere millenni. » «In tal modo», concluse e a mia volta, caro Talbot, ti riferisco la sua constatazione, «abbiamo ampliato l'orizzonte della storia umana accertata come nessun altro uomo dacché tale storia ha avuto inizio.» L'attacco al mostro Circa un mese dopo la nostra visita alla città sepolta, almeno secondo il calendario che teneva Maracot, accadde una cosa stupefacente e inaspettata: avevamo pensato che con tutte le avventure vissute niente potesse più sorprenderei o sbalordirci, eppure questo fatto superò di gran lunga qualunque nostra fantasia. Fu Scanlan a portare la notizia che era accaduto qualcosa di molto importante. Tieni conto che oramai ci sentivamo quasi di casa, in un certo senso, in quell'immenso palazzo: frequentavamo le sale di svago e di divertimento collettive; assistevamo a concerti (la loro musica era molto strana ed elaborata) e a spettacoli teatrali dove la mimica assai vigorosa e drammatica sostituiva per noi il loro linguaggio ancora del tutto incomprensibile. Parlando in generale, facevamo parte della comunità in tutto e per tutto.
Spesso eravamo invitati da diverse famiglie nelle loro abitazioni private, e nel complesso la nostra vita o quanto meno la mia scorreva serenamente, grazie anche al fascino di questa strana gente. Nel mio caso, poi, grazie soprattutto a quella cara giovinetta di cui ho già detto il nome. Mona era figlia di uno dei capi di quel popolo, e nella sua famiglia avevo trovato un calore e una gentilezza che mi avevano fatto dimenticare ogni differenza di razza e di linguaggio. Quando si trattava di esprimere i proprio sentimenti, scoprii che non c'era poi tanta diversità fra la lingua della vecchia Atlantide e l'americano moderno. Suppongo che quel che piaceva a una ragazza del Brown College nel Massachusetts, non potesse dispiacere neanche alla mia bella sotto il mare! Ma stavo parlando del momento in cui Scanlan entrò nella nostra stanza con notizie di grande importanza. «Ehi, è appena tornato come un ciclone uno di loro! Era talmente eccitato, che si è completamente dimenticato di togliersi il casco di vetro, e ha continuato a parlare per alcuni minuti prima di capire che nessuno poteva sentirlo. Poi, tolto l'elmetto, ha svuotato il sacco fin che gli è durato il fiato, e immediatamente tutti lo hanno seguito nel posto dove ci si tuffa in acqua! Voglio andare anch'io, senz'altro ci sarà da vedere qualcosa di straordinario...» Correndo fuori, ci imbattemmo nei nostri amici che si affrettavano con gesti eccitati lungo il corridoio: ci unimmo subito alla folla impaziente di raggiungere il fondo del mare, guidati dal concitato messaggero. Andavano talmente in fretta che non era facile per noi star loro dietro, ma, per fortuna, avevano portato con sé delle torce elettriche, e, benché ci trovassimo alle loro spalle, riuscimmo a seguire il bagliore delle luci. Giunti sul fondo, tra una folla impaziente, percorremmo il solito sentiero che costeggiava le falesie di basalto, finché arrivammo in un posto dove la direzione delle orme, impresse sul sentiero per il lungo uso, ci condusse sulla cima. Mentre salivamo, osservammo il paesaggio frastagliato tutt'intorno, con aguzzi pinnacoli di roccia e profondi precipizi che rendevano difficile il cammino. Dopo aver superato quel groviglio di lave secolari, sbucammo in un pianoro rotondo brillante di quella luce fosforescente dove, proprio al centro, giaceva qualcosa che mi fece restare senza fiato.
Guardando i miei compagni, compresi dalle loro espressioni sbalordite che provavano le mie stesse emozioni. Un grande battello a vapore giaceva semiconficcato nel fango. Si era rovesciato su un fianco; la ciminiera, spezzata, pendeva formando un angolo bizzarro, e l'albero di trinchetto era stato tranciato via: ma, tolti questi danni, la nave era intatta, bella e fiammante come avesse appena lasciato il molo. Ci affrettammo alla volta del battello, e ben presto ci trovammo sotto la poppa. Puoi immaginare quel che provammo leggendo il nome «Stratford, Londra». La nostra nave ci aveva seguito affondando nell’Abisso di Maracot. Naturalmente, passata la prima impressione, la cosa non ci sembrò poi così difficile da capire. Ricordavamo benissimo il mare che cominciava ad agitarsi; le vele fatte terzarolare dall'esperto capitano norvegese, la strana nuvola nera all'orizzonte. Chiaramente doveva essere sopraggiunto un ciclone di inaudita violenza, e lo Stratford era affondato. Ed era altrettanto evidente che il suo equipaggio era perito, perché la maggior parte delle scialuppe di salvataggio, semidistrutte, erano state trascinate a fondo - e in ogni caso quale scialuppa avrebbe potuto sopravvivere a un tale uragano? Senza dubbio la tragedia era avvenuta una o due ore dopo il nostro disastro. Forse lo scandaglio che avevamo visto era stato calato poco prima che sopravvenisse il naufragio. Era terribile, ma anche ironico, che noi fossimo ancora vivi, mentre coloro che stavano piangendo la nostra scomparsa, fossero stati a loro volta uccisi. Non potevamo dire con certezza se la nave fosse andata alla deriva per qualche tempo negli strati più alti dell'oceano o se fosse affondata subito dove l'avevamo trovata, senza che i nostri compagni la scoprissero fino a poco prima. Il povero capitano Hovvie, o quanto restava di lui, era ancora al suo posto sul ponte di comando, le mani rigide serrate sulla battagliola. Il suo corpo e quelli di tre fuochisti in sala - macchine erano gli unici in tutta la nave. Sotto la nostra direzione, li facemmo rimuovere e seppellire nella fanghiglia, e posammo una ghirlanda di anemoni marini sui loro resti.
Riferisco questi dettagli nella speranza che possano essere di conforto alla signora Hovvie nel suo lutto. Purtroppo non conoscevamo i nomi dei tre fuochisti. Mentre assolvevamo a questo triste compito, i piccoli uomini d'Atlantide si affollavano sulla nave. Guardando verso l'alto, potevamo vederli un po' dovunque, come topi nel formaggio. La loro curiosità ed eccitazione ci fece capire che era la prima nave moderna probabilmente il primo battello a vapore che fosse mai capitato laggiù. Tempo dopo, scoprimmo che l'apparecchio appeso alle spalle che generava ossigeno non permetteva un'autonomia superiore alle due ore e doveva essere ricaricato, cosicché la loro possibilità di apprendere e studiare quel che si trovava sul fondo del mare era limitata alle poche miglia nei pressi della base. Si misero subito al lavoro, facendo a pezzi il relitto e recuperando tutto ciò che avrebbe potuto tornare utile, operazione questa che si rivelò lunga, e che probabilmente è ancora in corso. Per parte nostra, eravamo contenti di ritornare nelle nostre cabine e di poter recuperare capi di vestiario e libri che non erano del tutto rovinati. Tra le altre cose che salvammo dallo Stratford, c'era anche il Giornale di Bordo della nave, che era stato compilato fino all'ultimo giorno dal capitano. Era strano che stessimo leggendo la storia della nostra scomparsa e che chi l'aveva scritta fosse morto. La registrazione di quel giorno era la seguente. 3 ottobre. I tre coraggiosi ma temerari esploratori si sono immersi oggi con il loro apparecchio per raggiungere il fondo dell'oceano, contro la mia volontà e i miei avvertimenti: e l'incidente che avevo previsto è accaduto. Dio abbia pietà delle loro anime. Hanno iniziato l'immersione alle ore undici del mattino ed ero incerto se dare il mio benestare, perché sembrava ci fosse una tempesta in arrivo. Vorrei tanto aver seguito il mio impulso, ma forse non avrei fatto altro che ritardare una tragedia inevitabile. Mi sono accomiatato da ciascuno di loro, sentendo in cuor mio che non li avrei più rivisti.
Per un certo tempo tutto andò bene, e alle undici e quarantacinque avevano raggiunto la profondità di 550 metri, profondità alla quale toccarono il fondo. Il professor Maracot mi inviò diversi messaggi e tutto sembrava a posto, quando all’improvvisamente udii la sua voce agitata e notai una considerevole tensione del cavo d'aggancio dell'apparecchio. Un attimo dopo si era spezzato con uno schiocco. E sembrava che fino a quel momento si fossero trovati sopra un grande abisso perché, su ordine del professore, avevo fatto spostare lentamente la nave a proravia. I tubi dell'aria continuarono a srotolarsi per una lunghezza che stimai sul mezzo miglio e poi si spezzarono anch'essi. Non possiamo più sperare di avere altre notizie del professor Maracot, del signor Headiey e del signor Scanlan. E devo annotare un'altra cosa straordinaria, sul cui significato non ho avuto modo di riflettere, perché con questo tempaccio sono occupato a controllare tante cose che mi distraggono. Nel momento in cui avveniva la tragedia, feci calare uno scandaglio d'alto mare che segnò 8170 metri di profondità. La zavorra dello scandaglio, naturalmente, era stata abbandonata sul fondo, ma avevamo appena recuperato il cavo e, per quanto possa sembrare incredibile, trovammo il fazzoletto del signor Headiey con le sue iniziali nella cavità di porcellana che preleva campioni del fondo. Anche l'equipaggio restò sbalordito e nessuno è stato in grado di spiegare come fosse potuta accadere una cosa simile. Nella prossima registrazione forse potrò dire qualcosa di più. Abbiamo indugiato qualche ora sul posto, nella speranza che qualcuno emergesse alla superficie e abbiamo recuperato il cavo d'aggancio con l'estremità strappata. Ora devo badare alla mia nave, perché non ho mai visto un cielo più scuro, il barometro è sceso a 28,5 e la pressione continua a cadere. In questo modo abbiamo avuto le ultime notizie dei nostri vecchi amici. Un terribile ciclone si era abbattuto sulla nave, distruggendola quasi istantaneamente. Restammo accanto al relitto per un certo tempo, finché l'aria dentro i nostri caschi di vetro cominciò a scarseggiare e una sensazione sempre crescente di oppressione al petto ci avvertì che era giunto il momento di tornare ad Atlantide.
Sulla via del ritorno, ci accadde un'avventura che dimostrò a quali improvvisi pericoli era esposta la gente sottomarina e che forniva una spiegazione sul fatto che il loro numero, a dispetto del lungo periodo trascorso, non era molto elevato. Infatti, anche calcolando gli schiavi greci, non doveva superare le quattro o cinquemila unità. Eravamo scesi lungo i picchi di lava e, dopo aver superato le falesie basaltiche, costeggiavamo la giungla d'alghe che confinava con queste ultime. Improvvisamente Manda indicò l'alto e si infuriò con un membro del gruppo che era rimasto indietro allo scoperto. Nello stesso tempo, lui e quelli che lo circondavano si precipitarono al riparo di alcuni macigni, trascinandoci con loro. Soltanto quando fummo al sicuro, ci fu possibile capire la causa di tanto spavento. Un pesce enorme, dalla forma singolare, si trovava a qualche distanza da noi, ma si avvicinava rapidamente. Pareva un gigantesco letto di piume fluttuante, morbido e gonfio, bianco sottopelle e con una lunga frangia rossa la cui vibrazione si propagava attraverso l'acqua. A prima vista sembrava privo di bocca e di occhi, ma ben presto si dimostrò temibile. Il nostro compagno, che era rimasto allo scoperto, si precipitò verso il riparo dove ci trovavamo noi, ma ormai era troppo tardi. Vidi il suo viso sconvolto dal terrore quando capì che il suo destino era segnato. L'orribile creatura piombò su di lui, lo avviluppò completamente con il suo corpo mostruoso e giacque sullo sventurato, pulsando disgustosamente, come se dovesse premerlo contro gli scogli di corallo e maciullarlo fino a farlo a pezzi. La tragedia avveniva a pochi metri di distanza da noi, e l'immediatezza con cui accadde aveva privato i nostri amici di qualunque capacità di reazione. Ma Bill Scanlan si slanciò in avanti e saltò sul dorso dell'animale, macchiato di marrone e di rosso, piantando il suo bastone duro e appuntito nei suoi soffici tessuti. Io avevo seguito l'esempio di Scanlan e, alla fine, anche Maracot e tutti gli altri si lanciarono all'attacco del mostro, che si allontanò lentamente, lasciandosi dietro una scia d'una secrezione viscida e glutinosa.
Ma il nostro aiuto era giunto troppo tardi, perché l'impatto del grande pesce aveva spezzato la campana di vetro dell'atlantide, che era annegato. Fu un giorno di lutto allorché riportammo il suo corpo al Rifugio, ma fu anche il nostro momento di gloria perché il nostro immediato intervento aveva fatto salire di molto la stima degli Atlantidi nei nostri confronti. Quanto al bizzarro animale, il professor Maracot ci assicurò che si trattava di un esemplare di un Pesce-coperta, ben noto agli ittiologi, ma di una taglia tale da sor passare ogni immaginazione. Mi sono dilungato nella descrizione di questa creatura perché fu la causa della tragedia, ma potrei e forse lo farò scrivere un intero libro sulle meravigliose e terribili forme di vita che abbiamo visto quaggiù. Rosso e nero sono i colori più diffusi nelle creature delle grandi profondità, mentre la vegetazione tende al verde-oliva pallido; è questa la tonalità di una fibra molto resistente, alla base della flora abissale, che raramente viene portata in superficie dalle reti a strascico, cosicché la scienza è giunta alla conclusione che il letto dell'oceano sia spoglio. Molte forme di vita abissali sono di straordinaria bellezza; al contrario, altre sono così grottescamente orribili da sembrare immagini di un incubo, e sono più temibili di qualunque animale di terraferma. Ho visto con i miei occhi una razza, o manta dal pungiglione, lunga quasi 10 metri, con un terrificante aculeo all'estremità della coda, che avrebbe potuto uccidere qualunque animale con il colpo di una sola puntura. Un'altra volta ho osservato una creatura simile alla rana, con gli occhi verdi sporgenti, e posso garantire che era un'unica, enorme bocca, seguita da uno stomaco smisurato. Incontrarla significa morire, a meno che non si abbia con sé una potente torcia elettrica con cui respingerla abbagliandola. Ho visto anche la rossa anguilla cieca che si nasconde tra gli scogli e uccide emettendo un getto di veleno, e il pesce-scorpione gigante, terrore dell'abisso, e la lampreda che se ne sta in agguato tra la giungla d'alghe. E in un altra occasione è stato mio privilegio poter studiare il Serpente di Mare Reale, una creatura che ben di rado occhio umano ha visto, dato che il suo habitat è l'abisso e appare alla superficie soltanto quando qualche sconvolgimento non l’allontana dalle profondità. Un giorno, mentre Mona e io ci acquattavamo tra grappoli di lamellarie, potemmo vederne ben due che nuotavano, o meglio serpeggiavano, dietro di noi.
Erano enormi, larghi tre metri e mezzo e lunghi almeno sei, neri sul dorso e bianco-argento sotto con un'alta frangia dalla coda alla testa, dove i piccoli occhi non erano più grandi di quelli di un bue. Di queste e molte altre creature sarà possibile trovare dettagliata descrizione nelle carte del dottor Maracot, sempre che queste ultime vengano trovate da qualcuno. Le settimane si rincorrevano piacevolmente nella nostra nuova esistenza, e un po' alla volta imparammo quanto bastava della loro lingua dimenticata per poter scambiare qualche piccola conversazione con i nostri amici. Nel Rifugio c'erano un'infinità di soggetti sia di studio che di divertimento, e Maracot aveva tal mente approfondito la scienza degli antichi che diceva di essere in grado di rivoluzionare le correnti concezioni scientifiche se soltanto avesse avuto la possibilità di trasmettere quello che aveva appreso. Tra l'altro, gli Atlantidi avevano imparato a scindere l'atomo, e, benché l'energia sviluppata sia inferiore a quella che i nostri scienziati hanno previsto, tuttavia è più che sufficiente per rifornirli di una grande riserva elettrocinetica. La loro consuetudine con il potere e l'energia dell'etere è di gran lunga superiore alla nostra, e inoltre quella bizzarra trasformazione del pensiero in immagini, mediante la quale noi avevamo raccontato a loro la nostra storia e viceversa, era dovuta ad un'impressione eterica tra dotta in termini di materia. Ma, nonostante tutto questo e a dispetto delle loro conoscenze, c’erano alcune questioni connesse con il moderno sviluppo scientifico, che erano state trascurate dai loro antenati. Fu proprio Scanlan a darne palese dimostrazione. Per settimane lo vedemmo in uno stato di eccitazione a stento controllata come se stesse custodendo qualche importante segreto, e sorrideva in continuazione tra sé e sé seguendo i propri pensieri. In quel periodo lo vedevamo raramente, perché era indaffaratissimo in compagnia del suo nuovo amico e confidente Berbrix, un grasso e simpatico atlantide, che dirigeva una parte dei congegni e delle macchine del Rifugio. Scanlan e Berbrix, nonostante i loro rapporti si basassero principalmente sui gesti e su una comica pantomima silenziosa, erano divenuti molto amici e trascorrevano parecchio tempo insieme. Una sera Scanlan entrò nella nostra camera con un'espressione raggiante.
«Eh, prof», disse a Maracot, «ho un'informazione segreta da comunicare a questa gente. Loro ci hanno fatto vedere un po' di cose: penso che anche noi si sia all'altezza di mostrargliene delle altre. Che ne dite di convocarli tutti domani sera per un piccolo spettacolo?» «Jazz o Charleston?», gli chiesi. «Macché Charleston! Aspettate e vedrete. Gente, è una trovata sensazionale. . . ma per ora non voglio dirvi una parola di più. Soltanto una cosa. Potete scommettere su di me, perché ho trovato una buona merce e voglio consegnargliela.» Perciò, la sera seguente, la comunità si era riunita nel salone che ormai conoscevamo. Scanlan e Berbrix si erano sistemati sul podio, sfavillanti di orgoglio. Uno dei due spinse un bottone e, per usare il caratteristico modo di parlare di Scanlan, disse: «Glielo affido, perché li sbalordisca!». «L.O. chiama, L.O. chiama», esclamò una voce chiara. «Londra chiama le Isole Britanniche. Previsioni del tempo.» Seguirono quindi le familiari frasi su depressioni e anticicloni. «Prima edizione del Giornale Radio. Sua Maestà il Re ha inaugurato questa mattina la nuova ala dell'Ospedale pediatrico di Hammersmith...» e avanti di questo passo nello stile familiare. Per la prima volta da tanto tempo, ci ritrovavamo nell'atmosfera dell'Inghilterra d'ogni giorno che affrontava coraggiosamente i suoi doveri quotidiani, la forte schiena piegata sotto i debiti di guerra. Seguirono le notizie dall'esterno e quindi quelle sportive. Il vecchio mondo ronzava sempre uguale a se stesso. I nostri amici di Atlantide ascoltavano stupiti senza peraltro comprendere le parole. Tuttavia, dopo il notiziario, quando iniziò il primo programma della giornata, e la banda delle Guardie Reali intonò la marcia del Lohengrin, un grido di soddisfazione e di approvazione si levò dalla folla; ed era buffo vederli correre sulla piattaforma davanti allo schermo, tirare le tende e cercare dietro lo schermo stesso la fonte di quella musica. Sì, abbiamo proprio lasciato un'impronta indelebile in quella civiltà sottomarina. «Nossignore», disse Scanlan più tardi, «non sono in condizioni di poter costruire una stazione-radio trasmittente. Non hanno il materiale adatto e io non posso inventarmelo.
Ma laggiù, a casa mia, ho attrezzato da solo un apparecchio a due valvole, con una grande antenna ricevente in cortile, proprio dietro la cordicella per stendere il bucato; ho imparato a farlo funzionare per bene e a prendere qualunque emittente degli Stati Uniti. È da ridere che, con tutta l'elettricità che abbiamo sottomano, e con i loro prodotti in fibra vetrosa che superano di gran lunga i nostri, non possiamo impiantare un qualche trabiccolo per emettere un'onda-radio, che viaggerebbe attraverso l'acqua con la stessa facilità con cui viaggia nell'aria. A momenti al vecchio Berbrix gli prendeva un colpo quando abbiamo captato il primo messaggio, ma adesso è felice e la nostra radio diverrà un'istituzione permanente.» Tra le altre scoperte dei chimici di Atlantide c'è un gas che è nove volte più leggero dell'idrogeno e che Maracot ha chiamato «levigeno». È stato proprio facendo esperimenti con il gas levigeno, che abbiamo avuto l'idea di mandare in superficie notizie sulla nostra sorte, mediante sfere di vetro, riempite appunto di questo gas leggerissimo. «Ho messo al corrente Manda della nostra idea», disse Maracot. «Ha subito dato disposizioni agli operai che lavorano i silicati, e le sfere saranno pronte in un giorno o due.» «Ma come facciamo a inviare nostre notizie?», gli chiesi. «Nelle sfere c'è una piccola apertura attraverso cui viene immesso il gas. Possiamo infilare i fogli attraverso questo foro, poi questi abili artigiani chiuderanno ermeticamente i piccoli buchi. Sono sicuro che, quando le sganceremo le sfere, saliranno velocemente in superficie.» «E magari galleggeranno qua e là, senza esser viste per anni.» «Questo è possibile. Ma tenete presente che le sfere rifletteranno i raggi del sole e sicuramente attireranno l'attenzione di qualcuno. Inoltre, ci troviamo proprio sotto la rotta che seguono le navi in viaggio tra l'Europa e il Sud America. Non vedo per quale ragione, se ne mandiamo su qualcuna, non debbano esser trovate.» E questo, caro Talbot o chiunque legga il mio resoconto, è il modo in cui lo stesso giungerà nelle tue mani. Eppure dovevamo progettare un piano ancor più audace. L'idea fu partorita dal fertile cervello del nostro amico americano. «Sentite, amici», se ne uscì mentre sedevamo tranquilli nella nostra camera, «quaggiù è tutto stupendo: le bevande sono buone e il cibo è ancora meglio, e inoltre ho trovato una bambina al cui confronto quella di
Filadelfia non vale un cent bucato; ma nonostante tutto questo, ci sono momenti in cui sento che vorrei vivere un'altra volta nel mio benedetto paese.» «Tutti proviamo lo stesso desiderio», gli risposi, «ma non vedo come possiamo pensare di realizzarlo.» «Ascoltate! Se queste palle di gas riescono a portare in superficie i nostri messaggi, forse possono portare su anche noi! Non sto scherzando, perché ho calcolato tutto al millimetro. Supponiamo di prenderne tre o quattro ciascuno e di riunirle insieme in modo da ottenere un buon ascensore. Ci siete? Nel frattempo noi ci siamo infilati i caschi di vetro e il resto della bardatura; a questo punto ci sistemiamo sotto le sfere e, quando suona il campanello, tagliamo gli ormeggi e oplà! in un attimo arriviamo in superficie. Chi o che cosa potrebbe mai fermarci?» «Uno squalo, forse.» «Macché squali d'Egitto! Saliremo su con la velocità del lampo, tanto che gli squali difficilmente si accorgeranno di noi. Penseranno di aver visto tre lampi di luce e, nel frattempo, noi avremo acquistato una tale velocità da arrivare sparati in superficie e, anzi, esploderanno almeno cinquanta piedi più in alto! Vi garantisco che il bel tomo che ci vede arrivare farà bene a dire le sue preghiere!» «Ma supponiamo che sia possibile: cosa ci accadrà dopo?» «Per l'amor di San Pietro! Ci penseremo quando sarà il momento. Tentiamo la sorte almeno! Oppure resteremo qui per sempre. Per quel che mi riguarda, io taglio la corda e tento il tutto per tutto.» «Anch'io desidero tornare nel nostro mondo, non fosse che per riferire i risultati delle mie ricerche ed esperienze alle società scientifiche», disse Maracot. «Soltanto con la mia presenza potrò convincere gli studiosi dell'importanza delle conoscenze che ho acquisito qui. Anch'io, come Scanlan, penso sia giusto tentare la sorte.» Come dirò più avanti, io avevo le mie buone ragioni per essere il meno entusiasta dei tre. «È una pazzia quello che proponete, Bill. Senza qualcuno che ci aspetti in superficie», replicai, «andremmo alla deriva come naufraghi per morire di fame e di sete.» «Sciocchezze! Chi volete che ci aspetti lassù?» «Ha ragione Bill, ma forse ce la caveremo», disse Maracot. «Possiamo dare l'esatta latitudine e longitudine della nostra posizione con un'approssimazione di uno o due miglia.» «Già, ci caleranno una scala», esclamai con una punta di amarezza.
«Scala un corno!»,gridò Bill. «Il capo ha ragione. Sentite, signor Headiey, in quella vostra lettera che avete intenzione di mandare al mondo . . . accidenti ! Mi sembra di vedere i titoli sensazionali dei giornali ! Dicevo. . . in questa benedetta lettera scrivete che ci troviamo a 27 gradi di Latitudine Nord e a 28.14 gradi di Longitudine Ovest, o qualunque altra indicazione sia più esatta Ci siete? Poi dite che i tre uomini più importanti della storia, e cioè: il grande scienziato Maracot, la nuova stella della scienza Headiey e Bob Scanlan, che è un poema di meccanico nonché l'orologio dei Cantieri Meribank, stanno gridando e invocando aiuto dal fondo dell'oceano. Mi seguite?» «Bene, e dopo?» «E dopo tocca a loro. È una specie di sfida che non possono ignorare. Qualcosa tipo Stanley che va alla ricerca di Livingstone, come ho letto da qualche parte. Spetta a loro trovare un sistema per tirarci fuori da qui o aspettarci in superficie se decidiamo di tuffarci.» «Potremmo aiutarli proprio noi in questo», disse il professore. «Diciamo che calino uno scandaglio d'alto mare in queste acque, poi noi lo troveremo, e vi legheremo un messaggio che li avverta di aspettarci.» «L'avete detta giusta!», esclamò Bill Scanlan. «Questa è l'unica strada da seguire.» «E se qualche esponente del gentil sesso desidera tentare la sorte con noi, andar su in quattro sarà lo stesso che salire in tre», disse Maracot, sorridendomi maliziosamente. «Per restare in argomento: anche in cinque è lo stesso che in quattro», aggiunse Scanlan. «Ma per ora lasciamo perdere, signor Headiey. Intanto scriviamo la lettera, e fra sei mesi vedrete che saremo un'altra volta sul Tamigi.» E così adesso lanciamo le nostre due sfere in quell'acqua che per noi è come l'aria per la gente del mondo. I nostri due palloncini se ne andranno su, verso l'alto. Si perderanno strada facendo. È possibile. O possiamo sperare che almeno uno raggiunga la superficie? Li abbandoniamo in grembo agli dèi. Se non potrà esser fatto nulla per la nostra sorte, almeno quelli che stanno in pena per noi sappiano che in ogni caso siamo sani e salvi. Se, al contrario, questo messaggio giungerà a destinazione e sarà possibile radunare mezzi e denaro per il nostro salvataggio, abbiamo indicato il modo per attuarlo. Nel frattempo, addio... au revoir?
Così finiva la narrazione contenuta nella sfera di vetro. Questo resoconto è una cronaca dei fatti, e fornisce una spiegazione fino al momento in cui lo stesso racconto venne ripescato. E tuttavia, mentre il manoscritto si trovava ancora nelle mani del tipografo, sopravvenne un epilogo della vicenda quanto mai sorprendente e inaspettato. Mi riferisco al salvataggio degli ardimentosi esploratori ad opera dello yacht a vapore Marion, di proprietà del signor Faverger, e alle notizie inviate da quest'ultimo via radio e captate dalla stazione delle Isole di Capo Verde che, a sua volta, le hanno ritrasmesse all'Europa e all'America. Tali notizie sono state redatte dal signor Key Osborne, il popolare corrispondente dell'Associated Press. A quanto pare, subito dopo il rinvenimento del manoscritto che descriveva la situazione del dottor Maracot e dei suoi amici e i loro tentativi di raggiungere in qualche modo l'Europa, venne immediatamente organizzata una spedizione di soccorso, nella speranza di tentare un salvataggio. Il signor Faverger mise generosamente a disposizione di una squadra di soccorso il suo celebre yacht a vapore e volle partire lui stesso. Il Marion salpò da Cherbourg in giugno, sostò a Southampton per accogliere a bordo il signor Key Osborne e un operatore cinematografico, e fece subito rotta verso il tratto di oceano indicato dal manoscritto. La località fu raggiunta il primo di luglio. Calarono uno scandaglio d'alto mare e, lentamente, iniziarono a farlo scorrere lungo il fondo dell'oceano. All'estremità del piombo dello scandaglio, era stata appesa una bottiglia che conteneva il seguente messaggio: Il mondo ha ricevuto il vostro resoconto e siamo qui per aiutarvi. Copia del nostro messaggio viene trasmessa in continuazione dalla radio di bordo, nella speranza che possiate captarlo. Attraverseremo lentamente il tratto di mare dove dovreste trovarvi. Quando vedrete questa bottiglia, per favore metteteci un vostro messaggio. Seguiremo le vostre istruzioni. Per due giorni il Marion incrociò in quelle acque, in ogni direzione, ma senza alcun risultato. Il terzo giorno, una straordinaria sorpresa attendeva la squadra di soccorso. Una piccola sfera luminosa balzò fuori dall'acqua a poche centinaia di metri dalla nave, e risultò essere un porta - messaggi in fibra vetrosa, dello stesso tipo descritto nel resoconto di Headiey.
Dopo esser stata aperta con qualche difficoltà, rivelò questo messaggio: Grazie, cari amici. Apprezziamo moltissimo la vostra lealtà e il vostro spirito d'iniziativa. Riceviamo senza problemi il vostro messaggio-radio e siamo ora in condizione di rispondervi. Abbiamo cercato di afferrare il cavo dello scandaglio, ma le correnti lo sollevavano e lo trascinavano più in fretta del più veloce di noi, che doveva vincere la resistenza opposta dell'acqua. Ci proponiamo di fare il nostro tentativo domattina alle sei, secondo il nostro computo martedì 5 luglio. Saliremo uno alla volta in modo da poter avvertire, via radio, quelli che aspettano di venir su, di qualunque inconveniente si presenti. Ancora grazie di cuore. Maracot. Headiey. Scanlan. E ora voglio concludere questa stupefacente avventura con le parole del signor Key Osborne: «Era un mattino bellissimo e il profondo mare color zaffiro si stendeva dinanzi a noi, liscio come un lago sotto la volta gloriosa del cielo azzurro, non velato dalla più piccola nube. L'equipaggio del Marion si era alzato prestissimo e attendeva gli eventi con il massimo interesse. Più la fatidica ora delle sei si avvicinava, e più cresceva la nostra ansiosa attesa. Il signor Faverger aveva posto una vedetta sull'albero di prora e, quando ancora mancavano cinque minuti alle sei, la udimmo gridare e vedemmo che indicava un punto sull'acqua a babordo della nave. Ci affollammo tutti sulla muratura di prora, dove riuscii ad appollaiarmi su una delle scialuppe dalla quale potevo avere una visuale più chiara. Così, attraverso l'acqua tranquilla, vidi salire a gran velocità qualcosa di simile ad una bolla d'argento, che emergeva rapidamente dagli abissi dell'oceano. Arrivò in superficie a circa duecento metri dalla nave e si librò in alto, sfrecciando nell'aria come uno splendido globo di vetro, quindi si lasciò
trasportare lontano dal vento leggero, proprio come farebbe il palloncino di un bimbo. Assistevamo a uno spettacolo fantastico, che tuttavia ci riempì di apprensione, perché era come un carico che si fosse sganciato dal suo traino in questo caso costituito dalla forza che opponeva all'acqua proseguendo il cammino a briglia sciolta. Fu spedito immediatamente un dispaccio radio: "Il vostro globo è emerso vicino allo yacht, ma non vi era attaccato nulla e se ne è volato lontano. Nel frattempo era stata calata in mare una scialuppa per esser pronti ad ogni eventualità". Qualche istante dopo le sei, la nostra vedetta avvistò un nuovo segnale, e subito dopo vidi un'altra sfera d'argento che saliva dall'abisso, ma con molta più lentezza della precedente. Quando raggiunse la superficie, fluttuò in aria, e tuttavia il suo peso la trattenne a fior d'acqua. Questa sorta di zavorra era costituita da un pacco di libri, carte e oggetti svariati, avvolti in una custodia di pelle di pesce o zigrino. Fu issata a bordo lungo la murata, e il recupero venne comunicato via radio, mentre continuavamo ad aspettare con impazienza i successivi arrivi. E non dovemmo attendere molto, perché quasi subito apparve un'altra bolla d'argento: ma questa volta la sfera scintillante eruppe alta nell'aria, e vi era sospesa, con nostra immensa meraviglia, l'esile figura di una donna. Tuttavia, l'impeto con cui la bolla era volata nell'aria si smorzò ben presto e, poco dopo, riuscimmo a farla accostare allo yacht. Un anello di zigrino era stato fissato solidamente attorno alla parte superiore della sfera, e da questo pendevano delle lunghe corregge che erano state agganciate all'ampia cintura che cingeva la vita sottile della donna. Il suo busto era coperto da un singolare rivestimento di vetro a forma di campana... io lo chiamo "vetro", ma era la stessa dura sostanza vetrosa e trasparente di cui era fatta la sfera. Come ho detto, era quasi trasparente, salvo le striature d'argento che screziavano quel misterioso materiale. Questa campana protettiva di vetro era dotata di chiusure elastiche che si agganciavano alla vita e sulle spalle, rendendola perfettamente impermeabile e, com'è scritto nel resoconto di Headiey, era fornita di un nuovissimo ma assai pratico apparecchio per la respirazione.
Con qualche difficoltà riuscimmo a togliere questa guaina protettiva e la donna salì sulla murata. Poi svenne, ma il suo respiro regolare ci incoraggiò a sperare che si sarebbe presto ripresa dagli effetti del rapido viaggio e, soprattutto, del repentino cambiamento di pressione; peraltro lo sbalzo di pressione era stato attutito dalla miscela d'aria dentro la guaina vetrosamiscela assai più densa dell'aria che respiriamo noi cosicché si può dire che abbia sostituito quella sosta prima dell'emersione che i nostri palombari sono abituati a fare per evitare l'embolia. Presumibilmente doveva trattarsi della donna di Atlantide cui si riferiva Headiey nel suo manoscritto, Mona cioè, e se la si doveva considerare come campione della sua gente, allora era una razza degna di riprendere il suo posto sulla Terra. Era di carnagione scura con lineamenti deliziosamente puri e minuti, lunghi capelli neri e splendidi occhi castani che si guardavano intorno con un'espressione d'incantevole stupore. Conchiglie e madreperla ornavano la tunica color crema e impreziosivano la sua capigliatura bruna. Non si sarebbe potuto immaginare una più perfetta Naiade dell'Abisso, vera e profonda personificazione del mistero e della malia dell'oceano. Lentamente la coscienza tornava in quegli occhi meravigliosi, e allora balzò in piedi improvvisamente, con la grazia d'una cerbiatta, e cominciò a correre lungo il ponte dello yacht gridando "Cyrus, Cyrus", il nome del signor Headiey. Immediatamente avvertimmo gli altri, che attendevano di salire, con un messaggio radio, e così li rassicurammo. Poco dopo, in rapida successione, emersero Maracot e i suoi amici, volando in alto per dieci o dodici metri, ricadendo poi in mare, di dove li ripescammo in breve tempo. Erano svenuti tutte e tre, e Scanlan perdeva sangue dal naso e dalle orecchie, ma entro un'ora riuscirono a reggersi in piedi anche se barcollando. Ognuno fece allora la cosa più congeniale alla sua natura: Scanlan fu trasportato al bar dello yacht da un gruppo di persone che ridevamo rumorosamente, e da là sentimmo nuove grida d'allegria, a spese del rifornimento di liquori.. . Il professor Maracot afferrò il fascio di carte e di libri, ne tolse uno composto interamente di simboli algebrici, almeno per quanto riuscii a
vedere, e scomparve sottocoperta, mentre Cyrus Headiey si precipitava dalla sua strana ragazza che, stando alle ultime notizie, sembra non voglia lasciarlo un solo attimo. Questo è quanto è accaduto. Adesso speriamo che la radio di bordo, di limitata potenza, riesca a trasmettere queste notizie sino alla stazione di Capo Verde. Maggiori dettagli di questa straordinaria avventura saranno forniti in seguito, com'è uso, dagli stessi protagonisti». A un passo dalla morte Molte persone hanno scritto a me, CYTUS Headiey, borsista Rhodes ad Oxford, e al professor Maracot e, anche a Bill Scanlan, dopo la nostra straordinaria esperienza sul fondo dell'Atlantico, dove ci immergemmo in un punto a circa 370 chilometri a sud-ovest delle Canarie. Questa esplorazione sottomarina ha dato risultati sorprendenti, perché ha costretto a rivedere non solo le opinioni correnti sulla vita e la pressione negli abissi del mare, ma ha anche dimostrato la sopravvivenza di un'antica civiltà in condizioni ambientali incredibilmente difficili. Tutte queste lettere ci chiedono insistentemente di fornire ulteriori ragguagli sulla nostra avventura. Ammetto che il mio primo manoscritto, data anche la situazione in cui lo venivo stilando, sia in parte lacunoso, pur fornendo un'esauriente spiegazione dei fatti più importanti. Tuttavia ce ne sono altri che non ho menzionato, e soprattutto lo spaventoso episodio dei Signori dal Volto Tenebroso. Quest'ultimo comporta una serie di situazioni e di conclusioni di natura talmente sensazionale che, di comune accordo, all'epoca decidemmo di non farne parola fino ad oggi. Ma, dato che ormai la Scienza ha accettato le nostre risultanze, e devo dire che anche la società ha accolto la mia sposa, e non si dubita della veridicità di quanto abbiamo riferito, possiamo anche arrischiarci a narrare certi fatti che, in precedenza, non sarebbero stati accettati come tali dall'opinione pubblica. Peraltro, prima di raccontare questa tremenda avventura, vorrei farla precedere da alcuni ricordi di quei mesi meravigliosi trascorsi nella perduta Atlantide, i cui abitanti, servendosi delle campane di vetro ad ossigeno, riescono a passeggiare sul fondo dell'oceano con la stessa facilità
con cui i londinesi, che vedo dalle mie finestre dell'Hotel Hyde Park, se ne vanno a spasso tra i prati in fiore. Quando la gente di Atlantide ci accolse, dopo la spaventosa discesa nell'abisso, ci venimmo a trovare più nella posizione del prigioniero che non in quella dell'ospite. Mi piace tuttavia ricordare come questo atteggiamento cambiò e come, grazie ai meriti del professor Maracot, abbiamo lasciato una tale impronta laggiù che la nostra memoria durerà negli annali di Atlantide come quella di una qualche visita celeste. Non sapevano niente della nostra partenza, che certamente avrebbero ostacolato ove fosse stata resa nota, cosicché non dubito che ormai ad Atlantide sia nata una leggenda su di noi: che siamo cioè ritornati ad una qualche sfera celeste, portando con noi il più bel fiore del loro giardino. Ma, come ho già detto, preferisco descrivere con ordine alcune strane cose di quel meraviglioso mondo e anche qualche avventura che ci capitò, prima di giungere alla vicenda più sconvolgente e che lascerà per sempre in noi un ricordo indelebile ossia la venuta del Signore dal Volto Tenebroso. Spesso penso che avremmo dovuto trattenerci più a lungo nel l'Abisso di Maracot, perché c'erano molti misteri e, sino alla fine, molte cose non hanno trovato spiegazione. Eppure abbiamo imparato abbastanza in fretta parte del loro linguaggio, e dunque speravamo di ottenere ben presto ulteriori chiarimenti sulla loro vita e le loro abitudini. L'esperienza aveva insegnato a questo popolo ad essere crudele e spietato, ma anche innocente. Ricordo che un giorno ci fu un improvviso allarme e che, con le nostre campane ad ossigeno, ci precipitammo fuori, sul fondo del mare, ma il motivo per cui corressimo tanto o che cosa dovessimo fare, per noi era un mistero. Eppure non potevamo avere dubbi sull'orrore e il turbamento dipinti sui volti che ci stavano intorno. Quando giungemmo al pianoro sottomarino, incontrammo un certo numero di greci addetti alla miniera di carbone che si affrettavano verso la porta della colonia. Erano tanto stanchi ed esausti che inciampavano cadendo nella fanghiglia: a quel punto era evidente che noi costituivamo una squadra di soccorso con il compito di raccogliere questi incapaci e far muovere i ritardatari.
E, nonostante tutto, nessuno era armato o mostrava di voler affrontare in qualche modo il pericolo imminente. Ben presto i minatori furono spinti nel Rifugio e, quando anche l'ultimo ebbe attraversato la porta, ci voltammo a guardare la strada che avevamo percorso. Tutto quel che riuscimmo a vedere fu un paio di piccole nubi verdognole, luminose al centro e sfilacciate lungo i bordi, le quali, più che muoversi nella nostra direzione, vi erano trascinate dalla corrente. Appena i miei compagni le videro, benché si trovassero lontane quasi un chilometro, furono presi dal panico e se la diedero a gambe più in fretta che poterono. Senza dubbio era stata una faccenda snervante, osservare quelle misteriose fonti di guai che si avvicinavano, ma ben presto le pompe della camera stagna compirono il loro dovere e ci ritrovammo nuovamente sani e salvi. Sopra l'architrave della porta era stato collocato un blocco di cristallo trasparente, lungo tre metri e mezzo e spesso sessantatré centimetri, con delle potenti luci sistemate in modo tale da irradiare un forte riverbero all'esterno. Salimmo su delle scale a pioli che erano state portate per la circostanza e guardammo attraverso la rudimentale finestra. Vidi allora che le due piccole nubi di luce verde si erano fermate proprio davanti alla porta, mandando cupi bagliori. I miei compagni tremavano di terrore. Subito dopo, una delle due nubi si avvicinò ondeggiando alla finestra di cristallo. Istantaneamente, i miei amici mi spinsero giù, al di sotto del livello della finestra; ma sembra che, nella mia trascuratezza, non avessi nascosto del tutto i capelli al malefico influsso, qualunque fosse, che quelle misteriose creature emanavano: infatti parte dei miei capelli incanutì immediatamente, ed è bianca tutt'oggi. Per un po' di tempo gli Atlantidi non osarono aprire la porta, e quando infine si decisero a mandare avanti un esploratore, questi se ne andò fra strette di mano e pacche sulle spalle, come uno che compisse un gesto valoroso. Al suo rientro, riferì che la zona era sgombra e tranquilla; allora la comunità tornò all'usuale allegria e ben presto lo strano incidente sembrò dimenticato. Comprendemmo tuttavia che la parola «Praxa», sussurrata con orrore, era il nome della creatura.
L'unica persona che parve essersi rallegrata di quel misterioso incontro, era il professor Maracot, che trattenemmo a stento dal balzare fuori con una reticella e un vaso di vetro. «Un nuovo tipo di vita, in parte organico, in parte gassoso, ma chiaramente intelligente», fu il suo commento all'episodio. «Un mostro uscito dall'Inferno», concluse Scanlan, più pragmaticamente. Due giorni dopo, uscimmo per una pesca di gamberetti (così chiamavamo quelle escursioni); camminavamo tra la vegetazione del fondo e catturavamo con delle reticelle degli esemplari dei pesci più piccoli, quando scoprimmo per caso, e del tutto inaspettatamente, il corpo di uno dei minatori che, senza dubbio, era stato colto di sorpresa dalle misteriose creature. La sua campana di vetro era spezzata, e non si dimentichi che quel materiale veniva usato per la sua enorme resistenza e per la sua straordinaria durezza, così come è stato dimostrato dagli sforzi compiuti per frantumare la sfera vetrosa che conteneva il mio manoscritto. Gli occhi dell'uomo erano stati strappati, ma per il resto il corpo era intatto. «Un buongustaio raffinato?», esclamò il professore, al nostro ritorno. «In Nuova Zelanda vive un particolare tipo di falco che uccide gli agnelli con il solo scopo di gustarne una parte peculiarmente grassa, sita sotto il rene. Allo stesso modo, questa creatura ammazza l'uomo per cibarsi dei suoi occhi. Sia in terra che in mare, la natura conosce una sola legge: la più spietata crudeltà.» Negli abissi dell'oceano abbiamo avuto molti e terribili esempi di questa legge crudele. Ricordo, ad esempio, che spesso avevamo osservato un curioso solco, sul soffice fango del fondo, come se vi fosse stato rotolato un barile. Indicammo la traccia ai nostri amici di Atlantide e, quando potemmo interrogarli, cercammo di sapere di che animale si trattasse. Per quanto riguardava il nome della creatura, i nostri amici emisero alcuni di quei particolari suoni metallici della lingua d'Atlantide che non è possibile translitterare nel linguaggio europeo o nell'alfabeto europeo. Il nome suonava all'incirca: «Krixchok». Per quel che concerneva l'aspetto della creatura, in questi casi ricorrevano sempre al materializzatore del pensiero, mediante il quale i nostri amici riuscivano a darci un'idea di quel che avevano in mente.
Perciò, sullo schermo luminoso apparve l'immagine di una stranissima creatura marina, che il professor Maracot poté classificare come una gigantesca lumaca di mare. Era di proporzioni enormi, a forma di salsiccia, con occhi posti all'estremità di tentacoli inguainabili, ed era rivestita di uno spesso vello peloso o di setole. A gesti, i nostri amici espressero il grande orrore e la repulsione che quel mostro ispirava loro. Ma, come potrebbe tranquillamente sottoscrivere chiunque abbia conosciuto Maracot, tutto ciò servì unicamente ad infiammare il suo interesse scientifico e a renderlo ancor più curioso nel determinare l'esatta specie e le sottospecie di quel mostro sconosciuto. E, di conseguenza, non mi stupii per nulla quando, in occasione d'una successiva escursione sul fondale, Maracot si fermò nel punto in cui le tracce di quell'orrore si stagliavano nitidamente nel fango, e si diresse deliberatamente verso il groviglio di alghe e di massi basaltici da cui sembravano provenire. Naturalmente, spostandoci dal fondo melmoso, le tracce scomparvero; eppure ci sembrò di scorgere, tra le rocce, una gola naturale che doveva condurre alla tana dell'animale. Eravamo armati tutti e tre con le aste appuntite che solitamente gli Atlantidi portano con sé nelle escursioni subacquee, e tuttavia mi sembrarono ben poca cosa per fronteggiare pericoli sconosciuti. D'altra parte, il professore continuava a camminare faticosamente, senza esitazioni, e non potevamo non seguirlo. La gola rocciosa s'inerpicava in alto, stretta ai lati da enormi ammassi di detriti vulcanici drappeggiati dalle forme rosse e nere di lamellarie, caratteristiche delle grandi profondità. Migliaia di bellissime ascidie e di echinodermi dai colori più vivaci e dalle forme più fantastiche, facevano capolino tra la fitta vegetazione, disseminata di strani crostacei e di piccole forme di vita striscianti. Procedevamo lentamente, dato che non è mai agevole camminare sul fondo del mare, inerpicandosi quasi ad angolo acuto. Improvvisamente vedemmo la creatura che stavamo cercando e, in verità, il suo aspetto non era per niente rassicurante. Il corpo mostruoso sporgeva per metà dalla tana, ricavata nella cavità di un cumulo di detriti basaltici; potevamo vederne circa un metro di lunghezza, ricoperto di un mantello setoloso.
Gli occhi, grandi quanto piattini, erano gialli e brillavano come agate: sentendoci avvicinare, l'animale li ruotò rapidamente sui lunghi peduncoli che li reggevano. Poi cominciò a srotolarsi faticosamente con i movimenti di un bruco, facendo uscire il corpo ondeggiante ed enorme dalla tana. Quando sollevò la testa sulle rocce per poterci osservare meglio, vidi così almeno mi sembrò che su ciascun lato del collo aveva delle sporgenze e protuberanze che ricordavano moltissimo le suole delle scarpe da tennis, increspate e rigate nella stessa maniera e identiche per taglia e colore. In quel momento non mi riuscì di capire che cosa fossero o a che cosa servissero, ma ben presto ne ebbi una sgradevole dimostrazione. Il professore, con espressione freddamente determinata, si spinse avanti stringendo il bastone appuntito. Era chiaro che la speranza di procurarsi quel raro esemplare aveva spazzato via ogni paura dal suo cuore. Al contrario Scanlan ed io non eravamo poi così sicuri di noi stessi, ma non potevamo certo abbandonare il vecchio studioso, e così ci piazzammo accanto a lui, uno a destra e l'altro a sinistra. La creatura, dopo averci guardato a lungo, cominciò ad avanzare strisciando lentamente e goffamente tra le rocce, e di quando in quando sollevava gli occhi peduncolati per vedere cosa facevamo. Era talmente lenta che pensavamo di trovarci ancora a distanza di sicurezza. Eppure, solo ad averlo saputo prima! Eravamo a un passo dalla morte ! Di certo fu la Provvidenza a mandarci un avvertimento. La bestia continuava ad avvicinarsi pesantemente e si trovava a circa sessanta metri da noi, quando un grosso pesce di profondità sbucò fuori dalla giungla d'alghe nella parte di gola dove eravamo noi e, nuotando, cominciò ad attraversarla lentamente. Ne aveva raggiunto il centro e si trovava a metà strada tra noi e l'animale, quando un fremito lo percorse tutto, si rovesciò sul ventre e cadde morto sul fondo del burrone. Nello stesso istante, ognuno di noi sentì un fortissimo e doloroso pizzicore attraversare l'intero corpo, e le ginocchia non reggere più. Il vecchio Maracot, che sapeva essere prudente quanto audace, capì in un attimo la situazione e si rese conto che il gioco era fatto.
Ci eravamo trovati faccia a faccia con un creatura che emetteva scariche elettriche per uccidere la preda, e i nostri bastoni appuntiti non ci sarebbero stati di maggior utilità se avessimo affrontato una mitragliatrice. Se non fosse stato per la fortunata coincidenza del pesce folgorato che ci mise sull'avviso, l'avremmo lasciata avvicinare abbastanza da scaricare su di noi la terribile scossa elettrica che ci avrebbe senza dubbio uccisi. Ci allontanammo furtivamente con la maggior celerità possibile, fermamente risoluti a lasciare in pace, per il futuro, la gigantesca lumaca di mare elettrica. Questi peraltro non sono che alcuni dei più micidiali tra i pericoli dell'abisso. Un altro è costituito dal piccolo Hydrops ferox, come lo chiamò il professore, un pesciolino rosso non più lungo di un'aringa, ma con una bocca smisurata fornita di una formidabile dentatura. In circostanze normali era innocuo, ma il sangue, anche la sua più lieve traccia, lo attirava in un attimo e non c'era alcuna possibilità di salvezza per la vittima, che veniva letteralmente fatta a pezzi da branchi di piccoli aggressori. Una volta assistemmo ad uno spettacolo orribile, alla miniera di carbone. Uno schiavo ebbe la sfortuna di tagliarsi una mano: istantaneamente, migliaia di Hydrops gli furono intorno, provenendo da ogni direzione. Invano lo sventurato si dibatteva; invano i suoi compagni inorriditi si sforzavano di cacciarli via colpendoli con pale e picconi: la parte inferiore del suo corpo, sotto la campana di vetro, quasi si dissolse, davanti ai nostri occhi, in una nube palpitante di sangue che lo coprì interamente. Un attimo prima era un uomo; in pochi secondi si trasformò in un'informe massa rossa da cui sporgevano candide le ossa. Un minuto più tardi di lui non restavano che le ossa, al di sotto della cintura; e un mezzo scheletro perfettamente ripulito giacque sul fondo del mare. La scena era stata talmente orripilante che ci sentimmo male tutti e perfino Scanlan, il duro, cadde svenuto e riuscimmo a riportarlo al Rifugio con qualche difficoltà. Eppure gli spettacoli cui assistemmo nell'abisso, non sempre erano tanto terribili. Ad esempio, ne ricordo uno che non si cancellerà mai dalla nostra memoria.
Accadde durante una di quelle escursioni sottomarine che amavamo fare spesso, a volte con la guida di qualche atlantide, e altre per conto nostro, quando infine i nostri amici si resero conto che non avevamo bisogno di attenzioni e premure costanti, come dei bambini. Stavamo attraversando una parte del fondo che ci era familiare, quando ci accorgemmo, con grande sorpresa, che un bel tratto di sabbia giallo-chiara, largo circa mezzo acro, era stato smosso dalla nostra ultima visita. Stupiti, ci stavamo chiedendo quale corrente sottomarina o quale movimento sismico potesse esser stato la causa di tutto questo, quando, con enorme sbalordimento, vedemmo l'intera superficie sollevarsi e nuotare con delicate ondulazioni un po' più in alto di noi. Era talmente grande che l'immenso manto impiegò qualche minuto per sorpassarci del tutto. Ben presto si svelò il mistero: si trattava di una sogliola gigante, che non differiva dal pesce che conosciamo sotto questo nome, per quanto il professor Maracot poté osservarla, se non per le dimensioni; quella che avevamo appena vista, era cresciuta sino ad assumere proporzioni colossali, forse per l'abbondante nutrimento che poteva fornirle il fondale oceanico. Scomparve nell'oscurità sopra di noi, alta, enorme, brillando debolmente di fiochi bagliori gialli e bianchi, e non la vedemmo più. Un altro imprevedibile spettacolo sottomarino, che potemmo osservare abbastanza spesso, era costituito dai tornadi. Sembra che siano causati dal periodico sopraggiungere di correnti subacquee particolarmente violente, che li provocano da un momento all'altro, senza alcun segno premonitore, e sono veramente terribili, portando devastazione e distruzione, come le trombe d'aria in superficie. Eppure, senza questi periodici uragani sottomarini, l'acqua ristagnerebbe colma di putrescenza; cosicché, come nell'intero ciclo della natura, anche questi tornadi hanno, alla fine, un ruolo positivo; il che non toglie che farne l'esperienza non fosse estremamente pericoloso. La prima volta che mi capitò d'esser sorpreso da un ciclone d'acqua, ero uscito con quella cara ragazza di cui ho già parlato: Mona, la figlia di Manda. Ci trovavamo in un zona bellissima, ricoperta da una quantità di piante marine dai più diversi colori, a circa due chilometri dal Rifugio. Era il giardino privato, per così dire, di Mona, che lo adorava: una fitta vegetazione di serpularie rosa, ofiuridi color porpora e rosse oloturie.
Quel giorno mi aveva portato con sé per farmelo vedere e la tempesta scoppiò proprio mentre lo stavamo osservando. La corrente che d'improvviso ci investì era talmente forte che riuscimmo a non farci trascinare via soltanto reggendoci insieme e rifugiandoci in fretta dietro le rocce. Tuttavia presi nota del fatto che la fortissima corrente d'acqua era calda, ma sopportabile dall'organismo umano, la qual cosa dimostrava che questi fenomeni erano di origine vulcanica, frutto di qualche lontano sconvolgimento sottomarino, in remote plaghe dell'oceano. Il fondo della pianura abissale fu sconvolto dall'impeto della corrente, e la luce venne oscurata da dense nuvole di sabbia e altri sedimenti, sospesi a mezz'acqua. Ritrovare la strada di casa era impossibile, perché avevamo perduto il senso dell'orientamento in quell'oscurità e, in ogni caso, sarebbe stato assai arduo sfidare la forza della corrente. La situazione si stava facendo allarmante anche perché un senso crescente di oppressione al petto, e la difficoltà di respirare, ci dissero che l'ossigeno di riserva stava per finire. È in simili momenti, quando ci si trova ad un passo dalla morte, che gli istinti elementari affiorano e cancellano ogni altra emozione. In quell'attimo, compresi di amare la mia gentile compagna, di amarla con tutto me stesso, di un amore che aveva radici profonde ed era divenuto parte della mia stessa natura. Che strano questo sentimento! Impossibile capirlo. Non era per il suo bel viso adorabile, per la sua figurina dolce; non era per la sua voce musicale come nessun'altra; non era per la nostra completa intesa spirituale, dato che leggevo i suoi pensieri nelle mutevoli espressioni del volto. No, era qualcosa al di là dei suoi bruni occhi sognanti, qualcosa di profondamente nascosto nella sua e nella mia anima, che ci univa per sempre. Le strinsi forte la mano, e lessi nei suoi occhi che non c'era pensiero o emozione che la sua mente sensibile non avesse compreso, arrossandole delicatamente le guance. La morte imminente non le faceva paura accanto a me, e il mio cuore, al contrario, fremeva al solo pensiero. Ma non fu così.
Si potrebbe pensare che i nostri rivestimenti di vetro eliminassero ogni suono o rumore proveniente dall'esterno, ma in realtà certe vibrazioni riuscivano a penetrarvi facilmente, o nel loro impatto con il vetro ne originavano altre uguali all'interno. Sentivo dei colpi attutiti, suoni metallici che riecheggiavano nel casco di vetro, come quelli che avrebbe potuto produrre un gong molto lontano. Non avevo la più pallida idea di cosa si trattasse, eppure Mona non ebbe esitazioni. Sempre tenendomi per mano, si sollevò dal riparo in cui ci eravamo rifugiati e, dopo aver ascoltato con estrema attenzione, si piegò in modo da potersi riparare un poco e cominciò a muoversi contro la fortissima corrente. Era una corsa con la morte, perché ad ogni istante la terribile oppressione al petto diventava più insopportabile. Vedevo il suo caro volto farsi sempre più ansioso e, barcollando, cercavo di seguirla. Dall'espressione del viso e da come si muoveva, capii che la sua scorta di ossigeno era durata più della mia. Mi trascinai in avanti finché mi ressero le forze; poi, improvvisamente, ogni cosa cominciò a vorticarmi intorno, lasciai cadere le braccia e piombai privo di sensi sul soffice fondo dell'oceano. Quando tornai in me, mi trovavo nel mio letto entro il Palazzo di Atlantide. Il vecchio Sacerdote dalla tunica gialla era in piedi accanto a me, e reggeva in mano una fiala di una qualche sostanza stimolante. Maracot e Scanlan, con i volti preoccupati, erano chini su di me, mentre Mona si era inginocchiata ai piedi del letto, guardandomi con espressione ansiosa. Sembra che la coraggiosa ragazza fosse riuscita a dirigersi verso la porta del Rifugio poiché in simili circostanze solevano percuotere un grande gong proprio per guidare eventuali dispersi. Giunta qui, aveva spiegato l'accaduto e quindi aveva guidato una squadra di soccorso che comprendeva anche i miei due compagni nel luogo dove giacevo esanime. Scanlan e Maracot mi avevano riportato al rifugio reggendomi tra le braccia. Qualunque cosa possa fare in futuro, in un certo senso è come la facesse Mona, perché a lei devo la vita.
Adesso che, quasi per miracolo, ci siamo ricongiunti al mondo superiore il mondo umano sotto il cielo è strano pensare che la amavo al punto di desiderare ardentemente di restare per sempre nell'abisso, purché fosse mia. Per molto tempo non riuscii a capire quel profondo, intimo legarne che ci univa e che, a quanto vedevo, Mona viveva con la mia stessa intensità. Fu Manda, suo padre, a darmi una spiegazione inaspettata quanto soddisfacente. Sorrideva benevolmente della nostra storia d'amore, con l'indulgenza e l'aria divertita di chi vede realizzarsi una sua previsione. Un giorno, tempo dopo, mi prese in disparte e fece sistemare nella sua stanza lo schermo d'argento su cui era possibile proiettare i propri pensieri e i propri ricordi. Non potrò mai dimenticare quel che fece vedere a me e a Mona. Seduto vicino a lei, le mani nelle mani, guardavo in estasi lo schermo che s'illuminava e le immagini che prendevano vita, plasmate e proiettate sul materializzatore da quella memoria razziale e collettiva che gli Atlantidi possedevano. Apparve una penisola rocciosa che si protendeva su uno stupendo oceano blu. Non ricordo se ho già detto che in questi pensieri filmati, se mi è consentita l'espressione, i colori erano molto vividi e realistici. Su questo promontorio sorgeva una bella casa assai ampia, dal disegno bizzarro, le mura bianche e il tetto rosso . Era circondata da un boschetto di palmizi al cui centro mi sembrò di scorgere una specie di accampamento, perché distinguevo delle tende bianche e qua e là lo scintillio dell'arma di qualche sentinella che montava la guardia. Un uomo di mezza età, coperto da una pesante cotta d'acciaio, camminava fuori dei palmizi, reggendo un luccicante scudo rotondo in un braccio, e nell'altra mano una spada o una lancia: non mi riuscì di veder bene. Volgendosi verso di noi, mi accorsi subito che era della stessa razza degli Atlantidi che ben conoscevo. Sembrava inoltre il fratello gemello di Manda, eccettuata l'espressione dura e minacciosa del suo volto, il volto di un uomo brutale, brutale per natura e non per mancanza d'intelligenza. La brutalità e l'intelligenza sono di certo un terribile connubio.
In quel viso dalla fronte alta e sardonica, incorniciato da una barba fitta, si poteva quasi sentire l'essenza stessa del male. Se era una precedente incarnazione dello stesso Manda, e i suoi lineamenti c'incoraggiavano a crederlo, allora la sua anima, se non la mente, era ben cambiata da quello che vedevamo sullo schermo. Mentre si avvicinava alla casa, ne uscì una giovane donna che gli andò incontro. Era vestita come le antiche greche, con un lungo abito bianco abbastanza aderente; la tunica, a mio parere, è il più semplice eppure il più bel vestito che mai donna abbia escogitato. L'atteggiamento con cui si avvicinava all'uomo, era di sottomissione e di rispetto: l' atteggiamento di una figlia devota verso il padre. Ma lui la respinse brutalmente, sollevando una mano nell'atto di colpirla. Mentre indietreggiava, il sole illuminò in pieno il suo bel viso rigato di lacrime, e vidi che altri non era se non Mona. Lo schermo d'argento si oscurò e, un istante dopo, si stava formando una nuova immagine. Era una piccola insenatura rocciosa, e capii che doveva far parte della penisola che avevo appena visto. In primo piano apparve una strana barca dalle estremità appuntite; era notte, ma la luna splendeva luminosa sull'acqua. Le stelle familiari, le stesse che possiamo vedere ancor oggi, brillavano nel cielo. Lentamente e con cautela, la barca si avvicinava alla riva. C'erano due rematori, e a prua stava un uomo avvolto in un mantello scuro. Quando furono più vicini a riva, si alzò in piedi guardandosi attorno con estrema attenzione. Nella chiara luce lunare vidi il suo volto pallido e severo. Non ebbi certo bisogno della convulsa stretta mano di Mona o dell'esclamazione di Manda, per giustificare il tuffo al cuore che provai guardando. Quell'uomo ero io. Sì, io! Cyrus Headiey di New York, e ora studioso ad Oxford; io, il prodotto ultimo della cultura moderna, avevo fatto parte di questa possente civiltà del passato. Ora capivo perché molti dei simboli e dei geroglifici che avevo visto mi avevano colpito con un vago senso di familiarità.
Quante volte mi ero sentito come chi tormenta il suo ricordo perché intuisce, sa di essere sul punto di fare una grande scoperta, e cerca qualcosa che lo aspetta da sempre, qualcosa che conosce da sempre, e che tuttavia non riesce a raggiungere. E capivo anche il fremito profondo che avevo sentito incontrando per la prima volta gli occhi di Mona. Quegli occhi, dove i ricordi di dodicimila anni fa ancora vivevano. Giungevano dalle profondità del mio stesso inconscio. Ora la barca aveva toccato terra e, nello stesso istante, dai cespugli uscì fuori una figura bianca e luminosa. Avevo teso le braccia per afferrarla. Dopo un frettoloso abbraccio, la sollevai e la deposi nella barca. Ma si presentò un improvviso pericolo. Con gesti concitati, feci cenno ai vogatori di affrettarsi. Era troppo tardi ormai. Alcuni uomini erano balzati fuori dai cespugli; mani impazienti afferrarono la barca per le sponde: inutilmente cercai di respingerli, colpendoli. Un'ascia baluginò ne l'aria e si abbatté sul mio capo. Mi sentii morire mentre cadevo in avanti, inzuppando del mio sangue la bianca veste della donna. L'ultima cosa che vidi fu la donna che urlava, il bel viso stravolto, mentre il padre, dopo averla afferrata per i lunghi capelli neri, la trascinava via da sotto il mio corpo. Poi il buio cadde su di me. E l'immagine sullo schermo cambiò di nuovo. Questa volta comparve l'interno dèll'edificio, del Rifugio che era stato costruito per volontà del saggio atlantide per servire da riparo nel giorno della Maledizione: in verità era lo stesso palazzo in cui mi trovavo adesso. Vidi i suoi abitanti stipati e terrorizzati al momento del cataclisma. Mi apparve di nuovo la figura di Mona; e c'era anche suo padre, che evidentemente aveva imboccato strade più sagge e più miti, se si trovava tra coloro che erano destinati a scampare alla catastrofe. Vidi le grandi pareti ballare come una nave nella tempesta, mentre i profughi in preda al panico si aggrappavano ai pilastri o si gettavano a terra. E poi il violento e improvviso rollio e la caduta del Rifugio mentre sprofondava tra le onde.
In seguito, ancora una volta, le immagini sullo schermo sbiadirono e scomparvero, e Manda si volse verso di me sorridendo, facendomi intendere che aveva finito. Sì, non c'è dubbio, avevamo vissuto altre vite tutti quanti noi: Manda, Mona e io. E forse altre ne vivremo, nella lunga catena delle reincarnazioni. Ero morto nel mondo superiore, ai tempi in cui Atlantide si ergeva sull'oceano, e altre mie reincarnazioni si erano susseguite lassù. Manda e Mona erano morti nel Rifugio, sotto il mare, e così in questi stessi luoghi il disegno cosmico dei nostri destini giungeva a momentaneo compimento. Ci era stato dato di poter sollevare, per un attimo, un lembo del grande e oscuro velo della natura, e di cogliere una fuggevole visione di verità tra i misteri che ci circondano. Ogni vita non è che un capitolo della storia che Dio ha progettato. Non è possibile giudicare la Sua saggezza e il Suo operato, finché in un giorno supremo e rivelatore, da un pinnacolo di conoscenza, ci sarà concesso di guardare al passato e riconoscere infine cause ed effetti, che agiscono lungo le infinte circonvoluzioni del Tempo. Comunque, l'imprevista scoperta del mio rapporto con il passato, e l'amicizia di Manda, probabilmente ci salvarono qualche tempo dopo, nel corso dell'unico, serio contrasto che mai sia scoppiato con i nostri amici di Atlantide. Senz'altro le cose sarebbero andate a finir male per noi, se non fosse sopravvenuta una faccenda di gran lunga più importante a distrarre l'attenzione di tutti e, indirettamente, a far aumentare moltissimo il nostro prestigio. Ed ecco quanto accadde. Un mattino, ammesso di poter usare un tale sostantivo in un ambiente dove le parti della giornata si definivano in base alle diverse occupazioni, un mattino dunque, il professor Maracot e io sedevamo nella stanza comune, una sorta di salotto, che dividevamo nel nostro alloggio. Maracot aveva attrezzato a laboratorio un angolo della sala ed era completamente preso dalla dissezione di un gastrostomo che aveva catturato con la rete il giorno prima. Il suo tavolo era ingombro da un graticcio di anfipodi e cepepodi con esemplari di Valella, lanthina, Physalia, nonché un centinaio di altre
piccole creature il cui odore non era assolutamente invitante quanto poteva esserlo il loro aspetto. Sedevo accanto a lui, studiando una grammatica della lingua di Atlantide, dato che avevamo scoperto che i nostri amici erano pieni di libri, stampati in modo bizzarro da destra a sinistra su quella che io credevo pergamena, e che risultò poi essere vescica di pesci pressata e disseccata. Ero fermamente deciso a trovare la chiave che mi avrebbe permesso di accedere a tanta conoscenza, e perciò passavo gran parte del mio tempo studiando l'alfabeto e gli elementi del linguaggio di Atlantide. Ma, improvvisamente, le nostre tranquille occupazioni furono interrotte da un incredibile corteo che irruppe nella stanza. In testa c'era Bill Scanlan, tutto eccitato e rosso in viso, che con un braccio gesticolava e con l'altro reggeva davanti ai nostri occhi sbalorditi, un neonato paffuto e piangente; dietro di lui veniva Berbrix, il tecnico di Atlantide che aveva aiutato Scanlan a costruire l'apparecchio ricevente. Era un uomo grosso, gioviale e corpulento, di solito sempre allegro, ma in quell'occasione il suo viso pacioccone era segnato dal dolore. Chiudeva la processione una donna dai capelli biondi e gli occhi azzurri, che dimostravano come non fosse della stirpe di Atlantide bensì di quella razza schiava che discendeva dagli anti chi Greci. «Sentite, capo», gridò Scanlan agitatissimo, «il buon Berbrix, che è un bravo ragazzo, sta diventando completamente scemo per colpa della sottana che si è preso come moglie. Penso sia compito nostro aggiustare questa faccenda. Da quel che ho capito, lei è trattata qui come un negro nel Sud del mio Paese, e Berbrix l'ha combinata bella quando le ha chiesto di sposarlo. Tuttavia penso che sono affari suoi e non nostri.» «Ma certo che sono affari suoi!», dissi io. «Che cosa mai vi ha morso, Scanlan, che non trovate pace e v'immischiate in faccende che non vi riguardano?» «Guardate qui, capo. Oplà! Ecco un bel bambino. Sembra che questi tipi quaggiù non vogliano assolutamente bambini di questa razza, e i preti vogliono offrire il neonato in sacrificio al fantoccio del tempio. Quel fanatico del prete in capo si era impossessato del bambino e stava prendendo il largo con il piccolo, quanto Berbrix gli ha dato uno strattone e si è preso il bimbo, mentre io scaraventavo il prete nel forno sulla pancia del suo idolo.
E adesso abbiamo tutta la banda alle calcagna e...» Scanlan non potè continuare con le spiegazioni, perché sentimmo delle grida e dei passi che si avvicinavano in fretta. La porta fu spalancata e diversi Sacerdoti del Tempio, con le loro tuniche gialle, si precipitarono nella stanza. Dietro di loro comparve lo spaventoso sacerdote dal lungo naso, fiero e austero. Chiamò con un cenno della mano i suoi preti che si precipitarono sul bambino . Tuttavia, si fermarono indecisi quando videro Scanlan che, sistemato in fretta il piccolo sul tavolo da lavoro di Maracot che si trovava proprio dietro a lui, afferrò un appuntito bastone con cui li affrontò. I preti avevano estratto i loro coltelli e così anch'io corsi in aiuto di Scanlan con un bastone e Berbrix fece la stessa cosa. E dovevamo apparire talmente minacciosi, che i Sacerdoti del Tempio cominciarono a indietreggiare; la faccenda era giunta a un punto morto. Allora Scanlan gridò: «Signor Headiey, voi che parlate un po' della loro lingua, ditegli che qui troveranno soltanto botte da orbi. Ditegli che per oggi non consegniamo bambini, grazie! Ditegli che scoppierà una rissa come non ne hanno mai vista una prima, se non tolgono le tende! Ah, sì? Bene, chiedete e otterrete: vedrete che vi accontento subito! ». L'ultima parte del discorso di Scanlan si spiegava col fatto che il dottor Maracot aveva improvvisamente affondato il bisturi da dissezione nel braccio di uno dei Sacerdoti, che si era avvicinato furtivamente cercando di pugnalare Scanlan. L'uomo cominciò a urlare e a saltellare tutt'intorno in preda al dolore e alla paura, mentre i suoi compagni, incitati dal vecchio Sacerdote, si preparavano ad attaccarci. Soltanto il Cielo sa cosa sarebbe successo, se in quel preciso istante Manda e Mona non fossero entrati nella stanza. Manda sgranò gli occhi sbalordito dinanzi a quella scena e, immediatamente, fece un fuoco di fila di domande all'Alto Sacerdote, mentre Mona mi si avvicinava: allora, con felice ispirazione, presi il bimbo e glielo misi tra le braccia, dove si quietò e si accoccolò felice. Manda aveva aggrottato la fronte ed era evidente che si trovava in grande imbarazzo.
Rimandò il Sacerdote e i suoi accoliti al Tempio, e quindi iniziò una lunga spiegazione che compresi solo in parte, traducendola a mia volta a Maracot e Scanlan. «Dovete consegnare il bambino», dissi a Scanlan. «Restituire il bambino? Nossignore: niente da fare!» «Questa ragazza si prenderà cura della madre e del piccolo.» «Allora è un altro paio di maniche. Se la signorina Mona si farà carico della faccenda, ne sarò felice. Ma se quel dannato prete...» «No, no», lo interruppi, «non può interferire. Tutta la questione sta per essere discussa dal Consiglio di Atlantide. È un gran brutto affare, perché ho inteso Manda dire che il prete è nel suo buon diritto e che questa è un'antichissima usanza di Atlantide. Non potrebbero mai fare distinzione fra la razza superiore e la razza degli schiavi se ogni volta si mettessero in mezzo ogni genere di intermediari o di pretesti per far accettare i sanguemisti. Se i bambini sono di sangue misto, devono morire. Questa è la legge.» «Sarà la legge, ma questo bambino non morirà.» «Speriamo. Manda dice che farà il possibile, in Consiglio. Ma occorrerà una settimana, o forse due, prima che si riunisca. Così il piccolo sarà al sicuro con Mona fino ad allora, e nel frattempo chissà cosa può accadere.» Sì, chi poteva sapere quel che sarebbe accaduto? Possiamo anche pensare di aver sognato quello che accadde. Ma di questo parleremo nel prossimo capitolo. Il Signore dal Volto Tenebroso Ho già detto che, a breve distanza dal rifugio sotterraneo degli Atlantidi, progettato e costruito prima che il cataclisma si abbattesse sulla loro terra natale, si trovavano le rovine di quella grande città di cui i sopravvissuti avevano fatto parte. Ho inoltre raccontato come, indossando le campane di fibra vetrosa e dotate di apparecchio respiratore, avessimo visitato il posto; e mi sono sforzato di comunicare la profonda impressione che provammo aggirandoci tra i resti di quella civiltà. Ma le parole non possono descrivere la straordinaria impressione che ci fecero quelle colossali rovine, gli enormi pilastri scolpiti e i giganteschi edifici che giacevano immobili e silenziosi nella fosforescente luce grigia dell'abisso; e in quella quiete soprannaturale si muovevano soltanto le
lunghe alghe ondeggianti nelle correnti sottomarine, o l'ombra di qualche enorme pesce che attraversava i battenti spalancati o fluttuava nelle stanze abbandonate. Ci piaceva molto recarci tra le rovine della città e, sotto la guida del nostro amico Manda, trascorremmo parecchio tempo studiando le strane architetture e gli altri ruderi di quella civiltà scomparsa, che pure dimostrava di aver sorpassato la nostra, almeno per quel che potevamo dedurre dai suoi resti. Tuttavia, la loro superiorità in tante conquiste tecniche e materiali, fondamentalmente si limitava a questo; infatti scoprimmo ben presto che, per quanto concerneva lo sviluppo e l'evoluzione spirituali, un abisso ci separava da loro. La grande lezione che avevamo appreso dalle vicende di Atlantide, dalla sua ascesa alla sua decadenza, era proprio questa: che il più grande pericolo per una nazione è rappresentato dal privilegiare eccessivamente il progresso tecnico-scientifico, a discapito dei valori spirituali. Questo può distruggere un'antica civiltà ed essere, infine, la causa della sua totale rovina. Avevamo notato in una zona dell'antica città sommersa un vasto edificio che doveva un tempo sorgere su una collina, perché si trovava considerevolmente più in alto rispetto agli altri. Vi si accedeva mediante una lunga scalinata in marmo nero, e lo stesso materiale era stato usato in gran parte del palazzo, pur essendo ormai quasi del tutto ricoperto da un disgustoso fungo giallo, un viluppo osceno e lebbroso, che pendeva dai cornicioni, dalle architravi, da ogni sporgenza della casa. Sopra il portale d'ingresso principale, scolpita anch'essa in marmo nero, c'era una terribile testa di Medusa, con l'orrida chioma di serpenti, e questo simbolo si ripeteva continuamente sulle altre pareti. In diverse occasioni avremmo voluto esplorare quel sinistro edificio ma, ogni volta, il nostro amico Manda aveva dimostrato una grandissima agitazione e, con gesti concitati, ci aveva scongiurato di desistere. Era evidente che, fintanto che Manda fosse stato con noi, non avremmo potuto soddisfare la nostra curiosità, il gran desiderio di penetrare il segreto di quel luogo inquietante. Una mattina, Bill Scanlan e io discutemmo la faccenda. «Sentite», disse, «laggiù c'è qualcosa che non vogliono farci vedere e, più insistono su questo punto, più mi insospettisco e mi vien voglia di vederci
chiaro. Non abbiamo più bisogno di guide, né voi, né io. Possiamo benissimo prendere i nostri cappelli di vetro e andarcene a spasso come qualunque altro abitante. Poi, quando saremo lontani, andremo a esplorare quel posto.» «Perché no?», risposi, dato che sull'argomento ero curioso quanto Scanlan. «Avete qualche obiezione?», chiesi al professor Maracot che stava entrando in quel momento. «Forse anche voi desiderate venire con noi per svelare il mistero del Palazzo di Marmo Nero.» «Può darsi sia o fosse la Casa della Magia Nera», esclamò Maracot. «Avete mai sentito parlare del Signore dal Volto Tenebroso?» Gli confessai di non averlo mai sentito nominare. Non ricordo se ho già detto che, tra le altre cose, il professore era anche un esperto di fama mondiale di religioni comparate e di antichi culti primitivi. Neanche la perduta Atlantide sfuggiva al suo prodigioso sapere. «La principale fonte di informazioni al riguardo è ancora una volta l'antico Egitto», proseguì Maracot. «Ed è costituita essenzialmente da quanto i Sacerdoti del Tempio di Sais dissero a Solone: questo è il nucleo originario delle leggende in parte inventate, in parte corrispondenti al vero che si formarono successivamente.» «E che spiritosaggini raccontarono i preti a Solone?», chiese Scanlan. «Bene, gliene raccontarono tante, Bill. Ma, tra le altre, gli riferirono la leggenda del Signore dal Volto Tenebroso. Vi confesso che sono incline a credere che questi possa essere stato il Maestro del Palazzo di Marmo Nero. Qualcuno dice che c'era più di un Signore dal Volto Tenebroso, ma noi ne conosciamo con sicurezza soltanto uno.» «E chi sarebbe stato questo bellimbusto?», chiese Scanlan. «Sotto tutti i riguardi era qualcosa più d'un uomo, sia per potere che per malvagità. Inoltre, si racconta che proprio lui fu la causa della corruzione e della decadenza del popolo, nonché della sua empietà, sicché l'intera Atlantide venne distrutta.» «Come Sodoma e Gomorra...» «Esatto. Sembra quasi esista un punto oltre il quale le cose diventano impossibili: la pazienza della natura si esaurisce, e l'unica strada da imboccare è quella di dare un taglio netto e ricominciare tutto daccapo. Questo essere, dato che è difficile chiamarlo "uomo", si dedicava a scienze proibite ed aveva acquisito poteri magici di grande potenza, volgendoli a scopi malvagi.
Questa è la leggenda del Signore dal Volto Tenebroso e spiegherebbe perché per questa povera gente la sua dimora è ancora un luogo di orrori, e perché hanno paura che noi ci si avvicini al Palazzo di Marmo Nero.» «Eppure, tutto ciò che mi rende ancor più desideroso di visitarlo!», esclamai. «Lo stesso vale anche per me», aggiunse Bill. «Vi confesso che anch'io voglio risolvere questo mistero», disse il professore, «e non vedo che cosa potrebbe capitare di peggio ai nostri gentili ospiti se vi facciamo una piccola escursione per conto nostro, dato che la superstizione impedisce loro di accompagnarci. Coglieremo l'occasione appena si presenterà e faremo così.» Ci volle un po' di tempo prima che si presentasse una simile opportunità, perché la piccola comunità, per forza di cose, viveva talmente gomito a gomito che restava ben poco spazio per l'intimità o la segretezza. Eppure il momento propizio si presentò, infine, un mattino sempre che il nostro elementare calendario stabilisse con esattezza la notte o il giorno in cui una loro cerimonia religiosa li riunì tutti insieme, distraendo la loro attenzione da noi. L'occasione era troppo buona per lasciarcela scappare e, dopo aver assicurato i due custodi che azionavano le grandi pompe della camera stagna, che andava tutto bene, ci trovammo in men che non si dica soli sul letto dell'oceano, e diretti verso l'antica città sommersa. Come ho già detto, è difficile camminare nell'acqua salata, impacciati dalla pressione e con i piedi che sprofondano nel limo; anche un breve tragitto diventa faticoso, ma nel giro di un'ora ci trovammo davanti al grande Palazzo Nero che aveva destato la nostra curiosità. Nonostante il disgustoso fungo che dilagava come una cancrena, il Palazzo era di gran lunga in migliori condizioni degli altri edifici, tanto che il rivestimento di marmo non era per nulla rovinato, e soltanto la mobilia, l'arredamento e la tappezzeria col tempo erano andati in rovina fino a scomparire del tutto. La natura, d'altra parte, aveva provveduto a sostituire gli arredi originali con nuovi e orribili addobbi. Era un luogo cupo e tenebroso in sommo grado, ma tra quelle odiose penombre stavano in agguato le forme oscene di polipi giganteschi e di strani e mostruosi pesci che sembravano usciti da un incubo. Ricordo soprattutto una enorme lumaca di mare color porpora, che strisciava in compagnia di molti altri esemplari, e tutt'intorno grandi
sogliole nere adagiate sui pavimenti come tappeti, e sopra di esse lunghi tentacoli ondeggianti nell'acqua e rossi come fiamme vibranti. Dovevamo star molto attenti ai nostri passi, perché l'intero edificio era diventato il rifugio di creature orribili che potevano provarci con facilità quanto fossero micidiali. C'erano corridoi riccamente decorati con piccole stanze laterali che si perdevano in lontani meandri, ma il cuore del palazzo era uno stupendo salone, che ai giorni della sua grandezza doveva esser stato una delle più belle stanze mai costruite da mani umane. In quel cupo chiarore non riuscivamo a distinguere né il soffitto, né le pareti nella loro interezza; ma, avvicinandoci e facendo luce con le nostre torce elettriche, potemmo apprezzare le sue enormi proporzioni e le squisite decorazioni delle pareti. Queste decorazioni, scolpite con grandissima maestria, risultarono essere delle statue, peraltro orribili e rivoltanti in ciò che rappresentavano. Riproducevano quel che la più perversa mente umana poteva aver concepito quanto a crudeltà sadica e bestiale lussuria. Le orribili immagini, e le ancor più mostruose fantasie che suggerivano, ci spiavano nella fioca penombra, o si stagliavano nitidamente nel fascio luminoso delle torce elettriche. Se mai il Diavolo ha avuto un Tempio eretto in suo onore, era questo di certo. E forse il Diavolo stesso lo abitava, perché ad un'estremità della sala, sotto un baldacchino di metallo scolorito che avrebbe potuto benissimo essere oro, su un alto trono di marmo rosso, sedeva una divinità da incubo, autentica personificazione del male; feroce, minacciosa e spietata, ricordava le fattezze del Baal che avevamo visto nel Tempio di Atlantide, ma era infinitamente più misteriosa e rivoltante. Ed emanava un fascino perverso per lo straordinario vigore dell'espressione del viso. Ci trovavamo davanti alla statua, illuminandola con le torce e perduti nei nostri pensieri, quando un fatto sbalorditivo, assolutamente pazzesco, ci riscosse dalle nostre riflessioni: dalle nostre spalle giungeva il suono soffocato di una sardonica risata umana. Come ho già avuto modo di spiegare, le campane di vetro che indossavamo generalmente escludevano ogni suono proveniente dall'esterno, né era possibile, logicamente, parlare o emettere altri suoni dall'interno delle campane stesse.
Eppure, quella risata di scherno risuonava chiaramente ai nostri orecchi. Con un balzo ci voltammo immediatamente, e restammo sbalorditi per quanto vedevamo. Appoggiato ad uno dei pilastri della sala c'era un uomo, le braccia incrociate sul petto, e gli occhi malvagi fissi su di noi con un'espressione minacciosa. L'ho chiamato «uomo», ma in verità non assomigliava a nessun uomo ch'io avessi mai conosciuto, e il fatto stesso che potesse respirare e parlare, ed esprimere chiaramente le parole a dieci chilometri sotto il mare e senza alcun rivestimento protettivo, ebbene, tutto ciò lo rendeva profondamente diverso da noi. All'apparenza tuttavia, era un essere magnifico, alto non meno di 2 metri e 15 e costruito poderosamente, con il fisico di un atleta, messo in risalto da una sorta di calzamaglia che aderiva perfettamente alla sua figura e che, ad un'osservazione più attenta, ci sembrò di cuoio nero cerato o di pelle conciata in modo singolare. Il suo volto era quello di una statua di bronzo: una statua modellata da qualche abile artista per infondervi tutta la potenza e la malvagità che può racchiudere un viso umano. Eppure le sue fattezze non erano tronfie o sensuali, perché tali caratteristiche sarebbero state segno di debolezza. Non aveva certo l'aspetto di un debole; al contrario, i suoi lineamenti erano puri, ben marcati, forti, con un naso aquilino, fitte sopracciglia brune e neri occhi ardenti che risplendevano e brillavano di un fuoco interiore. Erano proprio quegli occhi spietati e maligni, e la bella bocca crudele dalle labbra tese in un sogghigno sardonico, a conferire al suo viso un aspetto indicibilmente sinistro. Guardandolo, si sentiva che tanto era splendido nella sua persona, quanto era malvagio nel suo intimo, e il suo sguardo diventava una minaccia, il suo sorriso un ghigno, la sua risata uno scherno. «Bene, signori», disse parlando in un inglese eccellente con una voce che risuonava nitida come fossimo stati sulla terra, «avete vissuto una straordinaria avventura, fino ad oggi, e vi apprestate a viverne un'altra ancora più eccitante nel prossimo futuro, benché sia mio gradito incarico porvi termine bruscamente. Temo che questo sia un monologo, più che una conversazione, ma sono perfettamente in grado di leggere i vostri pensieri, e poiché so tutto di voi, non dovete temere equivoci. Ma avete ancora molto da imparare, veramente tanto.»
Ci guardammo l'un l'altro, in preda ad un totale sbalordimento. Era difficile trattenerci dallo scambiarci delle impressioni data l'incredibile piega che aveva preso la situazione. «Sì, è difficile», continuò l'uomo sogghignando. «Ma potrete parlare e scambiarvi le impressioni al vostro ritorno, perché voglio che torniate e portiate un messaggio. Se non fosse per questo messaggio, temo che questa visita vi sarebbe stata fatale. Ma, innanzitutto, ho alcune cose da dirvi. Mi rivolgo a voi, professor Maracot, in quanto membro più anziano e presumibilmente più saggio del gruppo, benché nessuno che possa definirsi saggio avrebbe fatto un'escursione proprio nella mia dimora. Mi sentite chiaramente, vero? Molto bene, un cenno o un piccolo gesto mi è sufficiente . Naturalmente sapete chi sono. Mi avete incontrato poco fa. Nessuno può parlare di me o pensare a me senza che io lo sappia. Nessuno può entrare in quest'antica dimora, il mio tempio più segreto, il mio mausoleo nascosto, senza che io compaia immediatamente. Per questo, quei poveri disgraziati laggiù evitavano il Palazzo di Marmo e volevano che anche voi lo fuggiste. Sareste stati molto più saggi se aveste seguito i loro consigli. Voi mi avete evocato e, una volta che io sia apparso, non è facile liberarsi di me. La vostra mente, con il suo granello di scienza terrestre, si sta tormentando sul problema che rappresento. Come posso vivere quaggiù senza ossigeno? Ma io non vivo qui. Vivo nel mondo degli uomini, lassù, sotto la luce del Sole: vengo qui soltanto quando mi chiamano, come avete fatto voi. Io sono un essere che respira aria: c'è più aria qui che non sulla cima d'una montagna. Anche qualcuno della vostra gente può vivere senz'aria. Coloro che cadono in catalessi trascorrono mesi senza respirare. Io sono un po' come loro ma, come potete osservare, rimango conscio e attivo. E adesso vi starete chiedendo come mai riuscite a udirmi. Non è forse l'autentica essenza delle trasmissioni radio quella di viaggiare nell'aria e nell'etere? Allo stesso modo, esprimo le mie parole con
un'emissione eterica che colpisce i vostri timpani attraverso l'aria che riempie quelle rozze campane di vetro. E il mio inglese? Spero sia abbastanza buono. Ho vissuto per un po' di tempo sulla Terra: un periodo noioso, oh molto noioso! Quanto? Mille, diecimila anni? Che importa? Ho avuto il tempo di imparare tutte le lingue della Terra: il mio inglese non è migliore delle altre che conosco. Ho risolto qualcuno dei vostri dubbi? Molto bene. Vi posso vedere anche se non vi sento. Ma ora devo dirvi qualcosa di assai più importante. Io sono Baal dell'Abisso; sono il Signore dal Volto Tenebroso, colui che ha penetrato a tal punto i segreti della natura da poter sfidare la morte stessa. Conosco tanti misteri che anche la morte muore davanti a me. Forse solo qualcosa di ancora più potente della morte potrebbe vincermi. Oh, mortali, non pregate mai perché vi sia risparmiata la Morte. Può sembrare terribile, ma la vita eterna lo è molto di più: continuare a vivere, mentre la moltitudine senza fine dell'umanità passa accanto a voi; sedere al margine del cammino della storia e vederla andare, vederla snodarsi infinitamente mentre voi restate indietro! Vi stupite che il mio cuore sia irato e amaro? Vi meravigliate che maledica l'insensata folla dei mortali? Perché non dovrei? Vedo che il mio odio vi stupisce. Dispongo di poteri straordinari: posso governare le menti degli uomini. Sono il dominatore delle masse. Ovunque il Male ha trionfato, là io ero presente. Ero con gli Unni quando ridussero mezza Europa in rovina. Ero con i Saraceni quando, in nome della loro religione, misero a ferro e a fuoco qualunque cosa li ostacolasse. Ero presente la Notte di San Bartolomeo: giacevo accanto allo schiavo traditore. Fui io a far bruciare diecimila vecchie che quei pazzi chiamavano "streghe". Fui io a scatenare la folla che insanguinò le strade di Parigi. Bei tempi quelli, ma sono migliori gli anni della rivoluzione russa! Perché anche là, ero presente! Peraltro mi ero quasi dimenticato di questa colonia di topi di mare che si sono scavati una tana sotto il fango e non conservano che l'ombra dell'arte e dei miti di quel grande continente che fiorì sotto il Sole, come mai altri ne sorsero.
Voi avete fatto sì che io mi ricordassi di loro; siete voi che mi avete chiamato, perché questa mia antica dimora, mediante delle vibrazioni di cui la vostra scienza non sa nulla, è ancora legata all'uomo che la costruì e l'amò. Ho saputo subito che voi eravate qui. Mi avete evocato, ed eccomi. Ora, dato che mi trovo qui ed è la prima volta da migliaia di anni il Palazzo di Marmo Nero mi ha ricordato che devo occuparmi di Atlantide. Il loro tempo sta per finire: anche per loro è giunta l'ora dell'addio. Essi discendono dall'uomo il cui potere sfidò e vinse la mia forza e che fece costruire per loro quest'arca di salvezza, per sfuggire alla catastrofe che tutto distrusse fuorché me e questi pochi sopravvissuto. Il suo sapere li salvò dalla morte, e il mio potere preservò me stesso. Ma adesso la mia potenza distruggerà coloro che lui salvò, e la vicenda sarà conclusa.» Mise una mano dentro l'abito nero e ne estrasse un manoscritto. «Lo consegnerete al capo di quei topi di mare», disse. «Mi dispiace che, da gentiluomini quali siete, dividerete il loro destino, ma, poiché siete la causa prima della loro disgrazia, dopotutto è giusto. Mi rivedrete ancora, più tardi. Nel frattempo, vi raccomando caldamente di studiare con attenzione queste pitture e questa sculture, che vi daranno un'idea dei vertici che aveva raggiunto Atlantide nei giorni del mio dominio. Potrete anche rendervi conto degli usi e costumi di quel popolo sotto la mia influenza. La vita era assai varia, emozionante e imprevedibile. Al contrario, i giorni scialbi che vivono oggi potremmo definirli un'orgia di noia; ma senz'altro voi e i sopravvissuti chiamereste orgia di perversità i tempi dei loro antenati. Bene, chiamateli come vi pare, fui io a fomentarli: ne gioisco ancora, e non ho rimorsi. Giungesse di nuovo il mio tempo! Rifarei esattamente quel che ho fatto allora! Ho soltanto un rimpianto, ed è proprio il dono fatale della mia immortalità. Warda, che io maledissi e che avrei ucciso prima che diventasse talmente forte da mettermi contro il popolo, fu più saggio di me, a tale riguardo. A volte ritorna sulla Terra, ma è uno spirito, non un uomo. E ora devo andare. Siete venuti qui spinti dalla curiosità, amici miei.
Mi auguro che adesso sia soddisfatta. » Quindi lo vedemmo svanire. Sì, proprio così, scomparve davanti ai nostri occhi. Non accadde in un istante: dapprima si stagliava chiaramente contro il pilastro cui era appoggiato, poi la sua figura splendida e terribile divenne man mano indistinta, cominciando dai contorni; si spense la luce di quegli occhi spietati e soprannaturali, i suoi lineamenti sbiadirono e, un attimo dopo, divenne una cupa nube vorticante che si dileguò veloce verso l'alto, attraverso l'acqua stagnante di quello spaventoso salone. Se n'era andato. - Sbalorditi, esterrefatti, ci guardavamo sgomenti dinanzi alle strane e misteriose possibilità della vita. Non ci fermammo oltre in quel posto. Non era salutare indugiarvi ancora. E, infatti, dovetti colpire con il bastone appuntito una di quelle disgustose lumache rosse, e la scagliai lontano, poiché stava strisciando alle spalle di Scanlan, mentre io stesso venivo dolorosamente colpito a una mano dal getto velenoso di un grande lamellibranchie giallo. Mentre uscivo dalla sala, ebbi un'ultima, fuggevole visione di quelle spaventose sculture: l'opera d'un vero e proprio demone. Poi, sbigottiti e atterriti, ci lanciammo di corsa lungo i corridoi tenebrosi, giù per le scale di marmo nero, via da quel luogo orribile, maledicendo l'attimo in cui avevamo deciso di visitare il Palazzo della Magia Nera. E fu davvero con grande felicità che ci ritrovammo nella luce fosforescente del fondo marino e rivedemmo un'altra volta l'acqua chiara e trasparente. Entro un'ora fummo di nuovo nel Rifugio. Dopo aver tolto i caschi in fibra vetrosa e il resto dell'equipaggiamento, tenemmo immediatamente una riunione tra di noi, nelle nostre stanze. Il professore e io eravamo troppo sconvolti da quel che era accaduto per riuscire a parlarne. In quel frangente si dimostrò preziosa l'indistruttibile vitalità di Bill Scanlan. «Fumo sacro!», disse. «Si è dissolto come fumo. Ma dobbiamo vedercela con lui, adesso. Penso che questo spauracchio sia davvero un pezzo grosso uscito dall'Inferno. E con tutte quelle pitture, le statue e il resto, mi sembra proprio il custode di un bordello da due soldi. Come affrontarlo... questo è il punto.» Il professor Maracot era perduto nei suoi pensieri.
Poi si alzò bruscamente, suonò il campanello e immediatamente comparve il nostro cameriere in tunica gialla. «Manda», gli disse Maracot. Un minuto dopo il nostro amico era con noi. Maracot gli consegnò il messaggio fatale. Non ho mai ammirato tanto un uomo, come Manda in quella circostanza. Con la nostra inqualificabile curiosità, stavamo causando la rovina della sua gente e di lui stesso: noi, gli stranieri che aveva salvato quando ogni speranza ci aveva abbandonato. Letto il messaggio, divenne bianco come un fantasma, eppure non c'era ombra di rimprovero in quei suoi occhi castani tanto tristi. Scosse la testa, e ogni suo gesto rivelava la disperazione che lo aveva preso. «Baal dell'Abisso! Baal dell'Abisso!», gridò, e portandosi le mani agli occhi, continuava a sfregarli quasi volesse scacciare un'orribile visione. Poi si mise a correre intorno alla stanza come impazzito dal dolore, e finalmente si precipitò fuori per leggere il sinistro messaggio alla comunità. Pochi minuti più tardi udimmo i colpi della grande campana che convocava l'assemblea nel salone centrale. «Andiamo anche noi?», chiesi. Il professor Maracot scosse la testa. «Che cosa possiamo fare? E che cosa possono fare anche loro in una situazione come questa? Che possibilità hanno contro un essere che ha i poteri di un demone?» «Le stesse di un branco di conigli contro una donnola», disse Scanlan. «Ma, perdinci, è compito nostro trovare una via d'uscita. Non è giusto che andiamo a svegliare il Diavolo e poi scarichiamo il barile sulla schiena di quelli che ci hanno salvato.» «Cosa suggerite?», gli chiesi ansiosamente, perché a parte tutto il suo slang e la sua ironia, avevo fiducia nel suo grande senso pratico e nella sua abilità. «Bene, adesso vedrete!», riprese. «Ma, chissà, forse questo spauracchio non è poi così al sicuro come crede. Si sarà pure arrugginito un po' con l'età e, se dobbiamo prenderlo in parola, sta diventando vecchio.» «Credete che possiamo attaccarlo?» «Pazzie!», intervenne il professore.
Scanlan si diresse verso il suo armadietto, vi armeggiò un attimo, e quando si voltò di nuovo, vedemmo che aveva in mano una grossa rivoltella a sei colpi. «Che ve ne pare?», chiese. «Mi sono impadronito di questo gingillo quando per caso l'ho trovato sul relitto. Ho pensato che avrebbe potuto tornarci utile. Ho una dozzina di confetti con cui fare tanti buchi in quel lazzarone, che senz'altro gli uscirà fuori un po' della sua magia. Buon Dio! Che succede, adesso?» La rivoltella cadde con fracasso sul pavimento mentre Scanlan si contorceva in preda ad atroci dolori, stringendosi con la mano sinistra il polso destro. Terribili crampi gli attanagliavano il braccio e, quando cercammo di alleviargli il dolore massaggiandolo, sentimmo che i muscoli erano tesi e irrigiditi, aggrovigliati come le radici di un albero. Un sudore mortale gli imperlava la fronte, e quando ormai cominciavamo a disperare, si mise infine a sedere sul letto, completamente sfinito e impaurito. «È finita, sta passando», disse respirando a fatica. «Ecco, è passato. Grazie, va meglio ora. Ma William Scanlan è k.o. questa volta. Ho imparato la lezione: non cercate di combattere l'inferno con una rivoltella a sei colpi; non provateci neanche. D'ora in avanti, gliela do vinta.» «Sia, avete avuto una bella lezione!», disse Maracot. «Ed è stata ben severa.» «Allora credete che non abbiamo alcuna probabilità di cavarcela?» «Cosa mai possiamo fare se, a quanto sembra, lui conosce in anticipo ogni nostra mossa? Eppure dobbiamo cercare di non disperare.» Sedette pensoso per qualche minuto. «Credo», continuò, «che la cosa migliore per voi, Scanlan, sia restarvene dove siete e riposarvi per un po'. Avete subìto un attacco che richiederà un certo tempo perché vi rimettiate.» «Se c'è qualcosa da fare, contate su di me, purché sia finita con questa maledetta storia!», disse il nostro amico coraggiosamente, ma il suo viso tirato e il tremito che gli scuoteva le membra dimostravano quanto fosse provato. «Non possiamo far nulla nel senso che intendete voi, Bill. Alla fine abbiamo almeno imparato qual è la strada da non seguire in questa faccenda. Ogni violenza è inutile. Dobbiamo agire su un altro piano, il piano dello spirito.
Restate qui, Headiey. Vado nella stanza che ho adibito a studio. Forse restando solo riuscirò a vederci più chiaro e a decidere quello che si può fare.» Scanlan e io avevamo imparato a riporre molta fiducia in Maracot. Se una mente umana poteva risolvere le nostre difficoltà, questa era la sua. E tuttavia sentivamo di aver raggiunto un punto al di là di ogni umana possibilità. Eravamo senza speranza, come bambini in balìa di forze che non potevamo comprendere né tanto meno dominare. Scanlan era caduto in un sonno agitato. Il pensiero che mi ossessionava, mentre ero seduto accanto a lui, non era come potevamo cavarcela, quanto piuttosto che forma avrebbe assunto la disgrazia, e in che modo si sarebbe abbattuta su Atlantide e su di noi. Mi aspettavo, ad ogni istante, di veder crollare il solido soffitto, le pareti spaccarsi e le cupe acque dell'abisso chiudersi su coloro che per tanto tempo le avevano sfidate. Poi, improvvisamente, la grande campana suonò un'altra volta. Il suo aspro clangore mi tormentava i nervi: balzai in piedi e Scanlan si tirò su a sedere sul letto. Non era il solito scampanìo che convocava l'assemblea quello che adesso echeggiava nell'antico palazzo. Quei colpi convulsi, spezzati e irregolari erano un segnale d'allarme. Tutti dovevano precipitarsi e subito. I rintocchi continuavano minacciosi e insistenti. «Presto, venite! Subito, immediatamente, venite! Lasciate ogni cosa e accorrete!», gridava la campana. «Sentite, amico, dovremmo andare con loro», disse Scanlan, «credo che se la stiano vedendo con Lui, adesso.» «Ma che cosa possiamo fare?» «Forse, se stiamo con loro gli infonderemo coraggio. Ad ogni modo non devono pensare che siamo dei vigliacchi. Dov'è il professore?» «È andato nel suo studio. Ma avete ragione, Scanlan. Dobbiamo andare, perché vedano che siamo pronti a dividere il loro destino.» «In un certo senso quei poveri diavoli dipendono da noi. Per certi versi ne sapranno anche più di noi, ma non hanno il nostro fegato! Loro hanno trovato le cose bell'e pronte, mentre noi abbiamo dovuto conquistarcele da soli. Bene, affronterò il diluvio... se diluvio dev'essere.»
Stavamo avviandoci verso la porta, quando un'inaspettata interruzione ci trattenne. Il professor Maracot stava in piedi davanti a noi. Anzi, era qualcosa molto superiore al Maracot che conoscevamo: chi era quell'uomo sicuro di sé, dal volto forte e autoritario che irraggiava energia e decisione? Il tranquillo studioso era stato rimpiazzato da un superuomo, da un grande condottiero, da uno spirito dominatore che poteva piegare ogni mente al suo volere. «Sì, amici, hanno bisogno del nostro aiuto. Tutto può ancora finire bene, ma dobbiamo affrettarci o sarà troppo tardi. Sì, sì, stiamo arrivando.» Queste ultime parole erano rivolte ad alcuni atterriti Atlantidi apparsi sulla porta che ci facevano segno d'affrettarci. Era un fatto inoppugnabile, come aveva detto Scanlan, che avevamo dimostrato più volte di aver maggior forza di carattere e di essere più pronti all'azione di quel popolo solitario; per cui anche nel momento dell'ora suprema si aggrappavano a noi. Udii un mormorio sommesso di gioia e di sollievo al nostro ingresso nel salone affollato, e poi quando ci sedemmo nei posti che ci erano riservati in prima fila. Era ora che arrivassimo, se volevamo essere di un qualche aiuto. Il terribile essere si trovava già sulla piattaforma e fronteggiava la folla che tremava dinanzi a lui, con un sorriso demoniaco e crudele sulle labbra sottili. Mi tornò in mente, guardandoli, il paragone di Scanlan di un branco di conigli davanti ad una donnola. Si facevano piccoli, stringendosi l'uno all'altro in preda al panico, guardando con occhi sbarrati la possente figura che torreggiava su di loro e li scrutava con uno sguardo spietato scolpito nel volto. Non riuscirò mai a dimenticare la vista di quella platea semicircolare, fila dopo fila, stipata di visi stravolti e terrorizzati che guardavano con occhi pieni di orrore in un'unica direzione: la pedana centrale. Sembrava che Baal avesse giù pronunciato la loro condanna e che essi attendessero all'ombra della morte il suo compimento. Manda stava in piedi dinanzi a lui, in atteggiamento sottomesso, difendendo con accenti accorati la sua gente, ma si vedeva chiaramente che le sue parole non facevano altro che accrescere il perverso piacere del mostro che lo guardava ghignando.
Baal interruppe poi Manda con poche parole, e sollevò in alto la mano destra, mentre un grido di disperazione prorompeva dalla folla. Fu in quell'istante che il professor Maracot balzò sulla pedana. Era sorprendente vederlo: sembrava che un prodigio lo avesse trasformato. Aveva il portamento e i gesti d'un giovane, eppure il suo viso splendeva di una tale potenza, quale mai ho potuto vedere in lineamenti umani. Si avvicinò a grandi passi al gigante che lo fissava sbalordito. «Ebbene, ometto, cosa hai da dirmi?», gli chiese quello. «Devo dirti», esclamò Maracot, «che la tua ora è giunta. È suonata da un pezzo, ormai! Va' via! Sprofonda nell'Inferno che ti aspetta da tanto. Sei un principe delle Tenebre: va' allora dove la tenebra è sovrana!» Gli occhi del demone splendevano come nere fiamme mentre rispondeva: «Quando verrà la mia ora se mai verrà non sarà certo dalle miserabili labbra di un mortale che la saprò. Di che potere disponi tu che hai osato opporti, per un attimo, a colui che ha penetrato i più riposti segreti della natura? Potrei distruggerti ora, subito e qui, se lo volessi». Maracot guardava quegli occhi spaventosi senza tremare. Anzi, mi sembrava quasi che fosse il gigante ad evitare lo sguardo del professore. «O Essere infelice», gridò Maracot, «sono io che ho il potere di distruggerti dove ti trovi. Troppo a lungo hai avvelenato il mondo con la tua presenza: sei stato un bubbone che ha infettato ogni cosa bella e buona. I cuori degli uomini saranno più leggeri quando te ne sarai andato, e il Sole brillerà più luminoso.» «Cosa dici? Chi sei?», balbettò quella creatura. «Parli di una conoscenza segreta. Devo essere io a dirti qual è l'intima essenza di tale sapere? È una verità semplice e profonda: in ogni cosa, in ogni fenomeno, in ogni forma dell'essere, in ogni pensiero, in ogni azione, il Bene è più potente del Male. E l'Angelo sconfiggerà il Demone. Adesso io sono nella situazione in cui ti sei trovato tu per moltissimo tempo: adesso sono io che posseggo il Potere del Conquistatore, dato che ho fatto prevalere il Bene. Quella è la Forza che mi è stata data. Per questo ti dico ancora: Muori! Sprofonda nell'Inferno a cui appartieni. Muori! Sprofonda nel tuo Inferno!»
E il miracolo avvenne. Per un minuto o forse più (com'è possibile tener conto del tempo in simili circostanze?) i due esseri, l'uomo e il Demone, si fronteggiarono rigidi e immobili come statue, fissando l'uno gli occhi dell'altro, ognuno teso a far prevalere la sua volontà, il Male e il Bene. Poi, d'un tratto, il gigante nero indietreggiò, col volto sconvolto dall'ira e dalla rabbia, e sollevò le mani artigliando l'aria. «Sei tu, Warda! Maledetto! Ho riconosciuto la tua mano. Maledetto! Che tu sia maledetto, Warda! Maledetto!» La sua voce si spense quindi in lontananza. L'alta, cupa figura, cominciò a dissolversi: la testa si abbassò sul petto, le ginocchia si piegarono; si abbassava e rimpiccioliva sempre di più cambiando orribilmente aspetto. Dapprima sembrò una forma umana rannicchiata, poi un'informe massa scura e, infine, si disfece del tutto, trasformandosi in un disgustoso mucchio di nera putredine che colava sul pavimento della pedana ammorbando l'aria. Allora io e Scanlan ci lanciammo in avanti, salendo sulla piattaforma, perché il professor Maracot, sfinito, si era accasciato con un lungo gemito, colpito da un collasso che sembrava irrimediabile. «Abbiamo vinto! Abbiano vinto!», mormorò: un attimo dopo aveva perso i sensi e giaceva esanime sul pavimento. Fu così che la colonia di Atlantide si salvò dal più spaventoso pericolo che mai l'avesse mai minacciata, mentre una forza demoniaca veniva bandita per sempre dal mondo. Per alcuni giorni il professor Maracot non fu in condizioni di raccontare quello che era accaduto e, quando lo fece, la sua storia fu talmente incredibile che, se non avessimo assistito al terrificante epilogo, l'avremmo considerata il delirio di un folle. Tuttavia era evidente che il misterioso potere che lo aveva sorretto in quella circostanza lo aveva ormai lasciato, e che era tornato ad essere il tranquillo e gentile uomo di scienza che avevamo conosciuto. «Cosa doveva capitarmi!», esclamò. «Proprio a me, un materialista convinto, una persona talmente immersa nello studio della materia e delle scienze esatte, da aver praticamente escluso l'invisibile e il soprannaturale dalla sua filosofia. Le convinzioni di tutta una vita sono crollate in pochi istanti.»
«In un certo senso siamo tutti tornati a scuola un'altra volta», disse Scanlan. «Se mai farò ritorno alla mia piccola città, avrò qualcosa da raccontare ai bambini!» «Meno direte, meglio sarà, sempre che non vogliate passare per il più grande bugiardo d'America», sorrisi. «Se qualcuno ci avesse raccontato una simile storia, pensate che gli avremmo creduto?» «Mah, forse no. Sentite, professore: sembra che ne sappiate più di tutti noi su questa faccenda; quel lazzarone ha avuto il fatto suo, dopo che lo avete messo fuori combattimento, come non ho mai visto in tutta la mia vita. Non ci sarà un bis. L'avete letteralmente cancellato dalla faccia della terra! Non ho idea di dove sia andato adesso, ma di sicuro non è un posto adatto a Bill Scanlan .» «Va bene, vi racconterò esattamente come sono andate le cose», lo interruppe il professore. «Ricorderete che a un certo punto mi ritirai nel mio studio. Non nutrivo soverchie speranze ma, a suo tempo, lessi molti trattati di Magia Nera e Arti Occulte, per cui sapevo che la Magia Bianca può sempre vincere la Magia Nera, a patto che riesca a raggiungere lo stesso livello di volontà e di forza. E Lui purtroppo si trovava su un piano molto più forte, non dico più elevato: questo era il problema cruciale. Non riuscivo a vedere una via d'uscita. Mi lasciai cadere sul divano e cominciai a pregare sì, io, il materialista convinto, pregavo perché il Cielo mi aiutasse. Quando ci si trova al di là di ogni umana possibilità, cosa altro possiamo fare se non protendere le mani in preghiera nelle nebbie che ci vorticano intorno supplicando un aiuto? E così pregai, e la mia supplica ricevette una meravigliosa risposta. Improvvisamente mi resi conto di non essere più solo nella stanza. Davanti a me si ergeva un'alta figura, scura come la presenza malefica che stavamo combattendo: ma il suo volto gentile, incorniciato dalla barba, irradiava compassione e amore. Sentivo anche in essa un Potere non inferiore a quello di Baal, ma questo era il potere del Bene, il potere dinanzi a cui le forze del Male si dissolvono come nebbia al sole. Mi guardava con occhi gentili, mentre mi tiravo su osservandolo con meraviglia, troppo sbalordito per riuscire a parlare.
Qualcosa nel mio intimo una profonda intuizione o ispirazione mi diceva che questo doveva essere lo spirito del grande e saggio atlantide che aveva combattuto il Male finché era vissuto e che, quando non poté evitare la distruzione della sua terra, fece sì che i più meritevoli si salvassero e sopravvivessero anche quando Atlantide s'inabissò nell'oceano. Questo essere meraviglioso interveniva ancora per evitare la rovina della sua opera e la distruzione dei suoi figli. In un improvviso fremito di speranza mi resi conto di tutto ciò come se me lo avesse detto lui stesso, con le sue parole. Allora, sempre sorridendo, si avvicinò e mi poggiò le mani sul capo. Senza dubbio mi stava trasmettendo il suo potere e la sua forza. Lo sentii come un fuoco che mi scorreva nelle vene. In quell'attimo niente mi sembrò impossibile. Avevo la forza e il potere di operare miracoli. Fu allora che udii la campana suonare, avvertendo che il momento critico era ormai giunto. Mentre mi alzavo dal letto, sorridendo per incoraggiarmi, lo spirito scomparve. Subito dopo mi unii a voi: il resto lo conoscete.» «Bene», gli dissi, «credo che vi siate creato un'eccellente reputazione. Se voleste installarvi qui come un Dio, penso non incontrereste alcuna difficoltà.» «Eh sì! », aggiunse Scanlan. «Lo avete sistemato proprio bene. Ma ditemi, professore, come mai questo delinquente non sapeva quello che stavate per fargli? Con me è stato assai svelto quando ho preso la pistola. Eppure ce l'avete fatta.» «Suppongo che la spiegazione consista in questo: voi volevate combatterlo sul piano della materia, mentre io l'ho affrontato su quello dello spirito», rispose il professore pensosamente. «In fondo questi fatti insegnano ad essere umili. È soltanto quando raggiungiamo questi vertici spirituali che ci rendiamo conto di quanto siamo piccoli nel quadro della creazione. Ho imparato la lezione. Spero di poter dimostrare, nella vita che mi resta, che l'ho appresa bene.» Così finì quella nostra straordinaria avventura. Qualche tempo dopo concepimmo l'idea di inviare nostre notizie in superficie, e più tardi, escogitammo il modo di tornare nel mondo per mezzo dei globi in fibra di vetro riempiti di levigeno; cosa che attuammo nel modo ormai noto.
Oggi il professor Maracot dice di voler tornare laggiù, perché... desidera chiarire qualche problema d'ittiologia. Riguardo a Bill Scanlan, ho sentito che ha sposato il suo «passerotto» di Filadelfia e che è stato promosso direttore dei Cantieri Merribank, sicché non va più in cerca d'avventure. Quanto a me, be', l'abisso del mare mi ha regalato una perla davvero preziosa, e non chiedo niente di più.