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Prima edizione ebook: ottobre 2012 © 2012 Newton Compton editori s.r.l. Roma, Casella postale 6214
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ISBN 978–88–541–4567–2 www.newtoncompton.com Edizione digitale a cura di geco srl
Salvatore Garau
Crudele amore mio
A Paola che mi ha sostenuto. A mia madre che mi avrebbe sostenuto. Oggi sono talmente felice da essere terrorizzato all’idea che domani potrei non esserlo
anon ’800
1
È finita. Non c’è più tempo per i ripensamenti, gli restano solo pochi secondi. Prima di tirare lo spago verso di sé guarda ancora dentro quei neri tunnel. Si aggiusta gli occhiali, quasi per mettere a fuoco le immagini che emergono dal fondo. Sono lampi, fosforescenti come santi, i ricordi che scorrono veloci davanti agli occhi; gli ultimi dieci anni da quell’ultimo giorno di scuola. Ha paura.
Ma è composto, immobile, come di fronte ai fotografi di una volta. «Ponte Rosellina!». Eccola la vocina. Ancora gli procura freddo terrore e insieme una vampata di incontrollabile eccitazione, che ormai, a questa età, gonfia e brucia solo le cellule del cervello. «Ponte Rosellina…!». Mario Solinas non può più reggere. Prova a distrarsi pensando al suo basilico che cresce così profumato grazie alle ossa che vi riposano proprio sotto; non c’è stato niente da fare, quell’idea non se l’è mai tolta dalla testa. Deve tirare lo spago. Ora! Quell’ultimo giorno di scuola sarebbe stato anche l’ultimo giorno di scuola della
sua vita. Il professor Mario Solinas andava in pensione. Sul piazzale antistante la scuola media Eleonora d’Arborea di Oristano, riceveva i saluti affettuosi dei colleghi. Dopo trentacinque anni di onorato servizio, il professore più amato della scuola aveva terminato il suo ciclo come meglio non si sarebbe potuto pretendere. Ogni tanto il cerchio dei colleghi veniva spezzato da un gruppo di allievi che, a loro volta, e in modo piuttosto chiassoso, portavano i saluti al professore. Mario Solinas faticava a essere spontaneo e naturale come era sempre stato. Una strana piega della bocca lo disponeva al pianto, ma riusciva a trattenersi in un sorriso forzato.
Il caldo di giugno gli imperlava la testa glabra, e delle gocce di sudore andavano a mascherare qualche lacrima di commozione che proprio non riusciva a non mostrarsi. Piccolo di statura, veniva quasi sommerso da ragazzi e ragazze di seconda e terza media, alcuni decisamente più alti di lui. Si fece largo Francesco, un ragazzo all’inizio considerato timidissimo e quasi stupido. Ma il professor Solinas aveva fatto ricredere tutti su di lui. «Professore! Questo è un piccolo regalo per lei da parte di tutta la terza b», gridò, facendo spuntare un pacchetto con tanto di nastro. L’insegnante prese il regalo pensando che a qual punto sarebbe stato proprio difficile frenare la commozione. Fece per aprire il pacchetto.
«No! No! Non qui!», implorò quasi Francesco. «È una piccola cosa, lo apra più tardi, a casa sua». «Grazie, grazie tante», riuscì finalmente a dire il professore, ma il grazie era per avergli evitato di sfogare le lacrime davanti a tutti. Al bar il preside offrì un giro di aperitivi. Mario Solinas volle ripetere il giro. Lui, anche se non era astemio, due Campari a stomaco vuoto non ricordava di averli mai bevuti. Lasciando Oristano per recarsi a Riola, il paese dove era nato e aveva sempre vissuto, gli sembrava, dalla sua utilitaria, che la cittadina scivolasse ai lati dei finestrini come al rallentatore. Forse era l’effetto dei due Campari, o
forse la malinconia che lo imbalsamava al volante, rendendo l’acceleratore duro da schiacciare. La macchina si trascinava lenta sull’asfalto, quasi non volesse ammettere che quel compito giornaliero di portare il professore a Oristano fosse veramente concluso. Davanti agli occhi di Mario Solinas si alternavano le facce allegre degli allievi, così esuberanti anche per la chiusura dell’anno. Con la destra tastò il sedile di fianco per accertarsi di non aver dimenticato nel bar il regalo della terza b. Si voltò a guardarlo solo per un secondo. Il colpo sordo che sentì davanti all’auto era così stonato da farlo impallidire. Nel momento in cui, istintivamente, schiacciò il pedale del freno, riuscì appena a vedere una figura di donna sparire davanti al
muso della sua utilitaria. Come aveva potuto non vederla? Andava talmente piano. Mai, mai gli era successa una cosa simile. Smise di porsi domande. Doveva scendere dalla macchina. Sbatté il ginocchio sulla portiera. Assestandosi gli occhiali sul viso gelato si avvicinò verso quel fagotto immobile e silenzioso. Inciampò su una scarpa della donna. «Signora! Signora! Risponda, santo Dio!», gridava il professore, agitandosi confusamente attorno a quel corpo che non dava segni di vita. S’erano già accostate diverse persone. «Poveretta», «Ma di chi è la colpa?». Al professore quelle voci arrivavano come distorte, accrescevano la sua angoscia. «Un’ambulanza!», gridò allora, voltandosi
verso la piccola folla. «Stia tranquillo, l’ho già chiamata io», disse un ragazzo, «arriverà tra pochi minuti». La donna fu portata via e la polizia ultimò i rilevamenti. Mario Solinas era ancora in preda all’ansia; voleva subito raggiungere l’ospedale. Nella sala d’aspetto, mentre attendeva il responso dei medici, si ricordò di telefonare al fratello. Gli raccontò l’accaduto fingendo una certa serenità. Gli disse di non aspettarlo a pranzo; si sarebbe trattenuto ancora in ospedale. Quando si presentò il medico, Solinas schizzò in piedi sistemandosi gli occhiali. «Lei è un parente?» «Sono io che l’ho investita… ma la polizia ha detto che non…».
«Stia calmo, non è niente di grave. Un forte trauma cranico, ma ha già ripreso conoscenza». «Oh, meno male, la ringrazio». «Forse c’è una piccola frattura al piede destro, vedremo tra un po’ dalla lastra». «Sì, certo, la lastra». «E comunque tratterremo la signora qualche giorno per i controlli del caso». «La ringrazio… e, mi dica, quando potrò vederla?» «Anche subito», rispose il medico, sbottonandosi il camice e avviandosi. «Ma solo per qualche minuto. Deve riposare». «Sì, solo qualche minuto…». «È in fondo al corridoio, stanza numero sette».
Attraversando il corridoio il professore cercò un’espressione adatta per presentarsi alla donna; non poco coinvolto in quel piccolo dramma, ma neanche troppo triste. D’altronde sarebbe potuta andare ben peggio. Comunque, nonostante la colpa non fosse sua – così aveva detto la polizia – si sentiva in parte colpevole. Si accusava di essersi distratto un istante. Arrivato alla stanza numero sette fu colto da un rigurgito di vigliaccheria. Esitò. Immaginò un’ipotetica reazione della donna, magari aggressiva. Se l’avesse trattato da pirata della strada? Se l’avesse offeso gridandogli tutta la sua rabbia davanti alle altre pazienti? Se… Solinas si asciugò il sudore dalla fronte ed entrò nella camera.
C’erano quattro letti e sembrava che tutte le pazienti dormissero. «È questa la signora che ha avuto l’incidente», disse la paziente del primo letto a destra, mentre apriva gli occhi e voltava lievemente la testa verso il letto accanto. Il professore fece qualche passo cercando di non farsi sentire. Restò fermo davanti alla donna; ora poteva vederne il viso. Aveva solo una piccola garza sulla fronte e teneva gli occhi chiusi. Non voleva svegliarla. Lesse sulla testata del letto il nome che la polizia gli aveva detto, ma che aveva già dimenticato. La signora Sanna aprì gli occhi: «È lei, vero? Che mi è venuto addosso…?». Il professore fu preso alla sprovvista:
«…Sì, mi dispiace… non so come, io non l’ho vista…». «È stata colpa mia. Lei non si preoccupi», disse lentamente la signora. «Mi sembrava di andare piano… anzi, pianissimo. Non capisco come…». «Mi dispiace. Non so cosa mi sia successo… Ho attraversato senza guardare, avevo… avevo la testa tra le nuvole». «Può capitare sa? L’importante è che non ci sia… gliel’hanno detto, i medici, che non c’è niente di grave?» «Sì, fortunatamente. Però mi dispiace per lei. Questo contrattempo…». «Lasci perdere». Solinas accennò un sorriso, ormai si era del tutto rilassato. «Come si dice, tutto è bene quel che…». «Ma io la conosco sa?», lo interruppe
la donna. «Lei non è forse un professore della Eleonora d’Arborea?» «Certo! Sono il professor Solinas». «Ecco perché… mi sembrava di conoscerla. Mia figlia… mia figlia è stata una sua allieva». «Davvero? E…». «Maria Sanna, si chiama, chissà se la ricorda». «Maria, Maria Sanna…». Il professore aggrottò le sopracciglia. «Con tutti gli alunni che ho avuto». In quel momento entrò un’infermiera: «Per favore, signor… deve uscire. La paziente deve riposare». «Certo, mi scusi. Signora Sanna, la saluto. Se, se ha bisogno di…». «Lasci stare, già le ho arrecato abbastanza disturbo. Arrivederla».
«Comunque la verrò ancora a trovare, tra qualche giorno. Buona guarigione».
2
Antonio aveva appena finito di ascoltare da Mario il resoconto dettagliato di quella giornata movimentata. Si alzò e cominciò a trafficare dentro il frigorifero; a casa dei fratelli Solinas si cenava molto presto. «Ma ti ricordi che anche quando sono andato io in pensione», disse Antonio, prendendo due pentolini dal frigo, «era successo qualcosa di molto particolare… Non ti ricordi niente?»
«Mah, non mi viene in mente…». «La moria dei pesci nello stagno!», gridò Antonio, infilandosi un grembiule da cucina. «Non ti ricordi che in quel ristorante, vicino allo stagno, c’era un tanfo di cadavere che ci ha costretti a lasciare il pranzo a metà?» «È vero, mi ricordo». Poi, quasi tra sé, «meno male si va in pensione solo una volta». «Come dici?» «Ho detto meno male che si va in pensione solo una volta!», fece Mario, alzando la voce. «Cos’è, sei ancora nervoso?» «Ma no, no, sì insomma… Uno non vede l’ora di andare in pensione – chissà poi perché – e appena ci vai ti sembra il giorno più triste della tua vita. E adesso,
cosa faccio? Continui a ripeterti. Mi verrebbe quasi da ringraziare l’imprevisto che mi è successo: mi ha fatto dimenticare la malinconia dell’ultimo giorno». «Adesso non esagerare». «Ma sì! È un mese che mi dico e mi ridico: e adesso?» «A pensarci bene, un po’ in crisi sono andato anche io». «Infatti, me lo ricordo». «Ma dura una settimana, un mese, to’, e dopo t’inventi una nuova vita». Mario cominciò ad apparecchiare. A tavola il suo compito era quello: apparecchiare e lavare i piatti. Alla morte dei genitori, trent’anni prima, i loro ruoli si erano consolidati. Antonio cucinava, non aveva mai lavato un bicchiere in vita sua. Mario mai cucinato un uovo. La spesa
sempre insieme. Le pulizie, un giorno alla settimana, spettavano a Giovanna, la donna a ore. «Maria Sanna! Adesso mi ricordo!». Mario sbatté quasi il piatto sul tavolo. «Sarà… cinque, sei anni fa. Frequentò solo la prima media. Sì, me la ricordo bene perché non finì l’anno, e perché litigai con la madre… Oh Santo Dio! Oggi non l’ho riconosciuta. Accidenti. Sì, mi arrabbiai perché volle ritirare la figlia dalla scuola». «Mi parlasti di quella storia», intervenne Antonio, mettendo un pentolino sul fornello. «Mi ricordo che la ragazza aveva seri problemi». «Ma sì, aveva un carattere troppo chiuso, quasi non parlava, però non era mica stupida». Mario guardò l’orologio,
erano le sette. «La sera, le visite in ospedale, sono dalle sette alle otto, vero?» «Be’, non vorrai andare adesso all’ospedale? Tra un po’ è pronta la cena». «Sì. Tu mangia. Io ceno quando torno e metto a posto». «Ma stai calmo! Puoi andarci domani, no?». Mario era già uscito. Si presentò all’ospedale con un mazzo di fiori acquistato dal fioraio accanto all’ingresso. All’ora delle visite la stanza era piena di parenti. Solo intorno al letto della signora Sanna non c’era nessuno. Mario Solinas poggiò subito i fiori sul comodino.
«Grazie, ma non doveva…», disse la signora Sanna, che stava con la schiena diritta, poggiata su due guanciali. «Sa che mi sono ricordato di sua figlia?» «Davvero? Anche del nostro litigio?». Mario Solinas sorrise aggiustandosi gli occhiali: «Mi sono ricordato tutto. Lei come sta adesso?» «Il dolore al piede è più forte, e la testa… mi gira ogni tanto. Ma comunque sto abbastanza bene». «Il piede?» «No, non è fratturato, solo contuso. Si sta già gonfiando». «…E sua figlia come sta?». La signora Sanna divenne impacciata, parlò fissando la coperta: «Maria… non è molto cambiata. Ha sempre un carattere
tutto suo, così, è… i fiori! Bisognerebbe metterli in un po’ d’acqua». Non c’erano vasetti o contenitori. Allora il professore prese una bottiglia di plastica vuota. Si fece prestare un coltello dalla paziente vicina e si ingegnò di tagliare la bottiglia a metà. La signora Sanna sorrideva invitandolo a stare attento. Dentro quel vasetto improvvisato, i fiori adornavano il comodino sul quale non c’era proprio niente. Niente che facesse pensare a qualcuno che fosse venuto a trovarla per portarle il necessario di cui si ha bisogno in ospedale. «Sua figlia? È già andata via, o deve ancora venire? Vorrei approfittarne per salutarla». «No, Maria non viene… non può, non
riesce a venire. Da sola poi, sarebbe impossibile farla uscire di casa». Mario Solinas restava in piedi; gli altri visitatori avevano occupato tutte le sedie della stanza. Curvò la testa e le spalle verso la signora: «Mi dispiace…», disse. Avrebbe anche voluto chiedere se poteva fare qualcosa, sapere di cosa si trattava, ma gli sembrava un’eccessiva intrusione nella vita altrui. Aveva la sensazione che parlare di quella figlia fosse per lei alquanto penoso. Se ne rendeva conto da come la signora Sanna, accennando a Maria, si stritolava le mani. «Comunque le ho telefonato, sa tutto», disse, come per rincuorare Solinas. «Un’infermiera molto gentile mi ha portato con la carrozzella al telefono. Anzi, professore… Visto che è qui, le
dispiace accompagnarmi al telefono? Bisogna però procurarci una carrozzella». Nel corridoio Solinas ne trovò subito una. Impacciato, la aiutò a sedervisi. La prese per il braccio senza fare nessuna forza, aveva paura di essere eccessivo e di creare imbarazzo alla donna che, scivolando giù dal letto, aveva scoperto le gambe. Lui si guardò intorno, come a volerle dire: “Stia tranquilla, non ho visto niente”. Intanto era diventato rosso e il sudore gli fece scivolare gli occhiali fin quasi sulla punta del naso. Nei movimenti scombinati di Solinas non c’era neanche un po’ di familiarità con quelle situazioni. Il professore spinse la carrozzella nel corridoio pieno di visitatori, infermieri e medici. Quasi tutti andavano di corsa e lui cercava di evitarli con piccole sterzate.
Però, chissà perché, nella mente gli passavano ben altri pensieri. “Se questa donna fosse mia moglie? Come sarebbe stata la mia vita? Avrei cambiato il mio carattere? Come… come sarebbe stata questa circostanza? Ora che sono in pensione avrei una famiglia. Cara, le avrei potuto dire, come sta il piede? Ti ho portato le tue camicie da notte. Non preoccuparti, domani sarai di nuovo a casa, si sente tanto la tua mancanza, amore mio…”. «Professore, siamo arrivati… Professore!». Solinas aveva spinto la carrozzella ben oltre il telefono. Tornò indietro scusandosi. Prese la cornetta e compose il numero che la signora Sanna gli dettò. Appena il segnale fu libero le cedette la
cornetta e si allontanò di qualche metro. La telefonata fu brevissima. Il professore riaccompagnò la signora nella sua stanza e con l’aiuto di un’infermiera la adagiò sul letto. La donna, distesa, aveva ora un’espressione malinconica. Quasi tutti i visitatori avevano già abbandonato la stanza. Solinas fece per salutarla, ma la bocca della signora Sanna si aprì senza emettere suoni, e lui restò col saluto sospeso in aria. «Professore», disse finalmente lei, «in realtà avrei bisogno di scomodarla per un grande favore…». «Mi dica signora Sanna, mi dica pure». «Mi vergogno, ma non saprei come fare altrimenti. Maria…».
«Sì, mi dica», fece lui, quasi contento di potersi sdebitare di qualcosa. «Maria è sola. Non esce per fare spesa… e ho paura, conoscendola, che resti anche senza mangiare». «Ci penso io, ci penso io, è veramente poco quello che mi chiede». «No, guardi, è tanto. Anche perché aver a che fare con Maria è davvero difficile». La signora Sanna gli parlò del suo carattere chiuso, dell’assenza di comunicazione col mondo esterno in cui la figlia viveva. Si accordarono che la mattina successiva lei l’avrebbe avvertita per telefono dell’arrivo del professore. Solo così Maria gli avrebbe aperto. Mario Solinas si era riscaldato la
cena e aveva lavato i soliti due piatti. Dal salotto arrivavano le risate e le musichette di un quiz televisivo che Antonio stava guardando. Mario non capiva come mai al fratello quel genere di intrattenimento piacesse tanto. Forse si era abituato a non pretendere di meglio, e forse, pensava, si sarebbe abituato anche lui, adesso. Antonio andò a letto prima del fratello. Dalla sua stanza, come avveniva da sempre, lo sentiva russare. Mario non dormì subito e non dormì bene. Si girò e rigirò nel letto, aveva finalmente il tempo di pensare. La prima notte da pensionato lo costrinse a una girandola di ricordi. Trentacinque anni volati in un soffio. La sua aula, l’odore del gesso e delle merende, i suoi ragazzi… Adesso, in un’immagine lontanissima, li vedeva in
fila nel piazzale davanti alla scuola, pronti per essere vaccinati. Ricordava le loro facce coraggiose e quelle di chi aveva paura della puntura sul braccio. Pensò anche a tutte le soddisfazioni che il lavoro gli aveva dato. In fondo, la sua vera famiglia era stata la scuola. Ora gli restava solo quella privata; lui e il fratello. Già vedeva quel desolato nucleo composto da due tristi vecchi. Basta! Doveva reagire. Continuando con simili pensieri sarebbe arrivata la depressione prima del tempo. Innanzitutto si sarebbe occupato della casa al mare, che insieme al fratello abitava per due mesi l’anno. Avrebbe realizzato tanti lavori da troppo tempo rinviati. Forse si sarebbe dedicato alla pesca, avrebbe potuto dare lezioni
private, cosa che non aveva mai fatto. Per il resto si sarebbe accodato al fratello, il quale aveva maggior spirito d’iniziativa, anzi, da quando era andato in pensione era diventato instancabile, sembrava perfino ringiovanito. Ma sì, non tutto era finito! E quel “finito” gli suonava come sordo, vuoto, privo di ossigeno. Si rianimò pensando alla signora Sanna e alla figlia. Desiderava essere loro d’aiuto, perché, ancora, a dispetto della polizia, era lui a sentirsi responsabile. Se per quel secondo non avesse guardato il pacchetto… Già! Non aveva ancora aperto il regalo della terza b. L’indomani mattina sarebbe stata la prima cosa da fare.
3
Il professore appoggiò a terra le due buste della spesa. Restò per qualche istante curvo, rovistando dentro per esser certo di aver preso tutto il necessario. Quindi si soffermò a osservare la piccola facciata di quella casa; era davvero modesta. La porta e l’unica finestra avrebbero avuto bisogno di una scrostata e di una mano di vernice. La casetta era affiancata da altre ugualmente modeste, di quelle tipiche
della zona di Sant’Efisio. In quella via, in particolare, erano quasi tutte a pianterreno. Il campanello diede un segno di vita solo dopo essere stato premuto più volte. La porta restava chiusa. Mario Solinas ebbe il tempo di incantarsi davanti alla geometria della vernice scrostata. Il blu marino sottostante era coperto da un marrone scuro. Sembrava, però, che quest’ultima mano fosse più debole della prima. Infatti, il blu faceva capolino qua e là come se volesse rimpossessarsi della superficie del legno. Il marrone pareva soccombere; veniva giù a scaglie. “Bisognava scrostare bene, prima”, pensò Solinas. Finalmente la porta si aprì, ma lentamente e non del tutto. Solinas non
capì se l’inquietudine maggiore gliela procurasse il movimento lento o quell’arresto a metà. Si decise. Spinse leggermente. «È permesso…?». Riuscì a vedere Maria che, dandogli le spalle, aveva attraversato l’intero corridoio oltrepassando la porta di fronte. «È permesso? Sono il professor Solinas… Maria, sono…». La ragazza non rispose. Solinas prese le buste ed entrò. L’interno, all’apparenza pulito e ordinato, sapeva però di chiuso, di muffa. Alla destra del corridoio si affacciavano due camere; una porta era aperta, nella penombra si poteva intravedere un salotto. L’altra era chiusa. «Permesso…?», ripeté ancora il professore, rendendosi conto che le condizioni della ragazza erano peggiori di
come, dalla descrizione della madre, si sarebbe aspettato. Ebbe un piccolo brivido. Non osò andare oltre la porta che aveva davanti. Appoggiò le buste a terra. «Maria, ti ho portato un po’ di spesa… Tua madre sta bene e sarà a casa forse domani stesso». Maria aprì appena la porta mostrando una striscia della sua figura. Per quel poco che di lei si vedeva, il professore poté notare la magrezza e i capelli neri, lisci, come incollati sul pallore del viso ovale e piccolo che guardava a terra. Non riuscì a cogliere bene i suoi lineamenti. Gli sembrò comunque un volto triste e dolce al tempo stesso. Gli era parsa poco più alta di lui. «La ringrazio», disse lei finalmente, con una vocina che sembrava le si
spezzasse dentro il corpo. «Mi deve scusare, ero occupata». «Mi dispiace se ti ho disturbato. Adesso vado via». «Arrivederci… Grazie». «Ciao. Arrivederci». E dopo un piccolo cenno della mano si voltò per attraversare il corridoio. Si fermò sulla porta. «Ti ricordi Maria, vero? Sono stato il tuo professore. In prima o seconda media, se non sbaglio». «In prima…». «In prima, è vero. Allora ciao». Fuori il sole batteva più forte di prima, ma sembrava gli fosse vietato illuminare quella casa, mostrare in piena luce la malinconia di quelle mura domestiche.
Solinas incontrò la signora Sanna vicino al telefono. Un’infermiera le spingeva la carrozzella. «Meno male è venuto», disse allontanandosi, «c’è così tanto da fare oggi che non abbiamo tempo per queste cose». «Buongiorno professore! Non immaginavo di vederla anche oggi». Il professor Solinas si era ritrovato davanti all’ospedale all’ora delle visite. Era uscito da casa di Maria, aveva girato un po’ per Oristano e preso un caffè in un bar del centro, mentre osservava incuriosito un gruppo di tedeschi che sciamava nella piazza. Al bar aveva scambiato due parole con un impiegato della sua banca e senza pensarci si era
incamminato verso l’ospedale. «Per me è un piacere venire a trovarla. Spero, semmai, di non disturbarla». «Professore, è così gentile e…». «Ho portato la spesa a Maria». Seguì un momento di silenzio riempito dal vociare dei visitatori e dal cigolio di una ruota della carrozzella. Fu la signora Sanna a parlare: «Non le ha fatto una bella impressione, vero?» «Be’, certo, Maria non sta bene. Avrebbe bisogno di…». «Sapesse quante cure abbiamo affrontato! Non è facile». «Immagino». «Mi dimettono domani! Mi hanno detto che posso stare a casa, e per qualche
giorno muovermi con le stampelle». «Bene, meglio così», disse il professore, spingendo con una mano la carrozzella e con l’altra aggiustandosi gli occhiali sul naso. Parlarono ancora senza più ritornare su Maria. Anche questa volta il professore fu l’ultimo dei visitatori a lasciare l’ospedale. Arrivò a Riola che il fratello aveva già pranzato. «E oggi? Perché sei così in ritardo?» «Sono stato nuovamente all’ospedale», disse, sedendosi a tavola. «Ma se non è stata colpa tua, non c’è bisogno che sia così… così premuroso». Mario raccontò della modesta situazione nella quale si trovavano le due donne, e della pena che aveva provato nel rivedere la sua ex alunna.
«In trentacinque anni, quanti alunni ti sono passati per le mani? Ti sei sentito sempre troppo responsabile per loro, anche fuori dall’aula. E che diamine! Qualcuno sarà diventato avvocato, e qualche altro drogato! Mica sei stato il padre di tutti!». «Va bene. Ma adesso non alzare la voce. Comunque dispiace, quando…». «Certo che dispiace! Non siamo di legno. Almeno adesso, però, che la scuola anche per te è finita… scrollati i problemi dei tuoi ragazzi!». «Certe volte ti ho invidiato. Per te fare il professore è stato un lavoro come un altro…». «Sì, un normale lavoro, come si dice oggi, socialmente utile, così come tanti altri. Sono stato un normale professore!
Ecco, un normalissimo e modesto professore!». Infastidito dalla voce alta del fratello, Mario si alzò senza finire di mangiare e uscì dalla cucina. Antonio restò immobile, inseguendo Mario solo con la voce: «Devi rassegnarti! Sei in pensione!! Lo vuoi capire che sei in pensione!? È finita con la scuola!!». Mario si sedette in giardino. Era piuttosto un piccolo orto con basilico, prezzemolo, cipolle e qualche ortaggio che Antonio coltivava. C’era anche qualche pianta di limone e di mandarino. A ridosso del cancello erano parcheggiate le loro due auto. La sua utilitaria sembrava più piccola e vecchia da quando Antonio, appena dopo la pensione, si era comprato una macchina di grossa
cilindrata dalla linea sportiva. Probabilmente anche Mario avrebbe dovuto cambiare la sua. Cercava di convincersi che avere una macchina nuova gli avrebbe dato la sensazione di un altro inizio. Comunque, quell’auto sportiva appena acquistata era stata un buon motivo per litigare col fratello. Mario gli aveva rinfacciato quanto sembrasse ridicolo, a quell’età, alla guida di una macchina del genere. Antonio si era offeso e per una settimana non gli aveva rivolto la parola. Ma i motivi di litigio tra loro erano rari. In fondo si parlavano a stento, e le poche volte in cui sfioravano territori più intimi nasceva in entrambi un tale fastidio da creare la chiusura totale. Mario guardava quel contrasto che
offrivano le due macchine affiancate; la sua vita era diventata triste come le linee della sua utilitaria. In quel momento si ricordò del regalo della terza b rimasto ancora sul sedile. Aprì il pacchetto dentro la macchina. Un quaderno. In ogni pagina c’era un pensiero o una poesia di ciascuno dei suoi allievi di terza. Ogni foglio era firmato e datato. A giudicare dalle diverse date, alcuni dei suoi ragazzi avevano pensato a quel regalo già qualche mese prima della fine dell’anno; fu la cosa che lo rese più felice. Non ebbe, però, il coraggio di leggere nessuno scritto. Accese il motore e andò al mare. Passeggiò per tutto il pomeriggio sul lungomare. A giugno era ancora poco frequentato. Un gruppo di bambini che si
rincorrevano gli girò intorno come un nugolo di moscerini. Pensò che forse, proprio uno dei suoi ex alunni, un giorno sarebbe stato il loro insegnante. Prima di tornare a Riola passò a Oristano per far aggiustare la montatura degli occhiali. Alle sette e mezzo era davanti all’ospedale. Lasciò che entrassero tutti. Lui non si decise e risalì in macchina.
4
Antonio era uscito. In cucina Mario leggeva «L’Unione Sarda», mentre Giovanna, intenta alle pulizie del sabato, spostava poltrone e sedie del salotto. Giovanna cantava sempre. Correggeva il fastidio provocato dai rumori del suo lavoro con una voce chiara e giovane; una bella voce da ascoltare la mattina appena svegli. Non andava a tempo ma era intonata. Giovanna sapeva che i due fratelli
erano cultori di musica, perciò le piaceva mostrare le sue capacità. Non era, insomma, solo una donna delle pulizie, ma addirittura un “talento sprecato”, come spesso diceva ridendoci su. In realtà, dentro di sé lo credeva veramente. I due professori le davano corda, pur di non privarsi di quella fresca allegria che il sabato riempiva la loro casa. Mario lasciò il quotidiano sul tavolo. Non aveva letto né un articolo né un titolo. Era distratto dalla spensieratezza delle canzoni di Giovanna e si sentiva la testa chissà dove… La signora Sanna. Chissà se l’avrebbero davvero dimessa quella mattina. Andò in salotto e si appoggiò allo stipite della porta; annusava il profumo della cera che Giovanna stendeva per
terra. «Allora, Giovanna, va tutto bene?» «Certo professore, e se non va bene lo facciamo andare bene per forza!». Riprese a cantare con la bocca chiusa un mmm, mmm… tutto compresso dentro le guance. «I tuoi figli come stanno?» «Crescono… il prossimo anno anche il piccolo andrà a scuola». E mentre rispondeva non smetteva mai di muoversi, come se non potesse perdere tempo a incrociare le braccia. Non aveva ancora quarant’anni ma non dimostrava un’età precisa. Il viso rotondo e colorito, dai vaghi lineamenti russi, la faceva sembrare più giovane, e il corpo, abbastanza grasso, suggeriva un’idea di morbidezza. I capelli castani erano sempre raccolti in una treccia avvolta su
se stessa, dietro la nuca. Nessuno a Riola, a parte le vecchie, usava più quel tipo di acconciatura, ma lei mai si sarebbe tagliata i suoi capelli lunghissimi. Era, quella, una discussione divertente intrapresa altre volte con Giovanna e, adesso che non sapeva cos’altro dire, Mario si agganciò ai capelli. «Mi ha detto Antonio che ha cercato di convincerti ancora una volta a tagliarti i capelli». «Uh! Quel suo fratello rompe proprio!». Mario si mise a ridere aggiustandosi gli occhiali. «E che… guardi, non mi faccia parlare. Gliel’ho detto a suo fratello che non ci capisce niente di queste cose!». Mario non smetteva di ridere. Niente lo divertiva di più del vedere Giovanna
trattare a pesci in faccia suo fratello o se stesso. Quando poi usava parole che di femminile avevano ben poco, diventava proprio comica. In bocca a lei anche le espressioni più volgari si vestivano di gioco, perdendo la grettezza. «Lo so bene che non sono alla moda, ma io me ne frego. Suo fratello è proprio scemo se pensa che me li possa tagliare a caschetto, o fare la permanente o… corti corti come si usa adesso. I miei capelli quando sono sciolti… be’, non ce li ha nessuno così, e lui lo sa!». «Scusa scusa», continuava a ridere Mario, «hai ragione tu. È che in vent’anni non te li ho mai visti sciolti…». Giovanna riprese a stendere la cera. Si fermò di scatto: «Lei piuttosto! Dimenticavo che adesso è in pensione!
Finalmente potrà fare tante altre cose». «Già, adesso avrò più tempo», disse, affievolendo la risata, sotto il peso di quel “finalmente”, che a lui sembrava proprio fuori posto. In quel momento Antonio entrò in casa. Era stato dal barbiere. Aveva il viso ben rasato e i folti capelli grigi, appena tagliati, pettinati all’indietro e lucidati da qualche gel. Mario guardò il fratello e si accorse, per la prima volta, di quanto curasse la sua persona. «Guarda un po’, il professore. Sembra un ragazzino!», fece Giovanna a voce alta. «Certo che voi avete usato un concime proprio diverso per la testa, ah! Ah!». Quindi si accostò ad Antonio: «Così insiste che dovrei cambiare acconciatura, eh?…». «Ma no! Lascia stare, stai bene così».
Mario si passò le mani sulla testa calva. «Vai anche oggi all’ospedale?», gli chiese Antonio. «No, cioè sì, ma torno presto». «Stavo pensando… che adesso sarebbe meglio che Giovanna venisse anche un altro giorno della settimana». «Se c’è bisogno». «Abbiamo deciso il mercoledì». In macchina, andando a Oristano, Mario pensava a quella decisione presa senza il suo consenso. Chissà perché si sentiva infastidito. Ma d’altronde era sempre stato Antonio a organizzare le faccende di casa, lui non se n’era mai occupato. Ma forse c’era dell’altro. Sulle scale, mentre scendeva dalla sua stanza,
aveva visto il fratello e Giovanna parlare quasi sottovoce. E se quelle dicerie su una loro segreta relazione fossero state vere? “Figuriamoci”, rifletteva Mario, “se si dovesse dar retta a tutto ciò che si dice in paese! E perché, poi, dubitare adesso, quando non mi è mai passato per la testa?”. Si trovò davanti alla stanza numero sette dell’ospedale, con la testa ancora piena di quei pensieri. «L’hanno dimessa un’ora fa», disse la signora del primo letto a destra. «Ah bene. La ringrazio. Ma allora può camminare?» «No. Credo che l’abbiano portata con l’ambulanza… Non è venuto nessuno a prenderla. Poveretta, anche lei è sola, sa, un po’ abbiamo parlato».
Mario Solinas si rammaricò di non essere stato d’aiuto proprio in quel frangente. Era stata veramente una mancanza d’attenzione; chissà cosa avrebbe pensato quella donna. Stava già decidendo di raggiungerla a casa, ma all’una gli sembrava di disturbare; forse stavano pranzando. Cercò il numero sull’elenco. Il telefono squillò a vuoto almeno un minuto. Quando Mario stava per riagganciare sentì la voce della signora Sanna: «Pronto…?» «Sono il professor Solinas, signora». «Come sta professore?» «Io bene. Mi dispiace non averla potuta accompagnare a casa». «Quando mai! Si è già dato tanto disturbo. Non…». «Sono in ospedale, sono arrivato
appena l’hanno dimessa». «La ringrazio, non doveva…». «Adesso può camminare? Farsi da mangiare?» «Ho le stampelle sa, ma piano piano riuscirò a organizzarmi». «Vorrei portarle il pranzo, potrei passare in rosticceria». «Grazie, è molto gentile, ma abbiamo pranzato. Maria ha preparato qualcosa». «…Bene. In ogni caso se ha bisogno di… le lascio, prenda nota, le lascio il mio numero di telefono». «Certo. Comunque, professore, può venire quando vuole per un caffè… se non ha impegni». «Volentieri. Questo pomeriggio sono libero».
Alle cinque Mario Solinas suonò il campanello. Aveva fatto i suoi calcoli; avrebbe aspettato un po’ perché Maria di certo non sarebbe venuta ad aprire, e la madre, zoppicante, avrebbe impiegato del tempo. Infatti sentì vicino alla porta dei passi lenti e il battere sordo dei gommini delle stampelle. La signora Sanna aprì con un sorriso leggermente sofferente essendo rimasta appoggiata su una stampella sola. Indossava un vestito a fiori, di quelli da grandi magazzini. Dava però l’idea di un abito che lei non usasse tutti i giorni. I capelli, tinti, castano chiaro, erano piuttosto curati e vaporosi. Non aveva nessun accenno di trucco, se non sulle labbra, ancora ben disegnate, una labile traccia di rossetto.
«Prego, professore, si accomodi». «Questo è per lei», disse Solinas porgendole, prima ancora di entrare, un pacchetto di dolcetti di mandorla che ritrasse subito, appena resosi conto che la signora non poteva prenderlo. Lei si sforzò di appoggiare una stampella al muro e tendere la mano. «Forse è meglio che lo tenga lei», disse la signora Sanna, interrompendo quella sorta di danza. «Ha ragione». E insieme sorrisero di tutta quella goffaggine. La signora lo fece accomodare in salotto. Era piccolo e l’arredamento ricordava uno di quelli che si acquista nelle promozioni televisive. L’unica nota autentica era un tappeto sardo di buona fattura, tutto bianco, compreso il rilievo
dei disegni; era ampio; le poltrone, il divano e il tavolino rientravano nel suo perimetro. La signora Sanna si sedette lentamente allungando e tenendo disteso il piede gonfio. Solinas aspettò che lei finisse l’operazione, con l’aria di chi è pronto a intervenire per un eventuale aiuto. Finalmente anche Solinas si sedette, appoggiando il pacchetto sul tavolino. «È bello vero? È stato un regalo dei miei parenti di Mogoro», disse la signora Sanna, notando che il professore era rimasto attratto dal tappeto. «Una lontana parentela. Non ci frequentiamo più tanto». «Capisco…». «È tutto fatto a mano». Fu la signora Sanna a trascinare il dialogo. Muoveva lentamente le mani;
lavorare come donna delle pulizie nelle case altrui le aveva reso le dita gonfie, e la fede sembrava troppo stretta. Il professore rispondeva per monosillabi: non era a suo agio e non sapeva bene perché. Solo ogni tanto guardava la donna negli occhi, nei momenti in cui lei guardava altrove. Era uno di quei dialoghi in cui ciascuna delle parti annuiva su tutto. Mario Solinas ogni tanto si assestava gli occhiali. Tra loro due si avvertiva anche un’altra presenza: il pacchetto. Quanta fatica gli era costato decidersi tra i dolcetti, un mazzo di fiori, un libro per Maria… Si era arrovellato nell’immaginare i più disparati significati che le due donne avrebbero potuto dare al suo modesto regalo. Dopo una mezz’ora la signora Sanna
chiamò la figlia. Vedendo che non rispondeva fu costretta ad alzarsi aiutandosi con una stampella. Si affacciò lungo il corridoio. «Maria! Puoi portare il caffè…?! Per favore!». Maria entrò nel salotto col vassoio. Così, leggera, come sembrava fosse arrivata, poggiò il vassoio sul tavolino e salutò a bassa voce: «Buonasera». «Ciao Maria, come stai?». Il professore le strinse la mano accorgendosi di quanto fosse piccola e lunga, e senza forza. «Bene…», rispose lei. Solinas notò che nel vassoio c’erano solo due tazzine. «Non prendi il caffè con noi?» «No, io no, grazie». «Perché non rimani un po’ con noi?»,
le chiese la madre, «il professore…». «Mi dispiace. Ho da fare». «Non preoccuparti, se hai da fare vai pure», intervenne lui. «Maria, per favore, solo un minuto», insisté delicatamente la madre. Allora la ragazza si sedette nell’unica sedia del salotto. Era eccessivamente composta e come rassegnata ad affrontare un esame per il quale non si era preparata. Gli occhi di maiolica nera guardavano in basso. I capelli con la riga in mezzo, folti e lasciati crescere senza nessun taglio particolare, erano nerissimi e accentuavano ancora di più il suo diafano pallore, incorniciandolo e proteggendolo dal mondo circostante. Il nero di quei capelli avrebbe bestemmiato contro un raggio di sole. Il naso perfetto sembrava
più grande a causa della bocca piccola e rotonda. Le lunghe sopracciglia, folte, erano indecise se essere sgradevoli o bellissime. Forse il tratto saliente era quello tra la bocca e il naso, cortissimo, come quello di un neonato. Il labbro superiore, sottile rispetto a quello inferiore, la faceva sembrare corrucciata. Era estenuante, la bocca, nella sua chiusura. Il professore scartò il pacchetto e porse i dolcetti prima alla signora Sanna e poi alla figlia. «Almeno un amaretto lo puoi prendere», fece lui, restando col braccio teso verso Maria, che si era solo un po’ incurvata in avanti. «Grazie», rispose, e con la sua manina trasparente pescò un dolcetto.
Seguì un momento di silenzio imbarazzante, durante il quale ciascuno, per mancanza di idee, fece finta di essere sinceramente attratto dal sapore dei dolcetti di mandorla. Come a un segnale convenuto, la signora Sanna e Solinas spezzarono il silenzio, accavallando le loro voci in un groviglio di parole troncate a metà. «Mi scusi signora, stava dicendo?», disse il professore, sentendosi la fronte sudata. «Sì, stavo dicendo… oh, cosa…», sorrise impacciata. «Dei parenti di Mogoro, se non sbaglio». «Ah! Sì! Già, loro. No, per carità, sa che non ne vorrei parlare? Si sono comportati così male con Maria. Sono
almeno… quanti anni sono Maria che non li sentiamo?» «Quattro». «Sì, quattro anni… e lei, professore? Insegna sempre alle medie di piazza Manno?» «Sì sempre, o meglio, non più. Sono andato in pensione. Il mio ultimo giorno di scuola è stato quando le sono venuto addosso!». Risero insieme. Maria appena, e più per dovere. Quella battuta, se non altro, servì ad avviare una normale conversazione. Il professore, però, aveva voglia di ascoltare la voce di Maria. Alla fine si decise: «E tu, Maria? A scuola non…?» «No, non frequento più». «E come mai non…». Si morse quasi le labbra per aver fatto quella domanda.
Cercò di rimediare. «Be’, quando vuoi, c’è sempre tempo per riprendere». «Sì». «Hai anche ragione, ti capisco sai? Certe volte la scuola è così noiosa». «Sì… Non…». «E comunque, guarda, è difficile per molti». «Di lei mi ricordo». Maria aveva rivolto lo sguardo verso il basso e il professore ora la scrutava con attenzione. Era magrissima. Gli scampoli della sua voce così fragile, ogni tanto prendevano dei toni inaspettatamente bassi riscaldandone il timbro. Eppure, nonostante non fosse bella, quel pallore da animale notturno la rendeva insondabile e degna di attenzione. «Io ho sempre cercato di
insegnare…», e qui si rese conto di non aver voglia di parlare di sé. Tagliò corto. «Di insegnare facendo divertire». «È vero, mi ricordo… Adesso mi deve scusare». Si alzò di scatto. «Devo, devo finire una cosa. Buonasera», e tese la manina al professore. «Arrivederci Maria». Lei uscì. Solinas era rimasto in piedi. «Signora Sanna, ora vado anche io, tolgo il disturbo». «Ma si figuri, disturbo. Si accomodi ancora un po’. Prenda un altro dolcetto». Il professore si aggiustò gli occhiali e si sedette: «Solo qualche minuto, non vorrei…». La signora Sanna alzò le spalle e le sopracciglia, volgendo lo sguardo verso
la porta, come a dire, “ha visto? Non so più cosa fare”. Solinas si curvò appena verso la donna. Parlò a bassa voce: «Cos’è che la occupa tanto?» «Niente, professore. Niente», rispose anche lei sottovoce. «Ma…». «Dice così, tanto per dire: si chiude nella sua stanza, si sdraia sul letto e sta così, senza fare niente, ed è già tanto se tiene la finestra socchiusa. In camera ha una piccola televisione ma non l’accende quasi mai. Non c’è niente che la interessi, purtroppo». «Non legge? Non ascolta musica? Non… non esce?» «Niente. Gliel’ho detto che non sarebbe mai venuta neanche all’ospedale.
Niente, non fa niente». «…Ma è… è malata?» «Un medico dice che è depressa e consiglia certi farmaci. Un altro che ha solo bisogno di ricostituenti e di uscire di casa». «Allora prende farmaci?» «Sì. Antidepressivi». «E uno psicoterapeuta?» «Ci è andata, ci è andata. Ma sembrava addirittura che peggiorasse le cose. Forse non era bravo. Tutti poi a dire che è colpa mia, che dovrei farla uscire, farle frequentare degli amici… Ma come faccio io, dovrei tirarla fuori di casa a forza? Guai se le si impone qualche cosa». «Mi dispiace, mi dispiace molto. Ma lei perché la ritirò dalla scuola?»
«Non sono stata io. Fu lei che non volle più saperne. Si era convinta che la prendessero tutti in giro, che la considerassero una pazza. E poi si vedeva brutta. A undici anni era più alta anche di tutti i maschietti, e magra, magrissima… si è riempita di complessi che non l’hanno più abbandonata». «Accidenti che peccato. A me, invece, sembra una ragazza intelligente, impaurita sì, ma intelligente». «Ha ragione professore, Maria non è certo stupida». «È anche molto sensibile. Quanti anni ha?» «In agosto compie diciassette anni».
5
Antonio Solinas aveva appena terminato i suoi venti minuti di ginnastica; pesi leggeri, niente di eccessivo, quel tanto che gli bastava per restare in forma. Da quando era andato in pensione se ne preoccupava maggiormente. La pancetta poco accennata, una faccia lunga e asciutta, la fronte alta e la coscienza di essere un bell’uomo, a sessantaquattro anni lo facevano sentire ancora un trentenne.
Dopo la doccia si infilò la tuta e andò a preparare la cena pensando al fratello. Come mai a quell’ora non era ancora a casa? Non poteva essere all’ospedale sapendo che avevano dimesso la donna. A Riola – a parte la famiglia del cugino – non frequentava quasi nessuno. A Oristano, oltre alla scuola e alle riunioni dei professori, andava solo per il cinema, sì e no una volta al mese. Erano trentacinque anni che non cambiava le sue abitudini. Avrebbe dovuto aiutarlo, pensava Antonio. Immaginava bene la crisi in cui sarebbe potuto cadere; tanto sicuro di sé come professore missionario, e così fragile davanti a se stesso. Anche Antonio in passato era stato molto simile al fratello. Entrambi
concentrati sul lavoro senza coltivare rapporti esterni. Solo dopo i quarant’anni Antonio aveva cominciato a sentirsi un bell’uomo e a notare su di sé gli sguardi delle donne. Si diede a curare qualche relazione, ma sempre superficialmente e con l’idea di portare la propria donna vergine all’altare. Di fatto, anche se poteva apparire uno che ci sapeva fare, in realtà era morigerato. A differenza del fratello, comunque, almeno si dava un po’ da fare. All’età di quarantacinque anni aveva addirittura sfiorato il matrimonio. Ma quando tutto era pronto, le carte, la casa, le bomboniere… la sua giovane fidanzata cambiò idea per trasferirsi a Torino. Aveva ancora bisogno di tempo, diceva, voleva rifletterci su. La verità è che andò a vivere con un torinese sposato
e separato, col quale era finita a letto il giorno dopo averlo conosciuto in Sardegna. Da quel momento Antonio non pensò più al matrimonio, lasciando alimentare attorno a sé tante dicerie di paese su suoi presunti rapporti con una suora della colonia estiva, e con altre donne sposate. Mario entrò in cucina con l’aria di dover nascondere qualcosa. Antonio se ne accorse ma fece finta di nulla. Servì la cena e si sedette a tavola dimenticando di levarsi il grembiule. «Dobbiamo decidere se fare o no i lavori nella casa di Putzu Idu. A fine luglio sarebbe già troppo tardi», disse Antonio, guardando il piatto. «Allora è meglio cominciare subito».
Mario smise di mangiare. Il vapore che saliva dal piatto appannò i suoi occhiali. «Anche io la penso così. Ma dobbiamo decidere se predisporre l’impianto per il riscaldamento…». «Mettiamolo, il riscaldamento». Si rimise gli occhiali e riprese a mangiare. Smisero di parlare e lasciarono che il timbro stridulo del telegiornale riempisse il loro silenzio mentre finivano la cena. «Sono stato dalla signora Sanna, questo pomeriggio». «Mmm… e come sta?» «Cammina con le stampelle, ma sta già meglio». «Per l’assicurazione, avete fatto tutto?» «Accidenti! Mi stavo dimenticando. Lunedì o martedì andrò all’…».
«E cosa stai aspettando?! Guarda che se non stai attento ti fregano». «Ma cosa vuoi che mi freghino! Si sa che non è stata colpa mia». «Ti dico di stare attento. Tu con queste cose non ci sai proprio fare». Mario fu sul punto di perdere la pazienza e alzarsi da tavola. Quando alla sua età si sentiva ancora trattato come il fratellino minore, diventava irascibile. Antonio cercò di ammorbidire il tono: «Hai ragione. Altrimenti a che serve l’assicurazione? Ci penseranno loro… E la figlia? Hai detto che ha dei problemi…». «È depressa. Sembrerebbe. Forse ha anche qualche problema neurologico. Insomma, anche la madre, sotto sotto, pure se non lo ammette, la considera un po’…
pazza». «Com’è?» «Com’è cosa?» «Com’è la madre?» «Ma che significa! Una donna normale, abbastanza giovane, perché?» «No, così, tanto per parlare». Antonio si tolse il grembiule e andò in salotto a guardare la televisione. Mario si mise il grembiule e lavò i piatti. Quella notte proprio non riusciva a dormire. Si alzò con la frenesia di uscire. Non gli era mai successo. Era l’una. Si vestì e facendo il minor rumore possibile chiuse dietro di sé la porta di casa. Attraversò il giardino e si immerse nel tepore profumato delle viuzze di Riola. Camminava piano, quasi di nascosto;
sembrava non volesse far sentire la propria presenza al suo paese. Vi era nato e cresciuto, eppure da molto si sentiva un estraneo. Il profumo di quella notte calda era dolce e penetrante. Le case, bagnate dalla luna, e le palme nei cortili, parevano quelle di un villaggio africano. Era tutto bellissimo. Ma perché non aveva mai pensato prima di uscire a quell’ora? Di godersi una notte del suo paese? Possibile non avesse mai sentito quel bisogno? Guardava la sua ombra allungarsi e accorciarsi; gli sembrava buffa, così ovale. Forse per la prima volta notò la pancia e i fianchi pieni. Neanche un angolo retto. Rise tra sé. I bar erano aperti. Gli arrivava il vociare di uomini seduti fuori ai tavolini,
che non dimostravano nessuna voglia di tornare alle loro case, e le risa di giovani che, ancora meno, desideravano andare a dormire. Mario Solinas evitò di passare davanti ai bar; non aveva confidenza con nessuno, anche se tutti, il “professore”, lo conoscevano. Arrivò alla fine di una via che terminava in aperta campagna. Sentì, ovattati, respiri e risucchi. Si guardò intorno e notò dentro una macchina due ombre che si fondevano e si separavano. Affrettò il passo senza capire se avesse paura di guardare o timore di essere notato. Si ritrovò vicino a casa con nelle orecchie ancora l’ansimare dei due amanti, quando udì il suo nome. «Zio! Zio Mario!». Era il figlio del cugino. Si avvicinò a Solinas con l’aria
perplessa e allegra: «Zio, come mai in giro?» «Ciao Tore; be’ stavo… stavo prendendo un po’ d’aria…». «Vieni zio, dài, vieni al bar che c’è mio padre. Dài! Così bevete qualcosa insieme». «No, no! È tardi adesso». «Ma su! Per una volta che esci. Dài!». Il nipote era ostinato, tirava Solinas per la mano. «Su, andiamo, è qua dietro, nel bar di Zedda». A malincuore Solinas aveva ceduto. Suo cugino lo accolse dentro il bar come se vedesse un fantasma. Così, qualcuno che forse non si sarebbe accorto subito della presenza del professore, adesso ne era informato. Era successo proprio quello che Mario Solinas temeva; tutti si
erano voltati verso di lui a guardarlo, chi con aria di meraviglia, chi senza nessuna espressione, chi con una sfumatura del volto che diceva “Oh! il professore, finalmente ci degna della sua presenza!”. «Allora come va? Adesso che sei in pensione cominci a spassartela eh?!», rise il cugino, insieme all’uomo con cui stava bevendo. «Ma no. Ero… è stato tuo figlio che…». «Cosa bevi?» «Non so, una, una birra». E la cosa, pensò, gli sarebbe costata una certa fatica; la birra proprio non gli piaceva, e non capiva perché l’avesse ordinata. Il cugino gli presentò l’uomo con cui stava bevendo, emigrato in Germania tanti anni prima.
«Dovresti ricordarti di Gesuino», disse il cugino, «Gesuino, il figlio di “Pibaredda”». «Sì, sì», disse Solinas, che non ricordava assolutamente, fino a quando Gesuino stesso gli rammentò che erano stati compagni nei primi anni delle elementari. Notando che Mario fingeva, e non era sicuro di ricordare, sottolineò: «Gesuino Poddighe, il ripetente!». Il professore si sentì quasi male. Quel nome adesso gli diceva tutto. Cominciò a ricordare la sua fronte bassa e gli zigomi sporgenti. Era invecchiato male, ma Solinas riconosceva ora quello sguardo immutato, da quando aveva quattordici, quindici anni. Gesuino Poddighe prese a rievocare la loro adolescenza, tra un “ti ricordi?” e
un “certo che noi eravamo proprio diversi dai ragazzi di oggi”. Solinas credette di avere un capogiro. “Possibile”, pensava, “che lui si sia dimenticato? No, no, lo vedo, lui si ricorda tutto!”. «Adesso mi sono trasferito definitivamente in Sardegna. Ho fatto i soldi. Della Germania avevo le palle piene!». Gesuino Poddighe raccontava avvicinando sempre più le sopracciglia all’attaccatura dei radi capelli bianchi. Solinas era in pena. Sentiva addosso anche gli sguardi degli altri avventori. “Possibile che tutti si ricordino di quel fatto? Devo stare calmo, non è vero, sono io che sto esagerando”. E mentre si dannava, fu costretto, forse anche per effetto della birra, ad appoggiarsi al bancone; aveva stampata in faccia
un’espressione opaca. Quale amarezza, in una serata nata così bene. Erano passate le due quando Mario poggiò la testa sul cuscino. Era proprio stanco, avvertiva un vago senso di nausea e un mal di pancia dovuto alla birra. “Domani è domenica”, pensava, “andrò a trovarle o no? No, sembrerei troppo invadente… Però, una telefonata sì. Ma tu guarda se dovevo incontrare proprio quello stronzo di Gesuino… Sì, una telefonata, o forse è meglio aspettare lunedì…”.
6
Antonio Solinas aveva smesso di andare in chiesa la domenica. Suo fratello era costante; andava alla messa delle otto perché c’era poca gente, soprattutto bambini e donne anziane, e perché il sermone, del quale avrebbe fatto volentieri a meno, durava pochissimo. Era l’ora in cui i preti avevano il dono della sintesi. Durante tutta la funzione pregò meccanicamente, o forse non pregò
affatto. Ciò che gli passava per la testa strideva con le preghiere che si levavano intorno. “Gesuino Poddighe, Costantino Deiana, e… Vittorio Marras”. Anche se più grandi di qualche anno, erano stati i suoi compagni di giochi. Mario aveva tredici anni. Quel pomeriggio come sempre erano andati al fiume, all’uscita del paese. Il loro territorio era vasto e veniva diviso anche con altri amici. Ernesto Tendas, che aveva appena finito il militare, si era imposto come capetto. Era figlio di un padre idiota e di una madre sconosciuta. Furono subito evidenti le sue intenzioni quando, dopo essersi fatto largo tra le canne palustri, si presentò ai quattro ragazzi. Gesuino, Costantino e Vittorio per un
po’ scherzarono con lui. Mario, più timido, se ne stette in disparte facendo finta di niente, finché fu chiamato dal gruppo. Ernesto Tendas prese un bottiglione di vino nascosto precedentemente dietro ai giunchi. Cominciò a bere a canna; gli altri, per non essere da meno, ci diedero dentro. Anche Mario prese il bottiglione, sentendo per la prima volta il sapore del vino sulle labbra. Dopo un’ora, finite le barzellette, le risate continuavano. Ernesto Tendas tirò fuori l’uccello e prese a masturbarsi. Era il capo perché ce l’aveva più grosso degli altri. «Tiratelo fuori anche voi! Vediamo come ce l’avete!», disse, mentre rideva ammirandosi il cazzo con uno sguardo ebete, orgoglioso della propria virilità.
Gesuino, Costantino e Vittorio eseguirono quell’ordine per vigliaccheria. Mario ebbe più paura degli altri. Lo sguardo di Ernesto Tendas cominciava a mettergli angoscia. Si voltò di scatto per scappare, ma con pochi salti venne raggiunto dalla grossa mano di Ernesto. «Perché scappi, eh? Dài, faccelo vedere, non sarai per caso una ragazzina?». Rideva, e anche gli altri ridevano, ormai alleati e complici del capo. Mario si dimenava, voleva andare a casa, diceva. Ernesto ordinò di tenerlo fermo, quindi gli tirò giù i calzoni. «Ma allora sei proprio una ragazzina! Non si vede niente! Ah! Ah! …Visto che tu sei una ragazzina me lo prendi in mano».
Mario era terrorizzato. Alzava gli occhi al cielo e poi guardava il fiume; anche lì si sarebbe buttato pur di scappare, di sparire. Cercò di gridare ma gli venne tappata la bocca. Ernesto gli accostò al collo la punta di un coltellino. Il prete alzò l’ostia e tutti chinarono il capo. Solo il professor Solinas restava in piedi e guardava avanti, ma non l’ostia. Senza parlare Ernesto gli prese la mano e se la mise sul cazzo: «Ecco, adesso muovila così», diceva, languidamente affannato. «Dopo vedrai che ti piacerà, e lo farai anche agli altri». Sentendo il freddo di quel coltellino, Mario non disse più nulla. Prese a muovere la mano su quel cazzo scuro.
«Stringi! Stringi più forte, Maria!». Gesuino e Costantino ridevano, mentre la mano di Mario veniva imbrattata dallo sperma. Era la prima volta che Mario vedeva quella crema. Chi doveva fare la comunione uscì dai banchi formando una lenta processione al centro della navata. Accolto il corpo di Cristo tornò a capo chino al suo posto. Dopo Ernesto solo Gesuino venne. Quando fu il suo momento, Vittorio Marras fu il primo a dire che era troppo tardi e bisognava andarsene. Scostò la mano di Mario e si riabbottonò i calzoni. Appena gli levarono il coltellino dalla gola e le mani di dosso Mario scappò via. Corse disorientato in mezzo ai giunchi,
finendo in mezzo al fango. Il fatto si venne a sapere e Mario ne restò marchiato. Era un bel ragazzino dal carattere dolce e dai modi educati. Fu facile, in paese, dare credito a certe dicerie. Quando Solinas si rese conto che la messa era terminata, in chiesa c’era solo lui. Quanti nugoli di zanzare sollevò correndo in quel pantano. Arrivò a casa con la faccia gonfia di punture e le scarpe zuppe di fango. Erano parecchi anni che non ricordava. Trascorse
l’intero
pomeriggio
nell’indecisione se telefonare o meno alla signora Sanna. La chiamò la sera tardi. Lunedì pomeriggio Solinas premeva il campanello e guardava il marrone scrostato della porta. In salotto presero un tè freddo e Maria, anche se per poco, fu di nuovo costretta a presenziare. Prese i regali del professore: un libro e un CD. Ringraziò, e senza far sentire i passi si allontanò. Fu la madre a esternare con garbo la propria gratitudine per tutta quella attenzione che le sembrava caduta dal cielo. Non ebbe però il coraggio di dirgli che Maria non aveva uno stereo, ed era quasi impossibile che leggesse il libro. La gioia della signora Sanna servì comunque a creare tra loro un clima più confidenziale. Adesso Solinas pareva
meno legnoso, stava bene in quel salotto. Avrebbe preferito che ci fosse anche Maria, ma era già tanto che si fosse seduta con loro qualche minuto e avesse preso quei regali sforzandosi di sembrare felice. Per i due giorni successivi il professore fece visita alle due donne. Le chiacchierate con la signora Sanna si spostarono dal salotto alla cucina. Quel mercoledì, comunque, Mario Solinas si era seduto sulla sedia di formica col fermo intento di parlare con Maria. Quando le chiese se avesse cominciato a leggere il romanzo e lei rispose che non aveva avuto tempo, sulle prime ci rimase male, ma si rese conto di non poter pretendere che Maria considerasse un romanzo come una lettura da cui trarre godimento. Si sentì ancora
più stupido quando seppe che non possedeva un lettore per i CD. Il giorno dopo la signora Sanna andò ad aprire senza le stampelle. Quando vide quella specie di babbo natale si mise subito a ridere, ma poi, come fanno i bambini, la sua espressione si mutò in pianto. Balbettava tra le lacrime che non doveva, che non avrebbe saputo come sdebitarsi… «Signora, è un piacere, lasci stare. È solo un piacere», continuava a ripetere il professore, tenendosi un ingombrante pacco appoggiato sul petto. Attraversava il corridoio ormai come se fosse un habitué di quella casa, fingendo una socievolezza che non gli era naturale. Dal pacco tirò fuori un grosso stereo
con lettore CD, mangianastri e tante manopole e levette. Gli occhi di Mario Solinas dicevano “Non crediate, è una piccola cosa”. Maria guardava in silenzio. L’unica a parlare, come un disco inceppato, era la madre: «Non doveva, non doveva… Professore, non doveva…». Solinas cercò di capire il funzionamento di quella diavoleria. Per lui la musica continuava a passare dalla puntina di un vecchio giradischi, a dire il vero ben funzionante e dotato di potenti diffusori. Col libretto di istruzioni alla mano, impiegò una buona mezz’ora prima di far funzionare il lettore CD. Tutta l’operazione aveva un che di divertente e quotidiano, proprio come se il professore
facesse ormai parte di quella famiglia. Finalmente l’orchestra attaccò le prime note della Primavera di Vivaldi. Aggiustandosi gli occhiali con soddisfazione, Solinas scrutava di nascosto le due donne, che ascoltavano riverenti la musica con le mani sul grembo, quasi intimorite. Prima che il brano terminasse, il professore abbassò di poco il volume pensando che fosse troppo alto. «No», disse Maria. Il professore, che la sentì a malapena, chiese scusa. Alzò nuovamente il volume. A Maria piaceva la musica. Il suo no fu un’imprevista scoperta. Era contento, il professore. Grazie alle due donne, da qualche giorno si era dimenticato di essere un triste pensionato.
Antonio era stupito da quella reazione indaffarata del fratello. Avrebbe voluto sospettare di una nascente relazione con la signora Sanna, ma era sicuro che la cosa fosse improbabile, o almeno prematura. «Quando me la fai conoscere la signora…», chiese Antonio una delle mattine in cui andarono a Putzu Idu per seguire i lavori nella casa. «…Sanna?», rispose Mario guardando dalla finestra gli scogli e il mare calmo che d’estate li accarezzava. «Sì Sanna. Be’, non me la fai conoscere?» «Certo, anche oggi se vuoi. Devo andare a trovarla». «Come tutti i giorni, d’altronde», fece Antonio sorridendo.
«Ma no, mica tutti i giorni… Ho dovuto fare anche altre cose», rispose Mario senza capire perché dicesse quella bugia e perché si sentisse infastidito da quel sorriso. «Comunque, solo se ti fa piacere, perché se disturbo…». «Perché dovresti disturbare?» «Magari potremmo ospitarla qua al mare, oppure prestarle la casa quando non ci siamo… Come vuoi tu, insomma». A quell’invito la signora Sanna reagì felicemente incredula. Disse che non poteva accettare, pur sapendo che in seguito l’avrebbe fatto. Spiegò ancora quanto fosse difficile fare uscire Maria di casa. «Sicuramente suo fratello le avrà detto
della condizione di…», disse rivolgendosi ad Antonio. «Certo. Ma io penso invece che le farebbe proprio bene passare qualche giorno al mare, prendere un po’ d’aria, fare delle amicizie. Magari…». «Oh, sapesse», lo interruppe, e sorrise compiangendosi. «Questo poi è veramente difficile». A bassissimo volume Maria ascoltava Vivaldi nella sua stanza. Quasi scappò, appena il professore si presentò col fratello. «Maria! I professori vanno via», disse la madre davanti alla porta chiusa sul corridoio, mentre Antonio faceva cenno di non disturbarla. Maria aprì la porta. Abbassò lo sguardo salutando debolmente.
Sull’uscio di casa la signora Sanna aspettò che i due professori salissero in macchina e partissero. Appena chiusa la porta, la sua bocca si aprì in un sorriso talmente felice da contagiare l’intera casa: era incredula per così tanta considerazione. In macchina Antonio avrebbe voluto comunicare al fratello tutte le sue impressioni, chiedergli perché dedicava il suo tempo a due donne così anonime, dirgli che Maria aveva dei problemi troppo gravi da gestire. Avrebbe voluto consigliarli di occuparsi di qualcosa o qualcuno meno impegnativo. Ma con la coda dell’occhio, sul sedile di fianco, vedeva Mario sereno, addirittura soddisfatto. «È simpatica la signora Sanna. Molto
cordiale», disse Mario, tirando fuori il gomito dal finestrino. «Ti credo». «Come dici, scusa?» «No, dico, ci mancherebbe che non fosse cordiale. Comunque hai ragione, è simpatica, ma fa un po’ pena. Con quella figlia così, poi…». «È vero, sono povere». Dopo un attimo di silenzio ripartì con più slancio. «Però Maria… ma hai sentito che nella sua stanza ascoltava Vivaldi? Basta così poco. Non ti sembra incredibile che una ragazza di quella età non abbia mai ascoltato musica? Anche quella che va di moda, intendo». Antonio avrebbe voluto rispondergli “Sì, mi sembra proprio incredibile”. Gli disse invece: «Vai a capirle tutte le
sfumature che può prendere la depressione. Certo, però, sembra così deperita, poverina».
7
I lavori nella casa di Putzu Idu erano terminati e i due professori vi si erano trasferiti. Anche le abitazioni accanto man mano si riempivano. La maggior parte erano famiglie che si conoscevano da tanto tempo. Le loro voci erano sempre le stesse, come se fossero rimaste stampate in un calco nell’aria. Traevano piacere dal ritrovarsi, ma segretamente ognuno sperava in nuove conoscenze. Era stato riaperto il minimarket e i due bar. La
spiaggia bellissima era punteggiata dai primi ombrelloni; una prova per il pienone di agosto. Al mare le giornate di Mario Solinas si distendevano. La mattina comprava un quotidiano e lo leggeva ai tavolini all’aperto di un bar. Dava uno sguardo a un articolo e uno ai personaggi mattinieri che, di giorno in giorno, si armonizzavano con la scenografia circostante. La sera la trascorreva passeggiando col fratello sul lungomare o seduto nel giardino di qualche conoscente. Ma il pomeriggio restava uguale a prima; si recava a Oristano dalla signora Sanna. Più volte aveva tentato di portare le due donne al mare, ma il grosso impedimento era Maria. Eppure Mario Solinas era più che soddisfatto dei piccoli
cambiamenti della ragazza. Un giorno, in particolare, successe qualcosa di straordinario. Spesso il professore arrivava con un nuovo CD. Una delle abitudini che si erano consolidate era quella del primo ascolto insieme a Maria; Solinas si era conquistato quel privilegio. La signora Sanna ormai poteva sbrigare i suoi lavori domestici senza timore di apparire poco rispettosa nei confronti del professore. Mario Solinas aveva messo nello stereo il Bolero di Ravel. L’armoniosa bellezza di quelle note lente e dolci, all’inizio quasi sussurrate, impercettibilmente trasformarono il viso di Maria. Man mano che la musica cresceva e si gonfiava di nuovi strumenti, al professore sembrava di cogliere una
sempre crescente emozione sul volto della ragazza. Con l’aggiungersi del clarinetto e poi degli ottoni, pareva che tutto il corpo di Maria, pur restando immobile, subisse il contagio esotico e vibrante di quella melodia. Finché Solinas si accorse che stava piangendo. Quando non ci fu più nessuna economia di strumenti, e tutti all’unisono spingevano con forza verso il finale, senza aver lasciato in coda neanche il più piccolo cembalo, quando gli ultimi colpi dei timpani conclusero quel crescendo che più oltre sembrava non potesse andare, le lacrime avevano riempito il volto di Maria. Senza capire bene cosa fare, Solinas guardò la madre, e lei gli rispose con uno sguardo sconfitto che diceva, “cosa vuole,
piange spesso senza motivo”. «Maria…», si decise a quel punto il professore impietosito. «Qualcosa non va?… Forse la musica non…». «Era molto, troppo bella», rispose. Si alzò di scatto, e sfogando il pianto scappò in camera sua. Era trascorso poco più di un mese dalla loro conoscenza, e un’altra abitudine si era consolidata fino a diventare indispensabile. Dopo l’ascolto della musica, il professore era solito leggere a voce alta una ventina di pagine di un romanzo che lui sceglieva. Quelle puntate pomeridiane erano l’evento più atteso della giornata. Anche la signora Sanna, che non avrebbe mai immaginato quanto fosse coinvolgente una cosa così
semplice, ne restava rapita. «Aspetti professore! Solo un minuto!». Quindi abbandonava velocemente l’incombenza del momento e si sedeva appoggiando i gomiti sul tavolo. In certi pomeriggi di quasi totale mutismo, solo e sempre alla fine della lettura, Maria parlava: «È più bello di un film», ripeteva ostinatamente. Per Solinas era il più bel regalo. Ma quel pomeriggio il professore non era molto concentrato, anzi, non lo era affatto. Era arrivato tardi, aveva dimenticato nel negozio il CD appena comprato, e si puliva in continuazione gli occhiali senza che ce ne fosse bisogno. Aveva deciso di partire da Putzu Idu subito dopo pranzo per dare uno sguardo alla casa di Riola e con l’idea di prendere
un romanzo di Salvatore Satta dal suo scaffale. Sarebbe stato il prossimo da proporre a Maria. Non fu una felice idea muoversi a quell’ora, con l’afa impietosa di quel torrido luglio. Arrivò a Riola con la camicia completamente ombreggiata di sudore. Si stupì di vedere la macchina del fratello parcheggiata nel giardino. Era davvero strano, sapeva che Antonio, dalla mattina alla sera, sarebbe stato – così aveva detto – a Cagliari, ospite di un suo vecchio amico. Lasciò la macchina sulla strada per evitare la scomodità di aprire e chiudere il cancello. La porta di casa non era chiusa a chiave. Spinse appena e udì qualcosa a cui non voleva credere. Erano
rantoli che non lasciavano dubbi. Arrivavano dal salotto. Mario Solinas si sentì soffocare da uno stato confusionale. Non sapeva se entrare o andare via. Andare via sarebbe stato più giusto. Riaccostò la porta e fece un passo indietro. Ma con chi era il fratello? E perché quel rapporto avveniva così in segreto e clandestinamente da sembrare vietato? Avrebbe anche potuto confidargliela quella storia, parlargli di una sua amante, invece di abbindolarlo con quella stupida bugia di essere andato a Cagliari. Era mai possibile? Provava ancora quel fastidio di sentirsi il fratellino minore che non deve sapere certe cose; imbalsamato in quel ruolo dell’infanzia. «Oggi vado a Riola perché ho una storia d’amore, di letto, di…». Queste
cose Mario avrebbe voluto sentirsi dire. Ora stava male e quell’ansimare forte lo offendeva, quasi fosse il frutto di uno sberleffo tramato alle sue spalle da chissà quanto. Agitato da una curiosità morbosa fece un passo in avanti e spinse nuovamente la porta. Entrò e la riaccostò pianissimo. Le voci sussurrate erano ora più nitide. C’era un piccolo ingresso prima di entrare in salotto. Mario fece quei pochi passi sentendosi terribilmente ridicolo; una cosa simile non l’aveva mai fatta in tutta la sua vita. Sporse appena la testa dalla porta aperta che dava sul salotto. Proprio vicino alla libreria vide in piedi Antonio che alzava la gonna a Giovanna. Le sue grosse cosce bianche, in quel salotto, erano un evento. Mario era colpito dalla
foga con cui Antonio palpava e stringeva tutto quel biancore. Non poteva smettere di guardare, pur provandone fastidio, come se suo fratello giacesse con la madre. Voleva scappare via, invece restava impotente spettatore, così umanamente curioso e attratto da quella che a lui sembrava una mancanza di decenza. La coppia si spostò verso il divano. Antonio si tirò giù i calzoni e Giovanna le mutande. Prese a sollevarle la maglietta e il reggiseno, lasciando libere due grosse tette che riempivano tutto lo sguardo di Mario. Mai avrebbe immaginato Giovanna, madre di due figli, stendersi così sconcia e giocosa, a suo agio su quel divano da dove lui ascoltava sempre la musica, ignaro del culo caldo di Giovanna
che si agitava sotto un uomo che non era il marito. Quante volte, allora, si era seduto sugli umori di quei due amanti? Ora che Giovanna era sdraiata sul divano, sembrava una rotonda figura di Ingres. Oltre al viso, erano rosse le mani e le braccia, poi cominciava il grande bianco intimo della sua nudità. Nel tentativo di sdraiarsi su di lei, Antonio fece due brevi passi con i calzoni alle caviglie; sembrava un pinguino invecchiato. Nel curvarsi in avanti perse l’equilibrio e cadde di peso sopra la donna, che lo accolse ridendo. «Professore!», gridò, tra le risate sguaiate. «È una vita che le dico di sfilarsi prima i pantaloni! Prima o poi sbatterà quel muso testardo in terra!». Antonio la lasciava ridere, come se
non sentisse. Era intento a ben altro. La possedette facendo spegnere, ma non del tutto, la sua risata. Lei sembrava intenta a giocare all’amore, lui occupato a far le cose per bene. Insieme dissero parole che Mario non riuscì più a sentire. Si ritrovò le mani sudate. Lentamente uscì. Riaccostò la porta e andò a Oristano. Aspettò che aprisse il negozio di dischi e che il sudore si asciugasse. «Professore, professore!». «…Sì?» «Ha letto tre volte la stessa riga!», disse la signora Sanna ridendo e al medesimo tempo preoccupata. «Oh! Mi scusi… Il caldo che ho preso oggi mi ha sciolto il cervello!». Rise senza convinzione. Ma per la prima volta
vide Maria accennare un sorriso e subito coprirsi il viso con la sua manina trasparente che non nascondeva nulla. Per due giorni Mario Solinas non andò a Oristano, e per due giorni Antonio notò che il fratello non era spontaneo, anche se faceva il possibile per sembrarlo. Se però a Mario mancava una qualità, era proprio quella di saper recitare. E quando si accorse di comportarsi come la moglie che ha colto il marito in flagrante, e che non aspetta altro che l’occasione giusta per fargliela pagare, si sentì talmente stupido e ne ebbe un tale ribrezzo da far sì che in un attimo tutto tornasse come prima.
8
«Sa, professore, che ho provato a leggere io in questi giorni?», disse sorridendo la signora Sanna. «Maria, però, ha solo ascoltato qualche pagina e se n’è andata via. Brontolava che leggo malissimo!». Dopo due giorni di assenza il professore fu accolto come se di lui si sentisse tanto la mancanza. Nonostante Maria avesse lo stesso atteggiamento, la stessa magra postura, e insistesse nel suo
abituale mutismo, nel suo sguardo Solinas coglieva una specie di serenità o, addirittura, una parvenza di gioia simile allo sguardo di un cane che ha ritrovato il padrone. Il pomeriggio trascorse con i riti quotidiani dell’ascolto musicale e della lettura. Appena ebbe finito il capitolo e chiuso il libro, Solinas precedette Maria dicendo la sua solita frase. «È più bello di un film». Visibilmente corrucciata Maria uscì rapida dalla cucina. «Ma perché?», chiese affranto lui. «Non so, professore. Non capisco». «Io ho capito invece. Si è sentita presa in giro. Io pensavo di farle uno scherzo, insomma, volevo giocare, non…». «Professore, gliel’ho detto che
purtroppo…». Mario Solinas sostò nel corridoio, davanti alla porta chiusa della stanza di quell’animaletto spaventato. «Maria, scusami. Non volevo prenderti in giro; non pensarlo minimamente. Era un modo… per dirti che domani vorrei portarti al cinema… il cinema all’aperto, al mare». La signora Sanna si avvicinò a lui muovendo la testa come a dire “lasci stare”. Il professore non le diede ascolto. «Domani verrò a prendervi verso le cinque. Ceneremo nella casa al mare, e poi al cinema!». In cuor loro nessuno dei due avrebbe immaginato che sarebbe stato così semplice portare Maria a Putzu Idu. La
signora Sanna disse che la figlia era stata molto nervosa e aveva trascorso tutta la giornata provando e riprovando quei pochi vestiti e le due paia di jeans che possedeva. Non aveva neanche mangiato. Antonio aveva preparato il tè freddo e tenuto qualche bibita in fresco. Avevano bevuto sotto l’ombrellone nel cortiletto dietro casa, davanti al mare. Un muretto basso serviva a delimitarne la proprietà di sabbia e terra battuta. Oltre il muretto, appena più avanti, il terreno diventava rocciosa arenaria e degradava di qualche metro sfarinandosi giù nella spiaggia. I bagnanti erano pochi e dispersi nella vasta spiaggia. Antonio cercò invano di convincere Maria a fare il bagno. I due fratelli parlavano con la signora Sanna. Maria osservava tutto quello
scenario così luminoso e incantato, soffocando il desiderio di stare là in mezzo come se le fosse vietato godere di quel paradiso. Ma il sole non faceva distinzioni e colpiva di riflesso, da sotto l’ombrellone, il suo pallido volto. I capelli, raccolti in una coda, lasciavano libero il suo fragile collo che la maglietta nera e larga isolava dalla magrezza del seno. Quel collo candido attirava su di sé tutta l’attenzione, facendo dimenticare le scarne braccia. I jeans attillati mettevano in evidenza il bacino stretto e privo di rotondità. L’intera sua figura era comunque molto diversa vista alla luce del sole; poteva sembrare una normale ragazza magra. A cena Maria mangiò pochissimo. «Hai visto Maria», disse, «come ti sei
colorita?» «Eh sì», intervenne Antonio, «l’aria di mare è proprio quello che ci vuole per te». Maria annuiva e guardava nel piatto. Sentiva, infatti, il calore di quel sole dentro tutto il corpo. Lo schermo era posto davanti al mare, in fondo a un pendio. Le sedie di plastica bianca con i braccioli, erano aggrappate su uno spiazzo di terra battuta che si arrampicava per una salita. La distesa delle sedie era luminosa come lo schermo. Tutto lo scenario lasciava intendere che il film attorno al telo bianco fosse già cominciato. I due professori con le loro ospiti
furono tra i primi ad arrivare. Maria si sedette subito sulla prima sedia esterna della seconda fila. «Che paesaggio eh? Maria, ti piace?», chiese Mario pulendosi gli occhiali. «Sì», rispose, guardando intimidita la luna come se fosse stata questa a interrogarla. «E guarda le stelle! Quante, oggi!», fece la signora Sanna, che al cinema non andava forse da dieci anni. «Sì, belle». Nel giro di pochi minuti si riempirono tutte le sedie, e l’aria si fece pregna di profumi e deodoranti appena spruzzati. C’era anche, come un intruso, l’odore di pesce arrosto che qualcuno aveva divorato da poco e si era portato sui vestiti e sulle mani lavate senza limone.
Maria diventò nervosa. Aveva paura della folla. La sua testa era abbassata, rivolta verso la madre. La signora Sanna le cinse le spalle col braccio; guardava tutt’intorno con l’aria di essere lei una figlia che viene portata al luna park per la prima volta. Venne spento il faro, ma nessuno se ne accorse e il bisbiglio cessò solo quando sul telone bianco cominciarono a scorrere le immagini del film. Durante la proiezione Mario Solinas guardò con un occhio L’albero di Antonia, ma con l’altro scrutava le reazioni sul viso di Maria, che si spegneva e si accendeva alla luce dei fotogrammi. Più che guardare, Maria era incantata. Non si sarebbe potuto dire se per la storia o per la grande dimensione
delle attrici, o perché tutto intorno c’erano le stelle e il profumo dell’estate. Per Mario Solinas il vero spettacolo era l’attenzione pietrificata della ragazza. La luce del cinema la rendeva meno terrena e molto bella. «Ti piace il film, Maria?», le chiese Antonio, sporgendosi in avanti durante l’intervallo. «Sì». «Un film di donne fatto dalle donne, eh?» «Sì». Alla ripresa del secondo tempo, nella fila davanti, qualcosa era cambiato. La coppia di ragazzi che nessuno prima aveva notato, si era abbandonata a una serie di effusioni condite da baci e abbracci. Lo sguardo laterale di Mario
Solinas aveva colto la disattenzione di Maria che adesso guardava i due giovani. La mano di lui accarezzava le spalle di lei e scompariva dentro il colletto della camicetta. Era facile percepire l’altra mano sul seno; la luna piena mostrava molto. Il film era terminato. Sui titoli di coda venne acceso il faro laterale. Il pubblico cominciò a sciamare. La coppia, terminate le effusioni, restò ancora per un po’ seduta. Appena alzati si voltarono indietro con lo stupore che si ha quando si cerca qualcuno. Mario Solinas parlava con la signora Sanna, ma notò lo sguardo di Maria attento sui due ragazzi. «Be’, è stato proprio un bel film, vero signora?», chiese Antonio alzatosi in piedi.
«Eh sì, proprio bello. Mi sembra di esserci ancora dentro». «Tu Maria? Cosa dici; ti è piaciuto?» «Sì». I due ragazzi si allontanarono. Lei era mora, alta, con la bocca carnosa. Lui più basso, biondo e bellissimo.
9
La testa rapata a zero di Antioco Mura era lucida, colore del cuoio, perché trascorreva l’intera giornata sotto al sole, anche quando stava sulla sua motocarrozzella rossa che non aveva il tettuccio. Nella motocarrozzella ci stava sempre, perché non aveva gli arti inferiori. Viveva a Putzu Idu tutto l’anno. Si trovava bene, ma d’estate ancora meglio: c’era Ottavia Lussu. Per tre mesi lei abitava la sua bella casa bianca in
terza fila, anche se, individuare la terza fila, visto il modo allegramente svogliato in cui era stato costruito il paesino, non era certo facile. La motocarrozzella era fornita di tubicini e saldature particolari che Antioco si faceva innestare sul modello originale. Aveva anche gli specchietti retrovisori, le frecce e il clacson; il manubrio era rosso come tutto il resto. L’unica cromatura era del tubo di scappamento. Ci teneva molto, Antioco, al suo mezzo di trasporto, d’altronde ci trascorreva l’intera vita. Degli adesivi erano applicati in gruppo sulla lamiera laterale che circondava il sedile, sormontata da un bordo imbottito in finta pelle. “Deu seu sardu”, scritto in giallo su
fondo nero. “Marlboro”. Un altro adesivo pubblicizzava un grande negozio di ferramenta e un altro ancora un campeggio. Antioco Mura sostava davanti all’abitazione di Ottavia Lussu e aspettava che lei lo andasse a prendere. Mario Solinas passò lentamente davanti alla casa, era appena tornato da Oristano. Il sole, tra breve, avrebbe cominciato la discesa definitiva. «Buona sera professore». «Antioco, come sta…?». Solinas si fermò con l’aria di poterselo permettere solo per qualche minuto. «Cosa vuole, così… tiriamo avanti». «Anche questa estate sta per finire…». «Il tempo passa», rispose Antioco, voltando la sua testa fenicia verso la porta
di Ottavia Lussu. «Però c’è ancora settembre», fece il professore. «Sa che mi viene la tentazione di vivere qui anche in inverno?» «Ah guardi, ci si annoia, molto, ma si può anche star bene. Certo…». Abbassò il tono della voce e per accostarsi alla testa di Solinas inclinò tutto il suo corpo in avanti, poggiandolo quasi sul manubrio. «Certo che in inverno, non…». «Non…?» «Eh, non c’è…». E portò gli occhi del professore a seguire i suoi sulla porta di Ottavia Lussu. «…Ah! Già. Non c’è…». «Cosa vuole professore, sono solo… e così, diciamo, passo un po’ di tempo». Puntando le mani sul manubrio spinse tutto il tronco per riappoggiarlo
sull’imbottitura della spalliera. «Capisco, è normale», disse il professore. Ottavia Lussu uscì dalla porta splendente come sempre era stata. «Eccomi Antioco, scus… Oh! professor Solinas! Beato chi la vede!». «Signora Lussu buona sera, co-come sta…? Io stavo salutando…». «Il nostro Antioco, che è sempre in forma. Vero professore?» «…Sì è vero. Be’, adesso la saluto…». «Arrivederla professore. Venga…», abbassò il volume vistosamente, «a trovarmi qualche volta. L’aspetto». Ottavia Lussu aveva già cominciato un’operazione che poteva sembrare complicata. Sollevava di peso il mezzo
corpo di Antioco e, in un sol colpo di reni, se l’appoggiava addosso, sul seno. «Se posso aiutarla», disse Mario Solinas a operazione conclusa. «Va bene professore, se proprio vuole aiutarmi, venga. Lei prenda il bacino». Mario Solinas prese la parte finale di quel corpo con le mani che gli sudavano e gli occhiali che gli erano scivolati sulla punta del naso. «Ecco, così. Adesso entriamo in casa», suggerì Ottavia Lussu, che reggeva Antioco per le spalle. «Stia attento ai gradini, professore». Alcuni bagnanti rientravano dal mare; un bambino che trascinava svogliato il bastone di un ombrellone si fermò a osservare quella sorta di pietà che faceva l’ingresso in casa.
«Papà! Papà! Guarda, cos’è?!». «Come cos’è? Sta’ zitto, no?». Mario Solinas si voltò a guardare quegli occhi curiosi, sperando che fossero turisti di passaggio, ma con gli occhiali sulla punta del naso sbatté la testa sullo stipite della porta. «Professore! Stia attento!», disse Ottavia Lussu. «Non si preoccupi… so-sono infrangibili», riferendosi agli occhiali che erano caduti. «Ma papà! Che cosa è?» «Allora? Vuoi star zitto, cretino?!». «Insomma!», fece una delle donne del gruppo. «Vuoi smetterla di trattarlo cosi?». Il tenero trio era entrato in casa. Antioco Mura venne adagiato sul letto.
Mario Solinas tornò nell’ingresso per raccogliere gli occhiali. Adesso era certo che quel gruppo non fosse del posto. Tornò dentro per salutare; sperava di non trovare nessuno sulla strada una volta uscito. La camera dove avevano sdraiato il tronco di Antioco era profumata di saponetta e di qualche altra indecifrabile essenza, molto gradevole. C’erano le tendine alle finestre, un comodino con una madonnina e dalla parte opposta del letto una bambola su una sedia, uno scaffale gonfio di libri, un armadio a tre ante con lo specchio in mezzo e una sedia con sopra un asciugamano rosa. Alla parete un poster con le montagne svizzere. «Come vede, professore, io tengo molto alla pulizia».
«Eh sì, è molto carino…», rispose, rendendosi conto di aver stupidamente scrutato l’ambiente. Per un attimo restò ipnotizzato dal profumo della stanza. Quindi notò lo sguardo pieno di pazienza di Antioco Mura, rivolto dritto al soffitto. «Be’, scu-scusate, arrivederci». Ottavia non l’accompagnò alla porta. Conosceva troppo bene gli uomini per sapere che il professore avrebbe preferito uscire senza che lei si affacciasse a salutarlo. Due ragazzi sui vent’anni erano seduti dall’altra parte della strada. Mario era sicuro di non conoscerli, ma non li guardò in faccia. Aspettavano diligentemente il loro turno fumando in silenzio. Anche se aveva superato la cinquantina, Ottavia Lussu attirava ancora i giovani, anzi, era
quasi un oggetto dei loro desideri. A settembre la spiaggia si vuotava, e forse Maria – così aveva promesso – avrebbe preso il sole e fatto il bagno. A forza di guardare la spiaggia dal cortiletto della casa, aveva preso confidenza con quel pensiero. Non mancarono un solo appuntamento al cinema all’aperto e Maria, oltre ai soliti monosillabi, cominciò a comporre brevi frasi e a sedersi nei posti centrali e più lontani dallo schermo; adesso portava anche gli occhiali. Mentre in mutandoni si guardava allo specchio, Mario Solinas pensava ai piccoli ma evidenti progressi di Maria. Di lì a due giorni sarebbe andata a Putzu Idu
con la madre. Assieme al fratello aveva preparato la camera per loro. Un semplice arredamento con due lettini e un comodino in mezzo, un armadio e due sedie. Erano vecchi mobili per una casa al mare, ma le lenzuola pulite e i copriletto a fiori rendevano la camera accogliente. Davanti allo specchio Mario Solinas si vergognava. Era una di quelle cose che non ricordava di aver mai fatto. D’altronde, ultimamente, erano parecchie le cose che faceva per la prima volta. Si vedeva un professore in pensione grasso e trascurato. Com’era possibile che fino a quel momento non avesse mai pensato a quella pancia, al petto cadente e a quelle gambe così magre? Forse ora ci pensava nell’ipotesi di andare in spiaggia, dove non era mai sceso in costume da
bagno? Forse questa volta immaginava di doverlo fare per accompagnare Maria e la madre? No, semmai lo avrebbe fatto Antonio, abituato ai bagni e già abbronzato su tutto il corpo, e non solo sulle braccia e in viso come lui. Antonio faceva bene a tenersi in forma, era pronto per qualsiasi occasione. Mario si guardava allo specchio, poi osservava i pesi leggeri che gli aveva prestato il fratello. Si era fatto spiegare un po’ di esercizi. «Era ora che ti decidessi», gli disse Antonio, mostrandogli le flessioni sul tappeto. «Io non dico di essere maniaci della forma, ma come hai fatto tu è troppo! Neanche una flessione o una nuotata in vita tua!».
E aveva ragione, rifletteva adesso Mario. Ormai lui era quello che era e aveva l’età che aveva. «Ecco! Prima che me lo dica un medico, lo faccio da me». Così si ripeteva, come se la salute fosse la giustificazione per quel suo guardarsi allo specchio, col desiderio di far sparire almeno un po’ di pancia. «Sono sicuro che lo avrei fatto anche se non avessi conosciuto Maria e la signora Sanna». Per lui era importante sottolinearlo. La mattina successiva si alzò presto per prendere il sole nel cortiletto prima che si alzasse il fratello e prima che i vicini trafficassero nei giardini a fianco. Indossava un costume da bagno blu scuro, comprato chissà quanti anni prima, che ormai era stretto in vita e lasciava uscire, quasi spaventate, due cosce
bianche e magre ombreggiate di peli neri. Si distese sulla sdraio e aspettò che il sole salisse almeno di qualche centimetro in più. Antonio si alzò prima del previsto e aprì la veranda che dava sul cortiletto. «Finalmente in mutande! Un po’ di ossigeno alla tua pelle grigia!». «Lo so che sono inguardabile», si commiserò sorridendo. «Be’ insomma, non esagerare, mica sei un vecchio». «È che io, stendermi al sole… Chi mai ne ha avuto voglia?» «Pensavo che sei stato in gamba con Maria. Se continua così potrà smettere anche con i farmaci, non credi?» «Per i farmaci forse è meglio aspettare… ha bisogno ancora di tanto
aiuto. Hai notato quanta paura si nasconde in fondo al suo sguardo?» «È vero. Anche le poche volte che ride è sempre diffidente… Preparo il caffè».
10
Maria era sdraiata spalle al sole sull’asciugamano rosso. Più che sdraiata sembrava nascosta dal resto della spiaggia e della gente. Si era sfilata velocemente i jeans e la maglietta. Piena di vergogna si era stesa, restando nella stessa posizione con le braccia incrociate sotto la testa. La madre le si avvicinava ogni tanto, premurosa, per spalmarle la crema protettiva e Maria, infastidita, le diceva di
smetterla senza voltarsi. La signora Sanna, con lo sguardo, suggeriva a Antonio Solinas che bisognava avere pazienza. Da sotto l’ombrellone il professore annuiva e le faceva cenno di non insistere. Ma la signora aveva ragione nell’insistere. Maria era così bianca da essere luminosa. Su quel telo rosso rifrangeva la luce come un marmo di Carrara. Era comunque una di quelle persone che, se a settembre scendono in spiaggia così bianche, accendono la curiosità di chi si è immalinconito per la fine della vacanza. La popolazione marina si era sfoltita, ma il sole picchiava ugualmente ostinato. «Maria, perché non ti volti un po’ pancia al sole?», chiedeva la madre in ginocchio, come se fosse vicino al cadavere della figlia.
«No». Quindi la signora Sanna si curvava e sussurrava: «Su, c’è poca gente. Perché non…». «No!». Quella fu la prima mattina in cui Maria scese in spiaggia, anche se madre e figlia erano ospiti dei fratelli Solinas già da tre giorni. Avevano occupato la cameretta e da allora sul volto della signora Sanna si era dipinto un sorriso che non si era più cancellato per due settimane. Voleva mostrare gratitudine ogni attimo della sua permanenza, in tutte le occasioni che le si offrivano. Rideva per ogni piccola battuta di Antonio, anche quando non era necessario. Stirava le camice ai due professori. In cucina nascevano piccole scaramucce per lavare
i piatti, cucinare, preparare il caffè. Era vitale e presente la signora Sanna, indaffarata a sostituire il silenzio e l’indifferenza che il comportamento di Maria poteva suggerire. Quando la sera uscivano tutti insieme per una passeggiata sul lungomare, la signora Sanna dedicava più attenzione al trucco, ma era la gioia che le trasformava i lineamenti del viso. Voleva convincere anche Maria a truccarsi. Ogni sera tentava ostinatamente e ogni sera la figlia si rifiutava, sempre più insofferente. Dalla loro cameretta si sentivano chiari i no di Maria, e spesso succedeva che lei uscisse a passeggiare rabbuiata, mantenendosi distante dalla madre.
La seconda settimana di settembre Maria offrì al sole anche la sua magrezza anteriore. Sembrava immolata in un sacrificio che le faceva tenere gli occhi chiusi e il viso teso, come se dovesse subire non il calore ma la scure del sole. La madre forse non sarebbe mai riuscita a convincerla. Con lei Maria era diventata quasi ostile. Non sopportava quella spirale di attenzioni da cui era avvolta. Fu Mario Solinas e convincerla. Di lui Maria ormai si fidava. Le letture dei romanzi continuarono anche a Putzu Idu, nel tardo pomeriggio, quando rientravano dalla spiaggia. Maria era la prima a fare la doccia per rannicchiarsi subito, con i capelli ancora umidi, sulla sdraio di tela nel cortiletto, in
attesa del lettore. Mentre Antonio e la signora Sanna preparavano la cena, Mario diventava un attore circondato dalla coreografia delle nuvolette vicine al sole che tramontava. Successe anche che la lettura di Teresa Raquin destò in Maria una tale curiosità, che chiese al professore di continuare a leggere anche in spiaggia. Cosicché, mentre la varia comunità dei bagnanti era presa dalla vita da spiaggia, Maria pendeva dalle labbra del professore, isolata e dimentica di tutto il resto. Cambiava perfino di posizione e addirittura si sedeva senza più vergogna di mostrare le ginocchia appuntite o il seno piccolissimo. In cambio il professore le chiese di fare il bagno dopo la lettura. Maria acconsentì e, presa per
mano da Antonio, si tuffò in acqua; come una bambina impaurita, gli occhi divennero quasi sofferenti, sbarrati per la tanta gioia. Quel primo bagno, dopo la sua infanzia, fu un battesimo che le lavò via timidezza e paura. Nel pomeriggio, rientrando a casa, per la prima volta Maria non indossò i jeans ma solo la maglietta. Le sue gambe magre erano diritte e lunghe; abbronzate, sembravano meno gracili e quasi feline. In quel piccolo tratto di strada se ne accorse un ragazzo che passava. Se ne accorse anche Mario, sia dello sguardo del ragazzo, sia delle gambe di Maria. Si aggiustò gli occhiali sul naso arrossato e sorrise guardandosi i piedi. “Ci siamo”, pensò, “Maria ce la farà”.
Erano andati a letto tardi. I Solinas avevano avuto visite: la famiglia del cugino di Riola. Fu una serata movimentata per via delle spiritosaggini del cugino, che faceva il galletto con la signora Sanna. Sua moglie, piuttosto infastidita, parlava con i fratelli Solinas, mentre con gli occhi indicava il comportamento ambiguo del marito. Tore, il figlio più grande, dopo qualche tentativo di parlare con Maria, si sentì insofferente e annoiato. Entrò in cucina per tenere a bada il fratellino e la sorellina che scorrazzavano gridando. Alle due tutti dormivano, tranne Mario. Dalla finestra aperta guardava i bagliori che nascevano da un fuoco acceso in spiaggia dai ragazzi.
Arrivavano anche le loro voci; ridevano, cantavano e litigavano sulla scelta delle canzoni. Mario sentì altri rumori. Uscì scalzo dalla camera e lentamente si diresse in cucina. Da sotto la porta filtrava la luce accesa. Spinse pianissimo. Con i capelli raccolti in una coda e i gomiti puntati sul tavolo, Maria divorava, tutta curva sul libro, le pagine di Zola. Finita la pagina, sfogliava così in fretta da sollevare un venticello che le agitava i capelli più corti e liberi sulla fronte. Teneva le piante dei piedi nudi l’una a contatto con l’altra. In tal modo le ginocchia, distanti tra loro, tendevano la camicia da notte che scendeva di poco sotto il ginocchio. Appena sfogliata la pagina riprendeva a mordersi le labbra che luccicavano di
saliva sotto la luce della lampadina. Mario Solinas la spiava dalla porta socchiusa. Poteva cogliere tutta la sua tensione verso la pagina. Ora Maria aveva preso a grattarsi le gambe coperte dalla camicia da notte, poi, senza farsi distrarre per niente dalla lettura che continuava quasi con foga, prese a sfregarsi la pelle. L’azione velocissima si concluse subito e Maria, sbuffando, puntò nuovamente i gomiti sul tavolo. Lo sguardo di Solinas era rimasto a lungo fisso sulle gambe scoperte di Maria. Quando se ne rese conto si allontanò dalla porta e tornò in camera sua. Chiuse la finestra e si isolò dai canti dei ragazzi. Restò per qualche ora con gli occhi
aperti, a fissare il buio del soffitto.
11
Alla fine di settembre, la polvere delle strade sterrate di Putzu Idu cominciava la sua marcia inesorabile di avvicinamento alle case disabitate. Il vento di maestrale e il libeccio, attraverso le fessure delle porte e delle finestre, si impegnavano ad aiutare quell’operazione. Una velo trasparente si adagiava sul silenzio dei proprietari, senza il terrore che scope o stracci potessero disfarne il lavoro artigianale. Poteva così, il colore
della polvere, uniformare tra loro cose misere e preziose. Dalla fine di una viuzza Mario Solinas guardava lateralmente la porta e gli scalini della casa di Ottavia Lussu. Lei, come ogni anno, restava a Putzu Idu fino all’ultimo giorno di settembre. Mario, assieme al fratello, si era trasferito nuovamente a Riola. Quel pomeriggio non era andato a Oristano e la cosa sembrava eccezionale. Non c’era ormai un solo impedimento che lo potesse far desistere dal trascorrere le ore pomeridiane a casa di Maria; frequenti erano diventate anche le uscite per passeggiare e fare compere. Sulla via laterale Solinas si affacciava e subito si ritraeva. Per non farsi scoprire a spiare, era pronto a muovere il passo nel momento in cui avesse intravisto
qualcuno degli ultimi abitanti estivi del posto. “Buona sera! Eh sì, sono venuto a dare una controllatina alla casa”, avrebbe risposto, se fosse stato un suo conoscente. Quei gradini e quella casa bianca gli parevano un altare, un monumento ai caduti. I brividi che sentiva non erano causati dalla temperatura del tiepido pomeriggio, ma da quei gradini sui quali erano caduti i suoi occhiali qualche tempo prima. Antioco Mura era entrato già da un’ora. Per fortuna Solinas l’aveva visto e pedinato, nel dubbio che andasse a pregare davanti a quell’altare. Eccolo che usciva sorretto e abbracciato al collo di Ottavia Lussu. La madonna lo deponeva con cura dentro la sua motocarrozzella, lo
salutava e Antioco Mura avviava l’accensione di quel sospetto mezzo di trasporto. In una bassa nuvoletta di polvere, si allontanava, seminando il ronzare felice della sua ferraglia. Primo, secondo e terzo gradino, e infine una facciata di bianco abbagliante colpita in pieno dal sole delle cinque. Il campanello fece un primo squittio, non proprio un din-don. Si era sentito? O bisognava aspettare, e riprovare con almeno la forza sufficiente a intonare la musichetta? La porta si era invece aperta. Si era imposto di farsi trovare preparato, ma ebbe modo di spaventarsi ugualmente. «Quale sorpresa! Professore!». «Buona, buona sera. Spero di non… ero qui, e…».
«Era di passaggio, lo capisco. Probabilmente è venuto a dare un’occhiatina alla sua casa». «Già, sa, è sempre meglio… non che dentro ci sia qualcosa di, di valore…». «Vuole accomodarsi?» «Sa, io… sì, certo, se non didisturbo». Ottavia Lussu al termine della stagione diventava una splendida donna. La pelle non era abbronzata, ma dorata. Sul volto ampio si stringevano gli occhi lunghi, castano chiari, e i cerchi d’oro sulle orecchie la insaporivano di un antico accento orientale. I capelli ondulati le coprivano il collo. In fondo al bianco sorriso mancava un molare, ma ciò le dava, si sarebbe potuto dire, un’aria sbarazzina anziché di maturità.
Muoveva le grandi mani lentamente; alcune vene si mostravano decise. I suoi anni assistevano a qualche lecito cedimento del corpo, soprattutto nelle braccia e nel petto largo e grosso. Ma l’insieme della figura suggeriva ancora un dignitoso decoro, e prometteva abbondante protezione. «Prego professore». Si spostò e aprì del tutto la porta, appoggiando il sedere robusto alla parete che stringeva il corridoio. Solinas entrò superando i restanti due gradini come fossero stati l’ultimo tratto in salita che conduce al Golgota. «Certo che il tempo è, è… ancora molto…eh?», balbettò Solinas, toccandosi gli occhiali e guardando a terra, di lato, le unghie rosso vermiglio che si
affacciavano dagli alti zoccoli di sughero. Ebbe la sensazione di ricevere il saluto anche da quella corolla incandescente. «A settembre è bellissimo. La gente va via proprio sul più bello… Prego. Desidera bere qualcosa, prima?». Lo fece accomodare nella camera. «Prima?… Sì, grazie. Un bicchiere d’acqua». Mario Solinas si sedette sulla sedia dove aveva visto appoggiato l’asciugamano rosa. Ottavia Lussu andò a prendere il bicchiere d’acqua. Nel frattempo Solinas cercò di entrare in confidenza col profumo di saponetta e lavanda della stanza; non sapeva a che altro affidarsi. Lei tornò con l’acqua e un bicchiere d’aranciata per sé; teneva l’asciugamano rosa attorno
all’avambraccio. Offrì l’acqua al professore, poggiò l’asciugamano sul copriletto e si sedette ai bordi dell’ampio matrimoniale. Sopra una sedia, nell’angolo opposto al comodino, c’era, l'aveva già notata, una grande bambola con un lungo vestito celeste. Era una di quelle bambole che si tenevano sui letti matrimoniali nelle stanze degli ospiti, e là restavano mesi e anni, a guardare l’assenza di questi impolverandosi le ciglione. Ottavia Lussu la deponeva al centro del letto la sera tardi e la toglieva la mattina, lei non dormiva in quella stanza. Battendo gli occhioni durante il trasporto, la bambolotta li avrebbe poi tenuti sbarrati per tutta la giornata, incrociando lo sguardo al centro del letto con quello
della madonnina sul comodino. Solinas purtroppo bevve rapidamente provocandosi una tossetta che gli fece allontanare il bicchiere da sé e cadere l’acqua sulla camicia celeste e sui calzoni ocra. «Oh!», disse lui. «È solo acqua», sorrise lei. «Non so perché sono così…». «Quest’estate l’ho vista varie volte con…», sorseggiò l’aranciata. «Sono sua moglie e sua figlia?» «No, no… conoscenti, care conoscenti». «Infatti mi pareva di ricordare che lei non era sposato. Ma sa, nonostante tutto», sorrise, «io non mi occupo degli affari degli altri. E infatti non ero sicura… Anche suo fratello, mi sembra che
non…». «No, non è sposato neanche lui». Ottavia Lussu teneva le gambe accavallate, coperte pudicamente dalla gonna che arrivava fino al ginocchio. Le gambe avevano i polpacci appena accennati. «Quella ragazza alta, sa, l’ho notata; è troppo magra, ma se ingrassa un pochino… eh, me lo lasci dire, diventerà una gran bella figliola». «Dice? Anch’io la penso così». «Uuh! Quanto le correranno dietro!». «Eh già…». «Bene, professore. Allora possiamo cominciare?» «Eh? Sì. Dove posso…». Restò col bicchiere a mezz’aria. «Mi scusi. Dia a me». Si alzò con uno
slancio facendo ballare il seno, e gli prese il bicchiere. «Cosa preferisce, professore? Si era seduta nuovamente ai bordi del letto incrociando le mani sulle cosce, che ora mostrava un pochino. «Io, non… come vuo-le, lei…». «Stia tranquillo». Tese le braccia e le grandi mani in avanti, inclinando di lato la testa. «Si avvicini, e non si preoccupi. Tanto siamo tra noi». Solinas si alzò e si accostò a quelle mani tese che chiedevano di essere prese. «Venga, si rilassi. Non ci corre dietro nessuno, vero?» «È vero». Ottavia Lussu lo tirò delicatamente a sé. Cominciò a slacciargli la cinta e, proprio lentamente, ad abbassargli la
chiusura lampo. Le sue mani erano ferme e sicure come quelle di un chirurgo, ma i mignoli sollevati erano il condimento femminile che ingentiliva tutta l’operazione. Sentiva, Ottavia Lussu, il tremore ossessivo delle gambe di Solinas; attraverso quella vibrazione leggeva la sua intera vita. «Sa professore, lei è come un diciottenne». «Be’…». «Sì. Ma ha l’intelligenza e la sensibilità di chi ha studiato e insegnato per tanti anni». «Be’…». I calzoni caddero a terra senza trovate nessun appiglio. Ottavia Lussu stette davanti ai mutandoni bianchi, che sapevano di prudente dopobarba, per un
attimo indecisa. «Vede professore», alzò il capo e si scostò i capelli dalla fronte con un secco movimento della testa. Tese ancora le braccia per togliergli gli occhiali. «Io so fare bene il mio lavoro, ma non so essere volgare». Poggiò gli occhiali ai piedi della madonnina e lentamente fece scivolare giù quei mutandoni. «E, per volgare, intendo tutte quelle cose che oggi vanno tanto di moda, sa, i cubetti di ghiaccio sulla pancia, quelle pose languide, tutto finto…» Cominciò ad accarezzargli il pene e tutta la paura che vi albergava dentro. «Voglio dire», se lo avvicinò alla bocca e lo baciò. «Tutte quelle finzioni le trovo stupide e adatte a chi è ignorante, provinciale…». Infilò le sue mani sotto la gonna e si
sfilò le mutande. «Una sana volgarità, non so se riesco a spiegarmi, deve essere diretta, sincera, non deve dimostrare altro che se stessa… Lei non crede?» «Be’, io…». Ottavia Lussu prese la mano del tramortito professore e se la portò in mezzo alle cosce, nel punto esatto dove nasce il calore. «Tocchi, professore, la tocchi tranquillamente. Non abbia paura. Sia intelligentemente volgare». Solinas era frastornato da quella lezione di erotismo. Forse non riusciva a capire, e neanche a sentire bene. Con la coda dell’occhio percepiva la presenza dei libri che, pressati dentro la libreria, sembrava volessero schizzare fuori, per
chiarire ancora meglio qualche cosa che a Solinas adesso sfuggiva proprio. Lui ci provò a muovere la sua paletta di gesso tra le cosce morbide, ma era come bloccata. Allora Ottavia Lussu mise anche la sua mano sotto la gonna e lo aiutò. «Coraggio, la tocchi come vuole». Non usciva, però, dalla bocca di Mario Solinas, neanche un moto, un vezzeggiativo, una parolina. Sentiva la gola secca e aveva paura di emettere un grugnito. «Così, professore, così…». A Solinas, chissà come, venne fuori un sorriso ghiacciato, e su quel sorriso sarebbe scappato anche in mutande. Ottavia Lussu gli prese l’altra mano e se la pose sul seno. «Io», disse da un’altra dimensione
Solinas. «Sì?» «Io…». «Sì-ì?» «Mi deve scusare…». «Perché?» «Non ho mai…». «Sì-ì?» «Non l’ho mai fatto». «Professore! Da quando l’ho capito…! E allora? Bellissimo, non crede?» «Sì». «Può assaporare adesso ciò che altri non assaporeranno per tutta la vita… anche se non se ne rendono conto». «Sì». Allora Ottavia Lussu gli diede un bacio sulla guancia, e gli strinse la mano
tra le cosce. Cominciò a levarsi il vestito, tenendo come arpionato il professore nella morsa, e questi ebbe ancora il fiato per dire: «La luce… la prego, possiamo…». «Dopo, adesso mi guardi». Le cadde il vestito, che restò incagliato sul braccio di Solinas. Lui ebbe un po’ di pietà per se stesso; abbassò il capo. Nuda, Ottavia Lussu posava lo sguardo sul proprio corpo con orgoglio. Gran parte della sua pelle restava tesa e accogliente. Aveva i capezzoli piccoli, viola. «Va bene. Adesso spegniamo la luce». Ottavia scostò la mano di Solinas dall’interno delle cosce. Si avvicinò alla finestra per respingere il solo filo di luce che filtrava. Solinas osservò il movimento
di quel sedere ampio. Poi lei spense l’ultima lampadina accesa. Dalla porta rimasta socchiusa ora entrava una luce debole; una giusta penombra da fine estate. Ottavia Lussu scostò il copriletto e il lenzuolo. «Sono pulite, sa? Le cambio tutti i giorni, e comunque non sposto mai il lenzuolo di sopra… Venga». Si sdraiò e tirò a sé il professore. Sul letto gli sbottonò la camicia e gli sollevò la canottiera; Solinas sembrava sotto l’effetto di un’anestesia. Lei prese ad accarezzarlo dappertutto, poi gli si sfregò addosso facendogli sentire ogni parte della sua pelle. Glielo prese in bocca e poi vi adagiò il suo largo seno. Quando lo vide eccitato, gli salì
sopra. «Però? Sa che non me lo aspettavo così? Complimenti professore, davvero». Gli prese il cazzo e se lo infilò dentro, ma dopo pochi secondi l’erezione era svanita. «È sempre così la prima volta. Capita proprio a tutti, sa?». Una distratta fortuna glielo fece tornare duro, e lei se lo rimise dentro. Ottavia Lussu si mosse per quel poco che poteva dirsi un amplesso e, dopo aver affrontato la barriera dei primi minuti, Solinas venne. Lei lo lasciò uscire da dentro di sé e si sdraiò di fianco a lui. Restarono così. Nel silenzio del paesino si sentivano solo le onde che si appoggiavano alle rocce. «Spero, professore», disse lei, salutandolo sulla porta, «che le resti un
bel ricordo». E sorrise, mostrando l’assenza del suo molare. Solinas aveva un’altra espressione; era acceso e ringiovanito. Sui gradini non si diede neanche pena di accertarsi che ci fosse qualcuno per strada. «Grazie», rispose lui sottovoce, ma era un grazie grande come la facciata bianca della casa di Ottavia Lussu. Allontanandosi sulla strada sterrata, si portava stampato nel ventre il ricordo di quel sedere caldo che scendeva e saliva, riscendeva e lo risucchiava.
12
A novembre Maria era ingrassata forse di un paio di chili. Così almeno diceva lei e, benché neanche una parvenza di linee curve ammorbidisse i suoi contorni, c’era da crederle. L’ovale del viso, infatti, era adesso delicatamente pieno, forse perché la sua bocca si disegnava più serena e ogni tanto gonfiava le guance quando rideva. In quei momenti Solinas ne approfittava per gustare il sorriso disincantato della ragazza che,
come un sipario, si apriva malinconia del suo ovale.
sulla
«Allora? Che taglio facciamo?», chiese la parrucchiera giovanissima, truccata da punk. Maria le mostrò una rivista che si era portata appresso. «Come questa», rispose, indicando la pagina segnata. «Ma sei sicura…? Vediamo un po’. Sai che ti consiglierei quest’altra?». Solinas assisteva a quella discussione seduto in una poltroncina all’angolo del salone. Alcune signore, irrigidite sotto il casco, ogni tanto lo scrutavano. Si trovava a disagio, ma se non l’avesse accompagnata fin dentro il locale non ci sarebbe stato verso di convincerla a tagliarsi i capelli. Maria faceva qualcosa
solo se c’era il professore. Non accettava più che con loro uscisse anche la madre, ma la signora Sanna di questo non si preoccupava. Era orgogliosa di salutare la figlia che usciva col professore. «Guarda… Maria ti chiami, vero? Guarda questo taglio; per il tuo viso è perfetto». Maria si voltò indietro a chiamare con lo sguardo il professore. Lui si accostò alle due ragazze aggiustandosi gli occhiali. «Secondo me per sua figlia è più indicato questo taglio». «Io, non è che me ne intenda… ma sì, credo che vada bene». Presa la decisione, Solinas tornò alla sua poltroncina. Che lui fosse il padre e lei la figlia,
non era più un problema per nessuno dei due; si erano ormai abituati. L’esile collo, lasciato libero dal taglio corto che scendeva solo a coprire le orecchie, adesso mostrava tutta la sua tenerezza. Maria si guardava allo specchio più spesso. Passava velocemente davanti a quello del suo armadio, faceva finta di camminare su un marciapiede e, rapida, si voltava stupita verso il proprio riflesso; immaginava cosa potesse provare un’altra persona guardandola in un fugace incontro cittadino. Le sarebbe bastato sembrare normale, una qualsiasi, non una “canna”, come la chiamavano a scuola. Il vai e vieni davanti allo specchio certi giorni era ossessivo e ricco di
stratagemmi. Maria andava in cucina e per distrarsi dava un’occhiata a una pagina di qualche romanzo, poi, veloce, entrava nella sua camera e, solo per il tempo di un respiro, si voltava a guardare quell’estranea. Era attratta dal movimento dei capelli che nel voltarsi giocavano attorno allo sbattere furtivo dei suoi occhioni. Bastava quel piccolo segno di vita per accettarsi, ma non durava tanto. Quando si controllava il sedere, che a malapena s’intravedeva, e poi il piccolissimo seno, leggero accenno di donna, allora la assaliva lo sconforto, e l’unica cosa che l’aiutava era l’arrivo del professore, per rifugiarsi nella lettura e nei dolcetti, che adesso cominciava a divorare. Alla fine delle feste natalizie aveva
preso un altro chilo e si era abituata alle lenti a contatto; non si accettava più con gli occhiali. Di nascosto provava a truccarsi.
13
Le nuvole, che adesso poteva quasi toccare, l’attiravano e la respingevano; guardava e subito ne aveva paura. Rideva dietro una filigrana di spavento, come ridono i bambini davanti a un cagnolino che abbaia. Quando le nuvole si diradavano e appariva il mare, la coglieva un senso di vertigine che le faceva sbarrare gli occhi e incrociare le mani trasparenti sul petto. «Oh!», diceva, coprendosi poi la bocca. Era immane quel
blu e il vuoto che si stendeva attorno all’aereo; Maria se ne sentiva risucchiare e, quando la sua meraviglia proprio non reggeva quella vista dal finestrino, si voltava di scatto verso Solinas e nascondeva il volto sulle sue spalle. «Che paura!», gridava sussurrando, e Mario Solinas sorrideva divertito, cercando l’assenso di Antonio che, seduto di fianco, divideva quell’allegro terrore con comprensione. Lui stesso era teso e, se non proprio paura, era qualcosa che molto volentieri avrebbe evitato di provare. Antonio non prendeva l’aereo da tre anni e il fratello da dieci; in fondo anche per Mario era come se fosse la prima volta, ma era distratto perché intento a condividere le reazioni di Maria. La mattinata era di un celeste terso e
argenteo. Le poche nuvole, candide come i loro sguardi. Per quel viaggio di metà febbraio non avrebbero potuto pretendere una giornata più bella. Antonio e Mario andavano a prendere Pietrino. In trentadue anni non avevano mai deposto un fiore sulla sua tomba. Negli ultimi tempi avevano coltivato il desiderio di riportare il fratello nella terra del suo paese. I fratelli Solinas avevano programmato quel viaggio a Pietra Ligure senza includere Maria. Ma il desiderio che lei aveva di volare e di uscire dalla Sardegna era visibile dietro il suo silenzio diventato nuovamente ossessivo; lasciarla a casa era un’offesa che la murava dentro la sua camera, così i professori cambiarono idea.
Quando Mario Solinas le chiese se voleva andare con loro, sciolse il suo mutismo in un sorriso radioso. Il vero motivo del viaggio venne svelato a Maria nel tragitto in treno da Genova a Pietra Ligure. Lei non si spaventò per nulla, trovò anzi la cosa divertente, come divertente le appariva tutto ciò che la faceva sentire una turista. Perfino certe brutture del paesaggio le sembravano ammirevoli. Il taxi lasciò i tre davanti a un ponticello che attraversava un fiume; una striscia di acqua davanti al cimitero, quel tanto che bastava a delimitare, con precisione, la vita da qualcos’altro. Le tombe erano semplici e simili tra loro, con piccole lapidi bianche senza nessun eccesso. Contrastavano con la
faccia del guardiano che venne loro incontro; grossa e scura, posta molto in alto sul corpo massiccio di un sessantenne. Contrastava ancora di più con il silenzio delle tombe, il gracchiare della sua voce radiofonica, che usciva dalla macchinetta che poggiava sulla gola; la fronte alta e stempiata sembrava la cassa di risonanza. Muoveva senza economia le sopracciglia più larghe che lunghe. Quando gli venne chiesto della tomba di Pietrino Solinas, pregò di seguirlo dentro un ufficcietto. Aprì un registro e individuò il campo, la zona e il numero. «Ma là adesso non c’è più», dissero alla radio «da almeno un, un anno… Venite con me, seguitemi». Tutti e tre si accodarono al testone
ondeggiante. Maria stava indietro e si fermava ogni tanto davanti a qualche lapide; era serena come quel cimitero. «Ho capito chi siete», disse la radio, «vi siete messi in contatto col Comune circa un mese fa». «Sì, tramite il Comune», confermò Antonio. Il guardiano li fece entrare in uno sgabuzzino polveroso, buio e cucito di ragnatele; non poteva essere più triste. Sugli scaffali c’erano una ventina di cassette di legno. Ognuna indicava un nome e un cognome. Tra esse c’era quella di Pietrino Solinas. Ecco dove erano finiti venticinque anni di gioventù del loro fratello: in una cassetta marrone ancorata a ragnatele meticolose, le uniche affezionatesi. Si
erano argentate e spaventate alla luce e all’aria che ora entrava dalla porta. Proteggevano i resti di quell’esistenza troppo libera di Pietrino, e troppo esuberante per i suoi tempi e per i suoi genitori. A vent’anni scappò da Riola e dal padre. Si ricordavano bene, Antonio e Mario, di quel giorno in cui Pietrino se ne era andato via. «In questa casa tornerò solo dentro una cassa», disse. Adesso era lì, pronto a rispettare quella promessa. Pietrino era omosessuale e non faceva niente per nasconderlo. Il loro padre, maresciallo, tutto divisa e onore, crollò davanti a quella verità. Durante una furiosa lite, mentre la madre in un angolo piangeva, e il padre annebbiato dalla rabbia agitava la sua pistola di ordinanza,
urlando il suo ripudio, Pietrino gli gridò in faccia, a pochi centimetri, tutta la verità: «Sì! Vado con gli uomini!». Quell’ammissione fece tremare le fondamenta e cedere i muri della casa sulla divisa del maresciallo, seppellendo onore, pistola, bottoni e tutta l’incondizionata reputazione e il senso della sua vita. Il giorno dopo Pietrino partì. Di lì a una settimana il padre divenne cieco. Quando dopo cinque anni arrivò la notizia della sua morte, l’ex maresciallo, dal buio dei suoi occhi e del suo onore, non volle saperne di portarlo in paese; lasciò che venisse sepolto là dove era stato trovato, a dispetto delle suppliche della moglie. Dopo un mese lei morì. Tre giorni dopo la seguì anche il maresciallo.
Sulle cause della morte di Pietrino si seppe soltanto che fu trovato accoltellato in un lago di margherite e sangue, vicino al cimitero. «Se volete portarlo via potete farlo», fece il guardiano. Avrebbe trasferito i resti in una cassetta zincata che egli stesso poteva fornire. In tarda mattinata i due professori e Maria andarono al Comune di Pietra Ligure, per firmare e ritirare il certificato di presa di possesso di resti mortali. Sbrigate le formalità andarono a pranzare in una piccola trattoria. I fratelli Solinas mangiarono e parlarono poco, Maria parlò e mangiò molto. Nel pomeriggio, prima di tornare al cimitero, entrarono in un negozio per comprare una sacca.
«Prenda questa, è più capiente», disse la negoziante anziana e grassa, senza sapere per quale uso servisse. Quella fu scelta. Esibito il certificato, il guardiano strappò la cassetta marrone all’afflato delle ragnatele. L’appoggiò su un tavolo, prese uno straccio e levò il grosso della polvere. Maria fu pregata di rimanere fuori dallo sgabuzzino. I due fratelli si accostarono al guardiano che aprì la cassetta. Dentro c’erano il teschio, le ossa lunghe e pezzetti di costole. Il guardiano prese in mano il teschio e lo spolverò. Antonio e Mario restarono a fissare quelle orbite notturne, come a cercare di leggervi qualche profondo, ultimo messaggio di Pietrino. «Eh sì, finiamo tutti così…», disse la
voce metallica e, per un attimo, sembrò che arrivasse proprio da quelle orbite dopo aver attraversato gelidi spazi siderali. La cassetta zincata venne chiusa. Antonio l’infilò nella sacca: era perfetta. Un solo centimetro in meno e la lampo non si sarebbe chiusa. Antonio la tirò giù dal tavolo, ma restò raggelato, e così il fratello, al rumore delle ossa dentro lo zinco. «Ah! Ah! Vi abituerete!», disse quel testone radiofonico, inchinandosi dondolante per uscire dallo sgabuzzino. L’albergo si chiamava Morandi. Erano state prenotate una camera doppia e una singola. Dopo cena restarono tutti e tre a guardare la tivù nel salottino, dove c’era solo un altro cliente che fumava
ininterrottamente. Con la coda dell’occhio guardava Maria, poi la tivù, poi i due fratelli, poi ancora Maria, e di nuovo la tivù. Accendeva una sigaretta dietro l’altra. Aveva gli occhi piccoli, infossati e attaccati fra loro. Il naso e la bocca, larghi, riempivano un faccino scuro da pipistrello che non lasciava spazio per altro; la mascella era un optional non contemplato. Lo sguardo su Maria sembrava languido come quello di un cane accarezzato dal padrone. Antonio e Mario erano infastiditi da quella insistenza. Lasciarono il film a metà e uscirono dal salottino con Maria. «Perché non guardiamo come finisce?», chiese lei. «Domani dobbiamo alzarci presto», rispose Mario, che fu l’ultimo a uscire.
Sulla porta si voltò a guardare le spalle di quell’uomo. Anche questi si voltò indietro incrociando con i suoi occhietti lo sguardo seccato di Solinas e, con un sorriso che metteva in mostra più gengive che denti suggeriva pensieri veramente fastidiosi. «Dormi bene Maria. Domani mattina quando sentirai il telefono, sarà la sveglia». «Sì… e…». «Cosa c’è?», chiese Mario Solinas, vedendola indecisa. «È la prima volta che dormi in albergo, vero?» «Sì». «Io non mi ricordo neanche più quando è stata l’ultima volta… Ah! Sì, a Firenze, con la gita scolastica… forse dieci anni fa. Buona notte».
Maria chiuse la porta. «È stata una giornata movimentata, ti sei divertita?», chiese Solinas. «Sì, molto», rispose lei, da dietro la porta. «Ma non ho sonno!». «Vedrai che ti verrà. Chiudi a chiave, mi raccomando». Entrando nella loro camera, i due fratelli avvertirono quella terza presenza. I due ebbero un brivido che non si confessarono. La cassetta con Pietrino era stata posta sopra un tavolino. Ora avrebbero dormito nuovamente tutti e tre insieme nella stessa camera, come quando il più grande aveva quattordici anni e il più piccolo cinque. Durante la notte, mentre ciascuno sentiva il respiro sveglio dell’altro, cominciarono ad abituarsi a Pietrino, e a
sentirlo per quello che era: gesso e polvere. Quando dentro la cassetta ci fu un assestamento di qualche frammento di costola o di tibia, Antonio sussurrò: «Dormi Pietrino, da bravo, continua a riposare». Si rigirarono nel letto e cominciarono a russare. Erano le tre quando Maria bussò alla loro porta. «Chi è?», chiese Antonio svegliatosi di soprassalto. «Sono io…», rispose Maria, con una vocina tremula. In pigiama Antonio andò ad aprire. Maria era scalza e in camicia da notte. «Non ho sonno. Ho paura…».
«Accidenti, non ti sei messa neanche…». Antonio si affacciò sul corridoio deserto. «Su, entra». Maria era visibilmente spaventata, ma una volta entrata nella loro camera si rasserenò. Si sedette sul divano a tre posti con la tela dei braccioli consunta, e restò così, con le mani incrociate sulle gambe a guardarsi intorno. I due fratelli annuirono. «Va bene», disse Mario, «non preoccuparti, dormirai con noi». Antonio cedette il suo letto alla ragazza. Prese una coperta dall’armadio e si sistemò sul divano. «Posso andare in bagno?», chiese lei. «Certo», rispose Antonio, mentre si preparava il giaciglio. Mario aveva già spento l’abat-jour; l’unica luce accesa era quella del bagno
che, con la porta aperta, gettava il suo rettangolo luminoso proprio sul suo letto. Quando lei uscì, la luce fece come scomparire la camicia da notte, delineando i contorni del suo corpo, che non appariva più così esile. L’aura di luce attorno la rendeva un fantasma. La sua figura lasciò una scia di ebete meraviglia negli occhi di Mario Solinas. Era cambiata, Maria. Le sue forme non sembravano più un grido spigoloso. In poco più di otto mesi era successo un piccolo miracolo, e lui non se n’era ancora accorto. Maria si infilò sotto le coperte ancora tiepide. «Non spegni la luce del bagno…?», chiese Mario. «Io… al buio completo ho paura. Però
posso chiudere di più la porta». «Non fa niente». Ma lei si era già alzata e, bagnata dalla luce, offrì ancora il profilo del suo corpo, che ai suoi occhi ora sembrava bellissimo. Tornata a letto tirò su le coperte fino a coprirsi la testa. «Sto bene con voi», sussurrò, «non l’ho mai avuto, e adesso ne ho due…». «Di cosa?» «Di papà». Mario Solinas sorrise, e quel sorriso gli restò a lungo impresso sul volto, finché non sentì il respiro regolare di Maria. Restò con gli occhi aperti come quella notte a Putzu Idu, quando l'aveva spiata mentre leggeva in cucina. Adesso sentiva il suo respiro a destra, e il silenzio di Pietrino a sinistra.
Antonio e Mario si svegliarono per primi. A turno andarono in bagno e là si vestirono. Maria dormiva profondamente. La svegliarono e le dissero che sarebbero andati nella sua camera a prenderle la valigia. Quando poco dopo tornarono, lei era in bagno. «Maria! Ti abbiamo portato la valigia… Noi ti aspettiamo fuori!», disse Antonio, ma in quell’istante lei uscì dal bagno. «Buongiorno. Faccio in un attimo», mormorò e, senza aspettare che loro uscissero, si denudò con una tale naturalezza e incoscienza da lasciare i due fratelli senza parole. In quello scoppio di accecante nudità, Maria prese dalla valigia il ricambio. Si
infilò le mutandine, la maglietta e tutto il resto. I due fratelli uscirono dalla camera quando era ormai inutile; Maria si era già vestita. Nel corridoio Antonio e Mario si guardarono col medesimo stupore, e riuscirono solo a dire: «Ma?», e l’altro «Non…». Due ragazze che riordinavano le camere spingevano il carrello con lenzuola e asciugamani. «Buongiorno», salutarono in coro, ma i due fratelli non le sentirono. Maria uscì dalla stanza con la giacca a vento in braccio. «Lasciamo le valigie in camera o…», chiese. «No, no. Portiamole giù, facciamo colazione e partiamo», disse Mario. Nel ristorante c’era solo un bambino
che voleva mangiare stando in piedi sulla sedia, mentre la madre si dannava per tirarlo giù, attenta a non rovesciare le tazze sul tavolo. In fondo all’angolo c’era anche il sorriso gengivale del pipistrello. I due fratelli si misero a tavola in modo che Maria desse le spalle a quella seccatura. Antonio non vi fece caso. Anche Mario bevve il cappuccino snobbando quell’angolo; pensava però a come avrebbe reagito quella testolina scura, se avesse visto Maria come l’aveva vista lui poco prima. Dio santo! Il cranietto gli sarebbe scoppiato. «Pietrino!», gridò Mario all’improvviso, e uscì veloce dal ristorante; avevano dimenticato il fratello in camera.
Il ritorno in Sardegna fu segnato da vari imprevisti. Persero il treno per Genova, presero il pullman che però si fermò all’imbocco di una galleria per un incidente. L’aereo su cui riuscirono a salire per un soffio venne bloccato per tre ore. «Forse Pietrino non voleva tornare», si ripetevano a vicenda, durante il tragitto verso casa, «forse stava bene là; non avremmo dovuto». Pietrino riposò a casa sua per una notte. «In questa casa rientrerò solo dentro una cassa». Quella frase polverosa risuonò dentro l’abitazione di Riola tutto il giorno e tutta la notte. La mattina successiva venne tumulato nella tomba dei genitori. Le ossa di ciascuno, dopo trent’anni,
si erano perdonate a vicenda; Antonio e Mario ne erano sicuri.
14
Giorno dopo giorno Maria diventava sempre più bella; ora dopo ora, si sarebbe potuto dire. Ma c’era in lei qualcosa di impalpabile che creava in Mario una sorta di angoscia, mettendolo di fronte a quanto di più ingestibile avesse mai avuto di fronte. L’episodio in albergo era stato sicuramente un primo avviso. Con Antonio ne parlò molto, ma ognuno restava delle proprie opinioni.
«Non mi convince quella ragazza», diceva Antonio. «Come le è saltato in mente di mostrarsi così, nuda, davanti a due uomini come noi? Senza nessun ritegno e senza il minimo pudore, di punto in bianco?… Insomma, solo una pazza può fare una cosa simile come se niente fosse!». «Sei esagerato», rispondeva il fratello. «Siamo noi, forse, che non abbiamo capito che lei è ancora…». «Ancora un cazzo! Non è una bambina! Ma l’hai vista che è una donna? Una donna bell’è fatta! Devi stare attento, perché…». «Perché?» «Perché sta diventando molto bella! Tu di queste cose non ci hai mai capito niente, e non sai quanto può essere
pericoloso». «Andiamo, pericoloso addirittura!». «Sì, pericoloso. Il brutto anatroccolo che si trasforma in…». «Be’, allora posso dirti di essere proprio orgoglioso. E caspita! Cosa volevi, che restasse sempre apatica nel suo angolino?» «Ti dico che spogliarsi nuda davanti a due uomini maturi… non è normale!». Queste discussioni occupavano intere sere. Tant’è che Mario preferì non parlargli dell’ultimo fatto che, per la verità, lo mise quasi in ginocchio. Non passava giorno senza che incontrasse Maria, e lei si sarebbe offesa per un solo giorno che avesse mancato l’appuntamento. Esagerava fino a mettere il muso. Mario, non coglieva in tutto
questo altro che soddisfazione per il suo “lavoro”, e pensava di poter fare sempre meglio. Cominciò a portarla anche a teatro; una volta fino a Cagliari. «Prima o poi dovrà pur frequentare suoi coetanei», insisteva Antonio. «Prima o poi lo farà». «È meglio prima che poi. Non lo vedi, forse, che quando andate in giro vi guardano come a qualcosa che non quadra?» «Per gli altri siamo padre e figlia, e allora? Senti, la ragazza non è certo stupida, e quando ne avrà voglia comincerà ad avere amici e amiche della sua età… Ma quando ne avrà voglia. È quasi un miracolo ciò a cui stiamo assistendo, non ci avrei mai creduto. Come puoi pensare al peggio?».
Nel più remoto angolo della sua coscienza, però, Mario Solinas non era così sicuro di sé. Un giorno si decise ad acquistare un’auto nuova. Assieme a Maria si recò all’autosalone; voleva una macchina economica ma robusta e, perché no?, con una bella linea. Attratto da una dignitosa station wagon, che aveva tutti i requisiti richiesti, notò che Maria per tutto il tempo aveva adocchiato un auto di grossa cilindrata dalla linea sportiva, simile a quella di Antonio. Insieme all’assistente Solinas fece un giro di prova con la station wagon, e chiese tempo per pensarci. Il giorno successivo tornò all’autosalone e ordinò l’auto sportiva. Dopo una settimana andò
a ritirarla con Maria. Mai avrebbe immaginato di fare un simile acquisto. Per inaugurarla andarono a San Giovanni di Sinis. Lui voleva passare a prendere anche la signora Sanna, ma la figlia non volle. Dentro quell’auto che gli era costata molto più di quanto aveva previsto di spendere, si sentiva a disagio e, nel confronto con quello stile sportivo, più vecchio. Maria, invece, gustava quel giocattolone come se fosse suo. Con la lunga manina sfiorava il cruscotto, il sedile imbottito, col pulsante sollevava e abbassava i cristalli. A San Giovanni il maestrale di fine marzo avrebbe spostato anche la torre spagnola che campeggia sul promontorio. Provarono a scendere dalla macchina, ma
dopo pochi passi furono costretti a rientrarvi. Si accontentarono di guardare il paesaggio, dondolati dal vento dentro la macchina. L’aria era tersa, metallica; si poteva vedere nitidamente fin dove l’occhio arrivava. Le nuvole, dipinte con densa biacca, volavano così veloci che sembravano appese per la forza d’inerzia; era un maestrale che sospendeva e trascinava ogni pensiero senza dare il tempo di formularlo. Il mare giù sotto, bianco di rabbia, schiantandosi sulle rocce nere, voleva arrampicarsi fin sulla torre, che impegnata a sopportare lo smeriglio del vento, non si curava del ruggito delle onde, troppo basse. Maria portò il bacino in avanti e puntò le ginocchia sul cruscotto; si era rannicchiata sul sedile per avere una vista
migliore del cielo. Guardava in silenzio, affascinata da quello spettacolo di piccoli elefanti e giganteschi passerotti di cotone, che si riflettevano sui suoi occhi di maiolica nera; in quel riflesso c’era l’intero arco del cielo e dell’orizzonte. La sua bocca restava corrucciata per l’attenzione. Poi socchiuse gli occhi, ma sembrava che tutto quello scenario continuasse a scorrere sulle sue pupille, anche sotto le palpebre. Pareva si fosse appisolata. Invece, senza una parola, si abbassò di lato e poggiò la testa sulle gambe di Solinas. In un primo momento lui si irrigidì, quasi spaventato. Ma poi, tranquillizzato dall’immobilità di Maria, si rasserenò accogliendo placidamente in grembo quella testolina. Maria si era assopita al dondolio
dell’auto, e Solinas sentì che qualcosa non andava per il verso giusto; era sul punto di avere un’incontrollata erezione. Si preoccupò. Era l’ultima cosa che gli sarebbe dovuta capitare. L’ultimo desiderio prima di morire. Che fare? Svegliarla? Spostarla con garbo e farla sedere nuovamente al suo posto? Doveva stare calmo. Maria forse dormiva, il suo leggero respiro era quello del sonno, e magari solo lui si rendeva conto di ciò che stava accadendo. Ma quell’erezione proprio sotto la testa della ragazza non accennava a scomparire, anzi, quanto più pensava “sotto la testa di Maria”, tanto più i suoi pensieri ricevevano una scossa. Ma quello – si ripeteva – era solo uno stupido imprevisto da fronteggiare con calma.
Quanto tempo era passato? Cinque minuti o un’ora? Il tramonto, aiutato dalla violenta pulizia imposta dal maestrale, gridava i suoi colori più accesi: rosso fuoco e viola livido; pareva che il sole guardasse curioso dentro l’auto e ne traesse le sue deduzioni. Solo allora Mario Solinas si accorse che alla destra e alla sinistra della propria vettura, erano parcheggiate, a una ventina di metri, altre due auto. Forse quando erano arrivate il vento aveva portato lontano il rumore dei loro motori, e lui non se n’era accorto. Ora Mario si sentiva in mezzo agli sguardi del sole, e degli uomini. In ogni auto c’era una coppia: una di loro era intenta a piccole effusioni, l’altra guardava intorno. Mario ne fu terrorizzato. Sicuramente avevano notato
che dentro la sua auto sportiva era solo, o forse erano arrivati quando Maria era ancora appoggiata allo schienale? Solinas si disperava. Sentiva gli occhi di quella coppia dentro i suoi calzoni, sotto l’orecchio di Maria. “Chissà cosa staranno pensando, Dio mio! Devo andare via, via subito!”. Maria si mosse appena, quel tanto che bastò per far impazzire il professore, già fremente. Ottavia Lussu!: anche lei, adesso, doveva venirgli in mente? L’ampio seno schiacciato sul suo bacino, l’amplesso, ogni sfregamento dell’abile corpo di lei contro il suo da inesperto seminarista. Pensava a Ottavia Lussu per distrarsi. Ormai era senza controllo e il vento sbatteva sempre più impaziente sulle lamiere affusolate della sua vettura.
“Lo so a cosa stanno pensando quelli lì”, annaspava Mario Solinas. “Sì! lo so bene!”. Mario venne, con un orgasmo incomprensibile; strinse le mascelle restando con gli occhi aperti, come per nascondere al cielo e a quelli dentro l’auto, il suo viso sofferente ed eccitato. Gonfiò le guance rosse trattenendo quel grido interno che mai gli era capitato di sentire così violento. Si augurò che lo sperma non trasparisse attraverso i calzoni. Il sole era scivolato dietro l’orizzonte. La coppia che si baciava era interessata solo alle proprie effusioni, l’auto era rimasta al suo posto. L’altra, invece, fece un ampio giro passando lentamente vicino alla vettura di Solinas.
Dentro quella vettura c’erano un ragazzo e una ragazza molto giovani. “Si sentono sicuri, loro; sono proporzionati. Vogliono prendere per i fondelli un vecchio laido che se la fa con una ragazzina”, si rammaricava Solinas. “Neanche un miracolo potrebbe fargli cambiare idea”. L’auto dei due ragazzi passò a pochi metri da quella sofferenza. Tutt’e due si voltarono a guardare Solinas, che si sforzava di modellare un’espressione che non aveva mai assunto nella sua vita. “Non svegliarti proprio adesso Maria, ti prego, non adesso”, scongiurava la sua coscienza. Maria si destò proprio in quell’istante, ma le facce dei due ragazzi erano ormai rivolte altrove. Tutta
intorpidita lei si tirò su, spostandosi i capelli dalla fronte. La macchina dei due si era allontanata in una nuvola di polvere. «Mi sono addormentata», disse Maria, «era così bello essere cullata dal vento». «Sì». «È tardi, scusami. Perché non mi hai svegliata?» «Dormivi…». «…È perché mi sento così tranquilla. Ma tu dovevi svegliarmi». «Sì». Il Maestrale era calato di colpo, ma il mare continuava a rumoreggiare imbiancato. La torre non si era spostata di un millimetro. Mentre rientrava a Oristano, Solinas si era rassegnato; quei due avevano
sicuramente visto Maria dallo specchietto retrovisore. Non c’era nessuna speranza a cui attaccarsi, forse, solo la polvere che avevano sollevato avrebbe potuto stendere un misericordioso velo. Forse.
15
«Glielo devo confessare, professore», diceva la signora Sanna, prendendo la verdura dagli scaffali del minimarket. «Maria può sembrare guarita… ma purtroppo ho paura che non sia così». «Be’, certo, non è guarita forse del tutto, ma…», rispondeva Mario Solinas tirando il carrello. «Anche un’altra volta, professore, sembrava a posto, diciamo, normale. Aveva quattordici anni ed era già alta
come adesso, ma il comportamento sembrava quello di una bambina di dieci. La figlia della nostra vicina aveva cominciato a frequentarla. Veniva sempre a casa nostra e parlavano, scherzavano: sembrava che con lei Maria si sentisse a suo agio; insomma, era diventata l’amica del cuore. Avevano la stessa età e a lei mia figlia si affidava completamente, e cominciò anche a frequentare la sua casa. Teresa, così si chiama, era ed è una bella ragazza, molto sveglia e simpatica. Riuscì perfino a portare mia figlia in giro. Può immaginare come mi sentivo felice». Mario Solinas spingeva il carrello, finchè arrivarono alla cassa. «Allora?», incalzò Solinas. «Sì, anche quella volta sembrava che tutto andasse per il meglio». Si sedettero
al sole, su una panchina. «Pensi che – a ricordarlo ora sembra incredibile – con Teresa aveva addirittura preso a frequentare un gruppo di coetanei proprio in questa piazzetta. Si incontravano tutti i fine settimana e Maria, le dico, anche se quasi si nascondeva dietro Teresa, non vedeva l’ora di venirci». Solinas ascoltava rapito e impaziente di conoscere il finale; si sentiva quasi nervoso. «Non so, devo continuare? Forse è meglio che le dica…». «La prego, continui». «Sì, insomma… Un giorno Teresa le fece capire che uno degli amichetti che frequentavano le aveva fatto una dichiarazione. Sa come sono i giovani, le
loro prime passioncelle, niente di…». «Certo. E allora…?» «Allora, Maria, chissà cosa le passò per la testa, forse s’era anche lei, diciamo, invaghita di quel ragazzino. Fatto sta che un pomeriggio, mentre Teresa parlava al suo ragazzino… be’, Maria, che le stava a fianco, tirò fuori una lametta e, davanti a tutti, senza scomporsi, gli sfregiò una guancia». «Dio mio!». «Ma così, dal nulla, capisce? Sembrava, raccontò Teresa, che stesse facendo la cosa più normale di questo mondo. Da quel momento…». La signora Sanna aveva preso a stringersi le dita. «Da quel momento ci fu la denuncia dei genitori di lui, la psicanalista… Maria non uscì più di casa, si isolò come prima.
Quando, dopo qualche giorno, Teresa venne a chiederle spiegazioni di quel gesto, trovò Maria completamente abbattuta. Gliel’ho detto che Teresa era una ragazza proprio intelligente e comprensiva, anzi, lo è tutt’ora. Oh, è diventata così bella…». «Sì, signora, e quindi? Maria era prostrata». «Sembrò, insomma, che quel gesto fosse frutto di… be’, forse era gelosa, fatto sta che, mentre Maria parlava con Teresa, si spogliò, e mostrò all’amica i tagli che si era procurata sulle cosce con la lametta… Oh guardi, fu una pena». «Accidenti. Voleva punirsi. Ma in fondo, quello, era un atto per rimediare». «No, purtroppo. Quando Teresa venne la volta successiva – perché, poveretta,
non nutriva nessun sentimento di vendetta – e io la feci accomodare nella stanza di Maria, dove già da allora non potevo entrare, insomma…». «Insomma?» «Quando Teresa entrò in camera, trovò Maria completamente nuda, così, come se niente fosse, e pretendeva di parlare con Teresa in quelle condizioni… Teresa per un po’ cercò di convincerla a vestirsi e… e Maria invece no, insisteva che lei era vestita, che la sua pelle era un vestito, che…». La signora Sanna si mise a piangere, cercando di nascondersi agli occhi di tutta la piazzetta. Solinas provò a confortarla. Notò che aveva lo stesso naso della figlia. «Stia tranquilla», disse, «tanto adesso è… è tutto passato. Maria…».
«Diceva, mia figlia, che se Teresa voleva, poteva e doveva accettarla così, e…». Smise di piangere e alzò il volto umido. «Insomma, Teresa non venne più a casa, ne fu spaventata. È chiaro che la prese per… pazza». «Mi dispiace». «Poi… Be’, adesso è arrivato lei e io non so ancora come ringraziarla. Forse con lei Maria è veramente cambiata. Oh, come lo spero». Si alzarono e si avviarono ognuno con la propria busta a casa di Maria. Il sole di maggio era di grande conforto; asciugava il volto della signora Sanna e seccava un tarlo alloggiato in qualche parte del corpo di Solinas.
16
Nel cortile di casa Antonio leggeva il quotidiano, seduto all’ombra di un albero di limoni. Aveva appena preso il caffè. In cucina Giovanna finiva di lavare i piatti. Antonio smise di leggere e guardò le due auto parcheggiate. Era inconcepibile che il fratello avesse comprato quella vettura, dopo averlo tanto preso in giro per la sua. Non capiva come mai quell’acquisto addirittura l’angosciasse. Fisicamente Mario stava meglio, era perfino
dimagrito; continuava a fare della modesta ginnastica. Ma era cambiato anche in tante altre piccole cose, impalpabili perfino. Più curato e distratto allo stesso tempo, e anche insofferente, e non certo per essere andato in pensione, della qual cosa si era proprio dimenticato; era interessato solo a uscire il prima possibile per andare da Maria. Giovanna continuava le sue pulizie canticchiando. Sentì Mario che la salutava. Quel giorno usciva anche prima del solito. «Oggi vado a Putzu Idu. È una bella giornata, faccio prendere aria alla casa», disse Mario al fratello, mentre attraversava il cortile. Indossava una nuova camicia blu, nuovi calzoni bianchi e, buttata sul braccio, una giacca grigia di
cotone. «Ma dimmi una cosa», fece Antonio, abbassando il quotidiano. «…». «No niente…», e riaprì il giornale. «Sì, porto anche Maria. È questo che volevi sapere?» «No, no. Cioè sì. Stai attento». «Ancora? Ma attento a che?» «Ti sei preso una sbandata», disse Antonio, di fronte al quotidiano. «Sbandata…?». Mario si mise a ridere in modo eccessivo. Una risata così, dal fratello, Antonio non l’aveva mai sentita. Piegò il giornale e si alzò per entrare in casa. Si fermò sulla porta. «All’inizio pensavo che forse, con la signora… be’, sarebbe stato più che naturale. Ma con…».
«Guarda che ti sbagli. Hai capito?!». La risata gli si era tramutata in un tono minaccioso; lui stesso si stupì di quella reazione, e poco dopo ne ebbe timore. Salì in macchina e partì. Antonio andò da Giovanna. «Ti è sembrato per caso cambiato mio fratello, negli ultimi mesi?» «Ah sì eh!? Ma in meglio. Mi sembra… mi sembra meno rincoglionito, ah! Ah!». «Dimmi seriamente, Giovanna, cosa pensi di lui?» «Senta, penso che sia l’uomo più buono della terra. Certo, gli manca una moglie, un’amante, che so. Ma forse mi sbaglio, sta bene così». «Se ti chiedo un favore, me lo fai?» «Son sempre qui a farle favori, e di
tutti i tipi, se non sbaglio, eh…?» «Faresti l’amore con mio fratello…?» «Cosa?!». «Cerca di capire, sarebbe solo per distrarlo, niente di…». «Ma è pazzo o cosa?! Mica sono una… Oh! senta, se lo faccio con lei mica vuol dire che lo faccio con tutti? Che cosa le viene in mente!». «Sta’ calma. Era solo così». «Così un cazzo! Scusi eh! Ma quando ci vuole…», aggrottò le sopracciglia. «Non è che per caso vuole fare il guardone?» «Ma no!». Le si avvicinò e le accarezzò i fianchi rotondi. «È che Mario, in questo momento, avrebbe bisogno di una donna. Io pensavo…». «E che se la cerchi! No? Guardi, è che
lei mi piace, accidenti a lei, ma suo fratello, proprio per quelle cose no, eh!?» «Scusami, scusami». «Certo che lei è proprio un bel tipo. Ma guarda un po’!». Addolcì quel tono brusco e si accarezzò le braccia incrociate sotto il seno. «Ma oggi… mi sembra di capire che non le va di…». «No, oggi no». Le diede un bacio sulla guancia rossa. «Meglio così» brontolò, «non ne ho voglia neanche io». A Putzu Idu furono aperte porte e finestre, così l’odore della muffa, che a Mario ricordava tanto quello delle cappelle in chiesa, evaporava mischiandosi al profumo dell’aria salmastra. Ma quelle porte e finestre
venivano ormai aperte da un paio di settimane, e da un paio di settimane, ogni pomeriggio alle cinque, Solinas preparava il tè che prendeva insieme a Maria. Poi si sedeva sul divano e riprendeva la lettura del Ritratto di Dorian Gray. Dopo che la casa fu pulita e abitabile, cominciarono, nel primo pomeriggio, a fare delle passeggiate sulla spiaggia. A piedi nudi assaporavano l’acqua ancora fresca. Maria saltellava sul bagnasciuga con rapidi movimenti, talvolta scoordinati, come un pesciolino che si agita sulla sabbia umida cercando di rituffarsi dentro l’acqua. Solinas sopportava gli schizzi e si divertiva con lei a seguire le impronte dei pochi frequentatori che ricamavano l’arenile dorato.
«Guarda queste, Maria, sono di un cane zoppo. Vedi? Tre impronte sono simili e profonde allo stesso modo. La quarta è appena accennata e strisciata». «E queste sono di una signora», diceva lei, «che non si toglie le scarpe per non sporcarsi le calze di naylon». «Potrebbero anche essere le impronte di una ragazza». «No. Sono sicura perché il tacco così fino oggi non si usa». Si divertivano a dare un’età e una fisionomia ai seminatori di quelle orme. Mario Solinas era attratto dalle lucide deduzioni di lei, ma aspettava il momento della lettura ormai quasi impaziente. E, quell’“ormai”, se lo sentiva rimbombare dentro la testa come qualcosa di ineluttabile. “Ormai…”. Si sforzava, per
quanto possibile, di non sondare oltre quella parolina; si lasciava trascinare dalle circostanze come un ramoscello sulle onde. Così come, dopo il tè, si lasciava scivolare sul divano per cominciare la lettura. Aveva i suoi buoni motivi per essere agitato. Lui leggeva e, con la coda dell’occhio, seguiva l’ombra di Maria che si alzava dalla sedia, metteva le due tazze del tè sul lavandino e, lentamente, andava verso di lui. Durante quel breve tragitto Solinas non la guardava mai in viso; simulava totale dedizione alla lettura, esagerava, perfino, ma non sarebbe stato in grado di sapere che vicenda si stesse svolgendo in quel capitolo. La sua inconfessata paura, a dire il vero, era che Maria cambiasse la sua
abitudine, e ascoltasse il romanzo restando sulla sedia. Ma anche quella volta lei si accostò e si sdraiò sul divano. Poggiò la testa sulle gambe e la nuca sulla pancia di lui; entrava nel mondo di quelle pagine in modo tutto suo. Solinas non la guardava in viso neanche allora; dissimulava a se stesso il grido silenzioso di una furtiva e quotidiana erezione, come se non gli appartenesse. Non sapeva, e non voleva sapere, se lei teneva gli occhi chiusi o aperti, se dormiva o sonnecchiava, o se era sveglissima nonostante l’immobilità. Pensava ai suoi occhi di maiolica nera, grandi quanto bastava per riflettere l’intero cielo e tutti i bianchi animali disegnati. Durante la lettura, forse vi si
rispecchiavano anche i personaggi dei romanzi che lei vedeva camminare dentro casa e la tiravano per mano. L’unico rumore che si affiancava alla voce narrante era quello delle pagine e lo sciabordio delle onde che avvolgeva l’intero paese quasi deserto. Tra il corpo di Mario e la testa di Maria c’era solo il filtro di cotone dei calzoni; una protezione simbolica. “Se Maria adesso si alzasse, e mi puntasse in faccia gli occhioni offesi, mostrandomi tutto il suo sdegno?”, pensava Solinas, “potrei morire, seppellirmi sotto questo pavimento. Perché non lo fa? Forse perché non si accorge, o perché non vuole farmi morire di vergogna? O forse…”. Ecco, era il momento. Solinas fingeva
di non sapere quel che sarebbe accaduto. Ma anche quel giorno Maria unì le mani in segno di preghiera, e se le mise sotto la testa; i pollici di quella preghiera entrarono in contatto con l’erezione di Solinas. Solo contatto, senza pressione, ma era qualcosa che rasentava il sublime, la più dolce e violenta emozione che un cuore potesse provare. Per la prima volta, da quasi due settimane, in cui tutto avveniva con le stesse metodiche modalità, lui accarezzò i capelli notturni di Maria, con la tenerezza con cui si accarezza un gattino. Ebbe un orgasmo violento, nascosto dalla sua ferma voce che leggeva impassibile, e dall’assenza di movimento del proprio corpo, diventato di piombo. Era sproporzionato e innaturale il
contrasto tra quell’orgasmo goduto all’estremo, e la noncuranza che appariva esteriormente. Non sapeva se lei percepisse il caldo che si sprigionava vicino al suo orecchio, o se il far finta di niente fosse solo una delicata e timida recita, per non disturbare quel mistero silenzioso che esplodeva. “Lo sente, ne sono sicuro”, annaspava Solinas, “ma non me lo dirà mai”. I minuti che seguirono furono estenuanti. Il pene si allontanava dal contatto delle mani di Maria, facendo il minor rumore possibile. Quell’ultima volta Solinas ebbe la sensazione che i polpastrelli lo seguissero, andando a stuzzicarlo e a giocarci un po’. Ma era solo il frutto di un miraggio nella nebbia dei suoi pensieri afosi, tra le pieghe del
respiro che stentava a restare regolare. La sua umida fronte stempiata riceveva la luce del sole che, scendendo, si affacciava alla finestra davanti al mare. Sempre là a curiosare, a vedere e sapere tutto di tutti. Solo quando saremo morti, pensava Solinas, riusciremo a nascondergli le nostre cose, finalmente. Maria si raddrizzò sul divano e Solinas poggiò il libro sul punto dell’orgasmo. «Pensi che sarà possibile, evitare di invecchiare?» chiese lei. «No, non sarà possibile». E intanto cercava di comporre una faccia normale. «Neanche tra cinquant’anni?» «No. Ma forse…». «Forse?», tirò su le gambe rapidamente e si inginocchiò sul divano.
«Chi lo sa?… Forse potrà anche succedere, tra cent’anni». E rise voltandosi a guardarla: aveva il viso sonnecchiante e luminoso. «Tra cent’anni per me sarà troppo tardi». Si scostò la frangia dalla fronte. «Ancora qualche anno e quando avrò i soldi mi rifarò il naso». Si alzò e andò al lavandino per riempirsi un bicchiere d’acqua, come se l’ultimo pensiero l’avesse di colpo disidratata. Mario la guardò bene. Pensava a ciò che gli aveva detto il fratello: stai attento. Era vero, sentiva lievitare tutta la sostanza di quell’avvertimento. Bisognava stare attenti alla bellezza che nasceva in quella ragazza, alla delicatezza che nutriva il suo corpo. Era una figurina degna di
provocare attenzione, e paura. Con la scusa di chiudere le persiane, Solinas andava in bagno, e là si puliva, affrontando il momento peggiore del pomeriggio; si lavava la vergogna che man mano lo assaliva, quel senso di colpa oscuro che solo in piccola parte l’acqua mondava. Ma il pensiero del giorno dopo era già lì pronto ad assillarlo. Il viaggetto in auto, l’ingresso nel paesino silenzioso, la passeggiata in spiaggia, l’apertura delle persiane, il tè, la lettura… Maria. Forse al mondo non esisteva qualcosa di più desiderabile. Salirono in macchina. Ogni volta, appena si allontanavano, si voltava verso la casa: «Ciao casetta, a domani». Arrivarono a Oristano dopo il
tramonto. Una luce morbida, arancione, si scioglieva nel blu. La signora Sanna andò ad aprire più felice del solito. «Buonasera professore. Maria, c’è una sorpresa!». Maria la guardò sbigottita, e con la stessa espressione guardò Solinas. «È venuta a trovarti Teresa! Vieni, è in cucina che ti aspetta. Prego professore, si accomodi anche lei». «È un po’ tardi. Forse è meglio che vada», disse Solinas, nonostante morisse dalla curiosità di conoscere questa Teresa. «Dài, vieni», insisté Maria, tirandolo per un braccio. «Ma no, stai con la tua amica, così parlate delle vostre cose». Maria lo guardò con un’aria che non
gli concedeva nessuna scelta. Lui si lasciò mollemente trascinare per il braccio. Teresa era seduta in cucina. Appena sentì i loro passi si alzò. «Ciao Maria!», salutò sorridendo. «Ciao», rispose Maria, senza troppo scomporsi. La signora Sanna presentò Teresa al professore, e offrì da bere. Lui gradì solo un bicchiere d’acqua e si sedette sul divanetto a due posti, colorato di fiori blu. Maria prese il posto accanto. La televisione era accesa, ma il volume della lite in corso tra due famiglie era appena percettibile. La signora Sanna, comunque, prese il telecomando e la cancellò del tutto. Teresa sorseggiò la coca cola che già le era stata offerta. Poggiò il bicchiere e spalancò il suo viso a Maria.
«Sai che ti trovo molto bene? Davvero». «…Mmm, grazie». «È da un po’ di tempo che volevo venire a trovarti». «Ah…». «Però, se ti disturbo…». «Che dici Teresa, Maria è contenta, vero?», s’intromise la madre. «…Sì, mi fa piacere». Teresa aveva un viso allegro, sinceramente pieno di curiosità. «Se vuoi domani passo a prenderti. Facciamo un giro in centro, o, se preferisci…». «No», l’interruppe bruscamente, rivolgendosi per un attimo verso Solinas, «domani non posso». Il professore si alzò. «Io tolgo il
disturbo. Ciao Teresa. Signora Sanna». Strinse le loro mani. Maria lo accompagnò alla porta. «A domani», disse lei. «Se domani vuoi uscire con Teresa…». «No. Voglio tornare al mare», rispose sicura di sé. «A meno che, tu non abbia altro da fare». «…Io andrei comunque». «E allora passa a prendermi. Ciao».
17
Il volume era altissimo. Ci si poteva parlare solo all’orecchio, e anche così, si capiva solo la metà di ciò che si urlava. Era la prima volta che Maria entrava in una discoteca. Restava aggrappata al braccio di Teresa, glielo stritolava quasi. Già durante la coda all’ingresso sarebbe voluta scappare via. Era circondata e pressata da ragazzi a loro agio, che ridevano per nulla e si davano gomitate all’indirizzo di questa o di quella ragazza.
Teresa tranquillizzava l’amica tenendola abbracciata. «Guarda che non ti torturano», le diceva, «stiamo solo un’oretta, balliamo un po’ e andiamo via. Te lo prometto». «No, non me la sento, non…», sussurrava piano. «Dài, non fare così. Tieni alta la testa. Non vedi come ti osservano?», le si accostò all’orecchio. «Quello di fianco a te, guarda che bono. Dài, Maria». E più Teresa diceva così, più Maria avrebbe voluto nascondersi dietro la spalla dell’amica. Teresa aveva impiegato una settimana per convincerla ad andare in discoteca. Ma ora, vedendo la sua reazione, si pentì di avercela trascinata. Maria era bellissima nel suo vestito ocra, regalo di
Mario Solinas. Ma sotto il trucco, che Teresa pazientemente aveva curato, gli occhioni neri erano un pozzo di spavento; trasmettevano al corpo comandi disarticolati che la irrigidivano. La pista era affollata; un unico millepiedi che si muoveva sudato e affannato. Teresa cercava di trascinare Maria dentro quella massa palpitante, facendosi largo con il seno alto e duro, quasi in segno di sfida, si sarebbe potuto dire, ma non era nelle sue intenzioni. Maria si opponeva; tutte le sue forze erano impiegate per fare resistenza alla mano di Teresa che la tirava, e al pianto che le nasceva dentro. «Portami a casa! Non voglio più stare qui, ti prego!». «Solo un ballo… Solo uno e poi
andiamo!». «No! Non ce la faccio! Mi sto sentendo male!», gridava Maria nell’orecchio di Teresa che, ogni tanto, rispondeva al saluto e al veloce abbraccio di qualche amico. Maria era sommersa dalla propria estraneità. Il confronto con Teresa, che sembrava un animale così bene inserito in quella foresta di corpi agitati, la faceva disperare. Il pianto, covato a lungo, stava per esplodere senza controllo. «Va bene!», gridò allora Teresa, «aspettami qui! Faccio due salti almeno io e dopo andiamo!». Maria lasciò la mano dell’amica e si ritrovò in preda al panico. Non sapeva dove nascondersi. Sentiva sul suo corpo tutti quei contatti indesiderati, gli affanni e
gli aliti di alcol sulla faccia. Percepiva i profumi dolci mischiati al sudore e agli odori dei capelli. La musica era ormai un mantice ritmico assordante e troppo aggressivo. Una mano si poggiò sulla sua spalla. «Sei amica di Teresa?! Mi chiamo Francesco!», urlò un ragazzo, che le ballava accanto con l’aria disinvolta, i capelli lunghi e ingelatinati, e una faccia belloccia, da maschietto che sa il fatto suo. Maria rimase muta, con gli occhi spalancati. «C’è qualcosa che non va?! Dài! Vieni a ballare!!», insisté lui. «Nooo!». Gridò esasperata Maria, raschiandosi la gola e coprendosi il volto con le mani. Le unghie, lunghe e celesti, gliele aveva laccate Teresa. Quell’urlo
immobilizzò il ragazzo, che pareva aver ricevuto un ordine supremo. Anche gli altri attorno si voltarono spaventati verso Maria. Arrivò Teresa che le levò le mani dalla faccia. «Maria! Cos’hai!». «Voglio andare via! Via!!», gridò senza più controllare le urla, in una maschera di trucco che rovinava sulle guance. Teresa si scusò con Francesco e velocemente portò l’amica fuori dalla discoteca. A passo affrettato si avviarono verso casa. Nelle strade, a quell’ora deserte, gli unici rumori che frantumavano il silenzio erano i loro tacchi che battevano nervosi sul marciapiede e il respiro affannoso di Maria. Avvolta in un tremito che non l’abbandonò fino a casa, veniva a fatica seguita da Teresa, che la
pregava inutilmente di rallentare il passo. A casa non parlarono. La signora Sanna si alzò per andare a origliare dalla porta quel silenzio che le due ragazze mantennero a lungo. «Non ci vengo più in discoteca. Io non…». «Stai tranquilla. Non pensavo ti facesse tanto male». Non dissero altro. Dopo mezz’ora Teresa andò via. La signora Sanna tornò a letto, ma non dormì. Erano le tre di notte quando squillò il telefono a casa di Mario Solinas. In quella casa, solo altre due volte, che i fratelli potessero ricordare, il telefono aveva squillato a quell’ora, ma entrambe le volte nessuno era andato a rispondere.
L’apparecchio era in salotto. Prima che Antonio lo raggiungesse trillò per un po’. «Pronto!», fece Antonio seccato. «C’è Mario?» «Ma le sembra questa l’ora di?! Chi è! …», ma lui aveva già riconosciuto la voce. «Mi scusi per l’ora, sono Maria, c’è…». «Sì, sì, certo che c’è, dove vuoi che sia. Guarda però che non è educato telefonare a quest’ora». «Chi è?», domandò Mario, che in pigiama si era affacciato in salotto. Antonio gli tese la cornetta con fare nervoso. Lo guardò aggrottando le sopracciglia, in un discorso muto che diceva, “Ma che succede? Che stai combinando?”. Mario non rispose allo
sguardo del fratello, preso solo dall’ansia per quella telefonata. «Pronto?», disse, mentre la cornetta gli tremava nelle mani. «Sono Maria. Scusami, ma volevo…». «L’ho immaginato che eri tu. Che è successo?» «Niente». «Come niente?», e guardò Antonio che era rimasto imbambolato nel centro del salotto. Quindi si lasciò andare a peso morto sulla sedia là vicino. Il fratello chinò la testa, scuotendola in segno di disapprovazione. Batté le mani ai lati delle cosce e uscì dal salotto. «Allora Maria, dimmi», insisté Solinas, ascoltando il silenzio che scorreva sul filo.
«Non ho sonno. Sono triste». Solinas si levò gli occhiali e li poggiò sul mobiletto del telefono. Lo assalì la preoccupazione che qualcosa dei loro incontri al mare avesse sconvolto la ragazza. «Pe-perché sei triste?». Il mutismo di Maria gli sembrò una conferma alle sue paure. Si fece coraggio e inghiottì la saliva. «Ti prego, dimmi. Dimmi tutto». «È molto tardi. Mi dispiace averti svegliato. Stavi dormendo?» «Certo che stavo… ma non importa. Sono preoccupato, ti sento strana». «Sono andata in discoteca». «Cosa?» «Con Teresa. Sono andata a ballare». Solinas si alzò in piedi: «Ma è per
questo che sei triste?» «Sì». Mario Solinas sentì il sangue riaffluire al cervello. Sorrise al mobiletto che aveva davanti. Si sedette nuovamente. «Non capisco… voglio dire, mi sembra bello che tu sia andata a ballare. Credo che tu non, non l’abbia mai fatto, di andare…». «No, non sono mai andata a ballare. È per questo che sono triste. Non sono riuscita a ballare». «È già tanto che tu ci abbia provato. Adesso non pensarci più». «Domani andiamo al mare?» «Domani? Sì, sì certo, che ci andiamo…». «Ciao, buonanotte». «Buonanotte… ma aspetta. Se vuoi
parlare ancora». «Adesso ho sonno, e scusami per averti svegliato. Buonanotte». «Buonanotte, a doma…». Lei aveva già riattaccato. Lui era rimasto appeso all’ultima frase. Ripose la cornetta. Era felice. Facendo le scale per raggiungere la sua camera lo era sempre meno. Andò a letto triste.
18
«Cos’hai in quella sacca?», le chiese Mario Solinas. «L’abito che mi hai regalato», rispose Maria, salendo in macchina. Il professore abbassò il finestrino e salutò la signora Sanna, che si affacciava sulla porta di casa sorridente come sempre. «Forse tua madre sarebbe contenta di venire qualche volta con noi…». «No!». Lui salutò ancora con un cenno del
capo e inserì la marcia. Per tutto il tragitto nessuno dei due parlò. Appena entrati nella casa di Putzu Idu, Maria si mise a saltellare, felice come se fosse reduce da una festa. «Teresa ha detto che il vestito mi sta molto bene. Lo voglio mostrare anche a te». «Non facciamo una passeggiata prima? C’è un bel sole…». «No. Voglio farti vedere come mi sta il vestito». Così dicendo, prese dalla sacca la camicia bianca, la gonna e la giacca color ocra, e le appoggiò sulla sedia, stando attenta che restasse ben tesa. Tirò fuori anche una busta di plastica che conteneva le scarpe col tacco alto. «Non hai notato», fece lei, accostandosi a Solinas, «il colore dello
smalto?». Lui lo aveva già notato: «Sì, è proprio divertente. Ti sta bene». E prese tra le sue quelle mani bianche che Maria gli porse orgogliosa, muovendo le estremità celesti come se suonasse un motivetto al piano. Bruscamente sottrasse le mani, si levò le scarpe da tennis e subito i jeans. Prese la camicetta e la infilò sulla maglietta, poi, senza motivo, si tolse camicia e maglietta, mostrando il suo piccolo seno color latte, così come il ventre e tutto il corpo, coperto solo dalle mutandine. I capezzoli rosa pallido a malapena si notavano. Solinas si sedette; sembrò colpito da un’arma in pieno petto. La vampata di dolcezza che emanava da quel corpo non si poteva reggere stando in piedi. Maria sorrise infilandosi di nuovo la
camicetta: «Che stupida che sono. La camicia non sta bene sopra la maglietta». Indossò tutto il resto e calzò le scarpe che, come se ce ne fosse bisogno, la slanciavano maggiormente. «Non mi dici niente? Come sto?» «Stai bene, benissimo… sei proprio…». «Dài, usciamo a fare la passeggiata». «Ma così, sulla sabbia…». «Dài! Andiamo». In spiaggia Maria si levò le scarpe e le tenne in mano tutto il tempo. «Sembro più grande vestita così, vero?». Solinas abbassò il capo e sorrise tra sé: «Non sembri, sei grande». «Ieri in discoteca mi guardavano». «È normale, sei bella». Solinas
guardava le proprie scarpe che affondavano leggermente nella sabbia. «Ma tu lo pensi davvero? Ho il naso troppo grosso, non mi piace». «Il tuo naso va bene così com’è. Non è assolutamente grosso, anzi». Maria affrettò il passo saltellando. Si fermò e aspettò che Solinas la raggiungesse. «In discoteca mi sono divertita molto con gli amici». «Come…? Mi hai detto che eri triste, che non hai ballato». «Non è vero». Si mise a ridere, coprendosi la bocca con le mani che tenevano le scarpe. «Ti ho detto una bugia. Mi sono divertita molto, e tutti volevano ballare con me… ballavo così». E, canticchiando una canzoncina,
cominciò a muoversi simulando una danza. «Su, balla con me!». «Ma no. Non conosco i balli moderni». «Dài, fai così…». Gli prese una mano e lo costrinse in qualche modo ad agitarsi. Si sentiva ridicolo. Non aveva però modo di pensare a se stesso, occupato com’era a guardarsi attorno, nella speranza che in spiaggia non ci fosse nessuno. Ma un gruppo di anziani, scortati da alcune suore, scendeva sull’arenile proprio in quel momento. «Maria, per favore… se-sembro un idiota, c’è gente». «Su, muoviti con me!», e continuava a canticchiare. Il gruppo di anziani scese in spiaggia.
Maria, incurante dei loro sguardi, continuava a saltellare intorno a Solinas tirandolo per un braccio. «Per favore», sussurrò lui piano, «mi entra la sabbia nelle scarpe e… ci stanno guardando». «Dovrei farmi una doccia», disse Maria, appena entrarono in casa. «Certo, ma dovrai aspettare venti minuti. Accendo lo scaldabagno». Quando Solinas tornò in salotto Maria si stava spogliando. «Ho la camicia completamente sudata, meglio che la tolga subito, altrimenti bagno anche la giacca». Così dicendo si denudò completamente. Questa volta Solinas le voltò le spalle e si apprestò a uscire nel cortiletto:
«Certo, fai pure… ma c’è da-da, aspettare un po’». Farfugliò senza guardarla. «Non prendere freddo, sei sudata, mettiti addosso una copertina». Una volta fuori, si sistemò gli occhiali e inspirò una profonda boccata d’aria, per niente contento di quell’emozione che non riusciva a nascondere. Si sedette sul muricciolo che delimitava il confine del cortiletto. Guardò il mare come ipnotizzato; qualsiasi cosa poteva andare bene, purché catturasse la sua attenzione, evitandogli di voltare la testa. Dopo pochi minuti anche Maria uscì e gli si accostò. Aveva indosso una coperta con la quale si avvolgeva completamente. Calzava le scarpe da tennis, slacciate. Solinas tirò un sospiro di sollievo. Anche lei si sedette sul muricciolo; lui poteva
sentire il profumo che emanava quella giovane pelle umida. «Com’è stato divertente», disse lei. «Sei stata brava, li hai coinvolti», fece lui, dandogli sempre le spalle. «Te l’ho detto che mi piace ballare. Hai visto come si sono divertiti anche loro? Ah! Ah! Quella vecchietta, poi…!». «Già…». «Cosa c’è? Che guardi?» «Niente, guardo il mare». Maria si alzò e si mise tra il mare e lo sguardo di lui. «Si torna bambini quando si invecchia, vero? Gli anziani mi piacciono per questo… Io, quando ero bambina, non avevo paura di niente. Vorrei sentirmi libera come ero allora». «Non ti senti libera?», chiese Solinas,
specchiandosi nei suoi occhi. Maria non rispose. Si sedette di nuovo sul muricciolo e accavallò le gambe. Dal piede che dondolava si tolse la scarpa. «Pensi che mi starà bene lo smalto anche sulle unghie dei piedi?». Solinas guardò quel piede stretto e lungo, che lei aveva teso in alto perpendicolare alla gamba; le unghie erano di un rosa quasi bianco. «Io direi di no. Mi sembrano belle così come sono». «Dici?», chiese lei, muovendo il piede a destra e a sinistra. D’un balzo scattò in piedi e aprì le braccia come un crocifisso, tenendo la coperta tesa con le mani sulle spalle. «Non ti sei accorto che sono ingrassata?»
«Maria! Per favore!». Solinas si voltò intorno spaventato. «Copriti, santo cielo, fa freddo!». «Ma io non ho freddo! Dimmi, e se ingrasserò troppo…?» «Maria! Non puoi restare così! Se-se ci vedono…». Lei non si preoccupava dell’agitazione di lui. Restava ostinatamente crocifissa, offrendosi in tutta la sua nudità. «Entriamo dentro! Ti-ti prego!». «Perché sei arrabbiato?». Solinas, che si era già alzato in piedi, le si accostò, le prese le braccia e gliele abbassò a forza. La coperta cadde in terra. Lui si curvò rapido per raccoglierla. In quell’istante sembrava un umile peccatore che si inchina davanti a una santa, alla
quale chiede pietosamente una grazia. Stando a pochi centimetri da quella pelle nuda, sulla quale si era quasi strusciato, percepiva ora il profumo intenso di crema amara che soffiava fuori dai pori. Spaventato coprì la santa e il suo odore. Maria lo guardò mortificata: «Ti do così tanto fastidio?». Solinas la avvolgeva stretta con la coperta: «Non mi dai fastidio, ma non ti puoi mostrare così nuda… non è…». Lo sguardo di Maria indagava quel turbamento che saltava fuori da tutta la faccia di lui. «Lo scaldabagno!». Era quasi un urlo, quello di Solinas. «Adesso l’acqua è calda». Con una nervosa scossa Maria si liberò dalla stretta e corse dentro casa.
Solinas la seguì, ma lei era già chiusa in bagno. In terra, nel salotto, aveva seminato la coperta. A Solinas parve di sentirla piangere. Entrò in cucina. Si lasciò andare affranto sulla sedia. Non ebbe il tempo di capire se fosse più sconvolto dalla bellezza o dal comportamento di Maria. Sentì entrare qualcuno dalla porta d’ingresso; non poteva che essere il fratello. Solinas gli si fece incontro. «Che hai? Disturbo forse?» chiese Antonio, notando quanto Mario fosse perplesso e teso allo stesso tempo. «N-no, figurati… è che, non immaginavo». «Sono venuto per comprare il vino dalle suore. Mi sono dimenticato di chiederlo a te».
«Potevo pensarci io, infatti», arrancò Mario, guardando verso il bagno. «Sembra che quest’anno abbiano fatto un ottimo vino». «Maria?». Antonio si guardò in giro. «È… in bagno». Si sentiva scorrere l’acqua. «Ma sta facendo la doccia?» «Sì, era sudata…». «Sudata…?» «Sì, perché in spiaggia ha ballato con… con degli anziani». «Ma che dici?» «Insomma, sembra un interrogatorio! Ha trovato degli anziani e s’è messa a ballare con loro. Perché, non si può fare?» «Dio santo», fece Antonio passandosi una mano sui capelli. «Ti sei proprio…».
Si aprì la porta del bagno, ma quando Maria, avvolta nell’asciugamano, vide Antonio, si scusò e si richiuse dentro. «Non è come pensi», Mario sussurrò appena. «Va be’, va be’, lasciamo stare. Comunque sono venuto anche per parlarti di un’altra cosa. Letizia…». Mario alzò gli occhi al soffitto e li abbassò: «Andiamo fuori», e sbuffò rassegnato. «Maria! Noi usciamo fuori!». «Cosa aspetti ancora a farti avanti? Guarda che questa storia di Maria non va mica bene». Antonio restò fermo davanti al mutismo del fratello. Fece alcuni passi verso il tramonto e tornò indietro. «Devi farti avanti… insomma, questo pomeriggio mi sono arrivate delle voci che… che sta aspettando tu le chieda di
sposarla». «Accidenti. E adesso?» «Come, e adesso? Se vent’anni fa ne eri innamorato!». «Vent’anni fa! Io, adesso, chi se la sente più». «Guarda che ci avevi fatto un pensierino anche due anni fa. La voce è circolata, lei l’ha saputo e… insomma, ora le farebbe piacere». «Io stavo per andare in pensione, e a lei era appena morto il marito… Avevo pensato che avremmo potuto farci compagnia. Ma ora m’è passata, santo cielo, non so…». «Io lo so perché ti è passata; a te sta fondendo il…». D’un tratto Antonio si immobilizzò in un’espressione sconcertata, fissando la veranda dietro la
testa del fratello. Batté più volte le ciglia per pulire le iridi dalla salsedine che in quei secondi vi si era depositata. Guardando gli occhi del fratello, Mario ebbe un brutto presentimento. Si voltò: dietro i riflessi che il tramonto dipingeva sulla vetrata, appariva e scompariva il fantasma nudo di Maria; ora offriva le spalle ora il seno, si comportava naturalmente, come se fosse nella sua camera. «E questo ti sembra normale?», commentò duro Antonio alle spalle di Mario. Lui non rispose. «Ti potrei anche capire… è diventata così bella. Ti sei messo in un brutto pasticcio, dammi retta». «Oh insomma, basta!». E si voltò verso Antonio. «Allontaniamoci,
sicuramente non sa di essere vista. Ci vuole molto a capirlo?». Oltrepassarono il muricciolo, verso le rocce. Si fermarono dove cominciava la spiaggia. «Devi sposarti con Letizia, ti farà bene. Maria è incontrollabile e, andiamo, è tutto talmente ridicolo, proprio tu…». «Senti… Certo, mi sono affezionato, ma per altri motivi». «Ma smettila! Lo vedrebbe anche un bambino che hai perso la testa. Finché sei ancora in tempo, visto che in paese, stranamente, ancora non si spettegola su questa storia, smettila di frequentare quella ragazza». «Ma ci resterebbe malissimo! Tutto ciò che è stato costruito si sfascerebbe in un attimo!».
«Che vuoi che si sfasci, andiamo! Tra un po’ si troverà un ragazzo e, se non è completamente pazza, avrà un normale rapporto adatto alla sua età, cazzo!». Il sole si era infossato dietro l’orizzonte e l’umido si faceva ora sentire sulla schiena di Mario; sulla schiena leggermente incurvata che sembrava soccombere, desolata, alle parole di Antonio. Per un momento, ne ebbe pena. Decise di non infierire oltre. «…Letizia, comunque, è ancora una bella donna… Sembra acida, ma non lo è». «Come fai, Dio mio, a dire che è ancora una bella donna». «Va be’… rientriamo. Si sarà pur vestita adesso». In jeans e maglietta, Maria si stava
allacciando le scarpe da tennis. Nel grande portatile, che aveva trasferito in quella casa, girava il CD di Vivaldi a basso volume. «Finalmente, dove siete stati? Vorrei mostrarvi come ballo questa musica». Si avvicinò all’impianto e aumentò il volume. «Su, sedetevi». E cominciò a simulare un ballo a metà tra un minuetto e una danza contemporanea. Sembrava quasi ridicola, ma la sua espressione concentrata la rendeva perfino credibile. Teneva gli occhi chiusi e la bocca come offerta in un bacio. Alzava e abbassava le braccia tese e dritte come stecche, poi, d’un tratto, le piegava sinuose, quasi a nascondere l’ossatura. Anche le gambe ripetevano quelle movenze; a momenti era un burattino, in altri una flessuosa dea
indiana. Si concluse il brano. «Possiamo andare, se volete… Vi è piaciuta?» «Sì». «Sì». Maria prese il vestito ben riposto su una poltrona. Lentamente lo piegò con tutta la passione disponibile e lo infilò nella sacca. «Andiamo?», disse rivolta ai due fratelli silenziosi, che avevano guardato la danza e la successiva operazione, con la stessa espressione che si assume al cinema davanti a un film appassionante. Maria andò a sedersi in macchina. I due fratelli restarono in una strana attesa. Poi Mario andò a chiudere le persiane e, raggiunto Antonio sulla porta d’ingresso, disse: «Giorni fa mi ha detto che il Bolero
ha il ritmo della vita che scorre». Infilò le chiavi nella toppa. «Ti sembrano parole che può dire una pazza?». Antonio ascoltò di spalle. Ognuno si diresse verso la propria auto.
19
Letizia Flores, seduta, formava un perfetto angolo retto. La sedia sotto di lei pareva emanasse più calore del suo corpo. Nonostante l’ora pomeridiana e le due grandi finestre alte fin quasi al soffitto, l’ambiente era in penombra; le tende a trama fitta, non ne volevano sapere di lasciare filtrare un solo raggio di sole. Da due anni, da quando era morto il padrone di casa, avevano ingaggiato una severa lotta con la luce. I mobili di legno
scuro e massiccio, il divano e le poltrone, rivestite di pelle marrone, sostenevano quell’atmosfera cupa. Davanti a Letizia Flores sedevano i fratelli Solinas. Mario e Antonio erano distanti dalle poltrone e dal tavolo quadrato vicino al quale sedeva la donna; distanti da qualunque approdo, in balia di tanto spazio vuoto attorno. L’unico agio loro consentito era quello di accavallare le gambe. «Ora, le manca la scuola, professore…?», chiese Letizia Flores, senza far capire da dove uscisse la voce. «Be’, sì, cosa vuole, più di trent’anni…». Mario alternò l’accavallamento delle gambe. «E poi, stare con i ragazzi è stato molto stimolante».
«Capisco». «Sì. Mi mancano soprattutto i ragazzi». «I ragazzi… Non trova che oggi siano molto viziati?» «Forse, ma sa, dipende…». «Sono anche maleducati, penso io». Maleducati l’aveva detto con energia. Forse voleva dimostrare che anche dietro il suo volto triangolare e magro, c’era una vita. Ma il vigore mancava a quegli occhi freddi. La bocca sottile era aiutata a fatica dal rossetto. Ci pensava il naso, piccolo e perfetto, a dare un po’ di tenerezza a tutto il viso. «Diciamo che ci sono alcuni ragazzi più difficili… e vanno seguiti con più attenzione». Sottolineò Mario. «Vanno viziati, appunto».
«Be’, non proprio viziati». Letizia Flores scosse la testa. I capelli neri, tinti e vaporosi, formavano un blocco compatto intorno al viso. «Lei, lei non crede?», aggiunse Mario, cercando almeno un piccolo assenso. Letizia Flores scosse di nuovo la testa. «Cosa posso offrirvi? Un’orzata? Una birra?» «Un’orzata, grazie», risposero all’unisono i due fratelli. Con movimenti lenti e calcolati, Letizia Flores si alzò e si diresse verso la porta. «Con permesso», sussurrò. Faceva di tutto per sembrare un’aristocratica, ma sbagliava qualcosa, sembrando piuttosto una con la puzza sotto il naso. «Giuseppina!», gridò, appena fatti alcuni passi nella sala. La sua voce aveva
perso i bassi ostinatamente cercati durante la conversazione, assumendo un tono stridulo che si insinuava tra le costole dei Solinas. «Giuseppina!!», abbassò il volume. «Due orzate», e si intuiva, dal rallentamento sulla zeta, lo sguardo minaccioso che doveva aver assunto con la donna di servizio. Rientrò in salotto e si riaccomodò sulla sedia. Poggiò meccanicamente un braccio sul bordo del tavolo, lasciando penzolare la mano. Col gomito puntava, per attirarvi meglio l’attenzione, un gruppo di fotografie con cornici argentate, schierate al centro del tavolo. Tutte, tranne un paio che ritraevano il figlio, e una il marito defunto, mostravano Letizia Flores da giovane, in un’età che poteva andare dai
quindici ai vent’anni, quando sembrava ingenua e addirittura piacente. Ci teneva, Letizia Flores, a far cadere gli occhi dei due fratelli su quelle foto, perché si ricordassero, se mai se ne fossero dimenticati, che anche lei era stata bella. Mario Solinas ricordava di quando se n’era infatuato. Lei aveva poco più di vent’anni, ma già molta voglia di sistemarsi. Aveva paura di perdere tempo, così era stata lei a forzare gli approcci. Recitava la parte della timida, ma era avventata, troppo, per Mario, che non reggeva l’impatto con la sua esuberanza. Non riuscì mai a farsi avanti e a dichiararle il suo amore. Ci pensò il padre maresciallo a ostacolare definitivamente quella probabile relazione. Nonostante Mario avesse già
ventotto anni, gli impose di non avvicinarsi nemmeno a “quella”, una domestica senza scrupoli che mirava in alto; che frequentasse gente della sua condizione. Letizia Flores accavallò le gambe e vi appoggiò l’altro braccio, andando a incrociare le dita della mano che penzolava. La schiena non si curvò di un centimetro. A essere onesti, i pezzi forti della sua collezione continuavano a essere gambe e sedere; l’investimento sul quale aveva sempre puntato. Quando entrò a servizio nella casa di cui divenne poi la padrona, le escogitò tutte pur di attirare le attenzioni del ricco proprietario terriero, il signor Flores, che, in età avanzata, era ancora celibe; un boccone da non lasciarsi scappare.
Studiava occasionali scivolate che le permettevano di tirare su la gonna, distratte porte socchiuse dietro le quali si infilava le mutande o che la mostravano sul letto col sedere scoperto. Il signor Flores cedette definitivamente davanti a quel fondoschiena, e chiese in sposa Letizia Corrias. «Suo figlio?», chiese Mario, facendo di tutto per evitare di guardarle le gambe pudicamente coperte fino al ginocchio. «Il pomeriggio esce con gli amici. Comunque tra un po’ sarà qui, così lo potrà conoscere». «Adesso quanti anni ha?» «Ventiquattro! Ah, lo vedrà. Ormai è un uomo». Si era infervorata, agitando davanti ai due fratelli le sue mani bianche. «È un ragazzo così in gamba; onesto e
rispettoso…». Il contrasto che il corpo di Letizia Flores mostrava da giovane, tra la parte superiore e quella inferiore, nella maturità si era accentuato. Sotto un maglioncino blu, indossava un piccolo reggiseno e il sospetto che non servisse. Aveva conservato la magrezza delle braccia, i fianchi e le cosce invece s’erano ingrossati. Entrò la cameriera con le orzate. Salutò e porse il vassoio ai due fratelli. Era una ragazza di circa vent’anni, spenta, con la coda di cavallo e le ciabatte. Poggiò il vassoio sul tavolo e uscì. «Giuseppina! Quando ti ha detto che torna Stefano?». La ragazza si voltò verso la signora sollevando le sopracciglia e le spalle.
«Vai, vai pure, vai». «Molto bella questa casa, signora Flores», fece Antonio, che si trovava lì solo per le insistenze del fratello. «Eh sì, e anche molto grande… Cosa vuole, da quando è morto mio marito, mi sembra addirittura enorme». Volse lo sguardo su quell’unica foto del marito; grasso com’era, pareva volesse esplodere dall’interno della sua cornicetta argentata. Si udì uno sbattere di porte e lo scalpiccio di passi affrettati. Nel salotto irruppe il figlio di Letizia Flores. La massa abbondante del suo corpo fece un po’ di vento. Indossava una maglietta gigantesca come pure i calzoni che, larghissimi, si accavallavano a fisarmonica sulle scarpe da ginnastica. Aveva già la pancia e il sedere grosso. La
testa, piccola rispetto al corpo, era rasata a zero. Due orecchini gli ornavano un lobo. Sembrava troppo grande per seguire quella moda da rapper ormai datata. «Buona sera! Ciao mà…». «Stefano, mio figlio», declamò Letizia Flores, mostrando una luce dal fondo degli occhi. Antonio e Mario si alzarono leggermente dalla sedia e porsero la mano al ragazzotto che, spargendo il frastagliato rumore di alcuni braccialetti, sbrigò veloce la procedura, e andò a curvarsi sulla madre per darle un bacio. «Màa, dammi… vado adesso a comprare…». «Per favore, Stefano?! Adesso stai un po’ con noi». «Insomma, màa! Dài, devo…». La madre mostrò un sorriso forzato ai
due fratelli, quindi rivolse uno sguardo in tralice al figlio, con la speranza che fosse sufficiente per ammansirlo. Lui ondeggiò indispettito e si lasciò cadere a gambe larghe sulla poltrona vicino. «Sai, Stefano, che col professor Mario Solinas ci conosciamo da quando eravamo giovani?». Per tutta risposta il figlio poggiò un gomito sul bracciolo, reggendosi il mento col dorso della mano. Ebbe l’educazione di sbuffare sommessamente. «Stefano, composto», disse lei, intagliando le parole. Il figlio le obbedì lasciando penzolare il braccio e raddrizzando la testa rasata. «Anche lei, professor Solinas, si ricorda di quando eravamo giovani?» «Eh sì. Altri tempi».
Il dialogo, tirato per i capelli, andò avanti nella totale noncuranza del figlio. Dopo un po’, il ragazzo, vistosamente contrariato, schizzò dalla poltrona. Si riaccucciò vicino alla madre per darle un altro bacio. «Dài, màa, devo andare…», frignò dolcemente. «Scusatemi», sussurrò Letizia Flores e, con fare che sperava apparisse regale, uscì dal salotto seguita dall’abbondanza del figlio. Poco dopo il ragazzo si affacciò in salotto e porse la mano ai due ospiti, con garbo. Appena uscito dalla stanza si sentirono i suoi passi accelerare e lo sbattere della porta d’ingresso. «Ha così tanta energia, questo ragazzo», precisò Letizia Flores. I fratelli Solinas si alzarono.
«Togliamo il disturbo anche noi, signora Flores», disse Antonio. «Però è tanto caro», riprese lei. «Sì, si vede che è…», intervenne Mario. «Signora, grazie per l’ospitalità». Antonio le tese la mano. «È esuberante ma molto sensibile», aggiunse lei. Antonio era rimasto con la mano a mezz’aria. «È vero», sottolineò. Anche Mario porse la mano: «Signora Flores, grazie di tutto». «Lei, professore, si ricorda che una volta ci davamo del tu…?» «Come no». La mano, che non riceveva conforto, restava tesa nel vuoto. «Visto che ora… insomma, visto che noi…», tentennava lei. «Ha ragione. Potremmo darci
nuovamente del… tu», rispose lui. «Quando ci vedremo ancora, Mario?» «Quando lo vorrà, signora Flo… Letizia». «Bene, allora ci telefoneremo». «Ce-certo». Si fece avanti Antonio: «Ora togliamo proprio il disturbo, signora Flores. Arrivederla». «Arrivederla professore. Ciao Mario». Consegnò una mano molle ad Antonio, e strinse con tutte le forze quella di Mario. Così da vicino, lui ebbe un certo timore dello sguardo languido che lei offrì in modo tanto esplicito. Ma era soprattutto impegnato a sostenere la forte stretta di quella mano che, così decisa, lo mandò in totale confusione. I suoi pensieri, a briglia sciolta, gli mostrarono
uno spaccato della propria vita da marito di Letizia Corrias, vedova Flores. Una vita da condividere anche con quel ragazzotto di suo figlio. Vide la donna discinta, distesa sul letto accanto a lui, il figliastro origliare dalla porta, attento a non far tintinnare la ferraglia dei suoi braccialetti. Sarà sufficiente, pensava, la sola parte inferiore di Letizia Flores, a rendermi felice? O almeno sereno? Sarà possibile affidare al suo spaesato nasino, tutta la responsabilità di renderne godibile il volto? Sarà proprio vero, inoltre, che, come in paese narra la leggenda, il sedere di quella donna basta a far dimenticare tutto ciò che di lei non era proprio gradevole? «Speriamo di poterci incontrare molto presto». E sul “molto presto”, Letizia
Flores diede la stretta decisiva, proprio nel momento in cui Solinas già si stava allontanando da quei pensieri, che gli sembrarono a dir poco grossolani. Ma la stretta fu tale che pareva volesse invece riportarlo proprio a quelle riflessioni; avrebbe conosciuto una perdizione alla quale abbandonarsi; lei era ancora in grado di dare tanto a un uomo, non se ne sarebbe pentito. Dai suoi lontani occhietti saettò quella luce che lampeggiava solo al cospetto del figlio. Finalmente mollò la presa e assunse l’espressione che hanno le sante quando devono mostrare con dolcezza il disprezzo del peccato. I fratelli Solinas si avviarono a piedi verso casa, dall’altra parte del paese. Non dissero una sola parola. Salutarono solo qualche conoscente per strada. Mario
salutò con la sinistra; la destra la tenne pensierosa in tasca. Pareva che il film che stavano guardando, anziché davanti allo schermo scorresse dietro la televisione. Sia la faccia di Mario che quella del fratello, ricevevano la luce intermittente delle sequenze senza esserne minimamente coinvolti. Alla finestra si affacciava una perfetta luna araba. Tutt’e due, sulle poltrone, avevano tenuto la stessa posizione di quando, un’ora prima, vi si erano abbandonati. Antonio stava per esplodere in una risata, ma si trattenne; si sentiva responsabile di aver messo nei pasticci il fratello. Il film terminò. Passò la pubblicità e poi comparve l’annunciatrice del
telegiornale: Antonio prese il telecomando e abbassò il volume. «Insomma, forse ho sbagliato, e non devi dannarti più di tanto… Mica, mica te l’ha ordinato il medico di sposarla per forza». Guardava lo schermo verdastro. «Se tu volessi rinunciarci, stai tranquillo che ti capirei… hai capito? D’altronde non potevamo sapere come’era in realtà… Va bene, va bene, ripeto che ho sbagliato e ti chiedo scusa». A quel punto non riuscì a frenare una risata incontrollata. Quando si calmò, rosso in viso, si voltò di fianco verso il fratello. Solo allora si accorse che lui dormiva. Si alzò. Prima di uscire dal salotto accese la luce del lampadario. «Mario! È tardi, vai a letto!». Mario non rispose e Antonio si avviò per le scale, in camera sua.
«Ma chi me lo fa fare di sposare Letizia Flores?… Accidenti a me». Borbottò di colpo Mario, drizzandosi sulla poltrona, come se rispondesse a voce alta a un sogno ancora in corso.
20
«Cosa vuole, le è presa così», disse sottovoce la signora Sanna, mentre allontanava una sedia dal tavolo. «Prego, si accomodi». «È colpa mia, accidenti», si rammaricò Mario Solinas, sedendosi. «No guardi, non se ne faccia una colpa, proprio lei». «Non è mai uscita in questi giorni?», anche lui parlava a bassa voce. «Si figuri se esce. Senza di lei, poi,
professore… Ho paura che siamo daccapo». Dalla camera di Maria arrivavano, appena percettibili, le note del Bolero». Era trascorsa una settimana senza che Solinas incontrasse Maria. Il giorno dopo l’appuntamento con Letizia Flores, Giovanna telefonò dicendo che non sarebbe potuta andare da loro; il marito era stato ricoverato. Nel tardo pomeriggio Antonio e Mario andarono a trovarla in ospedale. L’uomo era grave, beveva troppo, ma se la sarebbe cavata. Anche il giorno successivo Mario non incontrò la ragazza, e così per una settimana, inventando scuse per non vederla. Voleva capire quanto gli sarebbe mancata. La signora Sanna si sedette vicino a Solinas e, sempre sussurrando: «Esce
dalla sua camera solo per mangiare», si coprì le guance con le mani. «Oh Dio, è come un anno fa». «Ma lei le ha riferito delle mie telefonate?» «Sì, sì. Ha visto che non c’è stato verso di farla parlare neanche al telefono?» «Si è offesa». «Santo cielo, dovrà pur capire che lei, professore, ha i suoi impegni». Il brano era terminato. I due rimasero in silenzio. Nella cucina adesso si sentiva il ronzio del frigo e una ritmica sequenza di gocce dal lavandino. La signora Sanna si accostò al lavandino per chiudere bene il rubinetto. «Eppure», riprese nostalgica, sedendosi di nuovo, «come era felice da piccola.
Fino ai dieci anni non mi aveva mai dato un problema». «E il padre? Non mi ha mai parlato del…». «Ooh… Il padre non l’ha quasi conosciuto. Ed è stato meglio così. Quel, quello… è andato via di casa che Maria aveva due anni. Suo papà è stato il nonno, mio padre». «Gli era molto legata?» «Legata?». Si mise una mano davanti alla bocca, preoccupata di aver alzato troppo la voce. «Per Maria il nonno è stato tutto. Anche se siamo poveri, lui non le fece mai mancare niente. Posso dire che dedicò la sua vita a Maria. Quando l’ultimo anno si ammalò, per mia figlia fu uno strazio. Ecco… Maria cominciò a cambiare a nove anni, dopo la morte del
nonno». Mario Solinas prese un fazzoletto e si pulì gli occhiali. Dalla stanza di Maria arrivavano adesso le note, soffocate dalla porta chiusa, della Primavera di Vivaldi. «È il primo CD che le ho regalato», disse Solinas, abbozzando un sorriso. Si alzò. «Adesso vado». Anche la signora Sanna si alzò. «Quando c’era il nonno non è mai stata sola. Tutto il giorno lo trascorrevano a giocare. Sembrava più bambino lui di lei». «Domani telefonerò. Speriamo che le sia passata. Stia bene». Nel corridoio, davanti alla camera di Maria, Solinas si fermò un attimo per ascoltare qualche segno di vita; solo la musica e nient’altro.
21
«Il marito di Giovanna sarà dimesso domani», disse Antonio, occupato ai fornelli per la cena. «…Ha telefonato Letizia Flores». Mario non rispose e, visto che non era ancora pronta la cena, tornò in salotto a sfogliare il giornale. Il pomeriggio successivo Maria uscì di casa sorridente come se nulla fosse successo. Salì in macchina e cominciò ad
accarezzare il cruscotto e azionare il pulsante del cristallo laterale. Mario innestò la marcia e partì. Dallo specchietto retrovisore vide la signora Sanna che si affacciava timidamente sull’ingresso. «In questi giorni ho avuto da fare. Mi devi scus…». «Andiamo al mare?» «Certo. Andiamo a Putzu Idu? O…». «A Putzu Idu. Sì.». Quel giorno doveva esserci un convegno di suore, a Putzu Idu. La piccola comunità locale delle Evaristiane, conosciute per fare un ottimo vino e assistere una ventina di ragazzi handicappati, qualche volta all’anno ospitava altre religiose. L’intera spiaggia
era gremita di suore in abito bianco. Appena scesa dalla macchina, Maria mostrò subito un’eccitazione particolare per quei grandi gigli che illuminavano l’arenile. «Ma sono tantissime! E tutte giovani!». Quando era in compagnia di Solinas, riusciva ad accostarsi alle persone senza la minima timidezza. Giù in spiaggia, infatti, si muoveva tra le suore distribuendo sorrisi e sguardi. Si buttava nel gruppo e le salutava, creando quasi scompiglio tra loro. Sembrava un cagnolino che scorrazza abbaiando in mezzo alle galline. Ognuna di loro reagiva in modo diverso. Alcune si allontanavano intimidite. Altre rispondevano al saluto di Maria, e qualcuna si fermava a parlarle.
Mario guardava quella scena da lontano. Era stupito da tutto quel relazionarsi confuso e allegro della ragazza. «Come ti chiami?», chiese una suora di un gruppo che si era formato intorno a Maria. «Maria, e tra un po’ compio diciotto anni. E tu? Come ti chiami?» «Suor Paola. Sei una studentessa?». Si fece avanti un’altra, minuta, dal volto delicato che pareva truccato con i pastelli: «Anche io mi chiamo Maria», arrossì guardando la sabbia. «Suor Maria», precisò. «Perché non metti i piedi nell’acqua? È calda, sai?». E mostrò i suoi piedini rosa ricoperti di sabbia umida. Maria non se lo fece ripetere due volte. Si slacciò le scarpe da ginnastica e
immerse i piedi nella battigia. Qualche suora s’era seduta sulla sabbia per togliersi più velocemente scarpette e calzette. Tutte erano contagiate da un’allegria inaspettata e, quasi che certe risate più acute fossero un peccato, si guardavano intorno preoccupate da troppa felicità. Non trovando nessun impedimento al loro sfogo, riprendevano a ridere, eccitate quanto Maria di ticchettare i piedi nudi nell’acqua. Una di loro, la più alta, s’era spinta fino a bagnarsi quasi le ginocchia. «Attenta!», le gridò un’altra, «ti stai bagnando tutta la veste!». Ma ormai era fatta. Col cotone bianco ingrigito dall’acqua, la suora alta smise di ridere e si fece ansiosa. «Non è niente», la tranquillizzò Maria.
«Dopo andiamo a casa e te l’asciugo col phon». «No, non posso». Scappò via, come se la veste fosse stata aggredita non dall’acqua ma dal demonio. «Quanto è esagerata!», fece la minuta suor Maria. «Ha sempre paura di tutto, suor Vincenza». Trascorsa un’ora la spiaggia s’era andata sfollando. L’ultima a lasciare Maria fu proprio la sua omonima. Accortasi di essere rimasta sola, la salutò e si affrettò verso la palazzina delle Evaristiane. Solinas restò seduto su una roccia. Vedeva adesso Maria avvicinarsi con le guance rosse. Teneva in mano le scarpe da ginnastica. I jeans, rimboccati fino al ginocchio, erano zuppi fin nelle pieghe.
«Mi leggi un nuovo romanzo?», domandò lei, mentre si avviavano verso casa. Solinas sentì un brivido salirgli lungo la schiena. Adesso capiva quanto la ragazza gli fosse mancata. Riempiva tutta la sua vita, e ne provava vergogna. «Certo, se vuoi… anche se è già tardi». «Solo dieci pagine, ti va? Cosa mi leggerai?» «Non so, fammici pensare». «Guarda! Guarda! Stanno partendo!». Maria si mise a correre verso le suore che uscivano dalla palazzina delle Evaristiane. In fila salivano su due pullman. Quelle che aveva conosciuto la accolsero festanti. Maria tornò di corsa verso Solinas. «Mi portano in pullman con loro!»,
disse euforica, «vanno a San Gavino. Dài, seguici, così dopo mi riporti a casa». «Ma San Gavino è a quaranta chilome… Allora oggi, la lettura…». Maria si accostò a dargli un bacio che finì metà sulla guancia e metà sul naso: «Grazie. Mi raccomando, seguici!». Velocemente raggiunse le ultime suore che la stavano aspettando prima di salire. I due pullman partirono e Solinas si accodò ancora annebbiato dal dolce profumo che il bacio di Maria gli aveva lasciato sul viso. Anche lui avrebbe voluto essere su quel pullman. Era quasi buio quando i due da San Gavino tornarono a Oristano. Maria parlò per tutto il tragitto. Le suore le avevano raccontato di come trascorrevano la
giornata, della vita comune che si svolgeva tra loro. A Maria quella vita sembrò un gran divertimento, privo di qualsiasi preoccupazione: «Se divento suora non starò mai da sola», diceva estasiata, «avrei tante amiche…». Solinas la lasciava sognare. Ogni tanto si voltava a guardarle i dentini che si affacciavano nel sorriso, e gli occhi che brillavano, neri e lucidi. Mai avrebbe pensato che la delicatezza di quel volto l’avrebbe rattristato. «A domani», disse lei, scendendo dalla macchina. Ma prima di chiudere la portiera vi risalì accostandosi a Solinas per dargli un bacio sull’altra guancia. «Grazie!», disse. Sbatté la portiera e s’infilò in casa.
22
Il risveglio di Mario Solinas fu pesante. Aveva dormito poche ore, quelle prossime all’alba. Bevve il caffè mentre Antonio metteva la sua tazzina sotto il rubinetto. Squillò il telefono. «Ah! Mi sono dimenticato. Questa deve essere Letizia Flores. Ha telefonato anche ieri». «Anche ieri?». Il telefono continuava a squillare. «E adesso…?». Antonio non ebbe il coraggio di sostenere lo sguardo
del fratello; fece finta di rimestare qualcosa dentro il lavandino. Mario buttò giù il caffè e, ancora brontolando, andò in salotto. Alzò gli occhi al soffitto e poggiò la mano sulla cornetta, nella cieca speranza che non suonasse più. Niente. Lo squillo adesso sembrava un grido. Tirò su. «Pronto…?» «Pronto, Mario?» «Sì?» «Sono Letizia, Mario…?» «Ooh! Che sorpresa. Come sta?» «Io bene… Tu piuttosto, non… non ti ho più sentito e…». «Mi deve scusare. Ho passato dei giorni. La prego di credermi». «Perché non ti dovrei credere? Ma, ti sei dimenticato che ci davamo del tu?»
«Oh! Scusami», cercò di alleggerire con una risatina, «sono così…». «Non importa. Spero di non disturbare. Sai, è passata più di una settimana…». Mario alzò ancora gli occhi al soffitto: «Già una settimana? Accidenti!». «Oggi è una bellissima giornata. Ti va questa mattina di venire con me al frutteto?» «Questa mattina, al…». «Così, se non hai impegni. Giusto un’oretta». «Sì, forse…». «Ti aspetto a casa. Passa pure a prendermi quando vuoi. Anche a mezzogiorno». La sua voce impostata voleva sembrare delicata, ma risultava autoritaria.
«È che…». «Allora a dopo. Ciao». «Dov’è il frutteto di Letizia Flores, accidenti a me», chiese al fratello. «All’uscita del paese, dopo il fiume. Prendi la macchina, te la sbrighi in fretta e ti vede meno gente». «Ancora non so perché ti ho dato retta!». «Mà!! È per te!», urlò il figlio, dopo aver aperto la porta, girandosi verso l’interno della casa. «Màa!!». Dal fondo della sala Solinas udì sibilare a denti stretti la voce della madre. «E non gridare. Lo so, lo so». Letizia Flores apparve sulla soglia, vestita come se dovesse andare a una prima teatrale. Il trucco, invero
esasperato, aveva comunque aiutato gli occhi a uscir fuori. «Ciao. Andiamo?», disse mollemente. Solinas tirò fuori un «Sì» tutto sbriciolato in gola. «Ma non è il caso di andare in macchina», disse lei, appena lo vide dirigersi verso la sua auto. «C’è un pezzo da fare in campagna. Non vorrei che ti si sporcassero le scarpe». «Figurati, ci sono abituata. Poi questi tacchi non sono alti». Ma il volto di lui s’era velato di malinconia. «Sei molto gentile», fece lei a quel punto. «Andiamo pure in macchina». Dentro il paese furono notati solo da due persone e, se altri li videro, Mario Solinas non se ne accorse, intento com’era
a fissare davanti a sé un futuro di uomo onesto e libero. All’uscita del paese Letizia Flores dava le indicazioni, e il suo braccio pareva stesse benedicendo quelle stradine di campagna. Solinas imboccò un cancello aperto. Percorse un piccolo viale sterrato e si fermò davanti a una casetta. Scesero dall’auto. «Ti piace?», domandò lei, con l’orgoglio di essere riuscita a diventarne la padrona. «Però! È molto bello». Le piante da frutto si estendevano per alcuni ettari. Si capiva che quel frutteto era curato assiduamente. «Questo era il gioiello di mio marito. Ci passava molto tempo… È Giuseppe che continua a curarlo; ormai sono più di
vent’anni che lavora per noi. Vieni, facciamo un giro, ci sono piante di qualsiasi frutto, perfino dei banani». Mario vide tendersi la mano della donna. Fece finta di non accorgersi; guardava in su, estasiato, verso le fronde più alte. Lei però non abbandonò il tentativo. Aspettò che lui abbassasse lo sguardo. Ma Solinas col naso per aria fece alcuni passi. Lei lo seguì e, senza più aspettare, gli prese la mano. S’incamminarono. A causa dei tacchi e dei sassolini, ogni passo di lei ondeggiava malfermo, e trasmetteva strattoncini alla mano e al braccio di Solinas, provocando così, anche a lui, una camminata indecisa. «Pesa molto la solitudine in casa… In campagna si sente meno». «…Ha suo figlio».
«Questo sì, per fortuna, ma intendevo…», gli strinse appena la mano. Lui a quel punto pensò sarebbe stato meglio chiarire tutto subito. E il coraggio? Dove l’avrebbe trovato? Era stato lui a fare il primo passo, un passo sbilenco, ma l’aveva fatto. Era stato avventato; ecco, questo avrebbe potuto dirle, che avrebbe avuto bisogno di un bel po’ di tempo. «Io…», fece lui, guardando in terra. «Ooh!?…», lei inciampò su un sassolino più grande degli altri, e per tenersi diede uno strappo secco al braccio di Solinas. «Scusami Mario. Ma ti prego, dammi del tu…». «Oh sì, scu-scusami tu… Il fatto è che sono…». Letizia Flores si fermò voltandosi a
guardargli il profilo. «Lo so quello che pensi. Non siamo due ragazzini, e non abbiamo molto tempo». «Non…», lui guardava fisso davanti a sé. Lei gli fu di fronte: «Non c’è d’aver fretta, comunque. Questo volevo dirtelo anche io, per tranquillizzarti. Sono passati due anni da quando… Non sono tanti, ma neanche pochi. Mario… fai tu». Dopo aver detto «Da quando…», fece una lunga pausa, che non voleva intendere: «Da quando è morto mio marito», cosa poi non così grave, ma piuttosto: «Da quando mio marito fu trovato morto tra le cosce di Ottavia Lussu», fatto che aveva tutt’altro peso. Quello stesso peso che la schiacciò di
vergogna per due anni. Con tutto il parlare che se ne fece, anche Solinas era perfettamente informato sui fatti. Il signor Sebastiano Flores, dopo dieci anni di matrimonio, cominciò a frequentare Ottavia Lussu che, allora, era una delle più belle donne della provincia. Passarono molti anni prima che Letizia Flores venisse a conoscenza di quegli incontri del marito in un paese vicino. Sebastiano Flores cominciava a essere stanco del culo della moglie. Ormai detestava quella faccia magra che cozzava con la rotonda opulenza dei suoi beni. Anche lei, però, con uno sguardo infastidito, dimostrava tutto il ribrezzo di avere quel grassone addosso. «Stefano sta studiando, o…», chiese Mario, riprendendo a camminare. Con la
scusa di pulirsi gli occhiali lasciò la mano della donna. «Adesso no. Io volevo farlo iscrivere all’università, ma non ha finito il liceo. Insomma, è un problema. Ma non è certo stupido, tu l’hai visto, no?» «Sì, sì, mi è sembrato, sveglio…». «È ancora molto giovane. Sicuramente starebbe con noi… Oh! Scusa. Volevo dire…». Si morse il labbro inferiore, guardò il cielo, e si voltò dalla parte opposta, per abbandonarsi a una smorfia di rabbia. Appena Sebastiano Flores conobbe Ottavia Lussu ne fu ammaliato. Pochi appuntamenti e sentì di esserne innamorato. Non gli sembrò vero di poter appoggiare la sua pancia su quella di una donna, di poterle parlare guardandola
negli occhi; di gustare quel sorriso esotico, di far l’amore, sentendosi sul petto il suo ampio seno. «Perché non ti ho conosciuta prima?», ripeteva spesso. Ottavia rideva, e gradiva i complimenti che tutti gli uomini le facevano. Con Sebastiano Flores, però, fu diverso. Gli ultimi anni accettò di essere mantenuta solo da lui, e di non incontrare più nessun altro. «È quasi l’una, e il sole è troppo forte», disse Solinas, sentendosi le mani appiccicose per il sudore. «Sì, Mario. Se vuoi…». Sebastiano Flores morì tra le cosce calde di Ottavia Lussu. Aveva ancora un’erezione quando arrivò l’ambulanza. Il lenzuolo che Ottavia Lussu stese sul corpo, certo non bastò – raccontarono
alcuni – a smorzare quel segno di vita che alla morte non competeva. «Una bella morte», sussurrò mesto uno dei lettighieri, affacciandosi dentro la scollatura di Ottavia Lussu. Ma lei piangeva e non fece caso a tutte le condoglianze che le rivolsero. L’ultimo regalo di Sebastiano Flores, alla sua amante, fu la casa di Putzu Idu, dove morì. «Vorrei invitarti a pranzo qualche volta, se ti va», mormorò Letizia Flores, appena arrivati alla macchina. «Grazie. Vedremo…». Lei si appoggiò al cofano dell’auto e prese ad accarezzarne la cromatura a caso, con fare ingenuo. «Spero molto presto…». Solinas aveva già aperto la portiera. «Se Dio vuole», disse, e salì in macchina.
Letizia Flores rimase ancora fuori. Adesso aveva l’espressione sognante. Così, almeno, pensava lei. A Solinas parve un cane senza padrone, e ne provò pena. Ma più grande fu la pena e la rabbia che provò verso se stesso e il fratello. A Letizia Flores fu evidente che lui sarebbe rimasto in macchina, e che anche lei sarebbe dovuta salirvi. Represse l’espressione sognante, e ne assunse una altera; alzò una gamba per darsi uno slancio che la spostò dall’auto. Quindi diede le spalle a Solinas e, sculettando forse un po’ troppo, per rinfrescargli la memoria, girò attorno al cofano e prese posto sul sedile. Sorrise, per mostrarsi in ogni caso fiduciosa.
23
A luglio Mario Solinas si trasferì a Putzu Idu. Quell’estate fu una delle più torride. Comprò un condizionatore, non se ne poteva più fare a meno. Antonio restò a Riola per sbrigare molte faccende, tra le quali la vendita di un oliveto e di un vigneto. Inoltre, i primi di luglio, era morto il marito di Giovanna, e lui aveva sentito il bisogno di starle vicino. Dopo una settimana in cui Mario, nel pomeriggio, portava Maria al mare e al
tramonto la riportava a Oristano, le insistenze della ragazza per trasferirsi a Putzu Idu furono tali che Solinas dovette cedere. Aveva quasi paura di vivere tutto il tempo con lei. Avrebbe preferito imporsi un distacco. Ormai, come aveva pronosticato il fratello, era veramente nei pasticci. La signora Sanna, come sempre, fu più che grata a Solinas per quel regalo, nonostante lei potesse andare al mare solo la domenica. Più di quello Maria non avrebbe accettato. Solinas aveva ripreso a fare ginnastica; pesi leggeri e poche flessioni. Si guardava continuamente allo specchio, nella speranza di notare un cambiamento che gli regalasse almeno un pugno di mesi in meno. Comprò, per la prima volta nella sua vita, un dopobarba costosissimo.
Acquistò anche una crema dimagrante. Se la spalmava la mattina presto appena alzato, quando il pudore ancora sonnecchiava. In profumeria disse che la moglie era esigente. Che gli dessero il prodotto migliore, non importava il prezzo; importava che la moglie vedesse i risultati. Si era comprato anche dei nuovi occhiali da sole. La montatura dorata gli alleggeriva i pensieri che si affollavano sotto la testa glabra, e il rettangolo delle lenti scure gli stemperava la rotondità del volto. In spiaggia piazzava l’ombrellone solo per creare una zona privata. Ormai né lui né Maria vi restavano sotto un solo minuto. Più si abbronzava, Solinas, più si accettava. I primi giorni era intimidito dai
bagnanti – ancora pochi – convinto che tutti guardassero le sue cosce magre. Stendeva l’asciugamano e subito vi si sdraiava faccia in giù. Poi si voltava, e con la pancia in gola si nascondeva alla vista di tutti inforcando gli occhiali da sole. Maria era diventata una gazzella. Mentre Solinas infilava nella sabbia il bastone dell’ombrellone, lei era già corsa sulla battigia per saggiare la temperatura dell’acqua. «Oggi è caldissima!», urlava, tornando da lui che intanto aveva ultimato l’operazione, e già si scrutava intorno alla ricerca di eventuali ragazzotti. Sceglieva, infatti, sempre zone frequentate da innocue famiglie. Preferiva il tramestio delle mamme con i bambini agli sguardi dritti e
decisi dei giovani che Maria, ora, attirava su di sé. Qualcuno le si era già avvicinato, ma prima ancora che potesse ultimare l’approccio, Maria scappava verso l’ombrellone. Solinas e l’ombrellone erano un’isola sicura sulla quale rifugiarsi. Quando lui, sdraiato sull’asciugamano, sentiva la corsa affrettata di Maria, capiva che qualche ragazzo aveva cercato di parlarle. Allora lei gli si accoccolava vicino e, abbracciandosi le gambe, poggiava il mento sulle ginocchia; si mostrava in compagnia e con rinnovato coraggio attraversava di nuovo la spiaggia fino all’acqua. Il professore era gratificato da quella rinuncia a dare confidenza ai ragazzi, dei quali lei sembrava avere addirittura paura. “Ma per quanto ancora
sarebbe durata?”, si domandava Solinas. Certe volte i due portavano dei panini da mangiare a pranzo in spiaggia. A quell’ora, i pochi rimasti, banchettavano all’ombra degli ombrelloni. Le piccole comunità offrivano a vicenda l’intimità del pasto. Sembravano, mentre pranzavano, tutti più nudi dei loro corpi infilati dentro i costumi da bagno. C’erano le famiglie dei non residenti che venivano al mare per un’intera giornata. Si notavano per il biancore dei loro corpi e per la ruvida familiarità con l’ambiente. Ultimato il pasto, i padri si sbracavano all’ombra di due o più ombrelloni ravvicinati. Pieni di pasta, carne e vino, e abbruttiti dal caldo delle due, si assentavano per un paio d’ore da qualunque forma di vita. Ciò che ancora li
rendeva viventi, era il russare e le brutte facce che assumevano nel sonno da spiaggia. Le mamme riordinavano la zona privata di quegli ombrelloni e controllavano i bambini che, con le pance ancora impiastrate di sugo, erano già pronti a ributtarsi in acqua. Allora innalzavano grida inascoltate: «Tonino!! Checco!! Che siate maledetti! Non entrate in acqua!!». I padri continuavano a mantenere una smorfia di dolore sulla faccia addormentata, e non si accorgevano di niente. Le madri si lanciavano verso il bagnasciuga, senza riuscire a raggiungere i fuggitivi. Si fermavano sudate e boccheggianti, negli occhi lo sguardo del demonio. «Questa sera vi faccio vedere!!
Vi rompo la schiena!!». Le mamme che arrivavano dai paesi vicini, e che non avevano la casa al mare, erano quasi tutte grasse, sembravano fatte con il medesimo stampo. Si distinguevano tra loro solo per i costumi da bagno. Mentre all’ombra Maria mangiava il suo panino, rideva di quell’ordinario abbrutimento, e con lo sguardo cercava l’assenso di Solinas. Un pomeriggio, al loro ombrellone si avvicinò un bambino che aveva da poco seminato la madre. Attorno al muso era ancora sporco dei resti di un dolce. «Mia madre ha fatto la torta. È buona, io l’ho appena mangiata», disse lasciandosi cadere in ginocchio sotto l’ombra. «Se vieni da mia madre ne dà un pezzo anche a te».
«No grazie. Mi basta questo». Maria rideva coprendosi la bocca col mezzo panino addentato. «Dài, vieni con me, sennò mia madre mi picchia». «Ma no! Ah ah! Non ci vengo». Solinas dormiva sotto il sole. Non aveva ancora mangiato. «Come ce le hai piccole tu, le tette… mia madre le ha molto più grandi, così…», e allargò le braccine. «E a me non me ne importa niente, ah! ah!». «Fammele vedere». «No». «Dàii… mia madre per farmi mangiare me le fa sempre vedere e toccare… dàaai…». «E a me non interessa proprio niente
che tu mangi». Maria si divertiva. Inaspettatamente, e con fare brusco, il bambino le si accostò e le afferrò la spallina del costume. Ma prima che potesse tirarla giù, Maria gli diede una spinta facendolo cadere fuori dalla zona d’ombra, col culetto sulla sabbia. «Ma sei pazzo?», l’apostrofò a denti stretti. Il bambino pescò dal suo repertorio il muso dell’offeso, quasi sul punto di piangere, ma dignitosamente resisté a testa alta. Aveva pescato bene. Maria se ne dispiacque e gli si accostò impietosita. Solinas si era svegliato e tiratosi sui gomiti stette a guardare quella scena inaspettata. «Scusami…», sussurrò teneramente Maria, mentre gli levava la sabbia dalle ginocchia. «Su, non fare il discolo. Vengo
da tua madre a mangiare il dolce, va bene?». Lui si batté il mento sfuggente sul petto, conservando ancora l’espressione dell’offeso, perché fosse ben chiaro che non era facile a repentini cambiamenti d’umore. «Be’, vogliamo andare?», Maria guardò Solinas con la coda dell’occhio. «Torno subito», disse. Il bambino si alzò, prese la mano di Maria e si incamminarono: «Vedrai quanto è buona la torta». La guardò verso l’alto. «Chiediglielo, se ti fa vedere le tette». «Ma cosa dici?», e rise. «Ah! Sei qui!», urlò la madre che lo cercava. Il bambino si appoggiò a una gamba di Maria.
«Dài», bisbigliò, «dille che vuoi la torta». «Ma dove eri finito stavolta? Disgraziato!». «Lo scusi, signora. Si è fermato a parlare con me e… eccolo, l’ho riportato». «Dille che vuoi la torta», mormorò sottovoce lui. Maria alzò gli occhi al cielo: «Suo figlio ha detto che lei fa un dolce buonissimo, e che…». La donna ammorbidì l’espressione: «È veramente furbo mio figlio, sa, signorina… Comunque le do volentieri una fetta di torta. Prego, siamo qui vicino». Sotto l’ombra il padre del discolo ronfava sdraiato su un fianco. Poggiava la
testa per metà sull’asciugamano e per metà sulla sabbia. A ogni respiro spostava un po’ di granelli; aveva creato, con la tenacia delle formiche, un piccolo avvallamento davanti alla bocca. «No signora, è troppa. Molto meno». «Mangi, signorina, che lei ne ha bisogno», la incitò la donna, porgendole un impasto di crema e chissà che altro, dentro un piatto di plastica. In cima vi aveva affondato il cucchiaino. Un’altra bambina, senza essere distratta da niente, leggeva un giornaletto. I capelli lunghissimi, velati di sale, le scendevano giù incollati a mazzi. Aveva la pelle lentigginosa, di tutt’altra natura dal resto della famiglia. «Come le sembra signorina?» «È buona signora, molto buona… ma
per me è tanta», disse Maria, quasi nauseata. Piluccava come un pulcino cercando di inventarsi una scusa per andare via. «Questa sera con te faremo i conti», ringhiò la madre al bambino, che già vedeva le cose mettersi a posto grazie all’ospite. L’ultimo abitante di quell’ombra familiare era il figlio più grande; un bel ragazzo sui quindici anni. Anche lui, sdraiato su un fianco, sembrava che dormisse. In realtà, da un’indistinguibile apertura delle palpebre, scrutava avidamente quella giovane ospite. Di fronte aveva solo Maria e il fratellino che guardava nel piatto. Il padre dormiva. La madre e la sorellina gli davano le spalle. Maria sentiva uno sguardo addosso
ma non capiva da dove provenisse. Se ne accorse solo quando il quindicenne spalancò gli occhi e li richiuse velocemente. Al di là delle spalle della madre, che sedeva sulla sabbia, Maria notò che lui voleva dirle delle cose. Schiudeva appena le palpebre e arricciava la bocca. Maria parlava con la signora, ma era distratta da quei versi insidiosi, ora di esasperante lentezza. «Quel mascalzone di mio figlio ha la sua tecnica, sa? Tutte le volte che veniamo al mare, per farsi perdonare, perché il signorino…», lo guardò minacciosa, «ne combina sempre una più del diavolo. Sa cosa fa il disgraziato?». Maria vide il ragazzo portare lentamente la mano dal petto verso la pancia. Era così estenuante, quel movimento, che non
si poteva evitare di guardarlo. «Tutte le volte, signorina, tutte le volte mi porta qualcuna per distrarmi e per offrirle qualcosa. Non è certo per lei che lo sto dicendo, anzi, se ne vuole ancora un po’…». «No, grazie». La mano del ragazzo era arrivata all’ombelico, mentre la sua bocca era sempre più arricciata. «L’altra volta, per esempio… guardi, guardi, si giri un attimo indietro. La vede quella ragazza, quella col costume rosso due pezzi? Quella che si è alzata. Be’, avrà trent’anni». «Sì, l’ho vista». «Ecco, domenica scorsa mi ha portato quella. Siamo anche diventate amiche, ci ha parlato della sua vita… insomma, non
l’abbiamo certo mandata via…». Il bambino se ne stava sempre in ginocchio vicino a Maria, con l’aria più buona del mondo. «È inutile che fai quella faccia, disgraziato. Questa volta non mi freghi». Quell’ultima unghia di crema che Maria ebbe ingoiato, restò a grattarle la gola, col rischio di soffocarla. Il ragazzo ormai aveva portato la mano sui boxer e si toccava. «Questa sera ti farò massacrare da tuo padre; almeno qualcosa farà, quello», indicò il marito. «Lo vede signorina? Sta sempre a russare». Il ragazzo aveva abbassato i boxer e tirato fuori un cazzo sproporzionato per la sua età. Lo stringeva come se volesse soffocarlo. Negli infiniti occhi di Maria si
specchiava quell’avvenimento silenzioso. Cercò di distrarsi e di guardare in faccia la signora che le parlava, ma non ci riusciva. Si sentiva incatenata a quello spettacolo. La meraviglia le stava facendo dischiudere la bocca e spalancare sempre più gli occhi. Non capiva se era attratta da tanta sfrontatezza, o se era stupita per la vista di quel membro. La circostanza le tolse il fiato. «Signorina… ma, che ha?!». La signora si voltò indietro senza notare nulla di particolare. Con una tecnica che sembrava acquisita con tanto esercizio, il ragazzo aveva fatto sparire il pene dentro il costume, catturato una normale espressione e la postura di uno che è addormentato, nel rapido vortice di un secondo. La signora si rivolse di nuovo a
Maria, che s’era imbalsamata in una stupida espressione di stupore. «Signorina! Ma che è successo!? Mi fa preoccupare». Lo sguardo di Maria cercò di tornare naturale. Ma lo sgomento lasciò una forte traccia sul suo viso. «Forse il dolce le ha fatto male?» «…Non è niente, mi scusi». «Ma che cosa strana… Lo sa che anche l’altra volta, quella ragazza, sa, quella che le ho indicato prima, dopo il dolce si è sentita male, così, tipo lei. Ma dopo è tornata normale. Ha anche detto che il dolce era buonissimo. Io, figuriamoci, cucino sano io». Sputando granelli di sabbia il marito cominciò a svegliarsi, borbottando qualcosa di incomprensibile.
«Io… Grazie del dolce, io vado». Il bambino si tirò su accostandosi all’orecchio di Maria. Bisbigliò: «Non le hai chiesto di farti vedere le tette». «Ma…?», fece appena Maria. «Cosa c’è ancora!? Lascia in pace la signorina!». Accennò una sberla a mezz’aria. Il marito si tirò su muovendo due pugni dentro gli occhi. Aveva sabbia incollata su tutta la guancia sinistra: «Oh, buongiorno!», disse, rivolto a Maria. Nello sguardo e nel saluto dolciastro, si avvertiva la somma delle tendenze di famiglia. «Finalmente! Signora Cadeddu», disse allegra la donna, guardando alle spalle di Maria, la quale si alzò, salutò e scappò via.
Il bambino si distrasse un attimo. Gli arrivò un manrovescio che da tanto desiderava l’impatto con quel faccino. Maria si era già allontanata, ma sentì distintamente la sberla accompagnata dal condimento di un «Disgraziato!». La signora Cadeddu con i suoi sessant’anni, scalza e vestita di scuro, si sedette sorridente nell’afosa ombra di quegli ombrelloni. Raggiunto il professore, Maria gli raccontò nei dettagli tutto l’accaduto. Gli nascose, però, il fatto saliente. Nel tardo pomeriggio, rientrando a casa, decise di raccontare anche il gesto di quel ragazzo. «È successa anche un’altra cosa…». «Quando?» «Nel pomeriggio, da quelli». «Dimmi».
«C’era anche un… un… no, niente». Quindi si affrettò correndo verso casa. Solinas la guardò mentre si allontanava. Aveva la vita e i fianchi stretti come quelli di un ragazzo. Le cosce affusolate non lasciavano spazi vuoti internamente. Aveva un corpo più da africana che da sarda.
24
A Solinas fu evidente che quel giorno Maria non avrebbe rispettato, come ormai ultimamente era solita fare, tutte le sequenze del rito. Fatta la doccia lui si vestiva, si metteva qualche goccia di profumo e, prima di sedersi sul divano, inseriva nel nuovo impianto il CD di Ravel. Maria usciva dal bagno con l’asciugamano bianco avvolto sotto le ascelle. Al ritmo del Bolero cominciava la sua danza lenta
e morbida. Con gli occhi socchiusi, si comportava come se stesse ballando sul palco di un teatro con la platea gremita di pubblico. La danza andava avanti finché l’asciugamano allentava la stretta. Il tempo che il telo di spugna impiegava a venire giù era sempre diverso; dipendeva dalla cura con cui Maria se lo stringeva addosso. Quello spazio di minuti, per l’unico spettatore, raccoglieva una tensione che non era in grado di sostenere. Ogni volta che la statua si scopriva sembrava più pericolosa. Il telo bianco si afflosciava ai piedi della ballerina. I movimenti lo calpestavano, lo trascinavano. L’asciugamano sembrava una piccola anima che, sconfitta, si danna ai piedi del corpo chiedendo perdono.
Tutte le volte Solinas si riprometteva di sospendere quel rituale. Ma tutte le volte si ticchettava di profumo e si lasciava andare sul divano. Non era in grado di darsi comandi contrari. Adesso lui conosceva a memoria quella nudità, con i capezzoli di un rosa quasi bianco e il sesso nero, denso come i capelli, perfettamente ritagliato. Era una geometria più ampia di quella che avrebbe dovuto esibire quel corpo così leggero. Era talmente fitta e protesa in avanti, la sua peluria, che in mezzo avrebbe potuto nascondervi un piccolo membro. Nel resto del corpo, a parte le sopracciglia, c’era una totale assenza di peli; si erano tutti dati convegno sotto il suo ventre. Quando il tempo di Bolero si concludeva con i due colpi di timpano,
Maria chinava la testa, abbandonava le braccia lungo i fianchi e restava immobile a ricevere gli applausi del teatro. Qualche volta piangeva. Altre volte faceva finta di asciugarsi lacrime che non uscivano. Allora raccoglieva l’asciugamano, e questa volta, come un manto, se lo avvolgeva tutto intorno. Maria abbassava il volume e si accostava a Solinas. Si stendeva sul divano e poggiava la testa sulle gambe di lui. Per la seconda volta, seguendo il desiderio della ragazza, Solinas leggeva le pagine di Dorian Gray. Le sue mani restavano aggrappate al libro, e mai toccavano Maria; la colla della paura le teneva appiccicate alle pagine. Oltre quel limite, Solinas, non sarebbe riuscito ad andare, per pudore,
forse, ma soprattutto perché un appagamento maggiore non sarebbe riuscito a concepirlo; avrebbe potuto scoppiargli il cuore. Gli occhi, però, vagavano anche oltre le righe del libro. Lui leggeva lentamente, memorizzava un bel po’ di parole, e ciò gli consentiva per qualche istante di abbandonare la pagina. Conosceva a memoria un gruppo di nèi sotto il seno destro, e di quell’unico più grande sulla spalla. Con l’abbronzatura quello tendeva a notarsi di meno. ma gli altri, acquartierati all’ombra del seno, avevano preservato il loro nitore come piccole gocce d’inchiostro. Dopo la danza il respiro di Maria pian piano si acquietava. Il palpito dell’asciugamano si distendeva diventando un sudario quasi immobile.
Solinas leggeva, e col pensiero era lui a poggiare la propria testa sulle cosce di Maria. Ne sentiva il profumo della pelle e del pube. Affondava nel morbido prato nero senza essere rifiutato, veniva anzi accarezzato e coccolato dalle mani trasparenti di Maria. L’erezione non l’abbandonava. Ma quel tardo pomeriggio Maria ballò distratta, senza enfasi; perfino fuori tempo. Appena si concluse il Bolero non restò neanche un secondo con la testa china a raccogliere gli applausi. Raccattò svogliatamente l’asciugamano e se lo buttò addosso. Si sedette indecisa su una sedia dando le spalle a Solinas. Guardò fuori dalla finestra l’orizzonte che quel giorno preannunciava toni di rosso
acceso. Lo specchio del mare era immobile, non rifletteva i colori del cielo. Solinas aprì il libro. Lo sollevò quasi davanti al viso. Timidamente scrutava dal bordo della pagina l’imprevisto cambio di programma. Era già cominciato il secondo brano. Lei stava ancora là, dandogli le spalle. Solinas ebbe paura; non quella solita che lo assaliva appena lei gli si accostava. Era paura di non conoscere la profondità della palude che stava attraversando. Finalmente Maria si alzò. Si avvicinò a lui. Tuffò ancor più la testa e lo sguardo sulle pagine aperte. Non poteva notare l’umore distratto di lei, che guardava in basso come per scegliere le mattonelle adatte a poggiare i piedi. Maria si sdraiò, e questa volta non di lato ma a pancia in
su. Solinas avrebbe voluto chiederle se qualcosa, o meglio, cosa non andava. Ma durante l’intera funzione mai era successo che parlasse con parole proprie; solo quelle del libro. La personalità del professore in pensione, Mario Solinas, si prosciugava. Attaccò il nuovo capitolo avvertendo, al di sotto della copertina del libro, gli occhioni aperti di Maria. Lui guardò appena di lato. L’asciugamano copriva la ragazza solo sulle spalle. Le braccia, piegate a tenerne i lembi sotto il collo, coprivano i seni. Il resto era nudo e immobile come un corpo in un obitorio. Il costume da bagno intero aveva protetto il netto contrasto tra il bianco della pancia e il nero del pube. Da vicino, quel
triangolo, appariva in tutta la sua sproporzione rispetto al bacino; troppa era la responsabilità concentrata in quel punto. Le lenti degli occhiali si appannarono. Solinas non aveva però gesti di riserva per prendere un fazzoletto dalla tasca, poggiare il libro e pulirle. Il legno di cui egli era fatto gli permetteva solo di sfogliare la pagina. Trascorsero una decina di minuti. Maria si voltò su un fianco a guardare di fronte la pancia di lui. Con estrema naturalezza prese a sbottonargli i calzoni. La voce di Solinas era ora un disco che si inceppava e si sbloccava. Le asole facilmente abbandonarono i bottoni. Solo l’ultima, che lui non sbottonava mai, era rigida e avvinta attorno al bottone come in
un abbraccio definitivo: creò dei problemi alle sottili dita di Maria. Aperta la strada infilò la mano. Ma subito la ritrasse e aspettò. Guardò dentro come se da un momento all’altro dovesse spuntare qualche animaletto. Non apparve nessuno. Riprese a sondare tra la stoffa dei calzoni e dei mutandoni. Trovata l’apertura di questi sentì i peli e il membro teso, appoggiato su un fianco. Lo sfiorò con la punta delle dita. Poi l’avvolse con la mano a sentirne la consistenza, la forma e il calore. Per un po’ lasciò che fosse l’immaginazione a dargli il colore. Ripensava al gesto del ragazzo di quel pomeriggio. Credeva di averne in testa una nitida fotografia, invece tutto già diventava evanescente. Adesso ricordava il volto accigliato del
ragazzo, la sua bocca imbronciata a culo di gallina, e la rabbia che mostrava nello stringerselo in mano. Con un brusco movimento Maria lo tirò fuori. Restò a guardarlo da pochi centimetri, con un’espressione assorta e distaccata allo stesso tempo. Solinas avrebbe voluto tossire, ma sarebbe stato troppo umano, e aveva paura di trasmettere al pene i colpi concitati della tosse. Maria adesso lo guardava, con uno stupore più confidenziale. Ne seguiva le vene, la superficie irregolare, e tutte le stranezze di cui era fatto. Lo riprese in mano, lo inclinò da una parte e ancora dall’altra. Ci giocava con lo stesso leggero trasporto che ha una bambina col suo bambolotto.
Un picco dell’intera orchestra – la musica a volume basso accompagnava l’intera lettura – convinse Solinas a tossire. Un solo colpo forte liberò la gola. Continuava a tenere il libro davanti. Le mani non erano ferme. Per il colpo di tosse, il pene tremò di vita propria. Maria batté le palpebre e ritrasse la testa. Si fermò ancora qualche secondo a osservarlo, come in attesa. Solinas era inchiodato sulla stessa pagina; di tutte le righe aveva fatto poltiglia, saltandole, rileggendole, cambiandone la punteggiatura. Maria saltò su di colpo facendo schizzare per aria Dorian Gray. Lasciò Solinas con le mani vuote sospese in aria come quelle di un santo. Si coprì con l’asciugamano e andò in camera sua. Lui
restò fermo a guardare davanti a sé. Stava calando il buio; avrebbe dovuto preparare qualcosa per la cena. Appena pronto chiamò Maria. Ripetè l’invito perché il primo gli venne fuori strozzato dal falsetto. Lei non aveva fame; non sarebbe uscita dalla stanza. Solinas mangiò da solo. Fino a mezzanotte restò a prendere il fresco nel cortiletto davanti al mare. Dalla spiaggia arrivavano le grida concitate di ragazzi che giocavano a rincorrersi. Uno di loro si avvicinò trafelato fino al basso muricciolo. La lampadina esterna del cortiletto gli illuminò la faccia spaventata di allegria e il respiro affannato. Restò fermo un secondo, come a lasciarsi fotografare con la bocca aperta. Veloce si
allontanò in un’altra direzione. La luna rotonda colorava il cielo di blu oltremare, facendo scomparire le stelle a lei vicine.
25
D’estate, nella località di Putzu Idu, la messa si faceva solo la domenica. Si allestiva un altare provvisorio sotto gli alberi, a Mandriola, una zona là vicinissima. Anche quella mattina Solinas si recò alla funzione. Lasciò Maria dormire e uscì da solo. Dopo la messa sarebbe andato a Oristano per prendere la signora Sanna. Lo scrisse su un biglietto che lasciò sul tavolo.
Abbandonò il fresco degli alberi e la messa a metà, appena cominciò il sermone. Alle undici era già di ritorno con la signora Sanna. Maria faceva ancora colazione. La madre le si accostò per darle un bacio; lei lo ricevette mostrando maggiore attenzione alle briciole di pane sparse sul tavolo; alcune le aveva composte in fila. «Ho portato la pasta al forno, sei contenta?» «Mm mm…». «Mi sembri un po’ ingrassata… Vero professore?». Lui accennò di sì col capo. «Non le dà un disturbo eccessivo, Maria?», domandò la signora Sanna, mentre Solinas infilava il bastone dentro
la sabbia, e la figlia aveva già messo i piedi in acqua. «No… assolutamente…». «Però bisogna che Maria l’aiuti in qualche faccenda, così non va bene. Bisogna pure che si dia da fare». «Be’, i primi giorni mi ha aiutato a pulire la casa. Adesso, vedremo». Solinas fece cenno di non parlarne più; Maria si avvicinava. «Ti spalmo un po’ di crema?», le chiese la madre. «Sì». Mentre la signora Sanna era intenta nella sua operazione, Solinas, sotto l’ombra, avvertì su di sé uno sguardo proveniente da un ombrellone accanto. Uno sguardo fisso, insistente. «Mario Solinas!».
Lui si voltò e riconobbe un fastidio: «Oh! Anche tu qui!». «Questa volta ti sei ricordato subito, eh?» «Eh sì… Gesuino Poddighe». L’uomo si alzò, e con la mano tesa si accostò a Solinas: «Be’, come andiamo…?», disse. «La tua famiglia?» «…N-no, amici». «Signora, piacere». Attraversò l’ombra e porse la mano. «Gesuino Poddighe». «Piacere, Caterina Sanna». «Eee…», osservava le spalle di Maria. «Lei è mia figlia». Maria si voltò: «Buongiorno». «Un po’ di crema eh? Con questo sole…».
«Eh sì», rispose la signora Sanna, cercando di non badare all’antipatia di quell’uomo. Gesuino Poddighe lasciò per un po' indecisa la sua faccia da attaccabottone: «Posso…?», e si sedette accanto a Solinas. «Se non sbaglio tu hai una casa, qui». «Sì». «E anche da molti anni, vero? Mi ricordo che, già prima che io partissi per la Germania…». «Saranno quasi quarant’anni». «Eh cazzo…», si mise la mano davanti alla bocca e guardò la signora Sanna. «Volevo dire che… accidenti come è passato il tempo! Ma ti ricordi quando andavamo al fiume, eh? Senza pensieri eravamo allora».
«Già…», fece Solinas, evitando di guardare qualcosa di preciso. «Vedi se mi trovi una casa anche a me. Qualche occasione. Adesso che ho i soldi me la voglio proprio comprare una casa al mare». «Se mi capita di sentire qualcosa ti informo». Gesuino Poddighe fissò un ombrellone accanto al loro: «Quella è mia moglie», disse indicando una donna sdraiata; stava afflosciata su se stessa come se ogni parte del suo corpo venisse calamitata verso il basso. Offriva un viso tutt’altro che femminile. «Ah! Eccolo! Grazianooo! È mio figlio. Me l’ha detto che sarebbe venuto anche lui a Putzu Idu. Grazianooo!!». Da un gruppo di ragazzi che giungeva
in spiaggia, si avvicinò un giovane abbronzato. «Graziano, ti presento il professor Mario Solinas, un mio vecchio amico». «Piacere». «Piacere». Guardando Gesuino Poddighe e la moglie, sembrava impossibile che avessero potuto generare un figlio simile. Di statura media, proporzionato, con una muscolatura poco accennata ma ben disegnata, spandeva dal suo sguardo verde chiaro una luce timida. Solinas cercava almeno un segno di congiunzione tra quel ragazzo e i suoi genitori. Niente. Forse i ricci neri richiamavano quelli grigi rimasti sopra le orecchie e attorno al collo del padre. Ma era proprio un arrampicarsi sugli specchi. Il viso di
Graziano, scolpito con decisione, nascondeva un che di delicato, come anche le mani, lunghe e grandi. Il padre lo presentò anche alle due donne. «Be’, che fai… Stai un po’ con noi?», domandò perentorio, vedendolo indeciso. Nonostante il disagio che gli provocava il padre, Graziano si sedette sulla sabbia, puntellandosi su un braccio. «Hai visto Solinas, che figlio? Peccato che è tutto strano». «Perché strano?», chiese Solinas, sorridendo a Graziano. «Perché fa di quelle cose che non gli faranno mai guadagnare una lira… Dài, parla tu, no?!». «Ma su, smettila…», disse Graziano, voltandosi a sbuffare sulla propria spalla.
Maria si girò faccia al sole. La signora Sanna riprese a spalmarle la crema, ma lei trovò il modo di sbirciare Graziano furtivamente, inchinandosi a stendere da sé la protezione sulle estremità delle gambe. Anche lui, di sfuggita, le aprì il suo sguardo marino. «Sai, gli piacciono i libri, la musica… tutte cose così». Maria si sdraiò. Graziano non ascoltava il padre. «Che musica ti piace?», chiese Solinas. «Il rock». «Be’, questo è normale. Certo, però, è una rarità che un ragazzo legga… Cosa ti piace leggere?» «Ma dài, Solinas, non sostenerlo. Cosa vuoi che gli diano i libri. Soldi
buttati al vento!». Maria si alzò e velocemente andò sulla battigia. Vi sostò un attimo, poi si tuffò in mare. Tornò all’ombrellone argentata dall’acqua. Si sedette sull’asciugamano e incrociò nuovamente lo sguardo nero con quello riservato di Graziano. «Almeno avesse continuato l’università. Prima o poi un posto l’avrebbe anche trovato, invece di mettersi pure a fare il cantante, adesso, vero?». Fu solo un attimo, ma l’incrocio secco di quegli sguardi, Solinas lo vide. E pensare che solo qualche giorno prima si sentiva addirittura felice per aver perso appena un paio di chili e, rimirandosi allo specchio con gli occhiali da sole, gli era
sembrato perfino di aver accorciato di qualche metro la chilometrica distanza tra la sua età e quella di Maria. Il devastante confronto con Graziano sbriciolava ogni illusione. La signora Sanna si era distesa. Anche Maria si sdraiò, per offrirsi più comodamente allo sguardo di Graziano, che dopo qualche minuto si alzò e salutò. Maria sollevò la testa e fece appena un cenno con la mano. Lui si allontanò mostrando le sue eleganti spalle. Maria, con la coda dell’occhio, seguì tutta la camminata. A tarda notte Solinas e Maria accompagnarono la signora Sanna a Oristano. «Mi dispiace signora. Quel Gesuino ci ha rovinato tutto il pomeriggio di mare.
Che invadente!». «Proprio maleducato». «Non è cambiato per niente; è rimasto com’era da giovane». Rientrati a Putzu Idu, Solinas diede la buonanotte a Maria e si sedette fuori al fresco. Aveva molte cose a cui pensare e che gli toglievano il sonno. Nel giro di pochi giorni anche Antonio si sarebbe trasferito lì. Tutto sarebbe diventato più complicato e, se pure non fosse venuto il fratello, prima o poi qualcuno avrebbe interrotto il suo sogno. Sentì un pianto contratto e penoso nascergli dentro. Come in un miraggio sonoro udiva le malinconiche note del Bolero venire a fargli compagnia, a ricordargli i pomeriggi solitari con Maria. La musica divenne pian piano più forte. La ragazza
aveva aperto la veranda affacciandosi nel cortiletto. Solinas raggelò di felicità. «Co-come mai no-non stai dormen…?» «Si vede oggi la luna?… Oh sì! Una piccola fetta!». Maria era ancora vestita. Si sedette su una poltroncina di plastica e rivolse il viso alle stelle. Solinas avrebbe anche voluto parlare, ma sentiva che la soggezione annullava ogni suo pensiero prima ancora di arrivare alla gola. Lentamente il silenzio divenne denso, occupò tutto lo spazio tra lui e la ragazza. Maria reclinò la testa sulla spalla e si addormentò. Solinas entrò in casa, prese una coperta, gliela avvolse attorno con estrema delicatezza e, incastrandola dietro
la spalliera, la tirò verso il basso fino a coprirle i piedi.
26
I piedi scalzi di Maria ballavano sull’asciugamano bianco scivolato a terra. “È tutto come prima, è tutto come prima”, si ripeteva Solinas. Da qualche giorno non aveva più pensato a Graziano. Il sogno presente bisognava viverlo fino in fondo, fino al risveglio. Le caviglie sottili e le cosce affusolate di Maria erano un delicato sospiro. La sua danza ormai era diventata originale come l’opera di un’artista. E, se qualche
disegno nell’aria o qualche scatto del bacino, a volte non erano proprio in armonia, ci pensavano gli occhi di Solinas a trovare la perfezione e il sublime in qualunque imperfezione. Ma per quanto potessero fare, quegli occhi non riuscirono a rammendare lo squarcio provocato dal volto di Letizia Flores che apparve dietro i vetri della veranda, scorgendo la nudità di Maria. A destra della ballerina il volto di Letizia Flores, a sinistra, in un perfetto pendant, quello del figlio. Tutt’e due avevano la faccia ferma e contratta dei morti, consapevoli della loro fine. Solinas bisbigliò qualcosa, “Dio Santo”, “Madonna mia”. Lui stesso non sarebbe mai stato in grado di ricordare quel suo farfuglio agonizzante, rivolto ai
santi nel momento in cui nulla avrebbero potuto fare per aiutarlo. Con gli occhi socchiusi Maria continuava a danzare, dando ora le spalle ora il petto agli altri due spettatori non paganti. Probabilmente avevano anche suonato il campanello, ma con la musica nessuno li aveva uditi. I due avevano visto l’auto di Solinas davanti alla casa, e sentito la musica provenire dall’interno. Letizia Flores già pregustava la sorpresa di un’improvvisata, dopo aver mandato giù, per qualche settimana, il boccone amaro di un’inspiegabile sparizione. Negli ultimi giorni era diventata addirittura furiosa. Tutto il suo orgoglio e la sua posizione con tanta fatica conquistati, minati miseramente dal professor Mario Solinas, che si presenta a
casa sua per chiederla in sposa – per che altro se no? – e poi la abbandona a se stessa. In quei giorni la vedova si consumò per individuare cosa e dove avesse sbagliato. Aveva dato il meglio di sé, ne era convinta. Si era sbilanciata anche troppo. Si era offerta a braccia aperte, si può dire. Eppure qualcosa non aveva funzionato. Forse avrebbe dovuto mostrare di più le gambe? Non avrebbe certo potuto escogitare infallibili sistemi come quelli creati ad arte in gioventù. Quando andava a dormire si ripeteva che ormai non era più la stessa, che se fosse stata ancora povera e ambiziosa, davvero ambiziosa, si sarebbe spinta fino al punto di prendergli la testa e ficcargliela sotto la gonna.
Dietro il vetro, incrociando lo spavento di Solinas, tra una movenza e l’altra di Maria, adesso capiva tutto. Ecco dove aveva sbagliato con Solinas; non gli aveva mostrato neanche un po’ di interesse per l’arte, per la musica. Ma quelli erano argomenti a lei sconosciuti. La musica che sentiva adesso, per esempio, che le pareva una marcia funebre, di chi era? Che titolo aveva? Lei avrebbe potuto dire solo che le sembrava triste. Solo questo. Ma molto più triste la faceva diventare il culetto di Maria, piccolo e alto. Continuando a conservare una faccia da morta, Letizia Flores si ritrovò a spostare la sua mano sinistra leggermente indietro. Lei non stava pensando di toccarsi; era la mano, che di sua
iniziativa, si muoveva a cercare patetici confronti. Adesso, senza l’ingombro di Maria, la donna puntava diritta lo sguardo di Solinas che, come un automa, s’era alzato dal divano e le veniva incontro. E pensare che si era presentata lì per invitarlo a cena il giorno dopo. D’altronde Solinas non aveva il telefono al mare e non c’era altra possibilità per farglielo sapere. Aveva programmato una cena luculliana, piccante e saporita. Appena il figlio se ne fosse andato, avrebbe dato il via al suo repertorio seduttivo. Anche Stefano continuava a restare come mummificato nell’aria salmastra di Putzu Idu; ma per tutt’altro motivo. Qualcosa gli era diventato duro da scoppiare, come mai gli era capitato quando si masturbava.
«Maria… per favore, Maria…!». Gridò a quel punto Solinas. Lei aprì gli occhi, sbigottita, seminando una scia d’affanno. «Scusami Maria. Per favore, copriti. Ci-ci, stanno guardando…». Maria si voltò. Il sole aveva cominciato la discesa, creando perfino un bel controluce sulle due figure là fuori. Proprio per il sole non erano mai state tirate le tende; per gustarsi la danza con la scenografia del tramonto. Da dietro il vetro Letizia Flores vide la bocca di Solinas che si muoveva. Non poté capire che diceva: «Non è come pensi… non è come pensi». E Solinas, da dentro, vide la bocca di lei che si inclinava, ma non poté capire che stava dicendo: «Sei un… sei un… un vigliacco,
sei!». Letizia Flores non sentiva ancora la bocca di lui che si commuoveva e diceva: «Ti prego, lascia che ti spieghi. Non è come pensi, non è come pensi». E Solinas vide che quella di lei, oltre all’inclinazione, aveva preso a tremare, ma non ne udiva le parole: «Sei un, un, un grande disonesto!». Lui provò a dire qualcosa, mentre mancavano solo un paio di metri a raggiungere la veranda. «Scusami se non ti ho telefonato», disse, senza che lei lo sentisse. «Io, io, io mi sono comportata onestamente… e tu, tu, tu mi hai offeso!», gridò, senza che lui la sentisse. Maria si era coperta con l’asciugamano. Prima di scappare nella sua stanza cercò di spegnere l’impianto. Ma nella frenesia aumentò il volume,
dando alla musica un picco altissimo che raggiunse la distorsione. Sembrava che tutta la casa e l’intero paesino fosserro risucchiati in un istante da una tromba d’aria. Con le dita tremanti riuscì infine a spegnerlo. Mentre scappava lasciò a Stefano l’ultima immagine di sé che, come un timbro, gli si era stampata sulla fronte, e per chissà quanto tempo non l’avrebbe abbandonato. Solinas raggiunse la veranda. Prima di aprirla credette che il cuore gli avrebbe ceduto. Appena la socchiuse lo investì la tensione febbricitante di Letizia Flores, travolgendo lui e la balbuzie che ormai lo dominava. La vedova gli vomitò addosso tutto ciò che gli aveva urlato da dietro il vetro. Il suo volto si era contratto e scavato. Gli occhi, pesantemente truccati,
incenerivano l’aria. Il nasino, da solo, non ce la faceva a umanizzare quel volto. Dopo il primo impatto, Solinas si avvicinò di nuovo a lei con le mani protese in avanti. Ma appena le fu vicino, sentì, senza vederlo, uno schiaffo, tanto forte da fargli volare via gli occhiali. Lì per lì non sentì dolore, ma lo percepì subito dopo; inondava la guancia come fosse stata bruciata da una fiamma ossidrica. Non fece in tempo ad abituarsi al dolore, che gli arrivò un altro schiaffo sull’altra guancia. Con le mani sulla faccia, Solinas non ebbe il coraggio di reagire. Soccombeva miseramente in quella situazione pietosa. Letizia Flores aveva la ragione dalla sua parte. La donna gli lanciò ancora degli improperi. Solinas captò bene solo,
«Puttaniere! Con una ragazzina!». Poi, avvolta in un pianto scrosciante, si allontanò a grandi passi. Stefano era rimasto immobile. Senza essere distratto dalla sceneggiata della madre, fissava, assente da tutto, l’interno del salotto; continuava a vedere il fantasma di Maria. I braccialetti al polso non avevano provocato il minimo tintinnio. La madre tornò indietro e, presolo per un braccio, lo trascinò a forza. «Andiamocene via!! Cretino!», gli urlò piangendo. Lui seguì la madre controvoglia, con un’erezione ancora visibile, difficile da nascondere sotto i larghi calzoni. «Puttaniere!!», si udì ancora, quando scomparvero dalla vista di Solinas. Gli occhiali, il professore, li trovò
dietro una poltrona. Una lente era intatta, l’altra sbriciolata. La montatura avrebbe avuto bisogno di un buon controllo.
27
Il dieci agosto a Mandriola si festeggiava San Lorenzo. Putzu Idu invece non aveva un patrono. Quel giorno, sul palco si esibiva un gruppo rock. Il giorno precedente avevano danzato diversi gruppi folcloristici, davanti a un pubblico piuttosto scarso; poche famiglie e qualche turista. I giovani non erano per niente attratti dai balli tradizionali. Eppure, le belle ragazze in costume sardo riccamente istoriato, che lasciava scoperto solo il
viso, le mani, i piedi e un generoso décolleté, possedevano un’autentica sensualità, sottomessa dal vestito e concentrata sugli occhi e sulla bocca. Anche le meno belle acquistavano in delicatezza; gli sguardi dei più raffinati ne coglievano anche qualcosa di proibito. Il gruppo rock attaccò il primo pezzo. Il pubblico, giovane, era numeroso. Solinas accompagnò Maria al concerto. I due si erano fermati lontani dal palco. Solinas capì subito a cosa era dovuto quel senso di disagio che lo aveva colto appena arrivati nella piazzetta; il cantante del complesso era Graziano Poddighe. Cantava e si muoveva sentendosi proprio a suo agio. A giudicare dalle mani alzate dei ragazzi prossimi al palco, era anche popolare. Da quella
distanza si perdevano molti particolari. «Andiamo più vicino?», chiese Maria, accostandosi all’orecchio di Solinas. «Ma c’è troppa gente… qui stiamo più tranquilli». «Su, andiamo più vicino». Solinas si ritrovò a pochi metri dal palco, proprio in mezzo all’eccitazione di quei ragazzi. Lui avrebbe voluto spostarsi, lei però insisteva per restare là, e non voleva essere lasciata sola. I ragazzi erano esagitati, Maria restava ferma fissando Graziano. Quando lui la riconobbe tra il pubblico, non le tolse gli occhi di dosso per un solo attimo. Ogni gesto del suo corpo era indirizzato alla ragazza, e lei riceveva tutte quelle attenzioni senza manifestare emozioni, nemmeno un sorriso. Graziano enfatizzava
la sua scena; consumava tutto il suo carisma regalandolo solo a Maria. Una gelida malinconia avvolse il cuore di Solinas. Gli era fin troppo chiaro che Graziano stava usando le sue migliori armi di conquista e, se anche il profilo di Maria mostrava di non essere minimamente toccato da quelle avance, lo sentiva bene, Solinas, tutto il subbuglio dentro di lei. Graziano guardava l’impassibilità di Maria; era sicuro che lei fosse l’unica ad accorgersi delle stonature. S’innervosì perché non riusciva a dare il meglio di sé. Gli si accostò il chitarrista. «Stai calmo, che c’hai?! Fregatene, no!?», gli urlò vicino all’orecchio. Il concerto andò avanti così, con Maria pietrificata, Graziano sudato che si
dannava, i ragazzi che gridavano e Solinas che cambiava il punto d’appoggio sulle anche, e parava gli spintoni dei più esagitati. Aveva la schiena a pezzi. «Maria, andiamo…?», la pregò, dopo l’ultimo brano, mentre tutti già sciamavano via. Stavano allontanandosi dal palco, quando Maria sentì una mano sulla spalla. Si voltò. «Stai… state andando via? Ti ricordi di me?» «Certo, non sei Graziano?» «E tu sei Maria e lei…». «Mario Solinas…». «Professor Solinas, certo. Be’, Maria, ti è piaciuto?» «Non è il tipo di musica che preferisco».
«Anche io preferisco altra musica». Si asciugò il viso con l’asciugamano che aveva al collo. «Per guadagnare facciamo quello che piace alla gente». Maria prese la mano di Solinas. «Però cerchiamo almeno… facciamo il possibile per suonare bene, anche se, proprio oggi…». «Bene, adesso andiamo», fece Solinas. «E complimenti. Arrivederci». «Scusami se… vorrei… Se ci incontriamo ancora ti farò conoscere i gruppi che…». «Adesso andiamo. Ciao Graziano». «I gruppi che mi piacciono». «Va bene». «…E quando?» «Non lo so…». «Domani?»
«Non lo so». «Dopodomani?» «…Forse». Solinas gli voltò le spalle, garbatamente tirò a sé Maria e affrettò il passo. «E dove?!…». Il giorno successivo, in spiaggia, Maria non si sdraiò sull’asciugamano, vi restò seduta tutto il tempo, sondando come un radar l’arenile e i suoi abitanti. Non parlò e Solinas fece altrettanto. Nel tardo pomeriggio, svogliata, danzò per poco, e si sdraiò sulle gambe di Solinas, che a fatica si mise a leggere; non riusciva a concentrarsi. Voleva comunicare con Maria attraverso parole sue, senza il tramite della lettura.
Dopo aver letto due pagine, nel momento in cui lei, con la stessa noncurante curiosità, prese a sbottonargli i calzoni, per la prima volta interruppe la lettura. «Maria… oggi ti ho sentita un po’ assente». Lei, irritata, di botto con un rapido scatto schizzò in piedi. «Non devi parlare. Perché hai interrotto il gioco?» «…?» «Non vuoi più giocare?» «…?». Così dicendo, senza raccogliere l’asciugamano, nuda com’era, si diresse verso la sua stanza e chiuse la porta.
28
«Due ai ricci di mare, e… come la vuole tuo zio?» «Non è mio zio. Alla margherita». «Da bere? Cosa gradite?» «Per me una birra. Per te?» «Acqua minerale, naturale». «E tuo…». «Acqua anche per Mario». «Bene». La giovane cameriera tolse dal tavolo le braccia sulle quali si era appoggiata. Invano aveva cercato di
attirare l’attenzione di Graziano. Quel “bene” lo pronunciò con una certa stizza per i suoi sforzi andati a vuoto. Era abituata a ben altro con gli uomini, a vederli sfregarsi i gomiti a vicenda. Traeva da quegli scompigli la massima soddisfazione per quel lavoro che, altrimenti, avrebbe fatto ancora più svogliatamente. «Ma non è per niente un tuo parente?» «No». «Perché allora esci sempre insieme a lui?» «Perché… non si può?». Solinas tornò dalla toilette. Prese posto al tavolo diffondendo dalle mani il pungente odore di menta del sapone liquido. «Avete già ordinato?»
«Sì», rispose Maria, che si vide coprire la manina da quella di Solinas. La sfilò, e poggiando il gomito sul tavolo se la mise sotto il mento. «Ai ricci…?» «Per noi, grazie». «E a lei la margherita. Buon appetito». Le pizze debordavano dal piatto e, già alla vista, compensavano gli occhi dei clienti che al tavolo avevano poco da dirsi, e si avventuravano a scrutare i quadri da pizzeria. «Com’è ai ricci, buona?», chiese Solinas. «Sì», fece lei. «…Mmm», fece lui. «Anche la mia non è male. Tu, Graziano, riesci a vivere suonando?»
«Mmm… poco. E poi si lavora solo d’estate». «Capisco…», disse Solinas, sentendo tutta la noia che provocava in Graziano la sua presenza. Seguì un mutismo interminabile. Nonostante il brusio intorno fosse incessante, sostenuto anche da una musichetta italiana di terz’ordine, sembrava che a quel tavolo, il denso silenzio non potesse essere contaminato da nessuna interferenza. «Ti, ti piace la musica classica?», chiese quindi Solinas, nell’ultimo quarto di pizza. «Non tutta. Ma quel poco che conosco mi piace moltissimo». «Ah sì? Per esempio?» «Be’, non so, i titoli non me li ricordo». Graziano ingoiò l’ultimo
triangolino di pizza togliendo a Solinas l’illusione di aver trovato un terreno di discussione. «Vuoi assaggiare un po’ di questa?», chiese Maria a Solinas. «Grazie, no», rispose lui, che intanto non riusciva a trascurare lo sguardo fintamente distratto ma insistente, che adesso Graziano posava su Maria. «No! Maria, ti ho detto che non…». «Dài, assaggiala», insisté lei, lasciandogli sul piatto una metà abbondante della sua pizza. In un tavolo accanto ci fu di colpo una risata incontrollata che contagiò i quattro turisti tedeschi che là sedevano. Erano due giovani coppie. Dall’abbigliamento in pelle aderente, rossa e nera, si poteva percepire anche la presenza delle potenti
moto parcheggiate fuori. Per essere tedeschi non erano alti. Le due donne avevano il viso delicato e lo sguardo celeste, duro. I loro compagni, lineamenti intagliati e lo sguardo celeste, ma mite, circondato da tanto biondo di sopracciglia e capelli. «Conosci i Portishead?», chiese Graziano, nell’intento di far sollevare lo sguardo di Maria su di sé. «No», rispose lei, guardando nel piatto. «Allora devi assolutamente conoscerli! O per caso ti piace la disco e basta?» «Quella che si balla in discoteca? No, non mi piace». Graziano si scaldò: «Oh! Allora sono sicuro che tu impazzirai per i Portishead».
Solinas poggiò la mano su quella di lei: «Maria ha dei gusti raffinati, sai. Chi sono questi Porti…». Ancora una volta Maria sfilò la mano. «È il mio gruppo preferito. Dovresti sentire, Maria, che voce ha la cantante, delicata e dolce. Tocca note così piene di sentimento che commuovono. Quando poi viene filtrata attraverso un harmonizer o un delay, sembra che arrivi da chissà quale pianeta, e ti buca il cuore». Maria aveva finalmente sollevato lo sguardo dal piatto, e l’aveva inchiodato su quel volto animato dalla passione. Anche Solinas ne fu incantato. «È come un angelo che vola coperto di tristezza per ciò che vede sotto. Il basso segue sempre una linea semplice, rotonda, e non solo accompagna, ma le
sue note sono già una melodia. Vedrai, Maria, domani ti porto il CD e… la chitarra… è quasi anni sessanta, ma allo stesso tempo sporca il proprio tessuto; lo raschia, lo scava…». Il nero sguardo di Maria era sottomesso al lampeggiare marino degli occhi di Graziano. Non batteva le ciglia. «Sentirai la batteria com’è semplice, quasi infantile, avvolta da un fruscio che ricorda registrazioni vecchie di cent’anni». Sorseggiò la birra. «Io voglio suonare questa musica, ma qua in Sardegna… Un giorno me ne andrò via». «Te ne vuoi andare?», chiese Solinas. «Questo è poco ma sicuro. Non subito, ma prima o poi lo farò». «Ho tutti i loro CD. Anche uno registrato dal vivo con l’orchestra, pensa
un po’, con l’orchestra a New York. Un capolavoro. Peccato che qui non li conosca nessuno». «Hai incuriosito anche me», fece Solinas, «sentiamoli, questi PoPortise…». «Portishead. Maria, domani ti porto i CD». «Sì», rispose lei, perdendo l’appoggio sul gomito scivolato fuori dal bordo del tavolo. «Desiderate altro?», chiese la cameriera. Questa volta aveva indirizzato la scollatura verso Solinas. Ma neanche lui fece caso a quel décolleté, impegnato com’era a osservare, impotente, la tattica di avvicinamento di Graziano. «Per me niente, grazie. Voi ragazzi, un gelato…».
«Sì, un gelato», rispose Maria. «Anche per me», fece Graziano. «…Mmm, bene». E si allontanò guardando di sfuggita la scollatura, come rimproverandosi per l’insuccesso. Accanto a loro, i figli di una coppia sardo-tedesca, rimasti soli, cominciarono a darsi gomitate e a scherzare con le posate. Una forchetta schizzò sotto il tavolo di Solinas. La ragazzina scese dalla sedia e si abbassò per prenderla. Maria mise il suo piede sopra la forchetta. La ragazzina restò per un po’ sotto il tavolo, armeggiando nel tentativo di sfilare la posata. Poi abbandonò l’impresa piuttosto indispettita. Si sedette al suo tavolo e lanciò un’occhiata storta a Maria, che non poté trattenere oltre una squillante risata.
La cameriera arrivò con i gelati e con un’aria sconfitta. Maria prese la sua coppa e andò a sedersi al tavolo dei due ragazzini. «Scusami, stavo scherzando. Parli italiano?» «Sì», rispose con piglio deciso la ragazzina. «Ti offro questo gelato». «…». Conservava ancora l’aria offesa, guardando davanti a sé. «Come ti chiami?» «Vanessa». «Dài Vanessa, accetta questo gelato». Vanessa guardò il fratello. Contemporaneamente coprirono una risatina con le mani. Lei cominciò a mangiare il gelato. Ne lasciò una pallina
intera che passò al fratello. «E tu, come ti chiami?», chiese. «Maria». Solinas osservava tutti quei piccoli avvenimenti, e sentiva che l’amore già smisurato che aveva dentro gli si gonfiava fino a provocargli dolore. «…Mmm, sei sarda?», domandò Vanessa. «Sì. E tu?» «Anche io… mia madre però è tedesca». Così vicine sembravano due sorelle. Anche lo sguardo era simile. La loro madre si voltò e vide i figli in buona compagnia. Scambiò un sorriso con Maria. Graziano e Solinas si sentirono soli, senza niente da dirsi. Solinas provò anche
a biascicare qualcosa: «I Portisc… sono america…». «Inglesi». Dal tavolo dei tedeschi tutti si alzarono. Dopo le strette di mano i genitori tornarono dai propri figli. «Avete ringraziato per il gelato?», si accertò il padre. «Su, Francesco, Vanessa, andiamo… Grazie signorina». Uscirono dalla pizzeria rivolgendo un saluto anche al tavolo di Solinas. Maria tornò al suo posto. «E così oggi saresti andato a letto presto eh…?». Graziano sentì la voce alle sue spalle. Il suo sguardo si fece sconsolato. «Potevi anche dirmelo che avevi un altro impegno». Erano parole che uscivano raschiando l’aria.
«Scusami. È che, all’ultimo…». «All’ultimo…?», incalzò la ragazza bionda, che gli si mise di fianco. Lo guardava furiosa. Il collo e tutto il corpo erano rigidi in attesa di una risposta. Era alta, gelida e bella. «All’ultimo ho deciso di uscire e… sapevo che non ti avrei più trovata». «Eppure hanno inventato il telefono». «Sì, sì… ti prego adesso, non… loro sono miei amici». La ragazza sorrise freddamente a Solinas e ancor più a Maria. Quindi gonfiò le narici del suo delicato nasino. «Di’ la verità, che avevi di meglio da fare… Questa me la paghi!». Uscì dal locale diffondendo una scia di profumo. «…Mi dispiace. È la mia ragazza».
«Capisco», disse Solinas imbarazzato. «Potevi invitare anche lei, se volevi». «No! Per carità. Dopo avrei dovuto portarla in discoteca». Seguì un minuto di silenzio interrotto dall’arrivo del conto. «Cos’è un harmonizer? O, cos’era quell’altro…?», chiese Maria, appena si ritrovarono sulla passeggiata. «L’harmonizer è un… aggeggio elettronico che collegato al microfono, lo dice la parola stessa, armonizza su diverse… Lascia stare, è un po’ complicato. Anche il delay serve per alterare il timbro di uno strumento o anche della voce». «Harmonizer…». Maria fece una pausa, e il brusio della gente prese il sopravvento. «…Io sono una ballerina».
29
La casa di Graziano era situata all’uscita di Riola. La villetta pareva un bunker con le linee appesantite dal cemento usato senza economia. I balconi avevano robusti mezzi muri, ottimi ripari per postazioni di mitraglie. Il colore bianco e rosa non riusciva ad addolcire la pesantezza della struttura. Era la tipica casa di chi ha fatto i soldi “fuori”, soldi sudati duramente. Rientrando in Sardegna tutto quel sudore si sarebbe dovuto
trasformare in senso di potenza e di benessere, senza andare troppo per il sottile. Alcuni particolari non erano ancora ultimati, e non lo sarebbero stati in eterno; stupidaggini che non davano nell’occhio e che da lontano nessuno avrebbe potuto notare. Il tetto, che proteggeva una mansarda, era fortemente spiovente, in modo tale da far scivolare giù i due centimetri di neve che sarebbero caduti una volta ogni vent’anni. La Germania era lontana, ma quel tetto voleva ricordare una ricca nazione di lavoratori. «Ti prego, non badare alla casa. È mio padre che l’ha voluta così. A me fa schifo», disse Graziano, cercando di mettere Maria a proprio agio. «Stai tranquilla, te l’ho promesso; ti faccio
conoscere le mie sorelline e andiamo via». Nello spazio antistante la villetta c’era il lavatoio, che dieci anni prima era stato restaurato. La costruzione elegante, nonostante le dimensioni modeste, suggeriva imponenza. Tre archi correvano sui lati lunghi. Uno solo nei lati corti. Fortunatamente per Riola, quella costruzione era stata salvata. Non come nella maggior parte dei paesi in Sardegna, dove i lavatoi vennero demoliti non appena furono ritenuti inutili. Eppure erano stati un luogo sacro, dove avveniva la fusione della piccola comunità. Nella stessa acqua si mischiavano le sporcizie di tutti, e dalla stessa acqua si alzavano pulite le intimità di tutti. Graziano e Maria attraversarono i
pochi metri di quello che sarebbe dovuto diventare il giardino. Adesso vi dominavano avanzi di piastrelle, ammassate vicino a blocchetti di cemento e spezzoni di tubi per l’acqua; in mezzo vi cresceva l’ortica e chissà per quanti anni ancora vi avrebbe messo radici. Dentro casa stazionava un pesante odore di fritto, fuso con quello del flatting che ricopriva, lucidandoli e soffocandoli, i mobili finto-sardo-rustico. Graziano prese la mano di Maria: «Vieni, saliamo su, ti mostro la mia camera… Stai tranquilla. Di che hai paura?». Più lui cercava di rassicurarla, più Maria si irrigidiva. «Ester! Stefania!», chiamò Graziano in cima alle scale. Dalla loro stanza
uscirono le due sorelline; la più grande, di undici anni e la più piccola, di dieci. Avevano i capelli neri a caschetto, e l’aria furbetta che assumono le ragazzine quando si coprono di vergine malizia. «Lei è Maria». «Ciao». «Ciao!», risposero in coro le sorelline. «Loro non c’è verso di portarle al mare», disse Graziano, «vero?» «A noi il mare non ci piace», rispose Ester, la più grande. «La verità è che non vedono l’ora di starsene da sole senza i genitori», aggiunse il fratello, e loro risero. «Vabbè, adesso tornate a giocare. Vieni Maria». I due entrarono nella camera di Graziano. «Allora!?», le apostrofò rivolto
ai loro sorrisetti. «Siete ancora qui? Filate nella vostra camera, su!», e aspettò che chiudessero la porta. «Sono due pesti, simpatiche, ma due pesti. Siediti dove vuoi, anche sui cuscini», Indicò due grossi cuscini in terra. Maria si sedette su una sedia pieghevole vicina a una scrivania. La stanza era colma di CD incastrati negli scaffali e di pile di riviste musicali. Alle pareti nude, si potevano notare le tracce di tanti buchi e chiodi. «Vuoi che ti porti qualcosa da bere?» «No». «Cosa vuoi ascoltare?» «Non so…». «Ma perché non ti rilassi?» «I Portishead… Ho ascoltato i CD che mi hai portato».
Lui sorrise: «Allora ti sono proprio piaciuti». «Sì», «Anche a tuo zio, se non sbaglio». «Non è mio zio!». «Scusa scusa», sorrise ancora, «al professore». «Lui dice che anche se di questa musica non capisce niente, si vede che sono intelligenti». «Però! Il professor Solinas…». Graziano mise nell’impianto un CD dei Portishead. Aumentò il volume e si sedette sul letto appoggiando le spalle al muro. Maria ascoltava e pareva attentissima, un po’ le piaceva quella musica, e un po’ era intimidita dallo sguardo di Graziano puntato su di lei. Seguirono tre brani, quindi lui si alzò e
abbassò il volume. «La sapresti ballare questa musica?» «Oh no, no». «E dài, fammi vedere come balli. Sei o non sei una ballerina?» «No, no! Non voglio ballare!». «Ho capito, non è un problema… non è un problema». Si sedette nuovamente sul letto. Quando si concluse un altro brano prese un cuscino e lo mise a terra vicino alla sedia di Maria. Vi si accovacciò e, con fare naturale, appoggiò la testa su una coscia di lei. Stettero immobili alcuni minuti; si sentì un rumore dietro la porta. Graziano si levò in piedi sbuffando. «I tuoi genitori!», si allarmò Maria, cedendo quasi al panico. «Per me è tardi. Andiamo via!». «Non sono i miei genitori. So bene io
chi è». Graziano aprì bruscamente la porta, nel momento in cui quella delle sorelline si chiudeva. «Se non la smettete vi faccio vedere io! Capito!?». Maria era in piedi: «Graziano, puoi riportarmi a Putzu Idu?». Lui le prese una mano: «Perché? È ancora presto». Lei non rispose. Graziano le strinse la mano con più trasporto, e le si avvicinò a darle un delicato bacio appena sfiorato sulle labbra. Maria chiuse gli occhi e sentì tremare tutto il corpo. Una vertigine sconosciuta. Quando aprì lo sguardo sfilò la mano da quella di lui. Corse precipitosamente verso la porta. «Va bene, andiamo», si rassegnò Graziano. Prima di scendere le scale, dalla camera delle sorelline si udirono
risatine e tramestio. «Avanti! Venite fuori a salutare!». Le due aprirono la porta e si avvicinarono al fratello recitando malissimo la parte delle bambine a modo. Soffocavano tutta la loro malizia dentro la bocca chiusa che gonfiava leggermente le guanciotte. «Ciao Maria». «Ciao Maria». «Ciao bambine». «Ma non riuscite proprio a stare un po’ tranquille eh!?». Le sgridò Graziano. «Che pesti! Andiamo Maria». Ester e Stefania corsero nella loro camera liberando la risatina che avevano compresso sino a quel momento. Erano le otto. Dal cortiletto Mario
Solinas guardava il mare e aspettava che i ragazzi rientrassero. Pochi metri sopra l’orizzonte il sole si rifletteva sulle ondine trasformandosi in una pentecoste di lumicini arancioni. In tasca, Solinas continuava a toccare una piccola scatola che conteneva un anellino. Lo aveva comprato tre giorni prima, il giorno dopo essere stati in pizzeria con Graziano. Non sapeva neanche lui perché era stato colto dalla frenesia di andare a Oristano e fare quell’acquisto. L’anellino era d’oro, semplice, con un piccolo corallo. Pensava forse di farsi avanti prima che Graziano o qualcun altro lo facesse? Aveva per caso immaginato di consegnarlo a Maria dicendole, per esempio, “È per dimostrarti quanto ti voglio bene”, oppure, “È solo un piccolo pensiero,
niente di…”, o, addirittura, “È per esprimerti il mio amore”. Amore! Ma allora era proprio impazzito, si diceva. La testa gli scoppiava. Pensava a Graziano. Cosa avrebbe fatto al suo fiorellino? Fin dove si sarebbe spinto? E Maria? Gli avrebbe confidato le cose inenarrabili che faceva con lui? “No! Questo non lo farà mai! Ne sono sicuro! Sicuro!”. Si lasciò andare sulla sedia di plastica stritolando l’astuccetto dentro la tasca dei calzoni. Forse glielo avrebbe dato per il suo compleanno, il trentuno agosto. Sarebbe stata un’occasione ammantata da un regolare alibi. I lumicini del mare gli creavano sugli occhi umidi un velo iridescente che lo ipnotizzava. «Professor Solinas, ma che
fa?», gli diceva dal primo banco Francesco, alzatosi in piedi. «Proprio da lei non ce l’aspettavamo!». «Complimenti», ribatteva Tonino, dal banco dietro. «E dovremmo ancora darle tutta la fiducia che credevamo si meritasse? Professore, andiamo…!». «Vorrebbe per caso guardare anche dentro la mia gonna, professor Solinas?», aggiungeva Antonella, dal primo banco della fila accanto, «Allora? E guardi pure! Tanto lo sappiamo che sta pensando solo a questo! Ah! Ah! Vuole che mi levi anche le mutandine? Eh? Su, dica professore!». «No! Che fai!? Lascia stare! Che fai! Per favore! Per favore!». «Come per favore. Se non vede l’ora! Ah! Ah!». Antonella aprì di più le gambe e si spostò le mutandine. «Come le sembra professor
Solinas? Le piace?». In tutta l’aula le risate dei ragazzi salivano stridendo tra le pareti. «Che ne dice? Ne parliamo al preside? Sì sì, al preside! Al-pre-si-de! Al-pre-si-de!». I lumicini pentecostali ora bruciavano sugli occhi di Solinas e il sudore che colava dalla fronte faceva scivolare gli occhiali sulla punta del naso, lasciando senza protezione la sua miopia che tutto confondeva. Il sole adesso toccava l’orizzonte; lanciava sul mare una lingua di fuoco che arrivava a lambirgli il cuore e piano piano glielo bruciava. «Mario! Ma che… sei tutto sudato!». «Oh, scusate…». Solinas si tirò su gli occhiali, raddrizzò la schiena e si passò una mano sulla fronte. «Non, non vi ho
sentiti». «Buona sera professore», fece Graziano. «Ma sta bene?» «Sì sì… benissimo», forzò un sorriso. «Avete fatto una bella passeggiata?» «Sì. Siamo stati anche a casa sua. Ho conosciuto le sorelline». «Ah sì? Le sorelle…». «Io adesso vado», disse Graziano. «Allora, Maria, ci vediamo più tardi?» «…Sì».
30
Quella sera Solinas preparò una frittata con le zucchine e una variegata insalata. Per tutto il tempo ascoltò Maria che raccontava della casa di Graziano, delle sue sorelline, della musica che avevano ascoltato, del fiume, di Riola e del lavatoio. Sembrava avesse fatto chissà quale gita turistica, tutto era narrato con enfasi e allegria. Solinas commento solo con qualche “Bene”, “ah sì?”. Solo verso le dieci e mezza, quando da un momento
all’altro si aspettava l’arrivo di Graziano, Solinas si schiarì la voce e chiese: «Allora, Graziano si è comportato bene?» «Che significa?» «No, dico… se non ti ha dato fastidio». «Fastidio…?» «Insomma, non ti ha messo le mani… addosso?» «Addosso? Perché?» «No, così». «Non ti capisco. Graziano è bravo, anche come cantante è bravo». «Sì sì… Dicevo solo se…». Suonò il campanello. Maria si alzò di scatto e andò ad aprire. Graziano disse che l’avrebbe aspettata là fuori. Lei si preparò, e velocemente tornò in cucina per dare un bacio sulla fronte a Solinas.
Il professore restò col viso leggermente rivolto verso l’alto, nella stessa posizione in cui si era offerto per ricevere il bacio. Alle undici e mezzo uscì. Si mischiò a tutta la gente che riempiva la passeggiata sul mare e tutte le viuzze interne di Putzu Idu. Le serate di agosto erano più fresche di quelle di luglio, si poteva respirare senza più sentirsi l’alone di sudore sotto le ascelle. Non c’era modo di trovare nei chioschi all’aperto un tavolino libero. Solinas si aggirava tra famiglie e gruppi di ragazzi. Aveva la testa piena di Maria, si ritrovava a cercarla tra la folla. A mezzanotte tornò a casa sperando che fosse già rientrata. Dopo mezz’ora uscì di nuovo. Trascorsa l’una molte famiglie
erano sparite, e i ragazzi si mostravano maggiormente eccitati dal tepore notturno e dalla loro stessa gioventù. Solinas si infilò la felpa. Pensò di aver sbagliato a non portarsi una giacca; quella felpa sportiva gli accentuava la pancia e la scritta inglese che correva sul petto lo faceva sentire buffo. Camminò fin dove finivano le case e cominciava una pineta. Si sedette nell’ultima panchina prima del boschetto. Da dietro gli alberi arrivavano i bisbiglii d’amore di giovani coppie. Solinas stava già pensando di sedersi in una panchina più distante, quando sentì un motorino e un cigolio che gli era familiare. Si voltò appena. Dagli alberi vide sbucare Antioco Mura che sparpagliava fumo celestino tra i pini e i
colpetti di tosse dei ragazzi in amore incontrati sul suo cammino. «Professore! Anche lei qui?» «Be’, anche io…». «Anche lei che prende il fresco, voglio dire». «Ah il fresco… certo. Si sta proprio bene». Antioco Mura parcheggiò accanto alla panchina e spense il motore. Continuò a brontolare per un po’, finché sopraggiunse un rantolo e si spense definitivamente. «Sono venticinque anni che… adesso la cambio questa carretta». «Ho visto che veniva dalla pineta. Non si arena sulla sabbia?» «La conosco molto bene la pineta io. C’è il tappeto di aghi di pino e… certo, se rallento troppo…».
«Ma se si arena?» «Uh! Lo sente quanta gente c’è in pineta a quest’ora? Qualcuno lo trovo sempre che mi aiuta. Ce ne sono anche alcuni che… diciamo, non sono occupati. Mi capisce no?» «Forse sì». «Be’, proprio una bella luna». «Già…». «Sei uno stronzo!», si udì nitidamente dentro la pineta. «Stronzo? E tu sei una troia!». «Ma vaffanculo!». «Aspetta!». «Ti ho detto vaffanculo!!». «Eeh… questi, ogni sera sono così. Puntuali eh? Sempre alla stessa ora», disse Antioco Mura dondolando la testa. «Io mi allontano». Solinas si alzò in piedi. «Ma dove va professore! Si sieda.
Cosa vuole che gliene freghi a quelli di noi». «Sarà, Antioco, ma a me sembra perlomeno imbarazzante». «Ma questa è la vita, professore. Non c’è niente di male. Anzi, sono d’aiuto per soffocare la noia». «Sarà, ma io…». «Allora non hai proprio capito! Vaffa-ncu-lo!!». Antioco Mura buttò il busto sul manubrio e vi appoggiò i gomiti: «Sa che dentro la pineta mi conoscono quasi tutti? Ci sono perfino due ragazzi di Genova, due uomini, intendo, che, se mi fermo un po’, diciamo così, a curiosare, be’, ormai ci si saluta. Cosa vuole professore, nei due mesi estivi va a finire che ci si conosce tutti. È la vita, no?»
«…Eh sì. È la vita». «I ragazzi mi capiscono sa? In fondo non do fastidio a nessuno… e comunque, ormai, so bene vicino a chi devo accelerare! Ah! Ah…!». «…?». Solinas si aggiustò gli occhiali. «Be’, adesso vado», disse Antioco Mura. Puntò le mani sul manubrio, drizzò le braccia e diede una spinta all’indietro al suo tronco. Girò la chiavetta dell’accensione: «La sua giovane amica è andata via?» «Come?!». Il motorino acceso era un piccolo inferno. «La sua giovane amica!». «Ah! Sì sì!… È in giro! Sarà con gli amici!». «Eh be’, i ragazzi…! Stia bene,
arrivederla!». Si allontanò nella nuvola celeste dalla quale spuntava la testa liscia che luccicava alla luce della luna. Dopo pochi metri frenò e si voltò. «Le andrebbe una birra?!». «Grazie! Facciamo un’altra volta! Tra un po’ vado a casa!». Antioco Mura salutò con un cenno del capo. Trascorsero una decina di minuti. Solinas ascoltò il tramestio sommesso che la pineta soffiava fuori. Si alzò per avviarsi a casa. Fatti alcuni passi si fermò; dopo un attimo di indecisione si girò e si diresse di nuovo verso la pineta. Appena circondato dagli alberi, si trovò davanti a una macchina che, al suo interno, lasciava sbocciare verso l’alto due piedi scalzi dalle piante bianchissime,
e due cosce abbronzate che si agitavano come mosse da una grande pena; sembravano due fiori esotici dal grosso fusto. Solinas non osò andare oltre. A passi affrettati uscì dalla pineta. Rallentò quando si accorse di avere il fiatone. Mancava poco alle due, ma in giro c’erano ancora molti ragazzi. Lui si sentiva un intruso in quello spazio abitato, a quell’ora, solo da giovani con tanta voglia di non dormire per tutta la vita. Dei nigeriani avevano sbaraccato il marciapiede dalla loro mercanzia. Con movimenti lenti ed eleganti, come gesti di una cerimonia, la caricavano su una Fiesta che lasciava dondolare pezzi della carrozzeria. Solinas si fermò a osservare le lunghe braccia e i palmi rosa chiari dei nigeriani. Abbandonò la passeggiata,
svoltò in una viuzza e vide Maria e Graziano. Si irrigidì. Tornò indietro ma non uscì da quel viottolo. Istintivamente cercò protezione dietro l’angolo di un muro che circondava un giardino. Non ce la faceva ad andare via. Al medesimo tempo era umiliato dalla vergogna che gli pioveva addosso. Si guardò attorno; non passava nessuno. Paralizzato, non trovava il coraggio di affacciarsi, eppure doveva per forza spiare, l’impulso era irresistibile. Prima si pulì gli occhiali, poi si sporse. Le ombre dei due ragazzi erano vicinissime ma non unite. Congiungevano solo i volti dandosi piccoli bacetti, come due uccellini. Graziano le accarezzava le spalle e quando cercava di poggiarle le
mani sul piccolo seno, lei lentamente gliele toglieva. Lui lasciava che Maria lo contrastasse per poi tornare, ostinato, a cercarle il seno, e lei stavolta non lo ostacolava; era l’unico contatto tra i loro corpi. Sporgendosi un po’, Solinas rimase incantato, dimenticandosi perfino di controllare che nessuno lo notasse. Quei baci che Maria regalava con brevi slanci furtivi, facevano commuovere Solinas. Per uno solo di quei baci avrebbe dato in cambio le manine di Maria tra i suoi pantaloni. Sarebbe potuto morire di gioia solo sfiorando quella piccola bocca. Avrebbe provato l’illusione di sentirsi amato, almeno una volta nella vita. Mentre spiava quelle due ombre, si ricordò di quando aveva diciotto,
vent’anni, e d’estate, la domenica, con un suo amico andava al lido di Torre Grande. Il lido era semplicemente un muro che circondava una piccola parte di spiaggia, con dentro una trentina di cabine, un bar e un juke box; il primo in tutta la zona alla fine degli anni Cinquanta. Dentro quel lido vide le prime coppie baciarsi, e là scoprì l’attrazione per le ragazze; la loro bocca. Il desiderio di un solo bacio lo faceva sognare. Tutto il resto diventava faticoso anche solo da immaginare. Aveva avuto un’intera vita per dare o ricevere un solo bacio. E adesso, a sessantatré anni, una cosina così da nulla, prendeva il posto al centro della sua vita. Guardando Maria e Graziano, vedeva anche la più remota speranza allontanarsi
definitivamente. Smesse tutte quelle delicate moine, Graziano si strinse addosso Maria, baciandola ora con irruenza. Lei cercò di liberarsi dalla stretta. «No! Non così!», gridò. «Perché no? Mi piaci, e sono un po’ di giorni che non mi fai… insomma, solo baci, mi fai diventare pazzo. Ti prego». «No, no… per favore, aspetta ancora un po’». «Ma sai dire solo no. Ti prego», le prese le mani. «Senti qui, senti un po’», cercò di portarle le mani sul sesso, ma appena ci riuscì lei diede uno strattone e liberandosi scappò via. Solinas si rifugiò completamente dietro il muro, Maria veniva nella sua direzione. «Non fare la bambina! Aspetta!», le
gridò Graziano, senza muoversi. Quindi Solinas lo vide passare con l’andatura di chi non ha l’intenzione di seguire nessuno. Si fece piccolo e trattenne il respiro. Fortunatamente era avvolto dall’ombra. Quando Solinas entrò in casa Maria era in bagno. Sentì scrosciare l’acqua e il mobiletto che si apriva e chiudeva. Entrò in camera sua e chiuse piano la porta. Si spogliò. Si infilò sotto le lenzuola adocchiando due zanzare proprio sul muro che confinava col letto. Evitò di schiacciarle per non fare rumore; le allontanò facendo vento col braccio, per rimandare il problema di qualche ora. Maria si muoveva per la casa; in cucina, nella sua camera, nuovamente in bagno. Solinas non riusciva a prendere
sonno. Con la mente seguiva i movimenti della ragazza, la vedeva con la camicia da notte, scalza, e ne percepiva l’inquietudine. Finché, ne era sicuro, la sentì proprio davanti alla sua porta. La zanzara si posò sulla guancia di Solinas e, in quel momento, Maria aprì lentamente la porta. Non entrò. Restò a guardare dallo spiraglio la fetta di luce che si posava sul letto, disegnando la pancia di Solinas. Sentiva su di sé lo sguardo di lei e, pur di non muoversi, accettò il fastidio acuto della puntura. Maria chiuse la porta e tornò nella propria camera. Solinas diede una manata alla zanzara. Solo molto più tardi riuscì a dormire. Sognò che Maria entrava in camera e gli si accostava, chinandosi sul suo viso. Stava per dargli un bacio sulla
bocca, ma all’ultimo momento si spostava e lo dava a Graziano, appena spuntato da sotto le lenzuola di fianco a lui. Maria si metteva a ridere. Solinas si svegliò. C’era un’alba che aveva gli stessi colori di un tramonto.
31
La maggior parte dei frequentatori estivi di Putzu Idu erano forestieri o sardi che prendevano in affitto occasionalmente gli appartamenti. Però, i clienti di Ottavia Lussu, erano quasi sempre gli stessi. Pochi i nuovi che si aggiungevano, anche perché gli affezionati diventavano piuttosto gelosi, e non andavano a parlarne in giro. Quei pochi uomini che conoscevano Ottavia Lussu per una sola estate, portavano con sé un ricordo intimo
e segreto. Il paesino, nel mese di agosto, era pieno di vita e confusione e, essendo lei ai più sconosciuta, per un uomo che suonava al suo campanello non esistevano motivi di disagio. Eppure, Mario Solinas, anche quella seconda volta avvertì il suo cuore rimbombare all’interno di tutta la via. Il primo approccio a quella facciata sembrò il più deciso. Era andato diritto fino alla porta senza nessun tentennamento, ma all’ultimo istante aveva abbandonato l’idea e con altrettanta decisione si era allontanato. Negli assalti successivi non sentì più la propulsione necessaria per salire i tre gradini e puntare con precisione il campanello. Passò e ripassò varie volte davanti alla candida facciata di quella casa. Poi andò
sulla passeggiata e si sedette su una panchina; doveva riprendere fiato e coraggio. Erano le cinque del pomeriggio, Maria probabilmente si era svegliata. Le gocce di sonnifero che a pranzo le aveva messo dentro il succo d’arancia erano leggere. Questa volta aveva anche chiuso a chiave la casa; la porta, da dentro, non si sarebbe potuta aprire. Non voleva esagerare con le dosi, gli bastava che Maria non riuscisse a rispettare gli appuntamenti pomeridiani con Graziano. Per vari giorni era riuscito nel suo intento, ma il giorno precedente l’effetto del sonnifero era stato debole; alle quattro e mezza Maria era già uscita. Pensò che sarebbe stato inevitabile, prima o poi, metterle nel bicchiere molte più
gocce. A Solinas bastava coprire l’intero pomeriggio, la sera Graziano era stato ingaggiato in un locale a trenta chilometri da Putzu Idu, dove si esibiva sempre fino alle due. Solinas guardò il mare piatto e il cielo che vi si rifletteva. Restò con la testa rivolta verso l’azzurro come in preghiera. Quindi si guardò le mani, le gambe. Poggiò il mento sul petto per osservarsii la pancia e per fissare le mani che ora si abbracciavano e si annodavano. “Ma sono proprio io questo?”, si chiedeva. “Questo Mario Solinas mi appartiene ancora? È la stessa anima del professor Solinas che abita qui dentro? Ma è possibile? È veramente possibile?”. Si rivolse ancora al cielo e si sentì sopraffatto da tutto quel
nitore azzurro. Con decisione si alzò dalla panchina. A passi veloci si diresse verso l’abitazione di Ottavia Lussu. “Tra un’ora sarò a casa”, si lambiccava, “per ciò che ho fatto mi pentirò più tardi”. Sostenuto da una camminata nervosa, non poteva accorgersi che sulla fronte comparivano delle linee profonde, come mai ne aveva avute. Davanti alla porta mirò il campanello e premette con forza. La musichetta si udì completa e chiara. La porta non si apriva. Si tolse gli occhiali per asciugarsi la fronte e pulire le lenti col fazzoletto. Premette ancora il campanello restando a fissare la targhetta di carta adesiva con su scritto solo il cognome. «Professore! Che sorpresa!». Solinas si voltò indietro di
soprassalto. «Mi scusi professore, l’ho spaventata?» «Oh no!… è che non, non mi aspettavo di trovarla alle spalle». Ottavia Lussu poggiò in terra due buste della spesa: «Conviene andare a quest’ora al minimarket, non c’è quasi nessuno». «Già…», mormorò lui, restando imbambolato. «Mi perdoni… se si sposta apro la porta». «Mi scusi, mi scusi». Solinas scese i tre gradini. «Permetta, le buste le prendo io». «Grazie, molto gentile». Ottavia Lussu aprì la porta: «Prego, si accomodi. Oltretutto a quest’ora», sorrise,
«non aspetto mai ospiti». «Allora l’ho disturbata… passo, se mai passo più tardi…». «Ma si figuri. Prego, venga in cucina, le offro qualcosa di fresco». Ottavia Lussu vuotò le buste contenenti ciò che doveva andare in frigo. «Desidera una birra o…». «Grazie, un bicchiere d’acqua». «Si sieda». La donna fermò i suoi movimenti e lo fissò. «Ma, c’è qualcosa che non va?» «N-no… perché…?» «Ha una faccia strana». «Sa, io, io sono sempre imbarazzato, e…». «Ma non è per questo, è che… Sì, forse ha ragione lei», sorrise dolcemente, «è proprio come un diciottenne, beato
lei!». «Beato? Io…?» «Sì, perché ha ancora tutto da scoprire! Ah! Ah! Mi scusi se rido, non se la prenda, le assicuro che è un sincero complimento». Guardando in basso Solinas abbozzò una specie di sorriso. Ottavia Lussu era in piena forma. Il suo volto raggiante pareva avesse attinto ancora di più un’aria d’oriente; la pelle era fresca, non sentiva l’usura del poco sole che prendeva. Porse a Solinas il bicchiere d’acqua e per lei ne riempì uno di aranciata. «Mi fa piacere che sia venuto a trovarmi». «Anche, anche a me. Oggi mi sentivo particolarmente…».
«Solo?» «S-sì. Solo». «La sua ospite, quella bella ragazza non c’è più?» «No, no… Maria, c’è ancora». «Ma oggi si sentiva solo… Capita, sa? Anche a me succede spesso. Devo però confessarle che oggi sono molto felice». Sorseggiò l’aranciata. «Mia figlia vuole che vada a trovarla…». «Non sapevo avesse una figlia». «Oh sì. Ho una figlia di ventitré anni. Studia all’università a Roma… È bellissima sa? Certo, le mamme dicono tutte così, ma le assicuro, è proprio un incanto». «Ne sono certo». «Tra non molto si sposerà con un pilota dell’Alitalia. Sono veramente
felice». «…E così, ci abbandona?» «Vado solo per una settimana e… ma non parliamo di mia figlia, non vorrei fare la mammona noiosa», sorrise. Solinas sorseggiò un po’ d’acqua, poggiò il bicchiere e prese ad annodarsi le dita. «Non trova che questa casa sia fresca?» «Sì, sì…». «Bene. Se vuole possiamo spostarci». «…?» «Nella camera». «Ah sì! Mi-mi scusi». Quando Solinas entrò nella camera fu colto dal panico. Ottavia Lussu gli prese una mano e cercò di tranquillizzarlo, dicendogli che era normale essere nervosi
anche le volte successive. La bambola troneggiava al centro del letto matrimoniale. A Solinas parve che il suo sguardo fosse eccessivamente aperto e la bocca, a cuore, come raccolta in un broncio. Pensò anche che quel giorno doveva essere il primo cliente. «Arrivo subito, professore». Ottavia Lussu andò in bagno per darsi una rinfrescata. Lui si guardò intorno, poi restò a fissare la libreria. Lesse qualche titolo sul dorso dei volumi; erano tutti romanzi. Accennò a sedersi, ma interruppe subito quel movimento sentendo i passi di lei nel corridoio. Appena entrata in camera, come era solita fare, Ottavia Lussu andò a sedersi sul letto, lasciando una fresca scia di profumo. Fece segno a Solinas di
avvicinarsi. Lui mosse due passi con gambe di legno. Lei cominciò a sbottonargli i calzoni che subito gli si afflosciarono sulle scarpe di tela. Si alzò in piedi per sbottonargli anche la camicia. Così da vicino lo guardò negli occhi, e avrebbe voluto ancora chiedergli cosa veramente non andava, ma lui non riuscì a sostenere lo sguardo per più di un secondo, e lei lasciò perdere. Da sotto la gonna a fiori, scampanata e lunga fino a mezza gamba, si sfilò le mutande con una tale eleganza che sembrava, quel movimento, la summa di tutto lo scibile sull’erotismo. E mentre gli infilava una mano nei mutandoni, poggiò l’altra affettuosamente sulla sua spalla, accarezzandogliela. Nonostante la delicatezza delle sue morbide mani, il suo
sesso non si induriva. Trascorse qualche minuto di vani tentativi. «Non c’è fretta, professore, non si preoccupi, tanto abbiamo tutto il tempo che vogliamo». Allora si curvò sul letto per spostare la bambola sul limitare opposto. Scostò il copriletto e si sdraiò tirandosi la gonna fino alla pancia. Dischiuse appena le cosce. «Venga, coraggio…», disse tendendogli le braccia. «Anzi, mi scusi». Si sedette per togliersi la maglietta, e con un po’ di difficoltà il reggiseno che si era impigliato. «Per lei… è tutto a disposizione». Ottavia Lussu poggiò la testa sul cuscino e di nuovo invitò Solinas a sdraiarsi su di lei.
«Prima le mutande, professore, le levi». «Oh, mi scusi… mi s…». Solinas si levò i mutandoni; si sentì nudo fin dentro la coscienza. Si distese come poté sulla donna, che lo accolse divaricando ancora le cosce. Lui sentì il ventre di lei muoversi e premere verso l’alto. Anche lui provò a fare qualcosa, ma tutto in lui simulava, se non proprio la morte, qualcosa che gli assomiglia. Ottavia Lussu cercava un contatto di vita, ma quel membro le penzolava addosso, come un ferito che cerca protezione prima di esalare l’ultimo respiro. Ottavia Lussu con una mano gli sfiorò una guancia. «Lei è innamorato». Solinas fissava il cuscino. Lei gli
prese il mento e delicatamente lo costrinse a guardarla in faccia: «Mi guardi negli occhi, professore. Lei è molto innamorato». Lui osservò i lunghi occhi della donna leggermente socchiusi. Provò a mostrarsi stupito per quell’affermazione. Poi disse solo: «…Io, non…». Cercò di spostare il volto, ma la mano di lei ostacolò il movimento. Sotto quello sguardo indagatore, Solinas si trovò nella terra di confine tra il pianto e il riso. Dominò a fatica il primo impulso. «Non so… lei come fa a…». «È dal primo momento che l’ho vista, professore, che l’ho capito». «Neanche io so cosa mi succede». «È semplice, è innamorato della sua giovane amica».
Solinas sentì il proprio corpo diventare pesante e, dietro l’angolo, affacciarsi il pianto. «Lei con me ha bisogno di parlare, non di fare l’amore. L’avevo sospettato, ma ho anche pensato che una piccola distrazione le avrebbe fatto bene, invece… Be’, non si finisce mai di imparare nel mio mestiere». Modellò un sorriso per alleggerire il momento; un sorriso al quale si poteva dare totale fiducia. «…Ha ragione, signora Lussu… io non, non so più cosa fare. Mi, mi sento perduto». «È la prima volta che le capita, vero?» «Sì, è la prima volta. Non c’ero preparato… a questa età, così in ritardo,
non si è preparati per questo genere di emozioni». Ottavia Lussu gli posò una mano sul petto; sentì che il sudore gli si stava raffreddando. Si sporse a prendere un lembo del copriletto e glielo stese sopra. Sul suo braccio sinistro Solinas percepì il contatto col tulle plastificato del vestitino della bambola. Lo scostò appena ma il tessuto rigido non mollava l’aderenza che infastidiva la pelle. Provò ancora a spostare quel lembo di gonnellina. Era una sorta di inutile alibi per distogliere la concentrazione da un discorso che aveva paura di affrontare. «Aspetti, faccio io», disse Ottavia Lussu, chinandosi su di lui per prendere la bambola e spostarla fino a farla scivolare a terra. Il suo abbondante seno si addossò
in modo confuso sul petto e sul volto di Solinas. Lui percepì il profumo di arancio e il calore che emanava. Senza dover più pensare a far l’amore, e protetto dal copriletto, avvertì finalmente da quel corpo un grande conforto. «Posso…», disse quindi, «posso solo…?» «Dica professore, che cosa?» «Potrei solo appoggiare la testa … sul suo seno?» «Ah! Ah! professore… come è tenero… ma certo che può!». Così poggiò una guancia su un capezzolo. I due restarono in silenzio. Trascorse un buon quarto d’ora. Solinas stava bene, si tranquillizzò. Ottavia Lussu gli aveva levato gli occhiali e ogni tanto gli accarezzava il braccio. Fu Solinas il
primo a parlare. «È diventata così bella, Maria… ma anziché esserne felice, mi crea una tale disperazione». Lei non rispose. Continuò a sfiorargli il braccio. «Fa di quelle cose che… eppure, il mio desiderio sarebbe solo di avere un bacio… capisce? Solo un bacio. Che lei nutrisse un vero desiderio di darmi un bacio…». «Glielo avevo detto che sarebbe diventata molto bella, si ricorda? Un angelo, avevo detto. Ma dietro ogni angelo c’è un… diciamo un demonio e viceversa. Sa professore, che tra i due, in fondo, non c’è, almeno penso io, nessuna differenza?». Solinas baciò il seno sul quale
appoggiava la guancia. L’altro lo sfiorò con la mano, mentre continuava a dare piccoli baci sul capezzolo. «Conosce…», disse a un certo punto Solinas, «conosce per caso i Portishead?» «Chi…?» «No, niente, niente». Il suono improvviso del campanello fece sussultare Solinas che si separò dal seno. Aiutandosi con le braccia si tirò su sgomento, come fosse stato bombardato da quell’innocuo din-don. «Stia calmo professore, non c’è motivo di preoccuparsi». Ottavia Lussu scese dal letto e si infilò la maglietta. «La prego. Non vorrei incontrare…». «Nessuno, la capisco. Se vuole può aspettare in cucina, e quando abbiamo finito…».
«Sì, sì», fece lui, scendendo rapido dal letto. «Aspetterò in cucina». Si infilò i calzoni, la camicia e prese in mano le scarpe. «Grazie. So che può capire». Si affrettò anche a raccattare gli occhiali dal comodino. Si udì nuovamente il din-don. «Professore, faccia con calma. Guardi, prenda anche le mutande». «Sì sì, le mutande». «Solo qualche minuto e lei potrà uscire». Solinas si dileguò in fondo al corridoio. Entrò in cucina e chiuse la porta. Finì di vestirsi mentre sentiva i convenevoli col nuovo cliente. Appena la porta d’ingresso si fu chiusa, percepì distintamente una pacca e una risata di Ottavia Lussu. Era una pacca sul sedere,
ne era sicuro. Poi i due entrarono in camera. L’orologio a muro segnava le diciotto e trenta. Sicuramente l’effetto del sonnifero si era esaurito, Solinas era certo che ormai Maria doveva essere già uscita da una finestra, e chissà cosa avrebbe pensato nel trovarsi chiusa in casa. Sperava solo che i due facessero molto, molto in fretta. Un’altra risata di Ottavia Lussu lo distolse da quei pensieri. Ogni tanto udiva una pacca, stavolta più squillante, sulla pelle nuda, e a seguire gridolini di mestiere. Dopo dieci minuti sentì aprire la porta della camera e, nell’ingresso, il commiato tra i due. «Ecco professore», disse Ottavia Lussu entrando in cucina. «Vede? Non le
ho fatto perdere molto tempo». «La ringrazio. Adesso vado e… sì, grazie ancora di tutto». Volse lo sguardo sul tavolo per indicare il denaro che aveva lasciato. «Professore, mi raccomando», gli disse appoggiandogli una mano sulla spalla, «cerchi di essere felice. Non è semplice, lo so. Io, comunque, tra una decina di giorni sarò nuovamente qui… se dovesse avere bisogno di me, per qualunque cosa…». Solinas si aggiustò gli occhiali, produsse un vago sorriso e col capo accennò un saluto.
32
«Ciao, Maria. Hai dormito bene? Io sono uscito e non…», farneticò Solinas, che, trafelato, trovò Maria in cucina appoggiata al lavandino mentre beveva un bicchiere d’acqua e si teneva una mano sulla fronte. «Ho dormito molto e mi fa male la testa…». «Mi dispiace. Vuoi che ti prepari un caffè?» «Sono sempre molto stanca in questi
giorni…». «Dài, siediti, deve essere il caldo, non pensarci troppo». «Dovevo vedere Graziano…». «Sei stanca. Un’altra volta». Solinas preparò il caffè, mentre lei tornò a sdraiarsi nella sua camera. Lui le portò la tazzina a letto. Maria indossava il costume da bagno intero, e sopra una maglietta bianca con alcune macchie d’olio. Prima di porgerle il caffè, Solinas restò a osservarla. Era bellissima, e quella patina di stanchezza che la abbatteva la rendeva ancora più delicata. Anche lui era abbattuto da quella visione; troppa bellezza tutta insieme, e troppo tardi. Stava pensando di smetterla col sonnifero, ma una voce che partiva dai piedi e gli attraversava tutta la schiena,
fino a scoppiargli in testa, gli diceva tutt’altro. “Io la amo veramente, tutto mi è lecito. Non ho altre armi per difendermi, non ne ho”. «Tieni Maria, bevi un po’ di caffè, e non pensare a nulla. Dopo cena usciamo a prendere il fresco». Lei si mise seduta e bevve appena un sorso dalla tazzina, poi la appoggiò su una sedia accanto al letto. In quel momento bussarono alla porta. Sospettoso Solinas andò ad aprire. «Sto cercando Maria. Buonasera». Solinas uscì e chiuse la porta dietro di sé. «Maria sta riposando…». «A quest’ora?» «Non sta molto bene, Graziano, ma è solo un po’ di debolezza». «Posso aspettare. Comunque la vorrei
vedere solo per un minuto». «È meglio di no Graziano. Forse… domani». Con un gesto di sconforto il ragazzo chinò il capo e si passò una mano tra i folti capelli ricci, fermandola sul collo. «È che… ho anche un problema; non posso usare la mia macchina». Solinas lo guardò dimostrando di non capire. «Ho le quattro gomme squarciate e…». «Come squarciate?» «La mia ragazza, o meglio, la mia ex… sa, quella bionda dell’altra volta…». «Sì, sì, in pizzeria». «Non mi molla e mi sta creando un sacco di problemi. Accidenti a lei!».
«Be’, ma io cosa posso farci?». Alle spalle di Solinas si aprì la porta. «Mario, chi…? Graziano!». Maria restava appoggiata allo stipite; aveva gli occhi come ubriachi. «Perché non entri?». Graziano chiese a Solinas il favore di accompagnarlo nel locale dove si esibiva. Le scuse di Solinas crollarono davanti alle insistenze di Maria. «Vengo anche io», disse lei, «così ascoltiamo il concerto e poi torniamo insieme. Mi basta una doccia e starò benissimo». Quei trenta chilometri per Solinas furono una pena. Non riuscì a spostare la coda dell’occhio dalla mano di Graziano che, seduto dietro, accarezzava, instancabile, la spalla di Maria fino a
sfiorarle l’orecchio. Solinas guidò malissimo. Due volte i ragazzi urlarono: «Attento!», ma lui non vedeva le curve, solo una mano sulla spalla e sull’orecchio di Maria. Nel locale dove suonava il gruppo di Graziano non c’era molta gente. Anche quella volta Solinas fu costretto a stare davanti al palco, e a tutte le seduzioni che produceva il cantante dimenandosi. Ordinarono due gelati. Lui lo assaggiò appena, lasciò che il resto si sciogliesse dentro la coppa; aveva lo stomaco chiuso. Non era mai stato così nervoso nella sua vita; proprio non riusciva a capacitarsi di essersi ridotto in quello stato. Il rientro, alle due e mezzo, fu più penoso dell’andata. Il buio dell’abitacolo nascondeva chissà quali tenerezze tra i
due. Graziano arrivò con loro fino a Putzu Idu; sarebbe andato a dormire a casa di un amico, e la mattina successiva avrebbe risolto il problema delle gomme. Erano trascorse le tre quando Solinas e Maria entrarono in casa. Lei andò in bagno e lui si sedette in cucina. Ascoltava ogni rumore, immaginando tutti i suoi movimenti; le mani lunghe che lavavano il viso, la delicata schiena curva sul lavandino, la faccetta stupita che assumeva spazzolandosi i denti. «Ciao Mario, buonanotte… e, grazie per oggi», disse lei, affacciandosi in cucina. «Buonanotte», rispose lui, che guardava sul tavolo rincorrendo in fretta qualcosa da dire. Mentre lei si allontanava aggiunse: «Non vuoi più che
ti legga qualche… non ti ho più vista danzare». Maria tornò indietro: «Come…?» «No, dicevo che…». «Non ho voglia di ballare, e i romanzi posso leggerli anche io. Non devo sempre disturbare te». «Ma non mi disturbi!», fece lui a voce troppo alta. Abbassò il tono. «È che a me fa piacere… mi sembra di esserti, non so, più utile». Maria salutò nuovamente e andò a dormire. Solinas andò a sedersi sul divano. Passò molto tempo al buio a guardare il cielo fuori della veranda. Le stelle pareva che si muovessero. Le fissava e le vedeva tremolare, come se avessero freddo. Un sipario di nuvole poi si stese tra lui e
quelle fiammelle. Stava arrivando un temporale estivo annunciato da rulli sui timpani, e da bagliori che in fondo all’orizzonte ne ridisegnavano la linea. «Non ho sonno, ma non riesco a leggere. Ho la testa pesante». Scalza, senza un fruscio, e ancora vestita, Maria era comparsa alle spalle di Solinas. Poggiò un libro sullo schienale del divano. «Ti va di…». «C-certo. Non ho sonno neanche io…». Maria si sedette sul divano. «Vuoi mettere un po’ di musica?», chiese lui. «No. È più bello ascoltare il temporale». La pioggia era arrivata fitta sopra
Putzu Idu. Dalla veranda aperta entravano gocce d’acqua simili a proiettili. Le tende si erano animate di vita propria. Si sentiva un profumo di funghi amari. I giocattolini che Maria teneva in mano, Solinas non li aveva ancora notati. Qualche soldatino, un asinello, un Pluto e un aeroplanino. Tutti di plastica, di vari colori, piccoli, in alcuni punti rosicchiati. Li stringeva in un pugno. Un pezzo di cartoncino dentro il libro, indicava il capitolo da leggere. «“La prima cosa a cui si abituarono fu il ritmo del lento passaggio dall’alba al rapido crepuscolo. Accettavano i piaceri del mattino, il bel sole, il palpito del mare, l’aria dolce, come il tempo adatto per giocare, un tempo in cui la vita era così piena che si poteva fare a meno della
speranza. Verso mezzogiorno…”». Solinas leggeva lentamente per paura di fare emergere la titubanza che sentiva vibrare in gola. Maria si sdraiò quasi subito sulle sue gambe dandogli le spalle. Guardava la veranda e la danza nevrotica delle tende. Pareva essere catturata più dall’avvenimento meteorologico che dalla lettura del professore. Quindi, come se fosse stanca della veranda aperta, delle tende, della pioggia e della voce narrante, con aria annoiata tese il suo braccio verso terra e cominciò a gingillarsi con i giocattolini che prima vi aveva lasciato. Solinas non capiva cosa Maria stesse facendo; continuava a leggere senza osare chiederglielo. I tuoni creavano un immenso frastuono, e i fulmini illuminavano a
giorno l’arenile e il mare, smuovendo un’energia che avrebbe elettrizzato i pesci. All’interno della veranda si era ormai formato un laghetto, ma nessuno dei due pensava di andare a chiudere la vetrata. Le tende, appesantite dall’acqua, si agitavano con meno frenesia. Maria raccattò i giocattolini tenendoli tutti dentro un pugno. Si girò verso la pancia di Solinas e li appoggiò tra le sue gambe. Prese allora a sbottonargli i pantaloni, come le altre volte, con la massima naturalezza. Mise quindi alla rinfusa i giocattolini dentro i calzoni e i mutandoni, spargendone qualcuno fino ai lati del fianco. Li riabbottonò. Nell’espressione di Maria, corrucciata dalla concentrazione di eseguire bene quel compito, apparve, come dietro l’angolo,
un sorrisetto da discola. «“Quando-Enrico-fu-stufo de-del gioco e se-se-ne-andò via lungo-la spiaggia, Ruggero lo seguì, tene-nendosisotto…”». Maria si alzò e si avviò alla porta. Solinas era tra il perplesso e il terrorizzato. «Non smettere!!», gridò Maria, oltre la porta. «“Tenendosi-sotto-le-le-palme e prendendo la stessa di-direzione-comeper-caso…”» La c di caso venne fuori con uno straziante falsetto. Le s sibilavano in modo innaturale; sembrava volessero imitare istericamente i fulmini sopra la casa. Ma Solinas non riusciva a smetterla con quella recita paranoica. Vomitò come poté tutte le parole di una pagina nuova.
Percepì, allora, la presenza di Maria nuovamente dentro il salotto. Non riusciva però a vederla. Quando ecco che notò, e ne fu raggelato, la testolina di Maria apparire da dietro una poltrona. Vi si era nascosta, e con l’aria furbetta faceva appena capolino per poi riaccucciarsi. Sempre curva su se stessa, come un animaletto, saltellò dietro l’altra poltrona, davanti al divano. Si affacciò di nuovo e scomparve. La colonna sonora del temporale non accennava a concludersi. Stando carponi, facendo piccoli saltelli, Maria si avvicinò al divano. Si inginocchiò e infilò le mani tra la spalliera e il cuscino. Ne tirò fuori il piccolo aeroplano. Lo fece volteggiare davanti al libro di Solinas e poi lo lanciò lontano. Si sdraiò sul divano e con un
gomito si fece spazio tra le gambe di lui costringendolo ad allargarle. Infilando la mano nei calzoni sbottonati, andò alla ricerca dei giocattolini; quando ne trovava uno sorrideva e smetteva di essere accigliata. Cercava sui fianchi, in mezzo alle parti intime, fino a scovarli tutti. Il sesso in erezione era trattato al pari di un ninnolo, spostato da destra a sinistra e viceversa. Nonostante Solinas fosse angosciato per quell’indecifrabile gioco, e per lo sfregamento con la plastica, il contatto delle mani di Maria gli creavano in quel punto del corpo un’isola separata da tutto il resto. Sul suo sesso, che Maria afferrava e cercava di mantenere orizzontale, provava a tenere in equilibrio il Pluto e l’asinello.
Quando cadevano giù, lei, ostinata, li ridisponeva nuovamente. «“Una-brezza-improvvisa-scosse-lala-frangia di-di-palme, agitò-e…”». Un lampo più violento degli altri illuminò la penombra del salotto, fotografando Pluto e l’asinello, che finalmente restavano diritti sulla sua pelle tesa. Quando Solinas non poté più trattenere l’orgasmo, lasciò sfogare una smorfia di dolore, rovesciando e imbrattando asinello, soldatini, calzoni e le mani di Maria. Lei non si scompose. Come se avesse ricevuto un segnale che il gioco era finito, si pulì sui pantaloni di Solinas, raccattò i giocattolini e andò a sciacquarli dentro il lavandino. Il temporale adesso faceva sentire la sua eco da lontano.
La smorfia di dolore restò stampata sul volto di Solinas; sembrava fosse schifato dall’odore di funghi amari che la pioggia e il vento avevano stivato dentro casa. Invece era un buon profumo. In un altro momento a Solinas avrebbe ricordato – come spesso gli accadeva dopo la pioggia estiva – la sua infanzia, quando in campagna, con gli amichetti, in calzoncini corti, venivano colti da un improvviso scroscio d’acqua. Il sole continuava a splendere e loro correvano, ridendo disperati, nella vana ricerca di un riparo. Entrando in casa si portava addosso l’aroma della terra dissetata. Ma in quel momento Solinas, non era in grado di apprezzare il profumo di funghi amari, né di notare che la tenda, ora, pendeva immobile, gocciolando a un ritmo
cadenzato; l’unica traccia musicale che il temporale si era lasciato dietro. Solinas si guardò i calzoni. Si alzò. Come un automa si rifugiò nella sua camera. Si sdraiò sul letto senza riuscire a rimanervi nemmeno un minuto. Andò davanti alla porta della stanza di Maria. Bussò. «Sì-ì?». Solinas socchiuse la porta. Parlò davanti al buio dello spiraglio. «Maria, perché fai questo…?» «Voglio dormire! Sono stanca!!».
33
La signora Sanna era andata a prenderla Mario Solinas, già dalla mattina. Maria, Graziano e il suo gruppo rock al completo, più due loro amiche, erano appena entrati; avevano portato delle sedie nel cortiletto e stavano di là. Era venuta anche Teresa, l’amica di Maria. Erano le sei del pomeriggio. Antonio, Giovanna e i suoi due figli arrivarono poco dopo. C’era abbastanza gente per considerare quella festicciola
riuscita. L’ultimo giorno di agosto Maria compiva diciotto anni. Né quel giorno né quello prima, Solinas le aveva somministrato il sonnifero. Lei infatti sembrava presente e allegra. Sul tavolo portato nel cortiletto c’era la torta preparata dalla signora Sanna, vari salatini, bottiglie di birra e bibite. Antonio Solinas vi posò anche la torta preparata da Giovanna. Maria parlava con Teresa. Graziano con i suoi amici, ma guardava, ricambiato, Maria. I grandi restarono nel salotto. Anche i bambini di Giovanna, due maschietti di quattro e sette anni, si sedettero vicini alla madre. Solinas fu stupito nel vedere Giovanna con un nuovo, o meglio, col primo taglio
di capelli. Erano corti, da maschietto, e le stavano proprio bene, sostenevano maggiormente quell’aspetto allegro e bonario della sua figura. «Ti diamo subito la notizia», disse Antonio al fratello. Mario, che sospettava qualcosa, fece il finto tonto. «Ti diamo?… Ma guarda un po’. E se avessi già capito?». Antonio e Giovanna si guardarono. Lei rise coprendosi la faccia come una bambina. «Vabbè, hai indovinato. Ci sposiamo». «Evviva!», si rallegrò Mario. «Auguri!», si intromise la signora Sanna, porgendo loro la mano. Giovanna divenne rossa, ma si affrettò ad assumere quel suo solito atteggiamento scanzonato:
«È stato lui a fare tutto eh?!… Io non c’entro quasi niente!». Risero tutti, per l’intero pomeriggio, contagiati dalla sua allegria. Mario Solinas ogni tanto buttava lo sguardo oltre la veranda; gli sembrava che Maria fosse proprio a suo agio. I due fratelli uscirono all’aperto lasciando le donne a chiacchierare e i giovani tra loro; si diressero appena oltre il muricciolo, verso le basse rocce. «Se è un problema che Giovanna venga a vivere da noi, troveremo…». «Ma stai scherzando? Quando mai!». «Davvero, non vorrei crearti il minimo disturbo». «Antonio, ti prego! Ci sarà finalmente vita nella nostra casa». «È questo! È questo che ho pensato
anche io… hai visto come sono educati i suoi figli, e poi, a Giovanna, questo lo devo». «Certo. Sono contento per te. Lei sembra anche ringiovanita e… penso che sarete felici insieme… In fondo è da un bel po’ di anni che stavate insieme». «…Allora, tu sapevi!». Mario ciondolò la testa, si tolse gli occhiali e li pulì col fazzoletto. «Hai gli occhi molto stanchi… Stai dormendo, sì?» «Sì sì, non preoccuparti… ho gli occhi stanchi?» «Se hai bisogno di qualcosa dimmelo, mi raccomando». «Non ho bisogno di niente. Quando l’avrò te lo dirò». Esitò. «Comunque avevo già deciso di restare a vivere qui a
Putzu Idu, anche d’inverno». «Ma ne sei sicuro?» «Sì». «Mario!! Antonio!! La torta!!». Maria gridò sbracciandosi. Alle otto la festa in casa finì e si trasferirono tutti in pizzeria. La cameriera annoiata unì due tavoli. «Adesso professore tocca a lei fare il grande passo», disse Giovanna. Mario sorrise: «Be’, vedremo… Già, a proposito, quando avete deciso di sposarvi?» «A novembre», rispose Antonio. «E se non ce la facciamo, a dicembre… qualcuno ci corre dietro? Ah!Ah!». Le risate di Giovanna mostravano vigore e la danza del suo grande seno voglia di allattare ancora.
Durante la cena, ogni tanto Mario Solinas si metteva la mano in tasca per stringere la scatolina di plastica contenente l’anellino. Non aveva ancora trovato l’occasione e il coraggio per consegnarlo a Maria. Antonio, parlando con Graziano, seppe che era il figlio di Gesuino Poddighe, e anche lui ebbe modo di stupirsi per la bellezza del ragazzo. Graziano parlò di musica con tale trasporto che monopolizzò l’intera cena. Alcuni aneddoti suscitarono l’ilarità di Giovanna e di tutta la compagnia. «Ma non pensiate che starò in quest’isola all’infinito, a fare concertini in piazza. Un giorno mi vedrete solo dalla tivù». Mario rideva a forza, e sentiva il
cuore fargli male. Sul tardi, dopo una breve passeggiata, Antonio, Giovanna e i bambini rientrarono a Riola. Mario accompagnò la signora Sanna a Oristano. «Non trova, professore, che Maria sia un po’ sciupata?» «Non mi sembra», rispose Solinas, stringendo più forte il volante. «Magari con questo amico… rientra tardi per caso? Forse dorme poco». «No. Questo no…». «Sono comunque contenta. Spero che Graziano, oltre che simpatico, sia un ragazzo serio». Fu allora che Solinas chiese alla signora Sanna di parlargli dell’infanzia della figlia. Lei raccontò cose che lui già
sapeva. Era stata una bambina tranquilla, molto intelligente, le bastava poco per divertirsi e, grazie al nonno, non aveva mai sentito la mancanza del padre. Una bambina serena si sarebbe potuto dire. Un maschiaccio, forse, con i suoi compagni di gioco, che preferiva alle compagne. «Potrei vedere la camera di Maria?», chiese Solinas, mentre la signora Sanna si accingeva a scendere dall’auto. Con un piede già in terra lei si voltò stupita verso di lui: «La camera?» «Sì». «Ma? Non capisco cosa… comunque…». «È solo perché può aiutarmi, forse, a conoscere meglio Maria». «Come vuole, ma guardi, è una cameretta disadorna, non…».
«Sa, non sono mai entrato nella sua stanza, anche se capisco che possa sembrare un po’ stupido». «Lei è un professore, magari sa vedere cose che io, ignorante come sono, non so vedere. Venga pure». Ogni casa ha il suo odore inconfondibile. In segreto, lentamente, con l’assenza delle persone, traspira e spande intorno il loro alito. L’aria della casa diventa una cassaforte che conserva tutta un’esistenza. Solinas ricordava sempre l’odore e il triste afflato che aveva sentito in quella casa, ormai più di un anno prima. Le stanze, d’inverno, non riuscivano a tenere a freno l’umido che avanzava in basso sui muri. L’estate li asciugava, ma piccoli frammenti dell’intonaco che si era
gonfiato, cadevano come abbandonati a se stessi. «Ecco professore. Come vede, non è che ci sia… guardi pure». La cameretta era in ordine. Sul comodino c’erano due libri che Solinas aveva già letto a Maria. Sopra sedeva una specie di Barbie. Due foto con una cornice a giorno erano appoggiate sulla scrivania. «È il nonno?» «Sì. E quella che ha in braccio è Maria a cinque anni». «Infatti. Non è cambiata in niente». «Gli occhi, poi…». «Posso?» «Ma prego». Solinas prese un bloc-notes che stava vicino alle fotografie, le pagine erano
bianche. Aprì il primo cassetto della scrivania; c’erano penne, matite, un astuccio per la scuola. Nell’altro cassetto libri di testo e quaderni. Lui ne prese qualcuno in mano, li conosceva bene quei libri. Poi sfogliò un quaderno per i compiti di matematica, un altro per quelli di italiano. «Guarda un po’!… Ci sono delle mie correzioni!». La signora Sanna annuì e si affacciò sulla pagina. L’ultimo cassetto conteneva due paia di scarpe da ginnastica abbastanza nuove. L’armadio era di quelli che si comprano ai grandi magazzini e si montano in casa. Una delle ante era fitta di ogni sorta di adesivi; alcuni erano stati strappati e ne restava l’impronta della colla. L’altra anta
aveva uno specchio. Solinas aprì l’armadio; maglioni, jeans, magliette e, in basso a lato, lenzuola e plaid. Richiuse senza toccare niente. In un angolo, un mobiletto stretto e lungo, con un’unica anta chiusa a chiave, era dipinto di blu elettrico. «No! Stia attento!». Ma Solinas aveva già girato la chiave. Tutto il contenuto esplose al di fuori del mobiletto rovesciandosi sul pavimento. Solinas ebbe un brivido. Centinaia di ninnoli, soldatini, pecorelle, pluti, alcuni gingilli non subito decifrabili. E ancora, macchinette, trenini, cavallini, collanine, roselline, biglie di vetro; ruzzolando giù, si sparsero per tutta la camera, fin sotto il letto e in ogni angolo, provocando un frastuono stridulo, quasi un urlo per aver
violato il privato del mobiletto. Solinas ebbe la sensazione di udire contemporaneamente anche un grido di Maria. Qualche biglia continuò a tintinnare festosa per conto suo. «Sono tutti i giochini che le regalava il nonno… glieli nascondeva e lei andava a cercarli. Ogni volta che rientravo dal lavoro mi mostrava quelli che aveva trovato. Il nonno glieli nascondeva dappertutto, in casa, nel cortile, se li metteva addirittura fin sopra i capelli». Solinas era rimasto pietrificato davanti a quella cascata di piccoli giocattoli. «Quanto si divertiva… professore! Professore!». Solinas si appoggiò allo spigolo dell’armadio facendolo ondeggiare.
Divenne cianotico. Si toccò gli occhiali, indeciso se levarseli o no. «Professore! Ma sta male!?». In uno stato di angoscia la signora Sanna prese la sedia che stava accanto alla scrivania. Gliela mise dietro le gambe. «Si sieda, coraggio professore, si sieda!». Si abbandonò sulla sedia. Teneva sempre lo sguardo inebetito sulla cascata di colori giocosi, che avrebbe dovuto suggerire solo allegria. «Non mi faccia preoccupare! Professore, sta meglio?… Vado a prenderle un bicchiere d’acqua. Oh Madonna santa!». Solinas non sentiva ciò che diceva la signora Sanna. Come invecchiato di dieci anni, si curvò lentamente verso i
giocattolini. Raccolse una manciata di gingilli e se li portò vicino al viso, quindi proprio sotto il naso. Li annusava, andava alla ricerca di chissà quale traccia olfattiva, un odore di pelle anziana o di terra, o il profumo delle mani di una bambina. Sentiva sopra la casa anche un violento temporale; vedeva l’acqua che entrava dalla veranda e i fulmini abbagliare una montagna di giocattolini che germinavano all’infinito dai mutandoni di un nonno. «Ecco professore. Beva subito un po’ d’acqua, lasci stare i giocattoli. Non si preoccupi per il disordine, li metterò a posto io». Glieli prese i ninnoli dal pugno. Solinas sorseggiò appena; la sua mano non era ferma.
«Va meglio…?» «Sì… sì, grazie». «Che spavento…». «Sto meglio, stia tranquilla. Deve essere stato un calo di pressione». Sorseggiò ancora un po’ d’acqua. «Sì. Sto meglio…».
34
Per tutta la prima settimana di settembre Solinas riprese a somministrare gocce di sonnifero a Maria, che comunque, ogni giorno riusciva a incontrarsi con Graziano, anche se solo per qualche ora. Diceva di sentirsi stanca, di aver bisogno di dormire. Graziano la vedeva impallidire; le diceva che gli sembrava strana, un po’ spenta. Maria dava la colpa al sole che la spossava, perciò non scendeva più in spiaggia.
«Il quindici di questo mese smetto di lavorare in quel locale. Ti starò più vicino. Vedrai, ti sentirai meglio». La confortava Graziano, in qualcuna delle pause che si concedevano separando le bocche per respirare. Quelle uscite di Maria, nel tardo pomeriggio, provocavano a Solinas un dolore indicibile. Girava per il salotto tormentandosi gli occhiali, sedendosi e alzandosi dal divano in continuazione. Per la settimana successiva aveva già pensato di aumentare le dosi di sonnifero. Non vedeva altre soluzioni, come non vedeva davanti al proprio naso, nei momenti in cui sentiva un dolore dietro l’orecchio destro, che preannunciava un leggero capogiro. Allora si sedeva e gli appariva solo la bocca di Maria incollata a quella
di Graziano. Per fortuna gli restava il dopo pranzo. Entrava nella camera di lei e le parlava sottovoce, le accarezza i piedi. Poi si sedeva sulla sedia, vicino al cuscino, e si chinava a darle bacetti sulla fronte, sul naso; le diceva che era proprio un bel naso, al contrario di quel che pensava lei. Poi scivolava su quella porzioncina tra il naso e il labbro superiore. Esitava appena le sfiorava la bocca. Ogni tanto guardava l’orologio. Appena si sentiva assalito dalla sofferenza, usciva dalla camera; l’effetto del sonnifero stava per finire e Solinas non voleva che lei alterasse, per lo spavento, i suoi dolci lineamenti abbandonati e protetti nel sonno.
«Oggi non vai a prendere la mamma?», chiese Maria, la domenica mattina. «Questa volta no. Ha detto che ha da fare… ti saluta tanto». «Mi dispiace, signora Sanna», aveva detto Solinas al telefono di una cabina un’ora prima. «Oggi Maria non vuole vederla, è un po’ strana… ma non si preoccupi assolutamente, è che… vuole stare tutto il giorno col suo amico, Graziano… sa come sono i ragazzi». Con la mano tremante lunedì mise nel bicchiere molte più gocce del solito. Solinas sapeva dove Graziano aspettava Maria. Alle sei del pomeriggio si mise a passeggiare verso la fine del lungomare. Con fare disinvolto andava su e giù. A una
di quelle svolte, già da lontano vide Graziano che occupava la panchina degli appuntamenti con Maria. Appena il ragazzo si accorse di lui, gli si avvicinò e cominciò a sorridergli. «Ciao Graziano. Ti stavo aspettando». «Buonasera…», ricambiò perplesso. «Maria mi ha chiesto il favore di venire, per dirti che oggi… non sta molto bene. Si scusa, ma preferisce restare a casa». «Non capisco. Che ha?» «Tu sei uno che le ragazze le conosce… sai come sono, ogni tanto… hanno i loro momenti». «…». «Ti andrebbe di bere una cosa insieme? Visto che…». Graziano si alzò dalla panchina con
l’aria stanca di chi fa una cosa solo perché non può fare altrimenti. Si sedettero ai tavolini di un chioschetto sulla sabbia, di fianco al lungomare. Metà dei tavolini erano vuoti. A settembre gran parte dei turisti e dei locali erano chiusi, lasciando Putzu Idu in quell’atmosfera malinconica da fine di qualche cosa. Solinas ordinò un’aranciata e una birra: «Non riesco a berla la birra io… non è che mi faccia male, è che proprio non mi piace». Graziano si guardò intorno, non aveva molto da rispondere. Solinas, come al solito, non trovò niente di meglio da fare che pulirsi gli occhiali col fazzoletto. Pareva lo facesse quasi con devozione, che ne rimodellasse la concavità delle lenti, ma era solo un modo per prendere
tempo e trovare l’attacco giusto. «Ciao Graziano!». «Ciao bello!». Due ragazze, andando a prendere posto in un altro tavolino, gli passarono vicino. Una gli strofinò la mano tra i capelli con l’aria sostenuta di chi può permettersi quel privilegio. «Ormai non ti fai più vedere… eh?». Graziano accennò solo un sorriso. «Certo, hai molti amici», commentò Solinas. Graziano sollevò le sopracciglia come per dire “insomma, abbastanza”. Bevve in un sorso mezzo bicchiere di birra. «Ti piace molto cantare, vero?» «Sì, molto». «Me ne sono accorto vedendoti sul palco, e quando ne parli».
«Già». «Dimmi, Graziano… con-con Maria», tossì, «stai facendo le cose per bene?» «In che senso?» «Nel senso che… tu ti sei accorto che Maria è un po’, diciamo, un po’ speciale…?». Graziano spinse indietro il viso appena stupito: «Speciale?», eliminò lo stupore. «Be’, a modo nostro, un po’ tutti lo siamo». «È giusto, dici bene. Tu sei un ragazzo in gamba». Non come tuo padre, avrebbe voluto aggiungere. «Però devi ammettere che Maria – sai, io la conosco bene – è speciale nel senso che, che ha qualche problema». «Chi è che non ha problemi?». Solinas sorrise forzatamente: «È
giusto anche questo. Però Maria… insomma, ha qualche problema psicologico, o come lo si può chiamare?» «…». «Tu non-non ti sei accorto di niente?» «Si spieghi meglio». «Insomma, devi capire che io, Maria, sto cercando di aiutarla… sono, sono come… per lei sono come un padre». L’ultima frase la disse tutta d’un fiato, sentendo freddo alla schiena, e tristezza nel petto. «Io di Maria sono innamorato. È questo che vuole sapere?» «Sì, volevo sentirtelo dire. Ma innamorato come?» «Innamorato! Non so. Come deve essere un innamorato…?» «Voglio dire, è una cosa seria?»
«Certo che è seria. Però se per seria intende che tra un anno dovremmo sposarci, allora, no, è fuori strada». Solinas bevve tutta l’aranciata. Graziano scolò la sua birra. Si voltò appena a incrociare lo sguardo delle sue amiche che avevano preso posto nello spazio della sua visuale. «Be’, è evidente che con tutte le ragazze che conosci, o che ti vengono dietro, se hai pensato a Maria è perché proprio ti…». «Mi piace. Sì, mi piace molto. Gliel’ho detto, ne sono innamorato». «E lei…?» «Anche lei lo è… tanto». «Capisco». Solinas avvertì un peso al cuore, ma fece di tutto per non farlo notare. Anzi,
esagerò nel mostrarsi soddisfatto, proprio come un padre che vede nel ragazzo della figlia il compagno più a modo che ci sia sulla terra. «Vuoi un’altra birra?» «Mmm sì, grazie». Solinas ordinò un’altra birra e un’altra aranciata, anche se non aveva più sete, e per di più si sentiva lo stomaco gonfio. Prese fiato: «Graziano. Puoi dirmi se…». Si interruppe. Arrivarono le bibite. Solinas era rimasto con la frase sospesa nel vuoto, con troppa aria nei polmoni. «Stava dicendo?» «Sì, stavo dicendo…». «Se…?» «Ah già, se…», buttò fuori l’aria, «insomma, Graziano, parliamo da uomini».
«E allora, da che sennò?». Solinas sorrise male. Fece scorta dell’aria malinconica di settembre. «Stai facendo l’amore con Maria?» «…». «Lo so che sono fatti vostri, ma, ti prego di capirmi. Come ti ho detto, io per Maria sono come…». «Un padre. No. Non facciamo l’amore». Solinas lo guardò incredulo. Avrebbe voluto scoppiare in una risata isterica, ma trattenne a forza quella gioia. Che altro era altrimenti? Una traccia di felicità, però, trasparì ugualmente. Graziano la notò con fastidio. «Mi scusi, professor Solinas. Non facciamo l’amore, non perché io non voglia, se dipendesse da me, da quando…
Insomma, visto che dobbiamo parlare da uomini… chissà da quanto avrei già fatto l’amore con Maria. È lei che non vuole». «Lei?» «Il fatto è che mi piace tanto, e non voglio perderla. Rispetto le sue idee, ma…». «Ma?», incalzava Solinas, che neanche si era accorto di essersi proteso in avanti come un assettato che chieda acqua. «Ma sinceramente non so quanto ancora potrò resistere. Non mi era mai capitata una ragazza così. Con le altre, sono state loro a chiedermi di farlo. Insomma, ci si conosce e si va a letto. Non si va troppo per le lunghe, capisce?» «Ca-capisco». «Con Maria, invece, baci, bacini…
non si può andare oltre, Sembra una ragazza di un altro mondo. Di un’altra epoca». «Un’altra epoca…». «E se lei si nega… mi fa impazzire… mi attrae, accidenti a me. Non so, però, glielo ripeto, visto che vuole sapere; non so quanto ancora potrò resistere». Solinas si rese conto del suo stato di eccessiva concentrazione. Si appoggiò nuovamente allo schienale della sedia. «Be’, te l’avevo detto che Maria è una ragazza particolare… Scusami, ma almeno ne parlate?» «Si sbottona poco, è molto chiusa». «Sapessi come era solo un anno fa». «Parla sempre del nonno, quando parla. Che palle questo nonno!». «Che intendi?», incalzò Solinas.
«Che il nonno le consigliava di non farsi mettere le mani addosso dagli uomini, quando fosse cresciuta. Di farsi rispettare. Di essere solo lei a prendere le decisioni… Insomma, tutte quelle cose lì. Le avrà fatto un lavaggio, le avrà fatto». «Era molto legata al nonno, sai?» «L’ho capito che era legata. Ma mi sa che l’ha anche rinco…». «…». «Da poco… ma sì, visto che stiamo parlando. Da poco mi si è spogliata nuda davanti. Tutta nuda e non ha voluto che la toccassi. Là però mi sono incazzato!». Solinas non aveva più saliva in gola, solo un deserto. «Adesso devo andare. Grazie della birra». Si alzò. «Spero che domani, Maria… voglio vederla assolutamente».
Anche Solinas si alzò: «È meglio che te lo dica subito Graziano. Maria sta attraversando un periodo di… di crisi. Non so quanto avrà voglia di vederti». «Come non ha voglia di vedermi?» «Graziano! Ciao!!». Un amico lo salutò passando sul lungomare. «Ciao Albè! Se quando siamo insieme mi dice che non vede l’ora di vedermi. Che sono il suo unico pensiero, che…». «Non vorrei deluderti, ma non è proprio così, Graziano». «Come, non è così?» «Non prendertela. Sai come sono le donne. Dicono una cosa e ne fanno un’altra. In questo momento, ti ripeto, Maria si sente stanca e…». «Che sia stanca me ne sono accorto anche io».
«Hai visto? Ma certe cose non te le dice. Non vuole, forse non vuole farti restare male». «Arrivederla professore!». «Mi raccomando. Devi avere pazienza. In seguito, chissà…». Graziano si era già allontanato: «Questo lo vedremo!», e lo disse come una minaccia. Solinas si sedette e chiese il conto. Fissò la seconda aranciata che non aveva bevuto. Pagò. Quel giorno fu la prima volta che vide in Graziano un vero pericolo. Fu anche la prima volta in cui pensò di ucciderlo. Ma il pensiero era così stonato e comico, dentro la sua testa, da provocargli una risata interiore. Tornò a casa che il tramonto si era
appena spento. In cielo restavano ancora strisce di colore. Maria si era svegliata. Aveva fame e mal di testa. Solinas le portò da mangiare a letto. Le mise due cuscini dietro la schiena. Se lei voleva, l’avrebbe imboccata lui. Maria disse che non era il caso. Lui le stette vicino durante il pasto; la coccolava con gli occhi. «Forse dovrei prendere di nuovo le mie medicine…», mormorò Maria a un certo punto. «Ma no. Hai solo bisogno di riposare. E se hai bisogno di dormire non fartene un problema». «Dici…?» «Ma sì!». «Voglio vedere Graziano». Solinas guardò il muro.
35
Solinas mise ancora più gocce nel succo di Maria, anche il giorno dopo, a pranzo. Durante la notte l’aveva sentita camminare per casa. Era normale che lei non avesse sonno. A tavola disse che si era addormentata solo verso le sei. Si era alzata poco prima di pranzo ed era entrata in cucina completamente stordita e pallida. «Questo pomeriggio vorrei scendere in spiaggia, ti va?»
«Certo. Se te la senti». «Magari il sole mi fa bene». Si addormentò e si svegliò alle venti, invece. Graziano non si fece vedere. Alle tre di notte Solinas guardò l’orologio da polso poggiato sul comodino. Sentiva che Maria girava per la casa. Metteva qualche CD a basso volume e camminava. Entrava in bagno, poi, ancora, andava a sostituire il CD. Erano le quattro quando Solinas sentì aprire la porta della sua camera. «Bisogna farli passare sul ponte…», disse Maria, strascicando le parole. «Come?… Maria, che c’è… non riesci a dormire?» «…Ho mal di testa». «Ti preparo una camomilla? Ti va?» «No. Adesso vado a dormire».
Dopo quattro giorni di dosi massicce, Maria sembrava assente. Lentamente stava regredendo a uno stato letargico. Dormiva tutto il giorno. Si svegliava solo per mangiare. Qualche volta diceva di avere nausea. Inspiegabilmente Graziano non si era più visto, ma la cosa rendeva Solinas ancora più irrequieto. Il momento che aspettava con più ansia era il primo pomeriggio, quello più sicuro. Baci, carezze e tutte quelle delicatezze sul volto, sui piedi e sulle mani di Maria, trasformavano il suo essere in quello di un santo in estasi. Le persiane erano appena socchiuse; quel tanto che bastava, a due lamette di luce, per infondere una morbida penombra. Tutta la vita sonnolente di cui si nutriva il paesino, nel primo pomeriggio
di metà settembre, avvolgeva quella casa in un timido abbraccio. Ogni tanto Solinas leggeva, sussurrandoli, brani tratti da romanzi che le aveva già letto. Poi, alla fine di un capitolo mormorava: «Vuoi un altro bacino, tesoro? Te lo devo dare io? Come vuoi amore». Si chinava, così, per rispettare quella muta richiesta, sulle labbra di Maria. Quando infine usciva dalla camera, si soffermava sulla porta per ammirare ancora quella tenerezza abbandonata sul letto. «Non sono pazzo», le diceva, con una voce appena percettibile. «Lo so, se uno mi vedesse lo penserebbe. È che io… io…». Allora si chiudeva dietro la porta e gli occhi gli si inumidivano.
La quinta notte Solinas si svegliò di soprassalto, convinto che i rumori e i fruscii di Maria arrivassero dalla casa. In realtà si rese conto che ora qualcosa avveniva proprio dentro la sua camera. Accese l’abat-jour. La lampadina tremolava indecisa. Solinas si sporse e l’avvitò. Si guardò intorno. Maria spostava il suo volto dalla destra alla sinistra della sedia. Poi si trascinò in ginocchio verso l’armadio. Solinas non poteva vedere la sua espressione, ma la intuiva. Ne ebbe paura come ebbe paura di se stesso. Scostò il lenzuolo e si sedette sul letto. «Maria, per favore. Per favore…». Si alzò in piedi e fece un passo in avanti congiungendo le mani in segno di preghiera. «Maria, per favore. Adesso vai
a dormire… Maria!». Si spostò per cercare l’interruttore della luce vicino alla porta. «No!!», gridò lei, appena lo vide tastare il muro intorno alla placchetta. Solinas si pietrificò; capì, in un secondo di lucidità, che ormai aveva perso su tutti i fronti. Lasciò cadere un braccio morto addosso a un corpo morto. Chissà perché gli vennero in mente quei frammenti di intonaco, caduti senza vita in casa della signora Sanna. Maria si alzò in piedi e uscì dal buio. Indossava la camicia da notte e sopra una maglietta bianca con su stampata la foto di un gruppo rock. Emise un risolino furbetto, dei suoi soliti, ma che fece rabbrividire Solinas. Maria lo accompagnò vicino al letto e con
fermezza, tirandogli il braccio, lo costrinse a sedersi sul bordo. Maria si mise allora a girare per tutta la stanza; rovistava, spostava e apriva ante. Rigido com’era, Solinas riuscì a voltare appena la testa, che brillava di sudore vicina all’abat-jour. Maria stava scovando e raccattando gingilli che chissà quando vi aveva nascosto. Con i pugni pieni di quegli affarini andò a posarli sul letto alla sinistra di Solinas. Assunse un’aria soddisfatta e si inginocchiò davanti a lui. Gli divaricò le gambe e infilò le mani nella patta del pigiama. Ne tirò fuori il pene, che al solo contatto divenne duro. «Adesso passeremo sul ponte… Dàii, dillo tu», fece Maria, guardando con noncuranza, mentre li sceglieva, i
giocattolini alla sua destra. Solinas, che non capiva, balbettò qualche suono gutturale. «Dillo tu! Ti ho dettoo!!», urlò Maria, fissandolo adesso negli occhi. «Ssul-ponte… adesso pa-sseremo…». Lei si tranquillizzò. Con un sorriso sereno, poco accennato, prese il primo animaletto, una pecorella, e la poggiò sul membro tenuto con l’altra mano perfettamente orizzontale. Dai peli verso il glande fece fare tre saltelli alla pecorella. «Passa il ponte la pecorella… Ponte pecorella!», e la posò sul letto alla sua sinistra. Quindi prese un omino delle caverne. «Passa il ponte l’omino… Ponte omino!», e poi sul letto a sinistra. Fu ora
il turno di una rosellina di ceramica bianca. «Passa il ponte la rosellina», disse concentrata Maria. Questa volta non c’era il frastuono del temporale né l’accecante luce dei fulmini, ma solo una lucina per letture notturne, che non era in grado di assolvere il compito gravoso di illuminare con dignità quel teatrino sbilenco. Meglio così. Ad avvicinarsi al cuore della rappresentazione, magari con una lente di ingrandimento, si sarebbe potuta cogliere ugualmente tutta la dolcezza e la violenza di gigantesche mani rassicuranti, che aiutano povere bestiole e uomini senza più patria, ad attraversare un ponticello pericolosamente ondeggiante. «Ponte rosellina!», gridò Maria.
A Solinas vennero in mente il padre maresciallo, i bottoni della sua divisa e il fratello Pietrino. Irrigidito sulle braccia, puntava le mani ai bordi del letto. Sosteneva il busto diritto, come fosse offerto al plotone. E che qualcuno facesse veramente fuoco! Anche Letizia Flores gli venne in mente, e suo figlio con i suoi braccialetti. «Ponte asinello!... Ponte indiano!...» Maria andò avanti fino a che una ventina di esserini di plastica fecero il proprio dovere. L’ultimo a passare il ponte fu un aviatore della prima guerra mondiale. Passò sul ponte un attimo prima che questo si afflosciasse nel burrone sopra il quale era teso. Solinas colpì il cuore di Maria, preciso, proprio al centro. Le ingrigì la maglietta nel punto che
confinava con la testa del batterista. Lo sperma colò con pazienza fin sulla fronte e sugli occhi dell’ignaro musicista; adesso aveva un’altra espressione, meno dura. Il resto del liquido finì in basso, in fondo al burrone. Possibile che il motorino che si sentiva passare di fuori, a quell’ora, fosse quello di Antioco Mura? Solinas non ne era sicuro.
36
«Attento con gli scarponi! Non rompere lo strato superiore, altrimenti esce sangue!». «Embè? E allora?» «Ti ho detto di stare attento! Sennò zampilla il sangue!». «E allora…?» «Oh Cristo Santo! Lo vuoi capire che sotto è pieno di sangue!!». «E allora?» «Attento alle rose di ceramica!! Non
lo vedi che questo ponte ne è pieno!!». «Embé…?» «Attentooo! sono fragili! Fragiliii!!». Solinas sbarra gli occhi e con uno scatto sposta lenzuola e trapunta. È un movimento brusco che gli ricorda il dolore ai reni. Il sudore gli ha attraversato la maglietta e raggiunto la giacca del pigiama. Da tanto non aveva più quell’incubo che lo aveva perseguitato per anni. Scende dal letto a fatica. Quel sogno ha rovinato tutto il riposo di una notte. In cucina si prepara il caffè. Dovrebbe prima mangiare un po’ di frutta a stomaco vuoto, ma non ne ha voglia. È un fine marzo già molto caldo, troppo. In pigiama esce nel cortiletto, guarda il mare, inspira una profonda boccata
d’aria smossa dallo scirocco, e fa una smorfia di dolore portandosi le mani sulle reni. A settantatré anni si ritrova pieno di acciacchi. Troppi, ripete spesso lui; acciacchi che l’hanno fatto invecchiare eccessivamente. È dimagrito, la faccia è cadente. Solo lo stomaco si spinge in avanti, rotondo e prominente. Ma quando si guarda allo specchio sorride. Pensa allo scherzo provocato dal tempo che passa; alla vaga illusione che in fondo scorra un po’ più lento di quello che sembra. Va verso un lato del cortiletto dove sono coltivati prezzemolo e basilico. Come ogni mattina saluta le sue piantine che spandono intorno il loro profumo, e quando c’è un po’ di brezza rumoreggiano crocchianti di salute.
Solinas usa un buon concime biologico, ma è convinto che vengano su così bene grazie anche alle ossa di Graziano che riposano là sotto. È un’idea che non si è mai tolto dalla testa. Non riesce a consumarle tutte, quelle piantine, così ne regala mazzetti ai vicini, che adesso abitano a Putzu Idu per l’intero anno. Antioco Mura è l’unico che non aspetta che gliele porti Solinas; va lui a prendersele direttamente. Ha una nuova motocarrozzella, rossa, ed è ancora in salute. «Ma come fa lei a essere sempre così in forma!», gli domanda spesso Solinas. Antioco Mura ride, e dice una delle sue banalità: «Cosa vuole professore, mi accontento di poco… mi basta vivere…!», e ride.
È sabato. A metà mattina verrà Antonio a prenderlo per portarlo a Riola. Tutti i fine settimana li trascorre nella casa dove è nato, e dove ha sempre la sua camera, che Giovanna tiene pulita e in ordine. Da quando Maria gli fu portata via dalla signora Sanna, risiede definitivamente a Putzu Idu. In tutti questi anni ha reso la sua casa comoda anche per l’inverno; ha fatto alcuni piccoli lavoretti e ha installato il telefono. Non ha più vissuto a Riola, non tanto per il timore di essere invadente nei confronti della famiglia del fratello, ma per la sensazione di sentirsi troppo osservato, che tutti sapessero e lo giudicassero. Ha ripreso il suo lavoro di insegnante
all’università della terza età, a Oristano. Viene a prenderlo e lo riporta il signor Firinu, uno dei suoi allievi. Sono dieci anni che Solinas non guida più la macchina. Per la paura del troppo traffico e per il tremore che lo assaliva appena si sedeva al volante. Quello stesso tremore che lo aveva avvolto guidando da Oristano a Putzu Idu col cadavere di Graziano. La sua bella macchina dalla linea sportiva la tiene però sempre parcheggiata davanti casa. Adesso sembra un’auto d’antiquariato, non l’ha mai voluta vendere. Oltre al brutto ricordo, quell’auto ne conserva di bellissimi, gli evoca una sorta di peccato di gioventù; una trasgressione. Un giorno sì e uno no la mette in moto. Fa il giro di un isolato e la
parcheggia nuovamente al suo posto. Appena tira il freno a mano sente che, cento metri ancora e lo assalirebbe il tremore. Solinas è tornato nella sua camera. Si veste, e con fatica si allaccia le scarpe. È il momento della giornata in cui sempre pensa di dover fare qualcosa per alleggerire l’ingombro della sua pancia. Ma è solo un pensiero privo di una solida motivazione che lo renda attuabile in pratica. Si raddrizza sbuffando per la fatica. Allo specchio dell’antico comò, vede le spalle di Pluto. Il giocattolino è coperto da un vecchio dizionario. Solinas qualche volta lo nasconde, quel ninnoletto, altre volte lo lascia bene in vista. Pluto lo trovò fra i cuscini del divano, quasi un
anno dopo che Maria era tornata a casa sua. «E va bene. Mi vuoi dire qualcosa? Eh?». Solinas punta le mani sulle ginocchia e si dà una spinta per alzarsi. Si avvicina al comò e sposta il dizionario. Pluto ce l’ha ora di fronte. «E parliamo…», dice Solinas, con una voce che invecchiando si è fatta più sottile e raschiata. Torna a sedersi sul letto. «Sì, ma tu mi vuoi ricordare sempre le stesse cose. Non possiamo cambiare argomento? Come…? Sarei io che non voglio parlare d’altro? Ma guarda questo. Sono dieci anni che non fai altro che ricordarmi Maria… Maria qua, Maria là… insomma, basta». «Sei stupito che mi abbia invitato al
suo matrimonio! Perché? In fondo mi sembra una cosa molto educata; anche dopo tanto tempo si è ricordata di me, hai visto? Pezzettino di plastica…». Si sente il campanello. «Arrivo!», grida Solinas dalla finestra socchiusa. La chiude, tira giù la persiana e va alla porta. «Ciao. Sei pronto?», chiede Antonio. «Sei in anticipo, oggi. Comunque sono pronto. Chiudo il resto della casa». Si aggiusta gli occhiali e va a chiudere le altre finestre. Antonio lo aspetta sulla porta. Lui è invecchiato bene; sembra ben più giovane del fratello. È rimasto asciutto, non si è ingobbito e ha la faccia incisa da poche rughe che lo fanno sembrare un vissuto attore del cinema. I capelli candidi, ancora folti, sono tirati
indietro e lucidati dalla brillantina, che adesso va di nuovo tanto di moda. Mario lo raggiunge sulla porta. «Vuoi un po’ di basilico? Magari a Giovanna…». «Per favore! E basta con quel basilico. Lo sai che non ne voglio sentir parlare, accidenti!». «Va bene, scusa, scusa…». Salgono in macchina. Passano davanti alla casa di Ottavia Lussu, che da anni, ormai, lei affitta a turisti in estate e inverno. È partita per Roma, Ottavia Lussu. Vive in un appartamento sotto quello della figlia. Solinas guarda quella facciata bianca come un altare; tutti gli anni riceve una nuova tinteggiata, e pare ogni volta più abbagliante e più protettiva nei confronti
dei languidi respiri che, Solinas, è convinto ancora di sentire. Lui spera sempre che lei ritorni. Gli piaceva tanto sentirla parlare, o comunque, anche solo sapere che c’era.
37
A metà settembre Graziano smise di suonare nel locale. Fu occupato solo in pochi concerti nelle feste di paese. Tutte le mattine e tutte le sere cominciò a fare la posta attorno alla casa di Mario Solinas. Maria non usciva più, e col passare dei giorni chiese sempre meno di Graziano, fino a scordarlo quasi del tutto. Dormiva fino al tardo pomeriggio e quando si svegliava non aveva stimoli ed energie per nulla.
Solinas aveva comprato una tivù portatile. Lei vi si sedeva davanti; così, imbambolata, passava le ore. Il luccicare della maiolica nera dei suoi occhi si era affievolito. Solinas le portava da mangiare sul divano e, dopo le undici di sera, le somministrava altro sonnifero dentro una bibita. A mezzanotte Maria crollava nuovamente. Solinas era riuscito ad avere ciò che voleva; un bacino tutte le sere. Mentre lei mangiava – molto poco a dire il vero – le sedeva accanto sul divano, e con fare bambinesco le chiedeva: «Ti è piaciuta la cenetta?». Con un vago cenno del capo lei diceva di sì. Allora lui si sporgeva di lato e, chiudendo gli occhi, le offriva la guancia che ultimamente rasava con cura
maniacale. Maria, con lo sguardo nero e assente, mirava quella guancia e si accostava per baciarla. Qualche volta Solinas, all’ultimo momento girava un po’ il viso, e il bacio poteva cadere sul confine con le labbra. Maria riprendeva a mangiare e a guardare la tivù. Lui avvertiva salirgli dentro una specie di estasi. Era quello ciò che voleva, solo quello: un bacino che Maria gli consegnasse spontaneamente. Tanto erano delicate quelle labbra quasi tonde, che si schiudevano sulla pelle, lasciando fluttuare un leggero alito di latte, che Solinas aveva paura di perdere i sensi. Tranne pochissime altre volte, Maria non fece più passare sul ponte i ninnoletti, e neanche danzò nuda. Ma a Solinas questo non mancava. Il bacio invece lo
illudeva di essere sinceramente amato, che tutto quel suo amore, talmente sproporzionato a quell’età, da non poterlo reggere, fosse ricambiato. Un amore nutrito anche solo con un bacio. Solinas usciva di casa solo per fare la spesa. Restava chiuso dentro per difendere quell’esserino fragile che adesso era tutto suo, nelle sue mani. Cominciò ad avere problemi con la signora Sanna, che iniziava a mostrarsi seriamente preoccupata. Le scuse che inventava Solinas erano sempre più deboli, e non riuscivano affatto a tenere a bada la madre. Stava già mettendo in cantiere un viaggio con Maria che lo portasse lontano da controlli e dalla Sardegna. Il problema più incombente era
Graziano. Dalla finestra, con le persiane socchiuse, Solinas lo vedeva passare per strada o, da dietro la tenda della veranda, lo osservava mentre stava seduto ore e ore sul muricciolo che delimitava il cortiletto. In quei momenti usciva veloce dalla porta che dava sulla strada a fare un po’ di spesa. Era così agitato, che certe volte non aspettava neanche il resto. «A domani, a domani», rispondeva alla cassiera. Varie volte Graziano bussò alla porta, e solo due volte gli venne aperto. La prima, Solinas si mostrò ancora gentile, nascondendo faticosamente la tensione. Riuscì ad allontanare Graziano illudendolo che di lì a qualche giorno avrebbe potuto incontrare Maria. La seconda invece si ritrovò ad alzare la
voce, usando una scortesia che non gli era mai appartenuta. Era del tutto calato nel suo ruolo di difensore, e tutto gli sembrava lecito. Chiuse violentemente la porta in faccia a Graziano. Uno degli ultimi giorni di settembre, una domenica, quando uscì dalla cabina telefonica, dopo aver maldestramente rassicurato la signora Sanna, si trovò di fronte Graziano. «Allora, professor Solinas, la vogliamo finire con questa commedia?». Solinas ebbe un sussulto. Era già turbato dall’idea che la signora Sanna avrebbe comunque voluto vedere la figlia, quando, a un metro di distanza, si trovò Graziano che lo sfidava con uno sguardo duro. Solinas percepì nettamente la corda che gli si stava stringendo addosso.
Si aggiustò gli occhiali con la mano tremante. Fece un mezzo sorriso, che subito spense diventando più serio e onesto che poteva. «Co- commedia…?», farfugliò. «Ma a chi la vuole dare a bere. Professor Solinas, eh?! A chi la vuole dare a bere!». «Graziano, non capisco a cosa ti stai riferendo… E poi, cos’è questo tono?» «Non sto pensando niente di male, professore… penso solo che lei è un gran figlio di puttana, un gran figlio di puttana che approfitta di chi è indifeso. Ha capito cosa è?!». «Ma tu-tu, come ti permetti…? Spostati, non sei in te, con te non parlo». Solinas fece un passo in avanti evitando Graziano che gli si era accostato
minaccioso. Ma ricevette una spinta a cui era impreparato, e vacillò per tenersi in equilibrio. Gli si stampò in faccia un’espressione instupidita, non avrebbe mai immaginato che Graziano arrivasse a tanto. «Tu sei nella merda, caro professore. Io ti sputtano. Quanto pensi di tirare avanti così eh?! Stronzo! Quanto?!». Solinas non riusciva a parlare. Balbettò qualcosa ma non fu certo convincente. Sentiva la gola secca. «Allora? Non mi dici niente? Eh…?!». Minnacciandolo, Graziano prese a spintonarlo. «La stai facendo troppo sporca, caro professore…». Solinas ebbe un moto di stizza, unica ribellione a quelle insistite spinte sulla spalla. Provò a rispondere, ma Graziano
appoggiò con rabbia la sua mano sul volto di Solinas, lo strinse e lo spinse indietro, facendogli perdere l’equilibrio, in una girandola di movimenti scoordinati e non belli da vedersi. Dopo aver cercato di aggrapparsi all’aria e al braccio di Graziano, si ritrovò a terra, investito da un profondo senso di pena, a guardare, senza gli occhiali, le scarpe da ginnastica sfocate di Graziano. Si girò carponi e subito prese a tastare il terreno cercando gli occhiali. Sotto le ginocchia sentiva i sassolini della terra battuta, e li sentiva anche sotto le palme delle mani che invocavano il contatto con l’oggetto familiare. «Te lo dico io, professore, che la finirai con questa porcheria! Solo qualche giorno! Te lo dico io!».
Un gruppo di giovani e una coppia di anziani si erano fermati a guardare lo spettacolo. Nessuno intervenne, perché troppo presi dalla pena che offriva quella scena. Solo la signora anziana disse a bassa voce: «Andiamo, andiamo…», e il marito sussurrò appena: «Che vigliacco. Proprio come tutti i giovani d’oggi; vigliacchi…». Solinas trovò gli occhiali, ma una stanghetta era divelta. Si alzò in piedi senza dar segno di provare dolore che sentiva invece forte al bacino e a un braccio. Con la mano libera si spolverò i calzoni sulle ginocchia. Poggiò gli occhiali sul naso, con l’aiuto dell’altra mano. Pareva tenesse un monocolo. Guardò Graziano negli occhi, con quella poca forza di convinzione che gli era
rimasta, ma sufficiente perché lui capisse che non avrebbe facilmente mollato quell’unico amore della sua vita. Graziano non disse altro. Solinas ne approfittò per fare un passo in avanti; aveva l’espressione degli orbi che vogliono cercare di vedere. E questa volta lo sguardo era penosamente di sfida. «Vaffanculo professore», disse sprezzante, Graziano. Si voltò e se ne andò. Con la mano che reggeva gli occhiali, Solinas guardò il ragazzo allontanarsi. Abbassò il capo, notò ancora della polvere sui calzoni. Volse la testa intorno soffermandosi sulle facce di ciascuno degli spettatori. Questi, come a un segnale, distolsero contemporaneamente lo sguardo e ripresero il passo che
avevano interrotto. Rendendosi conto fino in fondo di ciò che era successo, dopo qualche istante d’immobilità, Solinas si diresse rapidamente verso casa, ma subito fu costretto a rallentare a causa del dolore al bacino. Il primo pensiero fu quello di affrettare la partenza. Aspettare ancora una settimana, come aveva ipotizzato, ormai non poteva più. Due, massimo tre giorni, e con Maria sarebbe dovuto salire su un aereo. A Roma, intanto, poi da quell’aeroporto per un’altra qualsiasi destinazione; in Portogallo, magari, oppure in Marocco. Non era poi così importante. La sera preparò un veloce sugo con pomodori freschi e basilico. Era nervoso
e svogliato. In salotto Maria guardava la televisione che la bagnava di luce azzurrina intermittente. Col piatto di spaghetti Solinas le si accostò e, guardandola, si ricordò di quella prima volta in cui l’aveva portata al cinema all’aperto. «Maria. Se facciamo un viaggio, dove preferiresti andare…?». Solo dopo un po’ rispose: «Non lo so…». «Eccoti gli spaghetti. Mangia adesso». Le stese un tovagliolo sulle gambe e poi le porse il piatto. «Ecco, tesoro mio. Coraggio, mangia». Maria mangiò guardando lo schermo. «Ti piacerebbe in Portogallo? Eh…?» «…Sì».
«Oppure… in Africa… in Marocco per esempio… eh?» «…Sì». Solinas si tolse gli occhiali. Avrebbe dovuto cambiare la montatura prima di partire. Salire su un aereo con quegli occhiali sarebbe stato proprio indecente. Gli conferivano un aspetto misero. Due giorni dopo, verso l’una, stava caricando in macchina la sua valigia e quella di Maria, che lui stesso aveva preparato. I biglietti li avrebbe fatti direttamente all’aeroporto. In quegli ultimi due giorni era stato assalito da un sempre crescente panico accompagnato da insonnia e capogiri. Partire! Partire il prima possibile, e avrebbe ripreso a respirare, a vivere, ne era sicuro. Così come era sicuro che in
un’altra parte del mondo non avrebbe più avuto la necessità di drogare Maria. C’erano tutte le condizioni perché lei gli si affezionasse totalmente. Maria si era alzata. Aveva trascinato i suoi piedi in bagno. L’acqua che ora scorreva aveva le stesse alte frequenze della carta stagnola con cui Solinas avvolgeva i panini. Ancora in camicia da notte Maria entrò in cucina. Si teneva le mani sulla fronte e sugli occhi, come se provasse fastidio per la luce, ma con le persiane quasi abbassate, ne entrava ben poca. «Maria vestiti. Partiamo». «…?» «Su vai, io intanto ti preparo un bel caffè». Maria non rispose o forse non capì ciò
che le disse Solinas. La prese delicatamente per un braccio e l’accompagnò nella sua camera, cercando di usare tutte le attenzioni che si usano con un’inferma che non cammina da molto tempo. Non riusciva, però, a frenare l’angoscia che ormai lo devastava; una sorta di premonizione negativa gli girava in testa. Prese i jeans di Maria e glieli infilò, senza nemmeno toglierle la camicia da notte. Poi le infilò la maglietta. Lei lasciava fare come fosse nelle mani di un burattinaio. Le infilò quindi le scarpe da ginnastica ed era pronta. «Ecco, adesso andiamo alla macchina… il caffè lo prenderai in strada, in strada, sì…». Quando Solinas, con Maria tenuta per un braccio, si affacciò sulla porta, ebbe un
tuffo al cuore che, invece di provocargli un’espressione di terrore, gli fece nascere un sorriso quasi da scemo. Vicino alla sua auto c’erano la signora Sanna, un’altra signora e Graziano. «Maria!», gridò la signora Sanna. «Professore che succede!? Che le ha fatto!! Che le ha fatto!!». Si avvicinò alla figlia guardando con spavento tutto quel pallore e quello sguardo opaco di cui Maria era piena. La abbracciò. La prese poi per mano. Si accostò anche Graziano che l’aiutò a portarla verso l’auto. «Maria, Maria come stai, piccola mia…». «Mamma… sono stanca». Prima di salire nell’auto, la signora Sanna si voltò a guardare Solinas. Era così incredula che non riuscì a emettere
alcun improperio, a gridargli la sua rabbia. Solo il suo sguardo accusatore, appuntito, parlava per lei. Graziano chiuse la portiera alla signora Sanna e a sua volta si girò verso Solinas: «Figlio di puttana», disse, senza gridare, con tutto il disprezzo che gli albergava in corpo. Il professore non poté sentirlo, ormai viveva nella sponda dei morti. Quando partirono rimase pietrificato. Non si rese nemmeno conto di avere ripreso a respirare.
38
La prima cosa che Mario Solinas avverte appena entra nella casa di Riola, è il profumo del pranzo: sugo con basilico, mentre in sottofondo avanza l’aroma della torta che cuoce nel forno. Da quando in quella casa abita Giovanna non c’è mai stato un fine settimana senza torta. «Ciao zio!», gli si fa incontro Marcello, il figlio più piccolo di Giovanna, che adesso ha quattordici anni.
È un po’ grassottello, Solinas non riesce mai a evitare di dargli un pizzicotto sulle guance. «Come va Marcello. La tua ginnastica?» «Sì… la ginnastica!», fa la madre, affacciandosi sulla porta della cucina. «Sempre davanti a quel computer! Finirà che glielo butto via!». Si asciuga le mani sul grembiule. Le sue grosse braccia rosa si armonizzano sul tessuto a fiorami dai colori cangianti. «E lei come sta?… La sua schiena?» «Ma sì, va bene, va bene…». È entrato anche Antonio, che si accosta alla moglie e le dà un bacio sulla guancia: «Massimo?», chiede di sfuggita. «E dove vuoi che sia? Con gli amici a fare il filmino. Non verrà prima delle
due». Mario entra in cucina e va a curiosare ai fornelli. «Ha fame? Tra mezz’ora mangiamo», dice Giovanna, aprendo il portellone del forno. «È pronta. Bella eh?». Solinas si affaccia e viene investito dal profumo della torta. Si è chinato un po’ troppo; accusa il dolore ai reni e si porta una mano al fianco. «Secondo me, alla sua schiena, l’umidità del mare fa male», dice Giovanna. «Ma no, ma no». «In salotto ci sono i fiori da portare al cimitero». «Grazie Giovanna». A pranzo Marcello mangia per due. Mario Solinas lo guarda con
soddisfazione, Giovanna con disappunto, e Antonio lascia fare. Alla torta entra Massimo trafelato. È un bel ragazzo magro e alto di diciassette anni. «Ciao zio!», saluta sbrigativamente, prendendo il suo posto a tavola. «Be’? A che punto sei col film?», gli domanda Solinas. «Abbiamo dei problemi con le armi… si capisce troppo che sono giocattoli». Mangia divorando in fretta tutto quello che può. «Piano accidenti! Vuoi mangiare piano?», lo rimbrotta la madre. «Scusa ma ho poco tempo. Tra mezz’ora devo essere di nuovo sul set, al lavatoio». «Ma perché fate un filmino sulla
guerra? È complicato… e poi la Iugoslavia non è troppo sfruttata?», domanda Solinas. «È un genere, zio; tira sempre. Dentro, però, ci abbiamo messo anche una storia d’amore». Schizza in piedi e con le mani alzate saluta tutti. Allo zio riserva una confidenziale pacca sulla spalla. È da molto che Solinas non porta i fiori al cimitero. Ci va a piedi. È l’unico uomo che sbriga questa faccenda. Per strada incrocia solo donne. La tomba dei genitori e di Pietrino è situata nella zona vecchia del camposanto. Là le tombe sono semplici e suggeriscono serenità. Marmi bianchi, qualche piccola scultura, semplici scritte e foto in bianco e nero.
Si reca al cimitero appena viene aperto e c’è ancora poca gente. Al rubinetto riempie d’acqua una bottiglia di plastica che porta con sé insieme ai fiori. Versa l’acqua nel vaso di marmo bianco e vi colloca i gladioli, che in parte sbocceranno anche dopo una settimana; basta staccare l’ultimo bocciolo superiore. Legge i nomi dei genitori incisi sul marmo, e quello di Pietrino che è incollato con i caratteri di bronzo, diventato ormai verde. Si siede sul bordo della tomba, si asciuga il sudore e ascolta le parole di gesso che gli sussurrano le ossa di Pietrino. La giornata di fine marzo è proprio calda. Solinas annusa il profumo del pino a un metro di distanza e sente in lontananza un rumore che pare
un’invasione di cavallette. L’aria calda dello scirocco si è d’un tratto rinfrescata. Il rumore si fa sempre più vicino; sembra ora una mitraglia. Troppo tardi si accorge di ciò che succede; quando ormai la grandine martella violentemente le prime lapidi e statue della zona nuova. Nel volgere di un paio di secondi la grandinata ha invaso tutto il camposanto. Solinas si alza a fatica e, coprendosi la testa con le mani, si affretta come può verso un muro di loculi, alto circa tre metri. Anche le donne si accostano in quel punto che sembra essere l’unico a offrire un misero riparo. L’ultima donna, la più lontana, che solo adesso si è accostata al riparo del muro, ha qualcosa di familiare. È tutta bagnata. Alza la testa sorridendo imbarazzata a quel gruppo che nel giro di
un minuto ha già solidarizzato. Solinas aveva ragione; è proprio Letizia Flores. Anche lei adesso si è accorta di lui. Per un po’ si guardano, indecisi se sorridersi, salutarsi, o che altro fare. È Solinas a decidersi: «Come sta signora Flores…?», chiede, levandosi una mano dal capo per porgergliela. «Abbastanza bene», fa lei, togliendosi a sua volta una mano dalla testa per consegnarla a Solinas. «Quanta grandine eh…?», aggiunge lui. «Come!?» «Quanta grandine dico!!». «Eh sì! Chi se l’aspettava?». Sulle statue di bronzo provoca uno scampanellio assordante. I due hanno dimenticato le mani
ancora strette. Letizia Flores allenta la presa e riprende a ripararsi la testa strizzando gli occhi. Il vociare delle altre donne intorno e il frastuono della mitragliata non riempie il silenzio che si fa spazio tra loro due. Solinas ha tutto il tempo di leggere la scritta sul loculo al suo fianco: “Il lavoro fu norma costante della sua vita. Alla famiglia consacrò tutto se stesso. Dio concede pace a lui che lasciò ai suoi cari la luce incorrutibile della sua umile bontà”. Solinas rilegge e si sofferma sulla T mancante. La grandinata, così come è arrivata, con una sforbiciata scompare. Le donne, aggiustandosi i capelli e scrollandosi l’acqua di dosso, tornano alle loro mansioni. Sono tutte più allegre, come per
effetto della grandinata. Solinas e Letizia Flores restano ancora là, cercano qualcosa di buono da dirsi prima di lasciarsi. Si direbbe che lei stia meglio di dieci anni prima. La sua metà superiore è ingrassata, stabilendo quell’equilibrio mancante. Il suo volto magro adesso ne ha guadagnato. Anche lo sguardo pare più sereno. «Lei ha i suoi genitori qui, o anche…», chiede lei. «Mio fratello, anche mio fratello». «Oh! Non sapevo…». «No! Non Antonio». «Ah… mi sembrava di averlo visto da poco», dice, guadagnando un sorriso. «È un mio fratello morto molto giovane… tanti anni fa. E lei? Suo marito, immagino».
«Sì. Mio marito, e anche il secondo marito…». «Mi dispiace… non sapevo si fosse risposata». «È andata così…». Fa cadere lo sguardo. Lo alza nuovamente. «Vuol dire che era destino». A Solinas viene in mente suo figlio; vi si aggrappa. «E suo figlio?» «Oh! Stefano mi sta dando così tante soddisfazioni!», si illumina. «Da poco si è sposato e ha un buon posto in banca». «Mi fa veramente piac…». «Aspetta anche un figlio adesso… Meno male che mi resta lui». Segue un momento di silenzio nel quale Solinas ricorda lo schiaffo che ricevette, e lei ricorda ciò che vide
attraverso la veranda. Entrambi aspettano che i ricordi si polverizzino come le ossa che riposano attorno a loro. Si scambiano un sorriso e si danno la mano. «Ci davamo del tu… ricordi?», dice lei. «È vero, è vero». «Ciao Mario. Devo sbrigarmi. Mio figlio mi sta aspettando qua fuori». «Ciao Letizia, arrivederci e auguri a tuo figlio». Solinas si riaccosta alla tomba dei suoi cari, e mette di nuovo in ordine i gladioli che si sono scomposti. Mentre torna a casa il sole è come riesploso. Solinas pensa al prezzemolo e al basilico piantati nel suo cortiletto. Immagina tutto il camposanto coltivato a
quel modo; gli sarebbe sembrato più naturale. Dopo cena Antonio chiede al fratello se allora ha deciso di andare al matrimonio. Mario preferisce non andarci. «Ma perché? Ormai sono passati tanti anni», insiste Antonio. «E poi, visto che ti ha invitato…». Giovanna sta sparecchiando: attorno a sé diffonde sempre una naturale allegria. Marcello si è fiondato davanti al computer. Massimo arriverà verso le ventitré. «Sì, ma non so come potrebbe prenderla la madre… insomma, dài, non ne ho il coraggio». «Fa’ come vuoi. Comunque sia, la signora Sanna ti deve molto».
39
I cinque mesi da ottobre a febbraio per Mario Solinas furono una pena infinita. Deperiva fisicamente e mentalmente. Al matrimonio del fratello, in novembre, si presentò a malapena in chiesa. Poi si rinchiuse nella sua camera senza mischiarsi con gli invitati neanche a pranzo. Già da un po’ Antonio si era accorto del malessere del fratello. Ne era seriamente preoccupato, e a nulla serviva
qualsiasi idea per distrarlo e fargli dimenticare Maria. La convinzione che la colpa di tutto fosse stata di Graziano ormai perseguitava Solinas, cementando l’idea che l’unica possibilità di vedere ancora Maria, e di averla solo per sé, fosse quella di ucciderlo. Eppure, per quanto forte questa convinzione, nel suo più profondo sentiva che non ne avrebbe mai avuto il coraggio. A gennaio era solo il fantasma del professore in pensione Mario Solinas. E anche il suo incontrollabile amore era colmo dell’idea dell’omicidio. Ormai non ricordava più niente del proprio passato. Aveva allucinazioni e febbriciattole per l’eccessiva debolezza; del suo sguardo si era impossessato qualcun altro. Sovente, durante la notte, piangeva e
si affacciava nella stanza di Maria, evocandola proprio come si fa con i morti. Si accostava al letto e annusava la federa. Avrebbe ucciso Graziano a Carnevale, durante la Sartiglia, a Oristano. Solinas conosceva le abitudini di Graziano e Maria. Non c’era giorno che lui non andasse a trovarla e la portasse da qualche parte; tutto ciò che prima faceva lui. Maria si era riaccesa e Solinas la immaginava tra le braccia di Graziano ormai a far l’amore, a donarsi a lui completamente. Tutti i pomeriggi di tutti i giorni, si appostava a un centinaio di metri dalla casa di Maria. Conosceva i loro orari. La signora Sanna usciva spesso
a salutarli, e aveva lo stesso sorriso felice di quando la figlia usciva con lui. A Riola, dalla camera di Antonio, aveva preso la Beretta 7 e 65, che il fratello non aveva mai usato, e forse si era dimenticato di avere. Raccattò pelli, maschera di legno e campanacci per mascherarsi da Mammuthone. Il giorno della Sartiglia, alle due del pomeriggio, parcheggiò la macchina, così come era nel suo intento, vicino a quella di Graziano, ma solo dopo aver appurato che i due ragazzi erano usciti di casa per recarsi a piedi in centro, dove si svolgeva la giostra spagnolesca. Aveva in mente un piano preciso da attuare proprio quando Graziano fosse di nuovo salito in macchina.
Solinas era arrivato a Oristano vestito di pelli. Si tolse gli occhiali e si mise la pesante maschera scura e il copricapo. Lasciò cadere sul petto e sulle spalle un groviglio di campanacci. Non era prudente restare in quella zona per delle ore, in attesa che i ragazzi rientrassero. Avrebbe dato troppo nell'occhio, meglio confondersi dentro la festa. Migliaia di sardi e turisti gremivano il centro della città. La via della Cattedrale, dove si correva alla stella, era affollata di gente ammassata dietro le transenne; tutti tendevano il collo verso l’alto. Sull’asfalto erano state rovesciate camionate di sabbia. La corsa dei cavalieri, che con la spada avrebbero dovuto infilzare il foro al centro di una stella, veniva inaugurata
da Su Componidori, il re del campo, il padrone assoluto di tutta la giornata di festa. Dietro la maschera da Mammuthone, Solinas viveva nel totale anonimato. C’era tempo per mettere in pratica il suo piano. Schiacciato dalla calca e privato degli occhiali, un posto valeva l’altro. Tutto gli appariva nebuloso. Dall’alto del suo nervoso cavallo, Su Componidori sfilò al passo, prima di rifare lo stesso tragitto al galoppo sfrenato. Solinas cercò di mettere a fuoco quella figura della sua infanzia, ma era sfocata come un vecchio sogno. Fu la memoria a ricomporne i dettagli. La maschera di Su Componidori emozionava e commuoveva tutti. Il suo dolcissimo viso androgino era circondato da un
bianco velo da sposa di pizzo traforato. Sul capo portava un cilindro ottocentesco; una perfetta sintesi di maschio e femmina. Veniva considerato un semidio. La verità è che tutti erano affascinati dalla sua ambiguità. Dal giubbino in pelle color ocra sbuffavano le ampie maniche di una camicia bianca. I calzoni in pelle, infilati dentro gli stivali, fasciavano cosce possenti. Quando Mario Solinas e i fratelli venivano portati dai genitori a vedere la Sartiglia, ne restavano completamente rapiti. Ma questa volta, davanti al passaggio del semidio sul suo cavallo nero, Solinas rimase indifferente e non si sentì coinvolto neanche quando ebbe la sensazione di ricevere, proprio su di sé, uno sguardo da quella maschera
enigmatica, quasi che il semidio lo avesse riconosciuto. Non applaudì come gli altri; tastava la pistola che aveva nella tasca dei calzoni. Le trombe e il rullo dei tamburi diedero il segnale della partenza di Su Componidori. Il cavaliere scese in un galoppo nervoso che contrastava con l’impassibile serenità della sua maschera. Ci fu un boato del pubblico, ma il capo corsa non riuscì a infilzare la stella, la fece solo cadere. Da quel momento decine di cavalieri percorsero la discesa nella speranza di centrare quell’ambìto foro in mezzo all’argento. Solinas si mosse dal suo posto e vagò tra la gente e le maschere. Doveva aspettare la fine della manifestazione. Ma fu proprio il caso, nel tardo pomeriggio, a
portarlo vicino a Graziano che teneva Maria per mano. Gli si fermò accanto pensando che quella fosse un’occasione inaspettata, che avrebbe potuto cambiare il suo piano. Poteva essere tutto così semplice; un proiettile alle spalle mentre la folla, centrata o no la stella, avrebbe coperto lo sparo con le urla. Maria si voltò di scatto, e quando vide l’orrida maschera scura del Mammuthone, gridò per lo spavento stringendosi a Graziano. Poi la paura si sciolse in una risata. Ancora ridendo si volse nuovamente alla maschera di legno. Vedendo i suoi dentini, Solinas, avvertì un batticuore che neanche la pistola in tasca gli faceva provare. Una stella centrata e l’urlo della folla fece dimenticare a Maria lo spavento. Si alzò sulle punte a guardare
le spalle del cavaliere che si allontanava, brandendo la spada con la stella infilzata danzante sull’elsa. Dentro la tasca Solinas disinserì la sicura. Era quasi appoggiato alle spalle di Graziano, e tutti premevano addosso a tutti. Alla corsa successiva avrebbe tirato fuori la pistola e avrebbe sparato. Una delle trombe che annunciavano la discesa sbagliò clamorosamente una nota, impennandosi stonata in uno stridulo squittio. Si sentirono quindi i tamburi e l’avanzare di uno sfrenato galoppo. Ma a Solinas quella nota stridula parve un urlo straziante, che gli fece perdere la concentrazione. Sentì tremare le gambe e le braccia. Aspettò la corsa successiva, non poteva attendere oltre. Le trombe, i tamburi, il galoppo.
Solinas estrasse la pistola pochi metri prima che il cavaliere arrivasse alla stella, ma le persone dietro di lui persero l’equilibrio e rovinarono su Solinas nel momento in cui stava per premere il grilletto. Non cadde perché frenato dalle spalle di Graziano, ma perse la pistola, e fu il momento in cui provò un profondo panico. Si abbassò rapidamente e riuscì a ritrovarla proprio tra i piedi di Maria. La maschera gli si era spostata. Restò in ginocchio. Mise la pistola in tasca e si aggiustò alla meglio la maschera, che però gli scivolava ormai sulla faccia sudata. Si alzò in piedi tenendola con le mani e si allontanò veloce facendosi spazio a gomitate. Dopo la Sartiglia ci sarebbe stata La Pariglia; equilibrismi di vari cavalieri su
tre cavalli affiancati. Il tutto sarebbe terminato dopo il tramonto. Solinas tornò nei pressi della sua macchina. Si levò la maschera, si asciugò il sudore e inforcò gli occhiali. Aspettò dentro la sua auto. Fortunatamente la via era semieserta. Si sentiva proprio ridicolo a usare gli occhiali su quella mascherata di pelli e campanacci. Ebbe tutto il tempo di ricordare che da piccolo, proprio alla Sartiglia, a causa del freddo, il padre gli aveva imposto il cappuccio di lana al posto della penna e della fascia da indiano. «Ma babbo, sono un indiano… il cappuccio di lana…». Era bastata un’occhiata del maresciallo e Mario, piangendo dentro, si era rassegnato all’imbastardimento del
suo costume, vergognandosi di alzare la testa. Era buio quando Graziano, abbracciato a Maria, entrò in casa di lei, che distava un centinaio di metri da dove aveva parcheggiato Solinas. Un’ora dopo Graziano uscì e sull’uscio diede un ultimo bacio a Maria. Quindi si avvicinò alla sua auto. Solinas si levò gli occhiali e i campanacci. Si rimise la maschera e il copricapo. Un attimo prima che Graziano infilasse le chiavi nella portiera Solinas scese dall’auto. Si accostò alle sue spalle e gli sparò. Il ragazzo non ebbe il tempo di voltarsi. Senza un grido, con appena un lamento strascicato, si accasciò su se stesso. Solinas infilò rapido la pistola in tasca e cercò di tenerlo in piedi. Nel
tentativo di trascinare quel corpo esanime, si accorse di quanto per lui Graziano fosse pesante. Raccolse una forza disperata e riuscì a portarlo di fianco alla propria auto. Passarono delle maschere; ridendo e benedicendo lanciarono una bella manciata di coriandoli sui due che parevano ubriachi. Si udirono altri spari. Solinas cercò in tasca le chiavi, mentre col proprio corpo teneva addossato alla macchina quello di Graziano, riverso ora sul cofano posteriore. Solo pochi secondi, ma sembrarono un’eternità. Finalmente aprì la portiera posteriore e vi rovesciò dentro il corpo del ragazzo. Precedentemente aveva steso su quel sedile una coperta, che arrotolò alla bell’e meglio sotto il petto di Graziano. Si mise al volante, si tolse la maschera e
partì. Solo dopo aver attraversato mezza città si accorse di vedere tutto annebbiato. Prese gli occhiali dal cruscotto e accelerò. Quella era l’ora in cui gli abitanti dei paesi vicini e i turisti abbandonavano la città. All’uscita di Oristano si era formata una lunga coda in doppia fila, che slittava in avanti di solo qualche metro ogni tanto. Solinas guardava diritto, ma avvertiva su di sé tanti sguardi. Si voltò appena per accennare un sorriso. Nell’auto accanto alla sua c’era una numerosa famiglia. La signora accanto all’autista non rispose al sorriso. Restò impassibile, infastidita, quasi, alla vista di quel signore con occhiali e pelli. mentre i bambini, dietro, si accalcavano ridendo e schiacciando il naso sul finestrino. La fila si mosse. Ora i
bambini additavano Solinas dal cristallo posteriore, gli rivolgevano espressioni buffe facendo gli occhi storti. Dopo il ponte sul Tirso, al bivio, la coda si smaltì e Solinas poté accelerare. L’odore del sangue lo sentì distintamente solo in quel momento, e lo sentì anche dentro la bocca, come un odore di ferro tra le gengive; un tremore lo prese alle braccia e alle gambe, tanto da rendergli problematica la guida. Pure il respiro gli si fece affannoso; gli sembrò di sentire anche il respiro di Graziano. Con un rapido scatto si voltò indietro a guardarlo. L’auto sbandò malamente. Si disse di restare calmo, tutto andava bene, tutto come previsto, tutto era stato semplice. Arrivò a Putzu Idu alle otto e mezzo. Il paesino silenzioso pareva ancora più
disabitato. Parcheggiò davanti alla porta di casa. Scese ma non sentì le gambe. Si tenne afferrato alla portiera aperta. Si guardò intorno, tremava ormai in tutto il corpo. Aprì la portiera. Raccolse tutta l’energia a disposizione. Prese Graziano da sotto le ascelle e lo tirò. Quei due metri, dalla portiera all’ingresso di casa, furono i più gravosi; il cuore gli usciva dal petto, sembrava voler abbandonare quel corpo senza più forza nelle gambe. Trascinò come poté Graziano fin dentro casa; non si accorse di come fossero strazianti i suoni gutturali che emetteva. Chiuse la porta. Tornò alla macchina. Raccolse la coperta che era scivolata in terra. La prese proprio nel punto in cui era zuppa di sangue. Si affacciò concitato dentro l’auto
immaginando in che condizioni poteva essere il sedile. La coperta non era riuscita a trattenere il sangue. Corse dentro casa. Inciampò sulle gambe di Graziano. Tornò indietro a prendere le chiavi che stavano ancora nella serratura esterna della porta. Chiuse. Corse in cucina. Inzuppò una spugna d’acqua e si affrettò di nuovo verso la porta. Si affacciò in strada; nessuno, solo il temporale del proprio respiro e le onde del mare. Dentro l’auto sfregò quella macchia di sangue con tutta la forza e la paura che gli restava nel braccio. Ancora una sfregata isterica e chiuse la portiera. Si buttò sulla porta ma era chiusa. Cercò le chiavi nelle tasche dei calzoni spostandosi la mastruca. Aveva poggiato le chiavi sul tavolo in cucina! Si fermò
dando le spalle alla porta; guardò a destra e a sinistra. Si aggiustò gli occhiali. Doveva fare pochi metri per girare nella viuzza accanto ed entrare nel cortiletto. Scavalcò il basso muricciolo. Un attimo prima di sfondare con una pietra il vetro della veranda, si accorse di averla dimenticata socchiusa. Corse a sbarrare la porta d’ingresso. Inciampò ancora sulle gambe di Graziano. Andò in salotto e si sedette sul divano. Il suo corpo era come invaso da una scarica elettrica. Solo in quel momento sentì di essere completamente bagnato di sudore, e di avere ancora indosso la mastruca del Mammuthone. Se la tolse, ma appena un minuto dopo sentì addosso il sudore gelato. Si ricoprì. Era sicuro di avere una febbre altissima.
Passò così una prima ora con gli occhi sbarrati, e una seconda nella quale si appisolò. Aprì gli occhi lentamente. La prima sensazione fu quella di avere freddo. Quando fu di nuovo cosciente si alzò e, sbandando, si diresse verso l’ingresso. Graziano non si era mosso. Una chiazza di sangue nero si allargava sotto le sue spalle. Il viso, color cera, aveva un’espressione triste, e gli occhi, ancora aperti, guardavano con scarso stupore. Spettava a Solinas distogliere lo sguardo. Andò nella sua camera e si cambiò i vestiti appiccicosi. Era quasi mezzanotte quando cominciò a scavare sul limitare del cortiletto, verso il mare. Non c’era vento e neanche tanto freddo. Ogni tanto smetteva di scavare; si
appoggiava al manico della vanga e si guardava intorno. Il mare calmo regalava un’idea di serenità. Qualche cane si faceva sentire in lontananza. Non fu difficile smuovere quella sabbia pressata, ma dopo poche ore la vanga trovò la dura roccia. Quel fosso sarebbe comunque bastato, pensava Solinas. Avrebbe trovato roccia anche in un altro punto; perché rischiare ancora che qualcuno prima o poi potesse vederlo? Con molta più calma, questa volta, trascinò il corpo di Graziano. Dentro casa restò una scia di sangue che andò sfumando nell’ultimo tratto. Solinas adagiò il corpo dentro la tomba rendendosi subito conto di quanto fosse poco profonda, ma era esausto. Si ricordò della pistola lasciata in casa.
Andò a prenderla e la mise ai piedi di Graziano. Guardò il corpo per l’ultima volta e con la vanga coprì il cadavere di sabbia. Gli occhiali gli scivolarono e caddero sul viso di Graziano ancora scoperto; pareva volerlo osservare fin dentro l’anima per l’ultima volta. Raccolse gli occhiali con le mani che tremavano come se l’alito del demonio le avesse sfiorate, e rapido coprì anche il volto. Salì sopra la tomba facendo pressione con i piedi. Aggiunse altra sabbia, ma ne avanzò molta. La sparse sul terreno. Appena entrato in casa e chiusa la veranda si mise a piangere. I giorni che seguirono Solinas si comportò come se niente fosse, si stupì lui
stesso della sua tranquillità. Come se un’anestesia lo lasciasse in uno stato di semi-incoscienza. Non andò mai a Riola, e non si mosse da Putzu Idu. Ogni giorno provò a far sparire del tutto la macchia di sangue vicino all’ingresso e la sua scia, ma, se pur vaga come l’ombra di un sogno, ne restava un ostinato ricordo. La quinta notte dall’assassinio, Solinas si addormentò pensando che, con un po’ di pazienza, nel giro di pochi mesi avrebbe potuto riprendere i contatti con Maria. Si sarebbe giustificato con la signora Sanna tirando in ballo una crisi da pensionato, si sarebbe scusato offrendosi nuovamente di aiutare, per qualunque necessità, la figlia e anche lei. La scomparsa di Graziano aveva sicuramente
prostrato Maria, con la sua presenza poteva ridarle fiducia e aiutarla a dimenticare. Lui era pur sempre un rispettato – il più rispettato – professore in pensione della scuola media Eleonora d’Arborea di Oristano. Questi pensieri lo fecero addormentare avvolto in una serena irresponsabilità. Ma il buio della notte e dei suoi occhi chiusi cambiarono le carte in tavola. Si svegliò agitato da un incubo pieno di cani latranti. Sognò di averli sotto il letto, dentro l’armadio, dappertutto. Raddrizzò la schiena e puntellò le braccia sul materasso; i cani erano nel suo cortiletto! Il maestrale, che assieme alla pioggia batteva da tre giorni, ingrossava quel latrare furioso, e pareva volesse infilarlo dentro casa dalle fessure
delle finestre. Solinas si buttò una coperta addosso. Andò alla veranda. Accese la luce esterna e tirò su la persiana quel tanto che bastava per guardare attraverso gli spiragli. Una dozzina o più di cani, forse tutti i randagi di Putzu Idu, si aggiravano mostrando denti e gengive sulla tomba di Graziano. Giravano in cerchio, guardandosi i musi a vicenda come disperati. Solinas sentì il proprio corpo ghiacciarsi. Quei cani diventavano sempre più grandi, si accendevano di rosso ruggine e dai loro occhi lampeggiavano fiamme celestine. Sempre più giganti, diventavano, sempre più gonfi e idrofobi. A uno di loro scoppiò il ventre ingrossato, schizzando intorno le interiora violacee che la luna
faceva luccicare. Gli altri cani lo azzannarono per strappargli la carne penzolante. Una grossa cagna restava di spalle mostrando il culo che perdeva liquidi. Un altro cane, giallastro, la montò assetato di voglia. La cagna, tenendosi il maschio sempre attaccato, si girò di scatto mostrando la testa di Graziano addentata tra gli enormi canini. Fece un balzo verso la veranda, proprio davanti alla faccia del professore, quasi a schiacciare sopra il vetro la testa putrefatta che, con le orbite nere, spalancate, gridava domande che fanno solo i morti assassinati. Se Solinas avesse continuato a guardare, il suo cuore avrebbe ceduto per il terrore. «Dio mio!! Sto ancora sognando!!»,
gridò, sentendosi vicino a un infarto. Buttò la coperta e in modo disarticolato corse in cucina. Prese una scopa. Tornò in salotto. Tirò su la persiana e brandendo la scopa uscì nel cortiletto. Colti alla sprovvista i cani scapparono in branco. Erano cagnolini di piccola taglia, animaletti chiassosi e innocui. Ma ciò che sentiva adesso, non era frutto della propria fantasia impazzita; quell’odore dolciastro e pungente che il maestrale a zaffate gli portava sotto il naso, era proprio vero. Il vomito che incalzava non lasciava dubbi. Il vento e la pioggia, e i cani poi, avevano scomposto l’insufficiente strato di sabbia che copriva il cadavere di Graziano; il tanfo della decomposizione filtrava nauseabondo. Il professore rientrò in casa. Annaspò
verso la cucina seminando vomito e sbattendo su tutti i mobili che incontrava. Versatosi sulle mani il detersivo per piatti, prese a sfregarsi il viso. L’arsura gli raschiava la gola e lo costrinse a bere dal rubinetto. L’acqua si mischiò al detersivo rimastogli sulle labbra. Tossì scompostamente avventandosi, paonazzo, sul frigo per afferrare la bottiglia dell’aranciata. Ma davanti al frigo aperto restò paralizzato; il latte dentro il recipiente bolliva provocando una nuvola di vapore. Si portò una mano sul cuore, quasi agguantandolo per fermarne i battiti impazziti. Quando si compie un omicidio, in Sardegna, solo ai preti bolle il latte senza bisogno del fuoco. Il professore si abbandonò a una risata isterica, con un timbro che non gli
apparteneva, squillante di terrore. Infilatosi un giaccone, corse alla cabina telefonica e svegliò il fratello. Erano le tre. Gli disse che aveva bisogno d’aiuto. Piangeva e balbettava che aveva bisogno di lui, che venisse subito! Subito! Poi gli avrebbe spiegato. Antonio non aveva mai sentito il fratello in quelle condizioni. Impiegò poco più di mezz’ora a vestirsi e arrivare a Putzu Idu. Quando Mario, in una crisi isterica, gli raccontò tutto, Antonio, immobile, con lo sguardo perso, ebbe solo la forza di dire: «Tu… sei… pazzo…», e si accasciò su se stesso vomitandosi addosso. Mario girava fuori di sé attorno al divano e ripeteva: «Forse non è morto, forse non è morto…».
Antonio si pulì il vomito e afferrò il fratello per il giaccone sferrandogli un pugno in pieno viso, il primo pugno della sua vita. Accusò un forte dolore alle falangi. Stringendosi la mano si curvò su Mario che era caduto all’indietro finendo seduto sul divano. «Adesso stai calmo… mi senti?! Mi senti?! Stai calmo e mi aiuti!!». Antonio uscì nel cortiletto e con una vanga prese subito a scavare nel punto indicatogli da Mario. Pioveva. Scavò più di mezzo metro ma non sentiva nessuna puzza di decomposizione, e non trovava il cadavere: «Dov’è! Dov’è!! Santo Diooo!!» Era affannato e bagnato di sudore e pioggia. I capelli grigi gli cadevano sulla fronte. Guardò il fratello che si teneva un fazzoletto davanti alla
bocca, e ripeteva: «Forse non è morto… Forse non è morto…». Riprese a scavare ma ormai era arrivato alla roccia. «La pistola! Eccola! Ma dov’è il cadavere, dov’è! Cazzooo!!». «È sotto i tuoi piedi… Non lo vedi? Non senti la puzza?». Stava per allargare il fosso, ma d’un tratto si fermò e guardò ancora il fratello. Buttò la vanga, uscì dal fosso e corse a guardare dentro l’auto di Mario. Aprì la portiera col cuore in gola. Un vero terrore lo lasciò senza respiro, con gli occhi sbarrati: non c’era nessuna macchia nera di sangue, neanche la più piccola traccia. Aveva smesso di piovere, ma il maestrale continuava incessante ad agitare il mare e l’aria.
La mattina successiva, davanti alla casa di Graziano, Antonio camminava su e giù con un quotidiano in mano; aveva gli occhi pesti di chi non ha dormito. Tutto era tranquillo. Le sorelline del cantante erano uscite e giocavano in mezzo alle mattonelle di scarto, dove si erano costruite una sorta di rifugio. Stava per allontanarsi, quando vide Gesuino Poddighe arrivare in macchina. «Oh Antonio! Come andiamo?», disse quello, scendendo dall’auto. «Bene, Gesuino… stavo guardando la tua casa…». «Bella eh? M’è costata, ma qua in Sardegna non ce ne sono case così. Come sta tuo fratello?» «Non c’è male…».
«Ho appena accompagnato Graziano alla stazione di Oristano. Che ci vada col treno all’aeroporto. Sai che quel figlio di buona donna l’hanno preso a suonare a Milano? E sembra che lo pagheranno molto bene. Chissà se è vero. Affari suoi…».
40
Domenica. La giornata è più calda di ieri. Mario Solinas ha indossato il suo abito della festa; grigio chiaro. Neanche si ricorda quando lo ha messo l’ultima volta; di sicuro poco prima di andare in pensione. Non gli calza più tanto bene. Tira sulla pancia, mentre sul petto sembra svuotato. Tira anche un pochino sulle spalle, forse si è ingobbito. Di certo ha perso qualche centimetro in altezza, e i
calzoni è costretto a tirarli su il più possibile. Ha deciso di andare al matrimonio di Maria, non perché convinto dal fratello, ma per non fare un torto a lei. Comunque andrà solo alla messa e non al pranzo. È titubante, non ha pensato neanche a un regalo. Antonio gli ha detto di non preoccuparsi; tutti i soldi che in questi anni anonimamente le ha inviato, sono pur sempre un regalo. Antonio lo ha accompagnato a Oristano. Lo aspetterà in macchina finché sarà conclusa la cerimonia. Solinas entra nella chiesa di Sant’Efisio a messa già cominciata. Si mette subito alla destra, nell’angolo più remoto. Non conosce e non riconosce
nessuno, ha quasi timore di guardarsi intorno. Franco Pinna, lo sposo, ha quarantotto anni portati bene. È alto e ha la testa rasata. È lo psicologo che ha seguito Maria negli ultimi dieci anni. L’ha curata, accudita, se n’è innamorato e ora la sposa. È solo la seconda volta che Solinas vede Maria da quando gli fu portata via. L’ultima è stata circa cinque anni prima, in una via del centro di Oristano. Lei passava insieme a un gruppo di amici. Sembrava a suo agio. Solinas si era girato verso una vetrina, senza il coraggio di salutarla e di farsi vedere. Pieno di vergogna, con una mano sulla guancia, aveva abbassato il capo come per guardare meglio le scarpe esposte. Aveva provato molte volte, all’inizio,
a sollevare la cornetta del telefono appena installato, ma dopo aver digitato metà dei numeri di casa Sanna, la posava con una mano poco ferma. Qualche volta, da lontano, si era fermato anche a guardare la porta della casa di Maria; solo pochi minuti e si allontanava. Maria indossa un tailleur color panna. La sua figura svetta sopra due bianchi tacchi altissimi; pare inarrivabile e Solinas si sente ancora più basso e inadeguato. La cerimonia è finita. La signora Sanna, di fianco alla figlia, è invecchiata, o forse è solo stanca, ma raggiante e ogni tanto piange. Solinas non si muove dal suo angolo, dove si sente come sospinto e schiacciato
dalla bellezza di Maria, e da quei dieci anni muti che si sono interposti tra loro. Le rivolge uno sguardo furtivo dietro le spalle di due giovani eleganti e gonfi di profumo, che gli stanno davanti. Maria è cambiata pochissimo. Solo il contrasto degli occhi d’ossidiana, rispetto alla pelle bianca come avorio, è adesso ancora più estenuante. È talmente luminosa che pare non provochi ombre, neanche sotto il mento. La bocca è un papavero. I capelli cortissimi sono coperti da un velo così trasparente che pare un’idea. Il velo è l’ultima tendenza, le ragazze lo portano anche in discoteca. Maria è una donna. Però, dietro l’apparenza, quella filigrana furbetta che la rende un po’ discola, e che è così insondabile, Solinas riesce ancora a
percepirla; forse neanche lo sposo medico riuscirebbe a notarla. Ma potrebbe essere solo l’impressione di un uomo avanti con l’età che di donne non ha mai capito niente. Ora Maria, di profilo, lascia notare una pancia che può essere di cinque sei mesi. Dalla chiesa sono usciti quasi tutti. Tra gli ultimi del gruppo, una giovane vestita di rosso tiene per mano una bambina, ed è affiancata da un trentenne con il viso segnato da una sottile cicatrice che parte dallo zigomo e finisce sul mento. La giovane signora tentenna con uno sguardo indeciso verso Solinas. Lui la riconosce; è Teresa, ma fa finta di niente e volge gli occhi sull’acquasantiera. Lei resta ancora in un guado che non sa come
attraversare. Dall’altra parte non riceve nessun aiuto e lascia perdere. Con la famigliola esce dalla chiesa. L’incisione che il marito si porta appresso è un ricordo di Maria. Due ragazze si attardano vicino a una cappella. Solinas non può sapere che sono le sorelle di Graziano. Sembrano molto più giovani dei loro venti e ventuno anni. Guardano a testa in su le navate barocche, ma probabilmente stanno sussurrandosi qualcosa, visto che si mettono a ridere con discrezione. Una delle due trascina l’altra per mano fuori dalla chiesa. Solinas adesso è solo, si è seduto su una panca. Prima di uscire aspetta che il piazzale venga abbandonato dagli sposi, dai loro amici e dal fotografo.
«Be’, come è stato?», gli domanda Antonio, appena il fratello lo raggiunge alla macchina. «Una bella cerimonia… C’erano tanti fiori sull’altare e intorno». «Maria?… L’hai salutata?» «…No. Ma non importa». Arrivati a Riola, Giovanna si scusa perché è in ritardo; si mangerà tra un’ora. «Bene», dice Mario. «Ne approfitto per distendere un po’ la schiena». Si avvia di sopra nella sua stanza. Sulle scale si aiuta appoggiandosi alla ringhiera. In camera si toglie la giacca e la butta sul letto. Apre il primo cassetto del comò che è stato della madre. Dentro c’è il quaderno di poesie che gli regalò la terza b, il quaderno di Maria con le correzioni – sorride al ricordo che fu un
piccolo furto – e la scatoletta di plastica contenente l’anellino con il corallo. In un angolo ci sono anche un rotolo di nastro adesivo da pacchi e un gomitolo di spago grosso. Prende il quaderno della terza B. Lo apre a caso: Professor Solinas, a lei un piccolo scritto, solo qualche parola senza rima perché di me si ricordi come io farò con lei. Antonello Sarais. ps. Adesso l’italiano mi piace. Solinas resta immobile qualche secondo a ricordare il brulicare delle lentiggini di quel ragazzo incontrollabile. Poggia il quaderno e prende l’anellino. Prova a infilarselo nel mignolo; non attraversa neanche l’unghia. Lo ripone nella scatoletta. Prende il nastro adesivo, il gomitolo di spago e chiude il cassetto.
Accosta tra loro le due sedie che ci sono in camera, attaccate una dietro l’altra, come quando da piccoli si faceva il trenino. Avvolge tre volte, intorno alle gambe delle sedie, il nastro adesivo che ha portato a Riola molto tempo prima. Sta per curvarsi di più per tagliarlo con i denti, ma sente il fastidio acuto ai reni e lascia stare. Prende un tagliaunghie dal comodino e sfila fuori la limetta; per tagliare va bene. Si assicura che le sedie siano saldamente unite; insomma, possono andare. La doppietta nascosta nello stretto spazio tra il muro e l’armadio era un fucile da caccia del padre; avrà una sessantina d’anni, ma è tenuto bene. Tempo addietro Solinas si è preoccupato di lubrificarlo, lucidarlo e di provarne il
funzionamento dei due grilletti, senza le cartucce, però. Sulla cassa ha incise delicate decorazioni floreali dal sapore spagnolesco, che vanno a morire gentili all’inizio delle canne. La cinghia in pelle è screpolata, come disidratata; avrebbe dovuto ingrassare anche quella. Apre il fucile, infila due cartucce e lo richiude. Ne saggia il peso con gesto poco professionale, non certo da cacciatore. Poggia la doppietta sulle spalliere delle due sedie. Prende il nastro adesivo, quindi comincia ad avvolgerlo attorno alle canne del fucile e alla spalliera della prima sedia. Poi ne avvolge attorno al calcio e alla seconda spalliera; varie passate incrociate che tengano il fucile nella giusta posizione. Prova ancora la solidità di quel marchingegno; pare che
regga. Con estrema cura e lentezza lega lo spago a un grilletto. Poi lo tende verso il calcio del fucile, lo fa girare intorno e se lo riporta a sé. Il tutto gli sembra alquanto macchinoso, ma non c’è altra soluzione, perché una volta puntate le canne addosso, col suo braccio piuttosto corto non arriverebbe a schiacciare il grilletto. Con lo spago tenuto in mano come fosse una redine, inclina la testa di lato e guarda ancora quel trabiccolo. Ha paura, eppure riesce a sorridere, ricordandosi dell’invenzione che apportò al fuciletto di canna a un solo colpo. Aveva sì e no dieci anni quando inventò la mitraglia. Sul piccolo fucile, anziché una sola molletta per i panni, ne fissò sei. Poteva così tendere, dall’estremità delle canne, sei
elastici. Un’arma micidiale. Passò per un inventore. È forte l’odore amaro del ferro ingrassato. Ha teso lo spago. Ma prima di tirarlo con decisione guarda dentro i neri tunnel delle canne. Sono profondi e silenziosi, e nascondono chissà quali misteri, chissà quale luce. Ora dal fondo emergono gli ultimi dieci anni, da quell’ultimo giorno di scuola; scorrono veloci, i ricordi, fosforescenti come santi. È il profumo che ogni giorno annusa sulla federa del cuscino di Maria, e l’amore smisurato che non l’ha abbandonato una sola ora di un solo giorno di tutti quegli anni, che gli fanno tendere rabbioso lo spago. Senza ripensamenti dà uno strappo
violento. Anziché agire sul grilletto lo spago fa forza su tutto il marchingegno, rovesciando maldestramente le sedie con fucile annesso. «Zio! È pronto!». «…S-sì!?» «La mamma ha detto di venire a tavola!». Marcello grida giù dalle scale. Solinas si affaccia alla porta; ha il volto grigio e sudato. «Sì arrivo… arrivo subito…». Rientra in camera. Pensa che metterà tutto a posto dopo pranzo, tanto nel frattempo non entrerà nessuno. Dalla tasca prende il fazzoletto e si asciuga il sudore. Si guarda allo specchio; sì, può scendere. Marcello è ancora giù dalle scale.
«Ma che è stato quel rumore?» «Rumore? Ah! L’armadio…». «Zio, andiamo questo pomeriggio a vedere Massimo che fa il film?» «Come no? Mi sembra una buona idea». Si ferma quasi alla fine delle scale. Si toglie gli occhiali e li pulisce. Gli viene in mente che non ha neanche pensato di levarseli prima di tirare lo spago. «Che profumino! Che ha preparato la mamma?», chiede, mentre sfrega il fazzoletto sulle lenti, e guarda Marcello, sfumato nel resto della casa evanescente. «Pasta al forno». Solinas si infila gli occhiali e affronta gli ultimi gradini. «Bene, ho proprio fame».
Ringraziamenti
Grazie a Paola Minello, allora mia moglie e tutt’ora adorata mia prima, attenta lettrice. Grazie a Maria Carmela Leoni, per la scarsa pietà accordatami (e per avermi fatto divertire) correggendo la prima stesura. Grazie al mio agente Enzo D’Elia per la sua determinazione. Un particolare ringraziamento ad Alessandra Penna, mia editor, per la
delicata pazienza e il suo necessario puntiglio. Grazie a Bettina Cristiani, la prima ad avermi proposto e difeso presso un’importante casa editrice, comunque siano andate le cose. Un affettuoso ringraziamento va a tutti coloro che quattordici anni fa hanno letto il romanzo in fotocopia appena sfornato, aspettandone pazientemente la pubblicazione. Ringrazio anche la pazienza che ho avuto io.
Indice
Capitolo 1 Capitolo 2 Capitolo 3 Capitolo 4 Capitolo 5 Capitolo 6 Capitolo 7
Capitolo 8 Capitolo 9 Capitolo 10 Capitolo 11 Capitolo 12 Capitolo 13 Capitolo 14 Capitolo 15 Capitolo 16 Capitolo 17 Capitolo 18
Capitolo 19 Capitolo 20 Capitolo 21 Capitolo 22 Capitolo 23 Capitolo 24 Capitolo 25 Capitolo 26 Capitolo 27 Capitolo 28 Capitolo 29
Capitolo 30 Capitolo 31 Capitolo 32 Capitolo 33 Capitolo 34 Capitolo 35 Capitolo 36 Capitolo 37 Capitolo 38 Capitolo 39 Capitolo 40