SYMBOLON STUDI E TESTI DI FILOSOFIA ANTICA E MEDIEVALE MEDIEVALE Direttore: Francesco Romano
UNIVERSITÀ DI CATANIA - DIPARTIMENTO DI SCIENZE DELLA CULTURA, DELL’UOMO E DEL TERRITORIO
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LA FIS ICA DI ARISTOTELE OGGI PROBLEMI E PROSPETTIVE Atti del Seminario Catania, 26-27 settembre 2003 a cur cura a di
I G G O E L E T E V O I T T S I T E P R S A I O R D P
R. LoredanaCARDULLO LoredanaCARDULLO e Gio Giovan vanna na R. GIARDI GIARDINA NA
Prefazione di
Francesco Franc esco ROMANO
E A I C I M S E I L F B O A R L P
ISBN 88-86673-75-2
14,00 (i.i.)
N O L O B M Y S
CATANIA 2005 CUECM
SYMBOLON
SYMBOLON
STUDI E TESTI DI FILOSOFIA FILOSOFIA ANTICA E MEDIEVALE MEDIEVALE Direttore: Francesco Romano
STUDI E TESTI DI FILOSOFIA ANTICA ANTICA E MEDIEVALE MEDIEVALE Direttore: Francesco Romano
UNIVERSITÀ DI CATANIA - DIPARTIMENTO DI SCIENZE DELLA CULTURA, DELL’UOMO E DEL TERRITORIO
UNIVERSITÀ DI CATANIA - DIPARTIMENTO DI SCIENZE DELLA CULTURA, DELL’UOMO E DEL TERRITORIO
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11. AA.VV., AA.VV., Momenti Momenti e Problemi Problemi di Storia Storia del Platonismo Platonismo (1984) 12. Luciano Montoneri, I Montoneri, I Megarici (1984) 13. Francesco Romano, Porfirio Romano, Porfirio e la Fisica Aristotelica (1985) 14. R. Loredana Loredana Cardullo, Cardullo, Il Il Linguaggio Linguaggio del Simbolo Simbolo in Proclo (1985)
LA FIS ICA DI ARISTOTELE OGGI PROBLEMI E PROSPETTIVE
15. Concetto Martello, Simbolismo Martello, Simbolismo e Neoplatonismo in in G. Scoto Eriugena Eriugena (1986) 16. Francesco Romano Romano e Antonio Tiné, cur., Questioni Neoplatoniche (1988) 17. Francesco Romano, Proclo. Romano, Proclo. Lezioni sul Cratilo Cratilo di Platone Platone (1989) 18. Daniela Daniela P. Taormina, Taormina, Plutarco Plutarco di Atene. Atene. L’Uno, l’Anima, l’Anima, le Forme (1989) 19. Thomas Leinkauf, Il Leinkauf, Il Neoplatonismo Neoplatonismo di Francesco Patrizi Patrizi (1990)
Atti del Seminario
10. Daniela Daniela P. Taormina Taormina,, Il Lessico delle Potenze Potenze dell’Anima dell’Anima in Giamblico Giamblico (1990) 11. Concetto Martello, Analogia Martello, Analogia e Fisica in Giovanni Scoto Scoto (1990)
Catania, 26-27 settembre 2003
12. Eva Di Di Stefano, Stefano, Proclo. Proclo. Elementi di Teologia (1994) 13. Maria Di Pasquale Pasquale Barbanti, Filosofia Barbanti, Filosofia e Cultura Cultura in Sinesio di di Cirene (1994)
a cura di R. Loredana Loredana CARDULLO e Giovanna Giovanna R. GIARDINA
14. R. Loredana Loredana Cardullo, Cardullo, Siriano Siriano Esegeta di Aristotele, Aristotele, vol. vol. I (1995 (1995)) 15. R. Loredana Loredana Cardullo, Cardullo, Siriano Siriano Esegeta di Aristotele, Aristotele, vol.II (2000) (2000) 16. Francesco Romano Romano e R. Loredana Cardullo, Cardullo, cur., Dunamis cur., Dunamis nel Neoplatonismo Neoplatonismo (1996)
Prefazione di
17. Rosario V. Cristaldi, Saggi Cristaldi, Saggi (Filosofia, (Filosofia, Ermeneutica, Ermeneutica, Iconologia) (1997)
Francesco Francesco ROMANO
18. Concetto Concetto Martello, Fisica Martello, Fisica della creazione. La cosmologia di Clarembaldo di Arras (1998) 19. Maria Di Pasquale Barbanti, Ochema-Pneuma e Phantasia nel Neoplatonismo. Aspetti psicologici e prospettive religiose religiose (1998) 20. Giovanna Giovanna R. Giardina, Giardina, Giovanni Filopono matematico. Commentario a Nicomaco (1999) 21. Francesco Francesco Romano, Domnino Romano, Domnino di Larissa. La svolta impossibile della filosofia matematica neoplatonica (2000)
suvmbola ga;r patriko;" novo" o" e[speiren speiren kata; kov kovsmon smon Or. Ch. Fr. 108 dP
22. Concetto Martello, Lanfranco Martello, Lanfranco contro Berengario Berengario nel Liber de corpore et sanguine sanguine Domini (2001) 23. Giovanna R. Giardina, I Giardina, I fondamenti della della fisica. Analisi critica di Aristotele, Phys. I (2002) 24. Maria Barbanti e Francesco Romano, cur., Il cur., Il Parmenide di Platone e la sua Tradi zione (2002) 25. Maria Di Pasquale Pasquale Barbanti, Origene di Alessandria tra Platonismo e Sacra Scrittura. Teologia e Antropologia del De principiis (2003) 26. Giovanna R. Giardina, Erone Giardina, Erone di Alessandria. Le radici filosofico-matematiche della tecnologia applicata (2003) 27. Francesco Francesco Romano, L’uno Romano, L’uno come fondamento. La crisi dell’ontologia c lassica (2004)
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28. R.L. Cardullo e G.R. Giardina, Giardina, cur., La cur., La Fisica di Aristotele oggi (2005)
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In copertina: testa di Aristotele, Kunsthistorisches Museum di Vienna. Nel frontespizio: Ecate raffigurata in un amuleto (da C. Bonner, Studies in Michig igan an Univ Univ.. 1950 1950). ). Magical Amulets, Mich
Department of Sciences of Culture, Man and Territory University of Catania
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INDICE
Prefazione (Francesco Romano) Premessa Le origini della teoria aristotelica delle cause ( Mario Vegetti ) Primato della fisica? (Enrico Berti ) L’analogia tevcnh-fuvsi~ e il finalismo universale in Aristotele, Phys. II ( R. Loredana Cardullo) La “causa motrice” in Aristotele, Phys. III 1-3 (Giovanna R. Giardina) Le cose mosse da altro per natura ( Ferruccio Franco Repellini )
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Poche parole per presentare questa pubblicazione degli Atti di un Seminario che poco più di un anno fa si tenne a Catania su mia iniziativa, ma per merito soprattutto delle mie due colleghe, esperte studiose di filosofia antica e tardoantica, R. Loredana Cardullo e Giovanna R. Giardina, le quali peraltro hanno partecipato ai lavori del Seminario con due loro contributi che qui trovano posto e che dimostrano la loro indiscussa competenza anche su Aristotele. Anzitutto voglio ringraziare ufficialmente, oltre che queste due colleghe, gli altri tre colleghi, Mario Vegetti, Enrico Berti e Ferruccio Franco Repellini, che hanno partecipato al Seminario con importanti contributi qui contenuti. Si tratta di tre illustri studiosi di Aristotele con i quali si è discusso ampiamente su quello che, a mio parere, è uno dei principali trattati aristotelici, la Fisica, tanto commentato nel corso dei secoli quanto non adeguatamente analizzato e studiato in tempi recenti, come invece è accaduto e accade ancora oggi nel caso di altri due trattati altrettanto importanti, la Metafisica e l’Etica Nicomachea. Pesa forse su questa disparità di trattamento la tradizionale diffidenza verso un’opera che ha certamente subito le repulse più feroci fin dalla nascita della scienza moderna. È facile constatare come dal punto di vista storiografico la Fisica soffra di una bibliografia di gran lunga più esigua e, sotto certi aspetti, più prevenuta rispetto alla Metafisica e alle due Etiche, per non parlare degli scritti dell’Organon . Ciò non toglie che grandi studiosi abbiano consacrato alla Fisica di Aristotele massicci e meritori studi: basti citare, ad esempio, nomi quali Ross, Mansion, Solmsen e Wieland. È stata questa la ragione che ci ha spinto a tentare di realizzare un incontro tra specialisti, allo scopo di fornire dei nuovi contributi di studio in un campo tanto carente.
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Non entrerò nel merito dei singoli contributi che sono contenuti nel presente volume, ma tenterò ugualmente di farne una molto sintetica esposizione di contenuto. Mario Vegetti affronta il non facile tema delle origini della teoria aristotelica della causalità, procedendo oltre gli immediati antecedenti storico-dottrinali in Platone ( Phlb. 26e6-8: identificazione tra ai[tion e poiou`n) alla scoperta di quello che egli chiama «l’antecedente più preciso e più importante», e cioè un passaggio di Antica medicina , dove si dice che causa specifica di ciascuna malattia è ciò che, se presente, la provoca necessariamente, se assente o alterato la fa cessare. Certamente, soggiunge Vegetti, Aristotele presenta una teoria delle cause molto più complessa che quella dei suoi predecessori, non foss’altro perché vale anche in questo caso il principio squisitamente aristotelico che l’essere si dice in molti modi, e quindi anche la causa pollacw`~ levgetai . L’indagine di Vegetti prosegue nel rintracciare i momenti salienti della ricerca aristotelica appunto sui vari modi di dire la causa, e cioè sulla valutazione linguistico-dialettica dello stesso concetto di causa, recuperando interessanti e significativi addentellati con gran parte della tradizione non solo filosofica (naturalistica), ma anche storiografica (Tucidide) e soprattutto medica (alcuni testi quali il De flatibus e il Peri tekhnes). Certo, conclude Vegetti, la complessità storico-teoretica dell’analisi aristotelica della causalità ne ha impedito una teorizzazione «lineare, e al limite meccanicistica», ma in compenso ne ha determinato quell’importante aspetto per cui «la Fisica di Aristotele, se è estranea alla genealogia della scienza moderna, non lo è però alla discussione contemporanea sulla struttura della spiegazione causale», cosa che viene troppo spesso trascurata dagli interpreti. Enrico Berti affronta il tema del rapporto tra fisica e metafisica, allo scopo di rafforzare gli argomenti con i quali Wieland ha inteso contestare la communis opinio secondo cui spetta alla metafisica il ruolo di scienza (o filosofia) prima, per restituire il “primato” alla fisica, foss’anche come “primato metodico” «nel senso – spiega Berti – che la metafisica in Aristotele non risulta comprensibile senza la fisica, mentre la fisica può essere compresa au-
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tonomamente e di per sé». In effetti, sostiene Berti, la fisica è scienza dei principi, di tutti i principi ovverosia dei principi di tutta la realtà. «La fisica, in tal modo, possiede per Aristotele un primato che potremmo definire “iniziale”, nel senso che essa dà inizio alla ricerca dei principi di tutte le cose, il che è proprio di una filosofia “prima”, ma poi affida il compimento, o l’affinamento, di tale ricerca, ma soltanto per una parte di questi principi, alla metafisica, la quale in tal modo ottiene un primato che potremmo definire “finale”». La tesi di fondo di Berti è che la prima fase dell’evoluzione del pensiero di Aristotele è caratterizzata dal fatto che egli non distingue ancora la fisica dalla metafisica, identificandole entrambe in una scienza prima che egli considera teoretica e che è distinta dalla scienza pratica. Tale fase del pensiero aristotelico è certamente quella giovanile, e precisamente quella a cui appartengono, da un lato il Protreptico e dall’altro lato i libri a e L della Metafisica. Essi contengono una sorta di Urmetaphysik e precisamente una «“fisica-metafisica”, chiamata “fisica” in quanto scienza della natura», alla quale Aristotele attribuisce «il ruolo di “filosofia prima”, in quanto ricerca delle cause prime della natura». «Tutto ciò dimostra – conclude Berti – anche che, per Aristotele, la metafisica non è né ontologia, né teologia, né la sintesi di ontologia e teologia, cioè l’“onto-teologia”, di cui parlano Heidegger e i suoi innumerevoli ripetitori». La denominazione di “filosofia prima”, dunque, spetta a tale scienza, che è primariamente fisica. Donde il “primato della fisica” che è il titolo di questo contributo di Berti. Loredana Cardullo tratta dell’analogia tekhne/ phusis in funzione di quello che essa chiama il “finalismo universale” in Aristotele Phys. II. Tale analogia, che Aristotele affronta in polemica con «la nozione platonica della phusis, anche nel suo rapporto con la tekhne, quale viene esposta nel Timeo e nel X libro delle Leggi », ha un valore metodologico-conoscitivo, nel senso che la phusis non può essere compresa se non attraverso la tekhne. La Cardullo si diffonde in una sottile e interessante analisi dei due concetti, condotta, oltre che sui testi menzionati di Platone, sul libro II della Fisica di Aristotele confrontato con alcuni passaggi
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della Metafisica. La tesi di fondo della Cardullo è che Aristotele, in polemica con Platone, attribuisce un primato ontologico alla phusis e quindi una superiorità di questa sulla tekhne, al contrario di quel che accadeva in Platone. Tale primato viene giocato sul campo della nozione di mimesis , a proposito della quale si registra ancora un contrasto tra Platone e Aristotele. Su tutto ciò si innesta il discorso che la Cardullo dedica alle diverse interpretazioni della teoria delle quattro cause, che da un buon numero di interpreti viene intesa nel senso che, a parte la causa efficiente, in Aristotele la nozione di causa indica non già una concreta realtà capace di produrre come suo effetto un’altrettanto concreta realtà, bensì un modo di spiegare il “perché” una certa realtà è quello che è, lungi, quindi, da ogni significato moderno del termine causa intesa come «un agente concreto, qualcosa che agisce e che, attraverso tale azione, produce un effetto». Una tale interpretazione, generalmente sostenuta nel mondo anglosassone, non convince la Cardullo, che le contrappone una serie di argomenti critici atti a svalutarla a vantaggio del «carattere realistico o pragmatista o empirista, in una parola ontologico» dell’ aitia aristotelica. Di qui il passo è breve per dimostrare il valore finalistico dell’analogia tekhne-phusis in Aristotele. Cosa che la Cardullo fa, ed efficacemente, nella parte conclusiva del suo contributo. Giovanna R. Giardina affronta il problema della “causa motrice” nei primi tre capitoli del libro III della Fisica di Aristotele. Si tratta di un’acuta, approfondita e convincente analisi di una parte del testo aristotelico che presenta notevoli difficoltà di lettura e di interpretazione. Il discorso della Giardina si muove sulla direttrice della teoria generale del movimento, che Aristotele tratta nelle sue linee essenziali in quei tre capitoli prima di utilizzarla secondo modi specifici in vari trattati fisici particolari, primi fra tutti il De motu animalium e il De generatione animalium. La tesi di fondo della Giardina è che la dottrina della causa motrice in Aristotele è legata a quella generale del movimento, nel senso che to; kinouvmenon presuppone necessariamente to; kinou`n. Il discorso della Giardina si muove pertanto tra la definizione di movimento e quella di causa motrice, lungo un percorso criticamente efficace
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e metodologicamente rigoroso in cui vengono affrontati in modo sistematico e organico tutti, dico tutti, i passaggi logici che hanno guidato la mente di Aristotele dalla prima alla seconda definizione, cioè dal movimento alla causa motrice. Sono analizzate e valutate tutte le proposizioni contenute nelle pagine di Phys. III 1,200b12-2,202a3 e III 2,202a3-3,202b29 rispettivamente dedicate al movimento e alla causa motrice. Sono tenuti in gran conto, e giustamente, tutti gli esempi con cui Aristotele accompagna le sue argomentazioni e le sue definizioni, perché spesso proprio dagli esempi è possibile ricavare il significato effettivo del ragionamento aristotelico. Mi sembra buona norma metodologica non trascurare gli esempi concreti che il Filosofo adduce per spiegare fino in fondo ciò che vuole dire. A tale proposito è interessante l’analisi che la Giardina fa dei due termini/concetti, molto spesso confusi o scambiati tra loro, di ejnevrgeia e ejntelevceia. Se non si distinguono tra loro questi due termini/concetti non si capisce il discorso di fondo che porta Aristotele a dimostrare il movimento attraverso la causa motrice in tutte le loro rispettive accezioni. Risulta infatti – e la Giardina lo sottolinea esplicitamente – che «l’ ejntelevceia altro non è che una ejnevrgeia ajtelhv~, cioè un atto incompiuto, ed è incompiuto perché è ancora presente il potenziale, il dunatovn. E questo lo si afferra proprio in virtù dell’esempio della costruzione di una casa – oijkodovmhsi~ – con cui Aristotele accompagna il suo ragionamento. L’analisi del movimento, o, meglio, degli argomenti con cui Aristotele definisce il movimento, rende necessaria l’analisi della causa motrice, che occupa l’ultimo paragrafo, il più lungo, del contributo della Giardina. Il movimento si spiega con il rapporto motore-mosso: «il motore, to; kinou`n, è causa motrice, perché è ciò che trasmette una certa forma, ei\dov~ ti, che Aristotele spiega secondo quelle che sono le categorie del mutamento, cioè sostanza, quantità, qualità. Ciascuna di queste forme è detta ajrch; kai; ai[tion th`~ kinhvsew~ , quindi to; kinou`n può benissimo essere definito o{qen hJ ajrch; th`~ metabolh`~ , oppure come o{qen hJ kivnhsi~». Ferruccio Franco Repellini discute la problematica che emerge dalla lettura del cap. IV del libro VIII della Fisica, soprattutto
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in ordine all’aporia sul motore immobile: tutto ciò che è mosso, è mosso da qualcosa; tutto ciò che è mosso da qualcosa, o è mosso da altro o è mosso da se stesso; nel primo caso è impossibile non risalire a un primo mosso che è mosso da se stesso, perché si produrrebbe un regressus in infinitum ; nel secondo caso ogni motore di se stesso si articola necessariamente in una parte (o aspetto) che è mossa e in un’altra parte che è motrice immobile; la collezione di primi motori immobili così introdotta deve essere, almeno in parte, eterna e finita, ed è meglio che sia uno anziché molti. È questo lo schema dell’intera argomentazione che Aristotele svolge nel libro VIII della Fisica, almeno fino al cap. 6, dove essa si conclude con l’introduzione di un primo motore immobile. La tesi di fondo di Franco Repellini è che in tutto questo rimane estranea la nozione di fuvsi~, giacché «in nessuno di questi passi dimostrativi la natura è presente in modo indispensabile». Tuttavia la natura appare presente in modo rilevante soltanto nel cap. 4, dove si dimostra che tutto ciò che è mosso, è mosso da qualcosa. Aristotele giunge a tale conclusione «non mediante una dimostrazione diretta, bensì con un percorso più tortuoso: producendo una casistica esaustiva delle cose mosse, e facendo vedere in ciascun caso il qualcosa che assolve il ruolo di motore». Le difficoltà interpretative del cap. 4 nascono dal fatto che Aristotele, da un lato non pretende di far derivare la necessità di un motore per ogni movimento dalla definizione di natura, dall’altro lato però «si esprime – scrive Franco Repellini – come se non ci fossero problemi di compatibilità tra la definizione di natura come principio di movimento e la tesi della necessità di un motore per ogni movimento». Per dissipare ogni aporia, occorre leggere questo cap. 4 solo nell’ottica generale del libro VIII che è quella di «riconoscere la necessità dell’esistenza di un livello di motori immobili eterni, come condizione dell’eternità della ghenesis, dalla quale a sua volta dipende l’intelligibilità del mondo». Non voglio andare oltre – come ho promesso all’inizio – queste sintetiche presentazioni dei cinque testi che qui sono raccolti e pubblicati. Mi premeva soltanto di dare almeno una testimonianza dell’interesse che mi ha guidato, prima nel proporre l’iniziativa
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di questo Seminario, e dopo nel trarre profitto scientifico dalla discussione e dalla lettura dei singoli lavori presentati dai colleghi Aristotelisti. Le colleghe che hanno curato il volume forniranno a parte, nell’ Introduzione, i criteri e le ragioni del loro lavoro editoriale e lo faranno con tanta maggiore efficacia in quanto sono, esse sì, addette ai lavori nel settore degli studi aristotelici. Giudicherà il lettore se sia valsa la pena di concludere la nostra iniziativa con la pubblicazione di questi Atti . Catania, Università, febbraio 2005
Francesco Romano
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PREMESSA
Dopo l’avvento della fisica moderna la Fisica di Aristotele ha perduto gran parte del suo antico prestigio e della sua credibilità a ragione del fatto che i principali fisici moderni, a cominciare da Bacone e Galilei, come si sa, la liquidarono come inefficace e superata, giudicandola più che una scienza vera e propria – come Aristotele l’aveva considerata – una “metafisica del mondo sensibile”. Questo spiega perché gli studi che sono stati dedicati alla Fisica dopo il XVII sec. sono poco numerosi: una povertà che contrasta con il successo che altre opere di Aristotele hanno guadagnato fra gli studiosi. Il fenomeno prosegue a tutt’oggi: gli studi sulla Fisica pubblicati negli ultimi due secoli sono pochi, anzi addirittura rari. Oggi forse non è più possibile sottoscrivere l’affermazione di Heidegger, secondo cui la Fisica di Aristotele è “il libro fondamentale della filosofia occidentale”, ma certamente quest’opera ha profondamente e durevolmente segnato il nostro modo di pensare e su un punto Heidegger ha ragione: la “natura” aristotelica, nella sua opposizione agli altri campi del pensiero, cioè la sovranatura, l’arte e la storia, è la “nostra” natura. Se quindi da un lato è impossibile aderire ad una concezione continuista della storia della fisica in cui la Fisica di Aristotele sarebbe la progenitrice di quelle di Galilei, di Cartesio e di Newton, nondimeno essa non è né estranea né assente nel dibattito contemporaneo, in cui rappresenta ancora un oggetto di studio interessante per la storia della scienza e per la filosofia. Tuttavia, se i tempi della filosofia non sempre coincidono con i tempi della scienza, la Fisica, più di tanti altri trattati aristotelici, continua a far sentire il suo peso, ponendosi a giusto titolo in quella atemporalità che segna le più grandi produzioni del pensiero umano. Tutti questi motivi rendono oggi
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PREMESSA
particolarmente urgente e stimolante una riflessione sulla Fisica aristotelica e sul ruolo che essa ha svolto e continua a svolgere nel dibattito contemporaneo. La scelta di fare discutere, in due giornate di studio e di riflessione critica sulla Fisica di Aristotele, un gruppo di aristotelisti, alcuni dei quali si segnalano anche per le loro ricerche sulla tradizione neoplatonica alla quale Aristotele non è certo estraneo, nasce da un autentico interesse sia per la filosofia dello Stagirita in quanto tale, sia appunto per la presenza di essa nella speculazione degli esegeti neoplatonici. La lettura preliminare, attenta e capillare, del testo di Aristotele e della relativa letteratura critica, che lo studio dei commentari aristotelici di autori neoplatonici sempre necessariamente comporta, ha fatto nascere in noi, quasi come uno sbocco naturale, un interesse sempre crescente per il pensiero dello Stagirita, e il desiderio di dedicarvi più tempo e più energie. Per tale ragione da qualche anno alcuni di noi hanno, per così dire, trasgredito agli orientamenti principali del gruppo di ricerca – che ha sempre in Francesco Romano il suo cuore pulsante – scegliendo di convogliare la propria attenzione verso la filosofia aristotelica. Le risultanze del dibattito seminariale sono contenute in questo volume, che raccoglie contributi preziosi che sono altresì testimonianze della partecipazione degli studiosi italiani al dibattito internazionale su Aristotele e sulla scienza aristotelica: di ciò il lettore può rendersi conto già leggendo la presentazione che, nelle pagine precedenti, ha fatto F. Romano disegnando un rapido ma efficace profilo di ciascun contributo. Nel curare questo volume abbiamo cercato di rispettare il più possibile le scelte redazionali dei singoli autori: abbiamo perciò evitato di uniformare le citazioni degli autori antichi o le sigle di uso comune, lasciando inalterati i testi che ci sono stati inviati dagli autori. Anche le note seguono criteri differenziati, in quanto per motivi di snellezza è adottato il metodo anglosassone nei nostri due contributi (che quindi presentano nelle rispettive pagine finali le indicazioni bibliografiche a cui si fa rapidamente riferimento nelle note), e il metodo classico invece nei rimanenti.
PREMESSA
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Nel licenziare questo volume, ringraziamo i Colleghi che hanno reso possibile l’iniziativa e che ci hanno consentito di potere fruire di un dibattito scientifico altamente qualificato e stimolante su temi di nostro interesse, sui quali ogni giorno ci interroghiamo anche in vista di nuovi studi aristotelici destinati a prossime pubblicazioni. Catania, Università, febbraio 2005
Le curatrici
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LA FISICA DI ARISTOTELE OGGI PROBLEMI E PROSPETTIVE
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LE ORIGINI DELLA TEORIA ARISTOTELICA DELLE CAUSE Mario Vegetti *
1. Vorrei proporre, per cominciare, una sorta di esperimento esegetico. Se Aristotele si fosse limitato alla definizione riassuntiva di “causa” proposta – a proposito della sola arche kineseos –, nel capitolo 3 del II libro della Fisica, non sarebbe stato difficile ricostruire la genealogia di questa posizione. In questo passo si dice che «in generale causa [efficiente] è ciò che produce ciò che viene prodotto e muta ciò che viene mutato» (194b31 sg.: o{lw~ to; poiou`n tou` poioumevnou kai; to; metabavllon tou` metaballomevnou ) (e si veda negli stessi termini Metafisica Delta 2 1013a sg.). Assisteremmo in questo caso ad un passo significativo del percorso concettuale che sarebbe culminato nella teoria di Hume della causa come antecedente lineare e necessario del relativo effetto. I precedenti più vicini ad Aristotele potrebbero venire rintracciati in alcuni testi platonici: nel Fedone,1 intanto, almeno laddove la causa è descritta come «il perché ogni cosa viene ad essere, perisce ed esiste» (96a9: dia; tiv givgnetai e{kaston kai; dia; tiv ajpovllutai kai; dia; tiv e[sti); ma soprattutto – poiché il Fedone insiste sulla modalità finale della causazione – in un importante passo del Filebo, dove aition e poioun vengono di fatto identificati (26e6-8: to; poiou`n kai; to; ai[tion ojrqw`~ a]n ei[h legovm enon e{n). Ma l’antecedente più preciso e più importante sarebbe da individuare in un passo di Antica medicina, un testo ippocratico che * Università di Pavia. 1 Cf. su questi passi D. Sedley, Platonic Causes, «Phronesis» 43, 1998, pp. 114-32; F. Fronterotta, Mevqexi~. La teoria platonica delle idee e la partecipazione delle cose empiriche, Scuola Normale Superiore, Pisa 2001, pp. 206-22. Sulla posizione antiplatonica di Aristotele sul tema delle cause, cf. C. Natali, Problemi della nozione di causa in Aristotele, con particolare attenzione alla causalità finale , «Quaestio» 2/2002 ( La causalità, a cura di C. Esposito-P. Porro), pp. 57-75.
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può venire datato alla fine del V secolo, e che porta a compimento un lungo e incerto percorso del pensiero medico in direzione di una concettualizzazione della causalità (senza tuttavia cancellarne le oscillazioni, come vedremo più avanti). Scriveva dunque l’autore ippocratico: «dobbiamo certamente considerare che causa (aitia) di ogni malattia siano quei fattori che quando sono presenti producono necessariamente una malattia di un tipo particolare, che invece cessa quando essi mutano» (19.3: dei` … tau`ta ai[tia eJkavstou hJgei`sqai ei\nai, w|n pareovntwn toioutovtropon ajnavgkh givnesqai, metaballovntwn … pauvesqai). Una causa dunque
è tale (1) quando la sua presenza produce un certo effetto, (2) quando questo effetto è determinato necessariamente e in modo univoco, (3) quando la sua assenza o alterazione determina il venir meno dell’effetto. Aristotele avrebbe dunque raccolto non solo i precedenti platonici, ma soprattutto la più chiara e univoca teorizzazione ippocratica della forma “generale” della causalità (quella, per intenderci, che egli nella Fisica limitava alla sola modalità “efficiente”). Quanto agli sviluppi successivi di questa posizione, essi possono venire sicuramente riconosciuti nella teoria stoica di Zenone e Crisippo, cui si deve la celebre distinzione fra aition come causa (che è necessariamente corporea) e aitia come spiegazione (che consiste in un logos).2 Di qui si giunge fino alla tesi “dogmatica” attestata in Sesto Empirico (Schizzi pirroniani III 14: «una causa è ciò mediante la cui attività si produce un effetto») – e più oltre, come si diceva, appunto fino a Hume. 2. Ma, come è ben noto, Aristotele non può venire inserito in questa linea genealogica perché la sua teoria della causalità, discussa nel II libro della Fisica, e per altro ripresa nel capitolo di Metafisica Delta cui mi sono riferito, è assai più complessa, o, come scriZenone (SVF I 89) definiva l’aition come il di’ho, e sosteneva che non esiste causa senza il relativo effetto; cf. anche Crisippo, SVF II 336. In proposito è fondamentale il saggio di M. Frede, The Original Notion of Cause , in Essays in Ancient Philosophy, Oxford, U.P. 1987, pp. 125-50. 2
LE ORIGINI DELLA TEORIA ARISTOTELICA DELLE CAUSE
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ve Sorabji, più «liberale»,3 benché, dal punto di vista della modernità, forse più “arcaica”, delle posizioni che ho fin qui delineato. Questa teoria ha al suo centro l’analisi delle modalità con cui si può rispondere alla domanda “perché” ( dia ti ) (II 7 198a14 sgg.), che sono inevitabilmente plurali e irriducibili, dal momento che «le cause si dicono in molti modi» (II 3 195a29: levgetai ga;r ai[tia pollacw`~). Aristotele ne riconosce quattro modalità principali, ognuna delle quali presenta sei tropoi (il particolare, il generale, il sumbebekos, il genere del sumbebekos , isolati o combinati fra loro), che a loro volta possono venir presi in senso attuale o potenziale: in tutto 48 possibili modi di formulare la risposta a quella domanda (II 3). A chiunque abbia in mente la teoria lineare della causalità cui si è fatto cenno, il linguaggio e gli esempi con cui Aristotele introduce la sua classificazione dei modi della causazione e della spiegazione causale non possono che risultare sconcertanti. Il primo tipo di risposta a quella domanda consiste nell’enunciare «ciò da cui si genera una cosa e che vi permane», come il bronzo per la statua. Il secondo nell’indicare l’ eidos, cioè, platonicamente, il paradeigma (come il rapporto 2:1 per l’ottava musicale). Il terzo modo di rispondere riguarda «il principio del mutamento o dell’immobilità», nel senso che ne è aitios (causa, o anche “responsabile”) chi “ha preso la decisione” ( ho bouleusas), o il padre del figlio. La quarta modalità di risposta è rappresentata dall’enunciazione dello scopo, to; ou| e{neka («alla domanda “perché passeggia”? rispondiamo “per star bene”»). 4 A partire da Ross, e specialmente con Wieland, gli interpreti hanno giustamente sottolineato l’assenza di qualsiasi forma di deduzione o “dimostrazione” di questa teoria della causazione, o meglio della spiegazione causale, di cui è per contro chiaro il carattere di «risultato di un’analisi dell’uso linguistico», 5 e in sostanR. Sorabji, Necessity, Cause and Blame, Duckworth, London 1980, p. 42. 4 R. Sorabji, op. cit., p. 40, parla di «four modes of explication»; allo stesso modo R.J. Hankinson, Cause and Explanation in Ancient Greek Thought , Clarendon Press, Oxford 1998, di «explanatory categories» (o “becauses”). 5 W. Wieland, La fisica di Aristotele (1962), trad. it. Il Mulino, Bologna 1993, p. 331. 3
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za la natura dialettica. Essa deriva quindi dalle opinioni comuni, anzi, secondo Irwin, proprio in quanto «è troppo aderente alle opinioni comuni che dovrebbe spiegare», «non riesce a chiarire la centralità della causa efficiente». 6 Noto fin d’ora che questa critica assume come riferimento valutativo proprio la linea genealogica che ho prima descritta, e alla quale Aristotele ha deciso di sottrarsi, non senza, come vedremo, qualche vantaggio teorico. 7 Mi interessa per ora, prima di discutere questo problema, andare oltre il riferimento generico all’analisi linguistica, e all’indagine dialettica sulle doxai , per ricostruire un’altra genealogia della posizione aristotelica, facendola risalire non semplicemente al linguaggio e alle opinioni comuni, bensì ad una ricca e complessa tradizione culturale. Quali sono dunque i linguaggi e le opinioni, retaggio di questa tradizione, a partire dai quali prende forma la concettualizzazione aristotelica della causalità? 3. A dire il vero, questa domanda sembra avere una risposta obbligata, e del resto notissima, perché è lo stesso Aristotele a indicarcela nel libro Alpha della Metafisica: la tradizione di cui egli dichiara di essere l’erede è quella – tutta “filosofica” – che va da Talete fino a Platone. Ma si tratta di una risposta attendibile? Il risultato sorprendente di una ricerca sul lessico della causalità nei frammenti dei pensatori “presocratici” – prescindendo, s’intende, dalle testimonianze di esclusiva origine aristotelica – è la pressoché totale assenza di un qualsiasi linguaggio relativo a questo ambito. 8 T. Irwin, I principi primi di Aristotele (1988), trad. it. Vita e Pensiero, Milano 1996, pp. 121-22. 7 Questa mi sembra anche la posizione di C. Natali, AITIA in Aristotele. Causa o spiegazione?, in H.C. Günther-A. Rengakos (hsg.), Beiträge zur Antiken Philosophie. Festschrift f. W. Kullmann , Steiner Verlag, Stuttgart 1997, pp. 11324 (Natali ritiene però che, in luoghi diversi da quelli della Fisica, Aristotele teorizzi la causalità non solo come spiegazione, ma descrizione di “connessioni reali” di dipendenza che esistono nel mondo). 8 Ho discusso più ampiamente la questione in Culpability, responsibility, cause: Philosophy, historiography and medicine in the fifth century , in A.A. Long (ed.), The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy , Cambridge, U.P. 1999, pp. 271-89. 6
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Aitia compare una sola volta in Democrito (DK B 83), con il significato di “ragione” o “motivo”. Prophasis (DK B 119) ha il valore di “scusa, giustificazione” che è normale, come vedremo, negli storici e nei medici. In Gorgia aitia, che compare nell’Elena e nel Palamede (DK B 11, 11a) mantiene naturalmente il significato di “colpevolezza” o “responsabilità” che è consueto nel discorso giuridico e morale. Basta ricordare, in proposito, la seconda Tetralogia di Antifonte, dove è in questione la responsabilità di un giovane che lanciando il giavellotto ha ucciso un compagno entrato per errore nel campo di tiro, o l’aneddoto di Pericle e Protagora (DK 80A10), che discutono su chi siano i responsabili (appunto aitioi ) dell’uccisione di un altro giovane in circostanze simili. Si tratta in tutti questi casi di dibattiti sulla responsabilità e la colpevolezza in contesti religiosi, morali e giuridici – dibattiti che raggiungono forse il loro punto più alto nell’ Edipo a Colono di Sofocle, dove Edipo si dichiara moralmente e legalmente innocente perché i suoi crimini erano stati involontari e inconsapevoli (vv. 546-8, 266-72). Ma a sua volta Edipo era stato preceduto dall’Agamennone omerico, quando aveva dichiarato «non io sono il colpevole (aitios), bensì Zeus, la Moira e le Erinni» ( Iliade XIX 86). Più interessanti sono i risultati della ricerca sul linguaggio relativo ai nessi di dipendenza fra cose ed eventi nei pensatori naturalisti, cui Aristotele fa largamente riferimento nel libro Alpha della Metafisica. Nel più antico di essi di cui ci sia pervenuto un frammento forse originale, Anassimandro, il ciclo del cosmo è fatto dipendere da un avvicendarsi di colpa e punizione ( adikia, tisis) (DK B1), cioè in termini giuridico-morali piuttosto che causali. Più in generale, il termine ricorrente – laddove ci si potrebbe aristotelicamente attendere aitia – è quello di arche, che vale certo “principio”, “punto di inizio” di un processo, ma che mantiene sempre anche il valore politico di “potere”. Così ad esempio Empedocle parla di Amore e Odio come archai che “dominano” (krateousi ) a turno nel volgere del tempo (B 17.28), e Anassagora descrive il Nous come un autokrates che esercita la sua forza ( krateuei , ischeuei ) e possiede il potere (arche) di iniziare il movimen-
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to di rotazione del mondo (B 12). Sembra chiaro, dunque, che queste forme embrionali di pensiero causale sono del tutto avvolte in linguaggi metaforici che derivano dalla sfera politica, oppure da quella giuridico-morale. Non è dunque dai linguaggi e dalle doxai dei naturalisti presocratici che Aristotele può aver derivato la sua classificazione dei modi con cui si risponde alla domanda “perché”. Evidentemente, una radicale elaborazione di questo ambito di pensiero poteva farne emergere le questioni del rapporto fra forma e materia, fra agente e fine, che in esso erano però tutt’altro che evidenti ed elaborate. Ci si può chiedere perché Aristotele abbia deciso di far dipendere da questa tradizione, o meglio dalla sua trattazione dialettica (il cui senso è stato perfettamente illustrato da Enrico Berti)9 la derivazione doxastica della sua teoria della causalità. Una risposta possibile può consistere nella sua intenzione di costruire un’autonomia della tradizione “filosofica” – o almeno di quella che egli istituiva come tale – rispetto a un retroterra culturale più ampio e variegato che doveva però ora venire per così dire censurato perché estraneo all’autogenesi dello spazio della “scienza ricercata”, la zetoumene episteme su cui verte Metafisica Alpha. 4. Qualche indizio che ci porta nella direzione di questo retroterra culturale della teoria aristotelica della causalità affiora tuttavia ancora in alcuni passi significativi. In Analitici Posteriori II 11 Aristotele fa un esempio relativo alla causa ( to dia ti ) della guerra medica contro Atene. Alla domanda «perché i Persiani hanno combattuto gli Ateniesi?», la risposta è: «perché questi ultimi hanno cominciato per primi le ostilità effettuando la spedizione contro Sardi». Secondo Aristotele, si tratta qui di una spiegazione basata sulla “causa efficiente”, to; kinh`san prw`ton. Ma la fonte è certamente extrafilosofica: si tratta senza dubbio dell’episodio narrato da Erodoto (V 99Cf. E. Berti, Sul carattere “dialettico” della storiografia filosofica di Aristotele, in G. Cambiano (a cura di), Storiografia e dossografia nella filosofia antica, Tirrenia, Torino 1986, pp. 101-25. 9
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102), che i Persiani addussero a pretesto per la loro rappresaglia. Nella stessa Fisica (II 7 198a19 sg.), torna un esempio simile: alla domanda «perché si è fatta la guerra?», si può rispondere «perché avevano compiuto una razzia» (qui la risposta è ancora di tipo erodoteo, e in questo caso viene enunciata la “causa efficiente”), oppure «per dominare» (una risposta che ricorda piuttosto la spiegazione tucididea della guerra del Peloponneso, I 23.6, e che ha la forma dell’enunciazione della “causa finale”, tivno~ e{neka). Questi esempi indicano con chiarezza il terreno di formazione di un linguaggio in cui termini come aitia e aition significano primariamente “responsabilità” o “imputabilità”.10 Si tratta evidentemente del dibattito politico quale viene rappresentato ed elaborato nella storiografia da Erodoto a Tucidide. L’opera del primo inizia appunto con una discussione della aitia delle guerre fra Greci e Barbari: le ragioni e i motivi del conflitto sono disputati fra le due parti, che si accusano a vicenda di esser responsabili dell’ingiustizia (adikia) che ha motivato la rappresaglia dando origine alle ostilità. In Erodoto il valore primario di aitia resta quello di “accusa” per un crimine commesso, e quindi di “colpevolezza” che costituisce motivo di punizione (cf. per esempio I 137.1). Ad esso si connette strettamente il termine prophasis, che vale “giustificazione, pretesto, scusa”. Ma ci sono anche in Erodoto segni di una vaga e incerta transizione dal linguaggio dell’imputabilità a quello della causalità: egli sostiene ad esempio che il sole è aitios delle piene del Nilo, dunque “responsabile” ma in un certo senso anche “causa”. L’inizio della Storia di Tucidide è interamente erodoteo: vi si descrivono le accuse e le dispute ( aitiai/diaphorai , I 23.5), cioè i “motivi” (aitias) pubblicamente addotti dalle parti in conflitto per giustificare lo scoppio delle ostilità fra Ateniesi e Spartani. C’è in verità un celebre passo (I 23.6) in cui Tucidide afferma che la prophasis più vera, benché occultata nella discussione pubblica, R. Sorabji, op. cit., p. 40, definisce aition come «what is responsible, or answerable»; cf. anche M. Frede, op. cit., p. 132. 10
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fu la necessità degli Spartani di iniziare la guerra per il timore della crescente potenza ateniese. Ma prophasis non significa, come hanno creduto molti interpreti, la “causa ultima” celata dietro i pretesti addotti. Il termine, che deriva da phaino,11 vale “portare alla luce”, e l’affermazione tucididea andrà dunque intesa in questo senso: «il motivo più autentico che io posso mostrare, nonostante il suo occultamento». Anche in Tucidide compare tuttavia almeno un passo in cui si assiste ad un’incerta transizione dal linguaggio della responsabilità e dell’imputazione a quello della causalità. Si tratta del celebre resoconto dell’epidemia di Atene (II 48.3). Tucidide ritiene che ognuno, medico o profano, debba esprimere la sua opinione sulle aitiai che possono aver posseduto una forza ( dunamis) tale da provocare la catastrofe. Interessante è qui la connessione di aitia con dunamis, nel senso di “capacità di produrre effetti”, che qualifica in senso decisamente causale il valore del termine. Questo passo ci indirizza verso il linguaggio della medicina, di cui qui Tucidide è largamente debitore. Va detto che anche nei testi ippocratici del V secolo il linguaggio della causalità risulta tutt’altro che chiaramente definito. Esso è per esempio del tutto assente in testi importanti ed autorevoli come il De locis in homine e il Prognostico, e anche altrove è difficile trovare paralleli alla posizione di Antica medicina (un testo che anche per questo, come per altri aspetti, risulta anzi piuttosto isolato). All’inizio del Male sacro troviamo la celebre dichiarazione secondo la quale anche questa affezione, l’epilessia, non è di origine divina ma possiede una sua natura e una sua prophasis : il termine non vale qui “causa”, ma, esattamente come in Tucidide, “spiegazione” pubblicamente enunciabile, al contrario di quelle proposte da maghi e purificatori, che rendono gli dèi “colpevoli” ( aitioi ) del male (1.20). Sulla stessa linea, ma anche più interessante dal nostro punto di vista, è il trattato sulle Arie, acque, luoghi . A proCf. J. Irigoin, Préalables linguistiques à l’interprétation de termes techniques attestés dans la collection hippocratique , in F. Lasserre-P. Mudry, Formes de pensée dans la collection hippocratique, Droz, Genève 1983, pp. 173-80. 11
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posito dell’impotenza che affligge gli Sciti (22), e di cui essi attribuiscono la responsabilità ( aitia) agli dèi, dèi, l’autore l’autore ippocr ippocratico atico sostiene che la malattia in effetti dipende da una pluralità di ragioni apertamente spiegabili ( prophaseis ), come l’abitudine di cavalcare da parte dei ricchi e le stesse incisioni con le quali essi si curano, cui si aggiungono inoltre l’abitudine di indossare calzoni e la connessa diminuzione del desiderio sessuale. Questo sistema complesso di spiegazioni del fenomeno (indicato dal ricorso sistematico a preposizioni come apo e dia ) non rinvia rinvia certo certo ad una una forma forma lineare di causalità ma presenta un’interessante varietà di punti di vista esplicativi sulla pluralità di circostanze e ragioni che rendono razionalmente comprensibile il fenomeno. Ci sono infine due testi – probabilmente di matrice iatrosofistica – di particolare interesse per la nostra analisi. Il primo, De flatibus flati bus , comincia con lo stile stile di un’inchiesta un’inchiesta giudiziaria (cap. 2): «Tutte le malattie hanno la stessa forma e causa ( idea/aitia). Quale sia questa causa cercherò di mostrarlo nel discorso che segue». E scrive il nostro nostro autore, autore, a conclusione conclusione della sua requisitoria: requisitoria: «È pneuma ta) sono chiaro dunque che le arie inspirate ( pneumata sono il fattore fattore più attivo in tutte le malattie; tutte le altre cose sono cause concomitanti e secondarie ( sunaitia/metaitia). Ho dunque dimostrato che questa è la causa ( aition) delle malat malattie» tie» (cap. (cap. 15). Il Il linguaggi linguaggio, o, come si diceva, è quello di un’inchiesta giudiziaria aperta con un’ipotesi accusatoria accusatoria e conclusa con l’individuazione del colpevole e dei suoi complici. Nell’ambito di questa arringa di tipo sofistico o tribunalizio, si disegnano tuttavia i lineamenti di una ricerca causale causale precisa precisa e fin troppo rigorosa rigorosa nella sua pretesa di indicare un fattore causale dominante dominante rispetto al quale gli altri apap paiono al più concomitanti e secondari. Da questo punto di vista, il De flatibus appare come un diretto antecedente del celebre passaggio del Fedone platonico, considerato come la prima riflessione filosofica sul sul problema problema della causalità, dove pure si ricorre ricorre a un’ipotesi di partenza e si distingue la causa principale da quelle concomitanti (99b-100a). Il secondo dei testi cui facevo riferimento è il Peri technes. Benché esso impieghi i termini di aitia e aitios nel consueto senso
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di “colpevolezza” e “responsabilità” (cap. 7), assistiamo anche qui ad un interessante sviluppo epistemologico. Polemizzando contro chi sostiene che la medicina è inutile, perché le malattie se non letali guariscono spontaneamente, l’autore sostiene che non esistono terapie “spontanee”, perché nell’ambito di ciò che è suscettibile di spiegazione causale ( dia ti ) la “spon “spontan taneit eità” à” (automaton ) sparisce: sparisce: e a questo ambito ambito appartiene appartiene appunto appunto la medicina, medicina, in cui il dia ti rende i fenomeni spiegabili e perciò razionalmente prevedibili (cap. 6). Anche qui siamo certamente nella direzione concettuale che conduce al Fedone, e per per altr altrii aspe aspett tti,i, com comee è fafacile vedere, al II libro della Fisica aristotelica. 5. La sommaria somm aria descrizi desc rizione one di questa ques ta tradizio trad izione ne di pensiero pens iero può contribuire a mostrare come Aristotele, nella sua sistemazione teorica del pensiero causale, causale, abbia in effetti compiuto compiuto una scelta o meglio una decisione teorica, che sembra essere stata quella di accoglierne tutta la complessità, senza sacrificarla a quel suo esito che da un punto di vista moderno può apparire il più maturo, cioè quello di Antica medicina. Ci sono certo elementi che provengono dal linguaggio “filosofico” (come la “materia” e la “forma”) tuttavia rappresentati e reinterpretati mediante quello “tecnico” (il bronzo per la statua, il rapporto d’ottava). E c’è soprattutto una ricca varietà di punti di vista “causali” che provengono dal linguaggio giuridico-politico, e oltre ad esso medico, della “responsabilità” e della “imputabilità”, per quanto riguarda la modalità efficiente della causazione. Lo stesso linguaggio, mediato dalla storiografia, riguarda la modalità “finalistica”, il cui primo esempio è l’“intenzione” o “decisione” (ho bouleusas ). Importante ricordare a questo proposito che Aristotele ne sottolinea, come gli storici, il carattere soggettivo: il fine è comunque “il “il bene”, ma «non «non fa alcuna alcuna differenza differenza se si tratti del bene in sé o di ciò che può apparire come tale» (195a25 sg.). Non credo che in questa pluralità di punti di vista sulla causazione e sulla spiegazione causale sia da ravvisare una sorta di arcaismo teorico da parte di Aristotele, una sua incapacità di comprendere la centralità della causa efficiente, secondo la critica di
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Irwin. Si tratta piuttosto, a mio avviso, di una consapevole selezione e riorganizzazione dei frammenti di riflessione sui temi della responsabilità, dell’imputabilità e della causalità che gli venivano proposti da una tradizione culturale ricca benché incerta e oscillante. Questa opzione ha certamente impedito ad Aristotele di imboccare con sicurezza quella via verso una teoria della causalità lineare, e al limite meccanicistica, di cui si è detto all’inizio. In compenso, gli ha consentito di elaborare uno schema dei nessi di causazione capace di spiegare tanto la struttura di cose, come come spespe proc essi , come cie animali e manufatti, quanto la dinamica di processi quelli produttivi e riproduttivi, e di condotte (fare la guerra, andare al mercato). E di spiegare tutto questo nel contesto di un’inchiesta e di un dibattito dialetticamente aperti ed insidiosi, come mostra la sua preoccupazione di non limitarsi ai quattro punti di vista principali dell’esplicazione causale, bensì di analizzarli nei 48 tropoi con cui possono venire enunciati in quel contesto. Anche per questo aspetto, si può forse dire che la Fisica di Aristotele, se è estranea alla genealogia della scienza moderna, non lo è però alla discussione contemporanea sulla struttura della spiegazione causale. E che deve questo, almeno in parte, a quella tradizione culturale in cui essa affonda, dialetticamente, le sue radici, e che viene troppo spesso dimenticata dai suoi interpreti.
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Di “primato della fisica” in Aristotele ha parlato Wolfgang Wieland, il quale lo ha inteso come “primato metodico”, nel senso che la metafisica in Aristotele non risulta comprensibile senza la fisica, mentre la fisica può essere compresa autonomamente e di per sé. A sostegno di questa tesi Wieland cita i seguenti passi: 1) in Top. I 4, 105 b 20 ss., Aristotele divide le premesse e i problemi in logici, fisici ed etici, includendo nei problemi fisici l’intero ambito del sapere teoretico; 2) in An. Post. I 33, 89 b 7 s., rimanda per l’analisi di concetti come dianoia, nous, epistêmê, tekhnê, phronêsis, sophia alla fisica e all’etica, considerando di nuovo la fisica come l’intero sapere teoretico; 3) nel Protreptico la parola programmatica per l’ambito del sapere teoretico è phusis (fr. 13 Ross); 4) nella classificazione delle scienze in teoretiche, pratiche e poietiche ( Metaph. E 1 e K 7) solo la fisica è presentata senz’altro come scienza teoretica, mentre l’esistenza della metafisica è condizionata alla soluzione del problema della sostanza immobile; 5) Metaph. A rimanda, per la dottrina delle cause, alla Fisica; 6) Metaph. a fa coincidere la scienza teoretica con la fisica; 7) la prima metà di Metaph. L presenta come premessa necessaria alla teologia una ricapitolazione della dottrina dei principi sviluppata nella Fisica; 8) la teologia di Metaph. L trova il suo fondamento in Phys. VIII (dimostrazione del motore immobile); 9) in Phys. VIII 3, 253 a 35 ss., tutte le scienze sono impegnate nello studio del movimento. * Università di Padova.
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Perciò Wieland afferma che l’esistenza della metafisica «risulta questione di confine di una fisica» concepita da Aristotele come «scienza generale dei principi» e che «la distinzione tra fisica e metafisica cade dunque per così dire all’interno stesso della fisica».1 Ritengo che Wieland abbia ragione e che a conferma della sua tesi possano essere addotti i seguenti ulteriori argomenti. La fisica nasce come scienza della natura. Ma che cosa cerca della natura? Le cause e i princìpi “primi”. Scrive infatti Aristotele all’inizio della Fisica: «Poiché il sapere e l’avere scienza derivano, in tutte le trattazioni che hanno a che fare con princìpi, cause ed elementi, dalla conoscenza di questi – allora infatti riteniamo di conoscere ciascuna cosa, quando ne abbiamo conosciuto le cause prime e i princìpi primi, e siamo giunti fino agli elementi – è chiaro che anche la scienza della natura dovrà sforzarsi di determinare anzitutto ciò che riguarda i princìpi».2
Dunque anche la fisica è conoscenza delle cause prime e dei princìpi, come risulterà essere – secondo la celebre definizione di Metaph. A 2 – la filosofia prima, detta poi metafisica. Nel caso della fisica si tratta, naturalmente, delle cause prime e dei princìpi della natura, perché questo è l’oggetto della scienza in questione. Ma le cause prime e i princìpi della natura non sono diversi da quelli dell’intera realtà, come risulta dallo stesso libro I della Fisica, dove essi vengono individuati nei due contrari, cioè nella forma (eidos o morphê ) e nella privazione di essa (sterêsis), nonché nel sostrato di entrambe ( hupokeimenon), cioè nella materia (hulê ).3 Sempre nel I libro della Fisica Aristotele afferma che è possibile dire le stesse cose, cioè indicare gli stessi princìpi, materia, forma e privazione, facendo riferimento alla potenza e all’atto W. Wieland, La Fisica di Aristotele , trad. it. Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 16-17, nota 2 (I ed. tedesca 1962). In una lettera del 15.08.2003 Wieland mi ha comunicato di professare ancora questa convinzione. 2 Phys. I 1, 184 a 10-16. 3 Phys. I 7, 190 b 24-29. 1
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(kata tên dunamin kai energeian).4 A questo proposito egli rinvia ad una precedente trattazione, nella quale avrebbe trattato della potenza e dell’atto con maggiore accuratezza, e gli interpreti in genere concordano nell’identificare questa trattazione col libro D della Metafisica, il famoso dizionario dei termini filosofici, il quale è considerato uno dei primi scritti di Aristotele. Ora, in questo libro la potenza e l’atto sono presentati come due significati generali dell’essere, coestensivi a tutte le categorie, e quindi a tutti gli enti. 5 Dunque già nella Fisica, identificando i princìpi con la materia, la forma e la privazione, o con la potenza e l’atto, Aristotele avrebbe indicato i princìpi dell’intera realtà. Che questi siano per Aristotele princìpi dell’intera realtà è provato dal fatto che, a proposito di essi, il filosofo confronta la sua posizione con quella dei pensatori a lui precedenti, cioè sia con quella dei presocratici che con quella di Platone. Ora, che i presocratici cercassero i princìpi dell’intera realtà, è certo, anche se essi identificavano l’intera realtà, secondo Aristotele, con la natura ( phusis ), e perciò erano da lui chiamati “fisici” ( phusikoi ). Ancor più certo è che i princìpi dell’intera realtà erano l’oggetto, sempre secondo Aristotele, della ricerca di Platone, poiché nelle “dottrine non scritte”, testimoniate proprio da Aristotele, Platone riconduceva le Idee e i numeri ideali, che a loro volta sono cause di tutte le realtà sensibili, a due princìpi supremi, l’Uno e il Grande e piccolo, detto anche Diade indefinita, che in tal modo venivano ad essere princìpi dell’intera realtà. 6 Ebbene, nella Fisica Aristotele confronta i suoi princìpi con quelli di Platone e critica precisamente il Grande e piccolo, affermando che il principio opposto alla forma è duplice, ma non in quanto è grande e piccolo, bensì in quanto è materia e privazione.7 Infine conclude che l’indagine sul principio inteso come forma, se esso sia uno o molti, e quale sia o quali siano, spetta per la sua esattezza alla filosofia prima.8 Phys. I 8, 191 b 28-29. 5 Metaph. D 7, 1017 b 1-9. 6 Metaph. A 6. 7 Phys. I 9, 192 a 10-25. 8 Phys. I 9, 192 a 35-b 1. 4
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Dunque la fisica indica quali sono, in generale, i princìpi di tutte le cose, cioè materia, forma e privazione; essa è la “dottrina dei princìpi” (la Prinzipienlehre, per usare l’espressione degli studiosi delle dottrine non scritte di Platone) di Aristotele, alternativa alla dottrina dei princìpi di Platone, riferita dallo stesso Aristotele come “dottrina non scritta”. L’indagine più precisa sulla forma, a causa della sua immaterialità, è attribuita da Aristotele ad un’altra scienza, che è “prima”, cioè prima rispetto alla fisica, e coincide con quella che poi sarà chiamata “metafisica”. Questa attribuzione è ulteriormente chiarita in seguito, cioè nel II libro della Fisica, dove si dice che anche lo studio della forma, come quello del fine, spetta alla fisica, ma si tratta della forma che non è separabile dalla materia. Lo studio, invece, di ciò che è separato dalla materia (khôriston), del suo modo di essere e della sua definizione, spetta alla “filosofia prima”. 9 Troviamo qui un residuo, peraltro conservato da Aristotele, come vedremo, anche nella sua maturità, della concezione platonica della filosofia, secondo la quale la vera scienza è conoscenza delle Idee, cioè delle realtà separate dalla materia, che in Aristotele si configura però come scoperta della necessità che, tra le cause della natura, ne esista almeno una che è separata dalla materia, cioè quello che sarà il motore immobile. La fisica, in tal modo, possiede per Aristotele un primato che potremmo definire “iniziale”, nel senso che essa dà inizio alla ricerca dei princìpi di tutte le cose, il che è proprio di una filosofia “prima”, ma poi affida il compimento, o l’affinamento, di tale ricerca, ma soltanto per una parte di questi princìpi, alla metafisica, la quale in tal modo ottiene un primato che potremmo definire “finale”. Anche in Metaph. N, criticando le dottrine dei princìpi di Platone e degli Accademici, Aristotele contrappone ad esse la stessa dottrina di Phys. I, secondo cui i princìpi di tutte le cose, sia sensibili che immobili, sono i contrari, cioè la forma e la privazione, e il sostrato di essi, cioè la materia. Egli attribuisce infatti all’Uno, posto dai Platonici, la funzione della forma, e alla Diade indefini9
Phys. II 2, 194 b 10-15.
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ta la funzione della materia, rilevando tuttavia vari difetti nella formulazione platonica di questi princìpi e contrapponendovi la propria concezione della materia, o del non essere, come potenza.10 Si tratta della stessa dottrina della Fisica, ma impiegata chiaramente in un contesto che dovremmo definire metafisico, riguardando la critica alla dottrina dei princìpi formulata da Platone e dagli altri Accademici. La stessa dottrina, infine, si incontra nella prima metà del libro L della Metafisica, dove, accanto all’indicazione, come princìpi, della materia, della forma e della privazione, ovvero della potenza e dell’atto, e alla critica di pensatori presocratici come Anassimandro, Empedocle, Anassagora e Democrito, 11 si trova anche l’indicazione della causa motrice, 12 e la critica a coloro che pongono come elementi l’Essere e l’Uno, cioè ai Platonici. 13 Ebbene, Aristotele presenta questa parte del libro come una ricerca dei princìpi e delle cause delle sostanze sensibili, quindi come un’indagine di fisica, ma i princìpi e le cause a cui essa approda sono gli stessi che incontriamo nel libro N della Metafisica, cioè in un contesto chiaramente metafisico. Infine non bisogna dimenticare, come ha notato anche Wieland, che la famosa dottrina delle quattro cause, materiale, formale, efficiente e finale – alla luce della quale, nel libro A della Meta fisica, Aristotele critica tutti i tentativi a lui precedenti di individuare le cause prime dell’intera realtà, cioè di realizzare quella che per lui è la “sapienza” ( sophia), ovvero la “filosofia prima”, e che dunque egli sembra considerare come la sua principale scoperta –, viene formulata per la prima volta nella sua interezza nel II libro della Fisica.14 A questo infatti Aristotele rinvia nel libro A della Metafisica, affermando che tali cause «sono state da noi trattate adeguatamente (hikanôs) nei libri sulla natura».15 Dunque la Metaph. N 1, 1088 b 1-2; 2, 1089 a 28-29. 11 Metaph. L 2. 12 Metaph. L 3, 1070 a 21-22; 4, 1070 b 34-35; 5, 1071 a 35-36. 13 Metaph. L 4, 1070 b 7-9. 14 Phys. II 3. 15 Metaph. I 3, 983 a 34-b 1. Cf. Phys. II 3. 10
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più importante dottrina “metafisica” di Aristotele, quella delle quattro cause, è nata nella Fisica e quivi ha trovato la sua trattazione più adeguata. Come non parlare, allora, di un “primato”, sia pure soltanto iniziale, della fisica? A ciò non si oppone minimamente l’affermazione, compiuta in Phys. I 2, che l’indagare se l’essere è uno e immobile non fa parte della fisica, perché la discussione con chi nega i princìpi di una scienza spetta «a una scienza diversa o ad una comune a tutte». Ecco le parole di Aristotele: «Indagare se l’essere è uno e immobile non è indagare sulla natura; come infatti il geometra non ha alcun argomento contro chi nega i princìpi, ma ciò spetta a una scienza diversa o ad una comune a tutte, così neppure colui che si occupa dei princìpi. Infatti non vi è più alcun principio, se l’essere è solo uno ed uno in questo modo, poiché il principio è di qualche cosa o di alcune cose». 16
In questo passo, infatti, per “princìpi” Aristotele non intende i tre princìpi-elementi, di cui la fisica sicuramente si occupa, ma l’esistenza della molteplicità e del movimento, che è la condizione dell’esistenza della stessa fisica e che la fisica ammette sulla base dell’esperienza.17 La scienza “diversa” e quella “comune a tutte”, a cui Aristotele attribuisce la discussione di tali princìpi, potrebbero essere rispettivamente la metafisica e la dialettica, ovvero, poiché la dialettica per Aristotele non è una scienza, una metafisica strutturata dialetticamente, come ho cercato di mostrare altrove.18 Tuttavia la discussione con coloro che negano i princìpi, cioè la confutazione dell’eleatismo, si trova poi all’interno della stessa Fisica, giustificata nel modo seguente: «Dal momento che, se anche non sulla natura, ad essi tuttavia accade di sollevare problemi di tipo fisico ( phusikas aporias ), forse Phys. I 2, 184 b 25-185 a 5. 17 Ivi , 185 a 12-14. 18 E. Berti, Physique et métaphysique selon Aristote , Phys. I 2, 184 b 25-185 a 5, in I. Düring (Hrsg.), Naturphilosophie bei Aristoteles und Theophrast , Verhandlungen des 4. Symposium Aristotelicum, Heidelberg, Stiehm, 1969, pp. 18-31. 16
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sta bene discutere per un poco a proposito di essi; tale discussione presenta infatti un interesse filosofico (ekhei philosophian)».19
Dunque la fisica discute anche con coloro che negano i suoi stessi presupposti, vale a dire l’esistenza della molteplicità e del movimento, cioè svolge essa stessa quel tipo di indagine che Aristotele ha appena attribuito ad una scienza diversa e comune a tutte. A conferma di ciò sta il fatto che all’interno della fisica si trova anche il famoso argomento con cui Aristotele confuta la negazione eleatica del movimento e con ciò stesso ne dimostra l’esistenza: «Se dunque (il movimento) è opinione falsa, o interamente opinione (doxa), il movimento esiste ugualmente, e anche se è frutto di immaginazione ( phantasia), e anche se talora sembra essere così e talora diversamente, poiché sia l’immaginazione che l’opinione sembrano essere anch’esse forme di movimento». 20
C’è poi un passo famoso del libro L della Metafisica, il cui significato è stato chiarito soltanto di recente, dove Aristotele afferma che lo studio delle sostanze mobili, corruttibili o eterne (corpi terrestri e corpi celesti), spetta alla fisica, mentre quello delle sostanze immobili spetta ad un’altra scienza solo se non c’è alcun principio comune ad esse e agli altri due generi di sostanze. «Le sostanze sono di tre generi: una è di genere sensibile – della quale l’una è eterna e l’altra corruttibile, cioè questa che tutti ammettono, ad esempio le piante e gli animali, e quella eterna – e di essa è necessario cogliere gli elementi, sia che siano uno sia che siano molti; l’altra è di genere immobile, e di questa certuni dicono che è separata, alcuni dividendola in due, altri ponendo in una stessa natura le forme e gli oggetti matematici, altri ancora ammettendo fra tali cose solo gli oggetti matematici. Le prime due spettano alla fisica, poiché hanno movimento, mentre quest’ultima spetta a una scienza diversa, se (eiper ) non vi è alcun principio comune ad esse».21 Ivi , 185 a 17-20. 20 Phys. VIII 3, 254 a 26-30. 21 Metaph. L 1, 1069 a 36-b 2. 19
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Tutti i commentatori interpretano il “se” ( eiper ) dell’ultima riga non come ipotetico, ma come giustificativo, cioè come se equivalesse a “poiché”, “dal momento che”, “se è vero che”, dando in tal modo per scontato che non vi è alcun principio comune ai tre generi di sostanza e che pertanto l’indagine sul terzo genere, la sostanza immobile, spetta ad una scienza diversa dalla fisica. Ma dal seguito del libro L risulta che non solo tutte le cose hanno gli stessi princìpi per analogia (di nuovo materia, forma e privazione), ma anche hanno la stessa causa motrice, cioè il primo motore, che è comune non per analogia, ma individualmente. Di esso, che poi risulta essere la sostanza immobile, non si cercano i princìpi perché, come ha notato giustamente Frede, esso stesso è principio.22 Se ciò è vero, allora vi sono alcuni princìpi, o almeno uno, comuni ai tre generi di sostanze, quindi, come ha giustamente osservato Donini, non c’è bisogno che il terzo genere, vale a dire la sostanza immobile, sia oggetto di una scienza diversa dalla fisica, e la fisica stessa assume il ruolo di filosofia prima. 23 La “scienza diversa” dalla fisica, cui spetterebbe lo studio delle sostanze immobili, se non vi fosse alcun principio comune tra esse e le sostanze sensibili, è probabilmente la metafisica dei Platonici, ai quali appartengono le tre diverse concezioni delle sostanze immobili riferite nel passo appena citato (Platone, Speusippo e Senocrate), che ovviamente non sarebbe stata da questi chiamata “metafisica”, perché essi non riconoscevano alla fisica il valore di scienza, ma che costituiva per essi la scienza, o la filosofia, tout court.24 I Platonici, infatti, cercavano le cause e i princìpi delle sostanze immobili, cioè delle Idee e dei numeri ideali (o, nel caCf. M. Frede, Introduction e Metaphysics L 1, in M. Frede and D. Charles (eds.), Aristotle’s Metaphysics Lambda. Symposium Aristotelicum , Oxford, Oxford University Press, 2000, pp. 1-52 e 53-81. 23 P. Donini, Il libro Lambda della Metafisica e la nascita della filosofia prima, «Rivista di storia della filosofia», 57, 2002, pp. 181-199. 24 A questo proposito mi permetto di rinviare al mio saggio Il libro Lambda della Metafisica di Aristotele tra fisica e metafisica , in G. Damschen, R. Enskat und A. Vigo (Hrsgg.), Platon und Aristoteles – sub ratione veritatis. Festschrift für Wolfgang Wieland zum 70. Geburtstag , Göttingen, Vandenhoek & Ruprecht, 2003, pp. 177-194. 22
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so di Speusippo, dei numeri matematici), e li ravvisavano nell’uno e nella Diade indefinita (o, nel caso di Speusippo, nel Molteplice). A questo proposito il sopra citato Donini si dichiara d’accordo con un’ipotesi avanzata da me una ventina di anni fa, cioè che nella fase giovanile del suo pensiero, di cui è espressione il Protreptico, Aristotele ancora non avesse distinto la fisica e la metafisica, ma avesse adottato soltanto la distinzione tra filosofia teoretica e filosofia pratica, identificando la prima con una scienza che è insieme fisica e metafisica, e la seconda con una scienza che è insieme etica e politica. C’è infatti un frammento del Protreptico – opera sicuramente composta da Aristotele nel suo periodo accademico, cioè prima della morte di Platone, perché legata all’ Antidosis di Isocrate che è del 353 a. C. – in cui si dice: «Che noi abbiamo la possibilità di apprendere le scienze concernenti le cose giuste e giovevoli ( peri tôn dikaiôn kai tôn sumpherontôn), ed inoltre quelle concernenti la natura e la rimanente verità ( peri phuseôs te kai tês allês alêtheias), è facile mostrare».25
Il fatto che qui Aristotele parli di “scienze” ( epistêmas) al plurale significa solo che egli vuol fare delle considerazioni di carattere generale, ma la scienza a cui egli pensa è solo la filosofia, alla quale il Protreptico vuole esortare. Questa è divisa in due parti, quella che poi sarà chiamata filosofia pratica, la quale si occupa “delle cose giuste e giovevoli”, che poi risultano essere l’anima e le sue virtù, e quella che poi sarà chiamata filosofia teoretica, la quale si occupa “della natura e della rimanente verità”, cioè ricerca le cause e gli elementi della natura, che poi risultano essere “il fuoco, o l’aria, o il numero o alcune altre realtà”, cioè “le realtà supreme” (ta akra) o “le realtà prime” (ta prôta).26 Come si vede, tra queste ultime ci sono sia i princìpi della natura, ammessi dai presocratici, sia altri princìpi, quali i numeri e “altre realtà”, preAristot. Protr. fr. 5 Ross, 32 Düring. Il brano è tratto dal Protreptico di Giamblico, che per questa parte era costituito da estratti del perduto Protreptico di Aristotele. Cf. Aristotele, Protreptico. Esortazione alla filosofia , a cura di Enrico Berti, Torino, Utet-Libreria, 2000. 26 Ivi , fr. 5 Ross, frr. 34-36 Düring. 25
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sumibilmente le Idee, ammessi dai Platonici. Queste ultime sono probabilmente “la rimanente verità”, cioè una verità diversa da quella che si raggiunge mediante la conoscenza della natura, una verità non “fisica”, bensì – diremmo oggi – “metafisica”. Dunque in questa fase della filosofia di Aristotele fisica e metafisica non sono ancora distinte e formano un’unica e medesima scienza. A questa stessa fase evolutiva appartiene, a mio avviso, anche il libro a della Metafisica , il famoso alpha elatton, così chiamato perché originariamente era anch’esso un libro alpha, cioè un libro I, un’introduzione, probabilmente l’introduzione a un’edizione della Metafisica precedente a quella a noi pervenuta e che si inizia col libro A, detto alpha meizon perché più lungo di alpha elatton.27 In quest’ultimo, infatti, Aristotele presenta la filosofia come “ricerca della verità” ( perì tês alêtheias theôria ) o “scienza della verità” (epistêmê tês alêtheias), e la distingue in “teoretica” e “pratica”,28 esattamente come nel Protreptico. Inoltre, descrivendo il metodo della filosofia teoretica, egli si esprime nel modo seguente: «Perciò bisogna essere stati istruiti su come ciascuna scienza deve dimostrare, perché è assurdo cercare nello stesso tempo la scienza e il modo di procedere della scienza, né è facile apprendere l’una e l’altra cosa. L’esattezza matematica non deve essere richiesta in tutte le cose, ma solo in quelle che non hanno materia. Pertanto questo modo di procedere non è fisico, perché forse la natura tutta intera ha materia. Di conseguenza si deve indagare anzitutto che cos’è la natura; così infatti sarà chiaro intorno a quali cose verte la fisica e se spetta a una sola scienza o a molte studiare le cause e i princìpi». 29
Qui, come si vede, la scienza della verità, cioè la filosofia, è identificata con la fisica, cioè col “modo di procedere fisico” ( phuHo sviluppato questa tesi in E. Berti, Note sulla tradizione dei primi due libri della “Metafisica”, «Elenchos», 3, 1982, pp. 5-38; e La fonction de Metaph. alpha elatton dans la philosophie d’Aristote , in P. Moraux-J. Wiesner (Hrsg.), Zweifelhaftes im Corpus Aristotelicum, Akten des 9. Symposium Aristotelicum, Berlin-New York, de Gruyter, 1983, pp. 260-294; con cui Donini si dichiara d’accordo. 28 Metaph. a 1, 993 a 30, b 20-21. 29 Ivi , 3, 995 a 12-20. 27
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sikos ho tropos ), e si dichiara che essa deve indagare anzitutto “che cos’è la natura” ( ti estin hê phusis), e che in tal modo risulterà chiaro «intorno a quali cose verte la fisica», e «se spetta a una sola scienza», cioè presumibilmente alla fisica stessa, «o a molte», cioè anche ad una scienza diversa, studiare le cause e i princìpi. È lo stesso problema che Aristotele formula alla fine del cap. 1 di Metaph. XII. Per queste ragioni ho sostenuto che il Protreptico, il libro a della Metafisica, il libro L della stessa (e presumibilmente anche il libro N) appartengono ad una fase evolutiva anteriore agli altri libri, e formano quella che, con linguaggio jaegeriano, si potrebbe chiamare la Urmetaphysik di Aristotele. La mia tesi è che in questa Urmetaphysik Aristotele non aveva ancora distinto la fisica dalla metafisica, e dunque attribuiva alla “fisica-metafisica”, chiamata “fisica” in quanto scienza della natura, il ruolo di “filosofia prima”, in quanto ricerca delle cause prime della natura. Di questo “primato” iniziale della fisica, del resto, rimane traccia anche nei libri più maturi della Metafisica, dove si attribuisce esplicitamente il primato tra le scienze teoretiche alla metafisica. Un primo passo in cui ciò si può notare si trova nel libro G, quello che introduce la nozione di filosofia come “scienza dell’essere in quanto essere”, del tutto assente nei libri più antichi, anzi in tutti gli altri libri di Aristotele, fatta eccezione per il libro E, che è la continuazione diretta di G (il libro D infatti è il famoso dizionario, introdotto nella posizione in cui si trova dagli editori), e per il libro K, il quale non è che un riassunto, probabilmente post-aristotelico, dei libri BGE . Esaminando a chi spetta discutere, cioè stabilire se siano veri o falsi, gli assiomi, vale a dire il principio di non contraddizione e quello del terzo escluso, Aristotele afferma che ciò spetta al filosofo, cioè a colui che studia l’essere in quanto essere, perché i suddetti assiomi sono coestensivi all’intero essere. E poi aggiunge: «Perciò nessuno di coloro che compiono indagini particolari si sforza di dire alcunché intorno ad essi, se cioè sono veri o no, né il geometra né l’aritmetico, ma solo alcuni dei fisici lo hanno fatto, facendo questo a buon diritto ( eikotôs). Essi pensavano infatti di essere i soli a indagare sull’intera realtà e sull’essere. Ma poiché vi è qualcuno che è ancora più in alto del fisico (la natura infatti è solo
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un genere dell’essere), a colui che indaga in universale e sulla sostanza prima spetterà anche l’indagine intorno a questi. Anche la fisica è una sorta di sapienza ( sophia tis), ma non la prima».30
La fisica è dunque “una sorta di sapienza”, cioè di sapere supremo, perché la natura, su cui essa verte, è stata ritenuta costituire l’intera realtà, ad esempio da parte dei presocratici; ma, dal momento in cui si è scoperto che la natura non è l’intera realtà, in particolare ad opera dei Platonici, la fisica ha dovuto cedere il suo primato ad una scienza diversa, che qui Aristotele qualifica come la scienza dell’essere in quanto essere. È chiaro, tuttavia, che la nuova scienza dell’essere in quanto essere, introdotta da Aristotele, assorbe in sé, per così dire, sia le funzioni che aveva la fisica per i presocratici, sia quelle che aveva la scienza delle Idee, cioè la dialettica, per i Platonici. Un altro passo in cui si conserva traccia del primato iniziale della fisica è contenuto nel libro E della Metafisica e fa parte della celebre classificazione delle scienze teoretiche: «Se c’è qualcosa di eterno, immobile e separato, è chiaro che spetta a una scienza teoretica conoscerlo, non tuttavia alla fisica, perché la fisica si occupa di alcune cose mobili, né alla matematica, ma ad una scienza anteriore a entrambe. La fisica infatti si occupa di realtà separate ma non immobili, mentre alcune parti della matematica si occupano di realtà immobili, ma forse non separate bensì in qualche modo esistenti nella materia. Invece la scienza prima si occupa di realtà sia separate che immobili. È necessario che tutte le cause siano eterne, ma soprattutto queste, poiché queste sono cause di quelle visibili tra le realtà divine . Di conseguenza le filosofie teoretiche saranno tre, la matematica, la fisica e la scienza teologica; non è infatti oscuro che, se il divino esiste in qualche luogo, esso esiste in una natura di questo tipo, e la scienza più degna di onore deve riguardare il genere di realtà più degno di onore. Le scienze teoretiche sono dunque le più degne di essere desiderate rispetto alle altre, ma questa lo sarà rispetto alle altre scienze teoretiche (corsivo mio)». 31 Metaph. G 3, 1005 a 29-b 2. 31 Metaph. E 1, 1026 a 10-23. 30
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Qui non c’è dubbio che il primato tra le scienze teoretiche spetta alla “scienza teologica”, cioè alla metafisica, ma le spetta perché essa si occupa di realtà divine, e queste realtà divine sono le realtà immobili, le quali sono divine perché sono cause delle realtà divine visibili. Ora, le realtà divine visibili non possono essere che i corpi celesti, cioè gli astri, i quali secondo Aristotele sono eterni e divini. Le cause divine delle realtà divine, che sono a loro volta, anzi a maggior ragione, eterne e divine in quanto cause di realtà eterne e divine, risulteranno essere i motori immobili degli astri, cause appunto dei loro movimenti. La scienza teologica, cioè la metafisica, riceve dunque la sua dignità, e quindi il suo primato, dal fatto di occuparsi delle cause degli astri, cioè delle cause di realtà sensibili e mobili, ancorché eterne, il che è esattamente il compito della fisica. Da questo passo insomma risulta che la metafisica ha assunto, anzi può assumere, essa il compito che inizialmente era della fisica, quello cioè di cercare le cause prime delle realtà sensibili e mobili, e lo può assumere solo nel momento in cui risulti chiaro che fra queste cause ce ne sono alcune, le quali sono immobili, e quindi vanno oltre l’ambito della natura, cioè oltre l’ambito della fisica. Ciò viene perfettamente confermato dalla continuazione e conclusione dello stesso passo, dove Aristotele pone la nota questione se la filosofia prima, cioè la scienza teologica, sia anche universale, cioè coincida con la scienza dell’essere in quanto essere: «Qualcuno potrebbe sollevare il problema se mai la filosofia prima sia universale oppure se verta su un qualche genere particolare e su una qualche natura soltanto. Nemmeno nelle matematiche infatti le cose vanno allo stesso modo, ma la geometria e l’astronomia vertono su una qualche natura particolare, mentre quella universale è comune a tutte. Se dunque non c’è alcuna sostanza diversa da quelle costituite per natura, la fisica sarà la scienza prima; se invece c’è qualche sostanza immobile, questa sarà anteriore e la filosofia che se ne occupa sarà prima, e sarà universale in questo senso, cioè nel senso che è prima; e a questa spetterà studiare, a proposito dell’essere in quanto essere, sia che cos’è sia quali proprietà gli appartengano in quanto essere». 32 32
Metaph. E 1, 1026 a 23-32.
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Qui Aristotele afferma esplicitamente che, se non ci fosse nessuna sostanza diversa da quelle costituite per natura, cioè i corpi terrestri e celesti, sensibili e mobili, la fisica sarebbe senz’altro la scienza prima. Poiché all’inizio della ricerca delle cause prime non è ancora chiaro se tra queste ve ne siano di immobili, all’inizio la fisica è dunque la scienza prima: ecco il primato “iniziale” della fisica. Solo alla fine della ricerca, se e quando risulterà la necessità dei motori immobili – e non bisogna dimenticare che ciò avviene negli ultimi due libri della Fisica, il VII e l’VIII – allora si potrà dire che la fisica non è la filosofia prima, ma c’è un’altra scienza ad essa superiore. Questa sarà, come dice Aristotele, “universale in quanto prima”, espressione che ha suscitato tante perplessità negli interpreti moderni, i quali sono arrivati a parlare – al seguito di Heidegger, sicuramente grande filosofo, ma altrettanto sicuramente non grande esegeta di Aristotele – di una metafisica come “onto-teologia”. In realtà, Aristotele vuol dire semplicemente che la scienza prima è necessariamente universale, in quanto conosce le cause prime, le quali, per il fatto di essere prime, sono cause dell’intera realtà. Se tra le cause prime, cioè dell’intera realtà, ce n’è una immobile, allora la scienza universale sarà la metafisica; se invece non ce n’è nessuna di immobile, allora la scienza universale sarà la fisica. L’universalità attribuita da Aristotele alla metafisica potrebbe valere benissimo anche per la fisica, qualora la scienza prima fosse la fisica. Essa non è legata al carattere “teologico” della metafisica, ma al sua carattere di scienza “prima”. Quando Aristotele presenta come filosofia prima la scienza della sostanza immobile, non intende con questa espressione una scienza che ricerca i princìpi e le cause delle sostanze immobili (che è il modo in cui l’intendevano Platone e gli Accademici), ma una scienza che, nella ricerca dei princìpi e delle cause dell’ente in quanto ente, approda al riconoscimento della necessità di sostanze immobili. Sono stati i commentatori neoplatonici che hanno enfatizzato la distinzione tra fisica e metafisica, nell’intento di “teologizzare”, cioè di “platonizzare” Aristotele il più possibile. Essi hanno presentato il libro L della Metafisica come la “teologia” di Aristotele e ne hanno fatto il culmine della Metafisica,
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mentre per Aristotele esso è un libro che mette insieme fisica e metafisica, e appare del tutto indipendente dal resto della Metafisica. Del resto anche Andronico non lo ha collocato all’ultimo posto tra i libri della Metafisica, ma solo al terzultimo, dunque non lo ha considerato il punto di arrivo dell’intera trattazione. La gerarchia delle scienze di Aristotele si presenta come radicalmente diversa rispetto a quella di Platone. In Platone, infatti, non c’è una scienza fisica, perché la natura, in quanto mutevole, non può essere oggetto di scienza, essendo la scienza per definizione conoscenza dell’immutabile. Potrebbe aspirare al titolo di scienza, per Platone, la matematica, in quanto conoscenza di verità necessarie, cioè eterne, ma, come è noto, nel VI libro della Repubblica Platone afferma che essa è solo dianoia, cioè ragionamento, perché si fonda su premesse puramente ipotetiche, senza saperle giustificare. Vera, e unica, scienza per Platone è la dialettica, cioè la scienza delle Idee, dei numeri ideali e dei loro princìpi. Essa è “metafisica” ante litteram, perché ha per oggetto realtà immobili e indica i princìpi di queste in realtà anch’esse immobili, l’Uno e la Diade indefinita; ed è anche universale, si potrebbe dire con Aristotele, “in quanto prima”, se non fosse unica, perché i princìpi delle Idee e dei numeri ideali sono princìpi dell’intera realtà, sia immobile (vera realtà) che mobile (realtà dimidiata, via di mezzo tra l’essere e il nulla). In Aristotele la fisica diventa, per la prima volta, vera scienza – per i presocratici essa era scienza, ma non era soltanto fisica, bensì insieme anche metafisica –, in quanto capace di conoscere verità, se non necessarie ed eterne, almeno valide “per lo più”, cioè nella maggior parte dei casi. 33 Anche la matematica, per Aristotele, è vera scienza, ma subordinata alla fisica, in quanto i suoi oggetti (numeri e figure) sono misure, o dimensioni, dei corpi fisici, cioè accidenti di questi. 34 Dunque la fisica, se non è la scienza prima, è certamente la seconda, ma è una scienza che diviene seconda solo nel momento in cui, per così dire, genera da sé la me33 34
Phys. II 8, 198 b 35. Cf. Phys. II 2.
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tafisica, dimostrando l’esistenza, tra le cause prime degli enti naturali, di realtà immobili. E la metafisica è, sì, scienza prima, in virtù della priorità (per sé, non per noi) del suo oggetto, ma si regge sulla fisica, senza la quale non potrebbe essere prima. Si tratta, dunque, di un primato diverso da quello della dialettica di Platone, cioè si tratta di quello che chiamerei un primato “finale”, giustificato dal primato “iniziale” della fisica. Tutto ciò dimostra anche che, per Aristotele, la metafisica non è né ontologia, né teologia, né la sintesi ibrida di ontologia e teologia, cioè l’“onto-teologia”, di cui parlano Heidegger e i suoi innumerevoli ripetitori. Non è ontologia (parola non greca, ma coniata nel Seicento), perché Aristotele le attribuisce come oggetto l’essere in quanto essere solo allo scopo di risolvere la prima aporia di Metaph. B, cioè se lo studio di tutti i generi di cause sia proprio di una sola scienza o di più scienze. Egli risponde infatti che, poiché le cause prime sono cause dell’essere in quanto essere, cioè dell’intera realtà, lo studio di esse spetta alla scienza dell’essere in quanto essere, cioè alla scienza dell’intera realtà. 35 In tal modo la metafisica viene ad assumere il compito che inizialmente era proprio della fisica, quello cioè di cercare le cause prime. Questa concezione appartiene certamente alla fase più matura del pensiero di Aristotele, nella quale egli definisce la metafisica non più platonicamente come scienza delle realtà immobili, contrapposta quindi alla fisica, ma come scienza dell’intera realtà, includente dunque in un certo senso la fisica. E non si può nemmeno dire che la metafisica, per Aristotele, sia teologia, perché questo termine, come hanno mostrato più di un secolo fa Paul Natorp e più recentemente Richard Bodéüs, in Aristotele non appartiene ad una scienza, ma indica soltanto i miti sugli dèi narrati dai poeti.36 Essa è scienza “teologica”, cioè avente Cf. Metaph. G 1. 36 P. Natorp, Thema und Disposition der aristotelischen Metaphysik , «Philosophische Monatshefte», 24, 1888, pp. 37-65 e 540-574 (trad. it. col titolo Tema e disposizione della Metafisica di Aristotele, a cura di G. Reale, Milano, Vita e pensiero, 1995); R. Bodéüs, Aristote et la théologie des vivants immortels , St. Laurent, Québec, Editions Bellarmin, 1992, pp. 9-14. 35
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a che fare col divino, perché, come abbiamo visto sopra, tra le cause prime vi sono cause di realtà divine, quali gli astri, che dunque sono esse stesse divine. Ma essa è teologica perché fa proprio il compito che inizialmente era della fisica, cioè quello di cercare le cause prime anche degli astri. Il nome più appropriato a tale scienza è dunque quello aristotelico di “filosofia prima”, che essa in un certo senso eredita dalla fisica, ovvero quello posteriore di “metafisica”, che conserva il significato di discorso ulteriore rispetto alla fisica, ovvero di continuazione, di sviluppo, della fisica.37
Anche a questo proposito sono costretto a rinviare, per maggiori giustificazioni, a miei precedenti lavori, cioè La Métaphysique d’Aristote: “onto-théologie” ou “philosophie première”?, «Revue de philosophie ancienne», 14, 1996, pp. 61-85; Il dibattito odierno sulla cosiddetta “teologia” di Aristotele , «Paradigmi», 21, 2003, pp. 279-297. 37
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L’ANALOGIA TECNH-FUSIS E IL FINALISMO UNIVERSALE IN ARISTOTELE, PHYS. II R. Loredana Cardullo*
«Si manifesta come prima quella che chiamiamo “in vista di qualcosa”: questa è infatti l’essenza, e l’essenza è principio così nei prodotti della techne come in quelli della phusis». Aristot. De part. anim. I 1, 639b 11-21
Premessa 1
L’analogia, per Aristotele, costituisce un importante e privilegiato modello di argomentazione, uno strumento linguistico-concettuale “unificante”, atto, cioè, a permettere l’accostamento e la considerazione sinottica di fenomeni o di realtà apparentemente diversi tra loro per struttura, statuto ontologico, valore o funzione, ma collegabili insieme grazie ad una comune struttura analogica fatta di precisi rapporti e proporzioni di ordine matematico. 2 In effetti il termine ajnalogiva (da ajna; lovgon) mantiene il significato originario di proporzione e rapporto di carattere matematico proprio del sostantivo lovgo~, derivante dalla radice leg///log del verbo levgein, il cui valore etimologico rimanda anzitutto al calco* Università di Catania. 1 Desidero ringraziare i colleghi e gli amici che sono intervenuti al dibattito in occasione del Colloquio , ma un ringraziamento particolare va ad E. Berti, G.R. Giardina e F. Romano, che hanno letto e annotato con cura il testo, permettendomi di realizzarne una migliore stesura. Degli errori, com’è ovvio, solo io sono responsabile. Una prima stesura di questo contributo è apparsa su «Annali della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Catania» 2003, pp. 37-83. 2 Sull’uso dell’analogia come modello di spiegazione e di interpretazione nel mondo antico cf. G.R. Lloyd (1962; tr. it. 1992). Sulla teoria matematica dei rapporti analogici o proporzionali, risalente ad Eudosso ed utilizzata in ambito filosofico come concetto operativo sia da Platone che da Aristotele, si vedano, oltre alle Definizioni 5 e 6 del quinto libro degli Elementi di Euclide, T. Heath (1981) e A. Szabò (2000).
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R. LOREDANA CARDULLO
lare e al quantificare, prima ancora che al dire e al parlare . Una esemplificazione particolarmente chiara del senso e della funzione che l’analogia in generale, come modello interpretativo, gioca nel pensiero dello Stagirita ci viene da un brano di Metafisica L 4 (1070a 31-33) – fra l’altro particolarmente polemico nei confronti di quegli accademici (capeggiati probabilmente da Speusippo) che avevano posto principi diversi per ciascuno degli ordini di realtà da essi individuato –;3 vi si legge: «Le cause e i principi in un senso sono diversi per le diverse cose, in un altro senso, se si considerano in universale (kaqovlou) e p e r analogia (kat æ ajnalogivan), sono gli stessi per tutte le cose».
Ciò vuol dire che tutta la realtà, dai suoi livelli più bassi fino a quelli più elevati, fatte salve le debite diversità e peculiarità, è, per Aristotele, unificabile kat∆ ajnalogivan, ossia in virtù di un’analoga struttura di cause, principi, operazioni, funzioni, processi; 4 Che il riferimento di Aristotele, in questo contesto, possa riguardare Speusippo si evince dalla prima delle due citazioni dell’Accademico contenute nella Metafisica, precisamente da Z 2, 1028b 21 ss., dove viene posto e affrontato dialetticamente, attraverso l’esame delle opinioni di altri filosofi (di cui solo alcuni facilmente identificabili: i Pitagorici, Platone, Speusippo, Senocrate) il problema del numero e della natura delle sostanze esistenti. Di Speusippo vi si legge che «pone un numero di sostanze ancora maggiore [ scil. rispetto a Platone, appena citato]: egli parte dall’Uno, ma ammette principi diversi per ogni tipo di sostanza: altro è il principio dei numeri, altro quello delle grandezze, e altro ancora quello dell’anima, e, in questo modo, egli estende il numero delle sostanze». 4 Un altro importante brano in cui vengono accomunati tra di loro tutti i principi – e le cause, «perché tutte le cause sono principi» (pavnta ga;r ta; ai[tia ajrcaiv: Metaph. D 1, 1013a 17), nel senso che, come spiega G. Reale nel suo commento a L 4 (1968, II, p. 270-71), in cui si identificano nuovamente principi e cause, le cause possono essere tanto principi immanenti , e cioè materia (causa materiale) forma e privazione (cause formale e finale, quest’ultima coincidente con la forma, considerata però nel suo aspetto dinamico, come principio che orienta il divenire), tanto principio esterno , il principio motore (la causa efficiente o motrice) – è Metaph. D 1, 1013a 17-23: «Comune a tutti i principi è di essere il primo termine a partire dal quale una cosa o è o diviene o è conosciuta; di questi [principi], poi, alcuni sono immanenti, altri sono esterni. Perciò sono principio anche la natura, l’elemento, il pensiero, la scelta, la sostanza e “ciò in vista di cui”: infatti, principio del conoscere e del movimento per molte cose sono il buono e il bello». 3
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per cui, data una certa proporzione, e conoscendo uno degli elementi della medesima, è possibile pervenire, sia pure analogicamente, anche alla conoscenza di quell’altro elemento, che per noi è meno intelligibile. Se ne deduce che le frequenti analogie aristoteliche – analogie di proporzionalità, le definisce la critica – 5 rivestono sempre, nell’ottica del suo sistema, una precisa funzione metodologico-gnoseologica, ponendo in relazione di affinità due o più realtà, e permettendo la conoscenza della realtà meno nota attraverso quella, analoga, più nota. L’uso dell’analogia in Aristotele risponde, perciò, alla precisa esigenza di trovare una spiegazione razionale di pressoché tutti gli aspetti della realtà, di formulare almeno un’ipotesi di spiegazione, anche azzardata o audace, in merito a phainomena che, altrimenti, rimarrebbero oscuri e incomprensibili da un punto di vista empirico. In effetti, in Fisica I 1, nel celebre contesto introduttivo, dedicato alla delineazione del metodo della scienza fisica, quando lo Stagirita spiega che per una scienza di tal genere, che ricerca “principi, cause ed elementi” della realtà soggetta a movimento e a mutamento continui, non è possibile impiegare – per la contingenza e la mutevolezza che ne contraddistinguono l’ambito d’indagine – lo stesso metodo apodittico che usano le scienze esatte e le scienze che studiano il necessario, egli sembra assegnare alle scienze induttive modelli di spiegazione e d’interpretazione meno rigorosi, come appunto paragoni, metafore, similitudini, analogie. 6 Il metodo della scienza Ad esempio Aubenque (1962), p. 202 ss. Lo studioso francese definisce l’analogia in Aristotele «un procédé de langage qui se fonde sur une relation mathématique: la proportion ou égalité de deux rapports», e ne individua gli immediati esempi precedenti nel Gorgia e nel Timeo platonici. Non è possibile comunque ascrivere ad Aristotele anche l’analogia di attribuzione, fenomeno prettamente medioevale, risalente a S. Tommaso e alla sua teoria dell’ analogia entis. Tipicamente aristotelica è, invece, la cosiddetta analogia di riferimento, o pro;~ e{n, fenomeno intermedio tra l’omonimia e la sinonimia, nota in ambiente anglosassone con la denominazione di focal meaning. 6 Il metodo apodittico viene illustrato in dettaglio nei Secondi Analitici , il trattato della scienza dimostrativa e del sillogismo. Nella sua introduzione alle Opere biologiche di Aristotele, Vegetti chiarisce bene come l’enciclopedia aristotelica delle scienze non sia organizzata sillogisticamente, ossia deduttivamente, 5
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fisica, difatti, prende avvio dal mondo dell’esperienza – dai phainomena e dai pragmata , ossia dai fatti empirici particolari e contingenti, che accadono sempre o “per lo più” ( aijei; h] wJ~ ejpi; to; poluv) – e da questi induce i principi universali a partire dai quali, in un processo inverso, questa volta deduttivo, la scienza procederà a dimostrare i suoi assunti. Non è un caso, perciò, che poco più avanti, nel II libro della Fisica, là dove il Filosofo si propone l’arduo compito di definire la fuvsi~, oggetto d’indagine privilegiato già dalle prime correnti filosofiche, ma mai realmente definito, compaia una delle analogie più presenti nelle opere aristoteliche – e non solo in quelle di argomento fisico –: l’analogia tra techne e phusis. Inserita in un tale contesto, l’analogia in questione assume quella chiara funzione metodologico-gnoseologica che abbiamo riconosciuto in generale a tutte le analogie impiegate da Aristotele, finalizzata com’è, nello specifico, a far conoscere la struttura e i meccanismi che caratterizzano e regolano una realtà più nota in sé, perché ontologicamente primaria, ma meno nota all’uomo, ossia la phusis, attraverso la struttura e i meccanismi di un’altra realtà, più vicina e più nota all’uomo, ma ontologicamente inferiore e secondaria, che può fungere da modello analogico ed esplicativo, la techne. Tuttavia, a parte questa prima e basilare funzione, l’analogia techne-phusis assume nell’opera aristotelica anche altri sensi, altrettanto, se non più, importanti, e risponde ad altri obiettivi; l’esame dei numerosi e diversi contesti nei quali essa ricorre – da quelli più propriamente fisici e biologici a quelli etici e metafisici, dai più “giovanili” ai più maturi –, mi ha condotto, infatti, a vedervi qualcosa di molto più teoretico e di meno immediatamente evidente, una vera e propria chiave d’accesso alle teorie più importanti dello Stagirita, un ponte gettato tra il regno della generazione e della produzione e il regno della pura contemplazione. ma «secondo modalità analogiche di unificazione» (cf. Lanza-Vegetti 1996, p. 13). Sulla differenza di metodo tra matematica, fisica e retorica, cioè tra scienze che esprimono tre gradi decrescenti di esattezza e rigore logico, si veda Metaph. a 3, 995a 6-20. Sul metodo della fisica si vedano in particolare gli studi di Wieland (1962), Berti (1989), Bolton (1991).
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Anzitutto, sottesa a molti contesti interessati dall’analogia techne-phusis, è presente una sottile e precisa polemica nei confronti della concezione platonica della phusis , anche nel suo rapporto con la techne, quale viene esposta nel Timeo e nel X libro delle Leggi , concezione che Aristotele – come sappiamo – rifiuta e capovolge, restituendo, da una parte, al mondo naturale la dignità ontologica e il valore epistemologico che questo aveva già in epoca pre-socratica, e assegnando, dall’altra, al mondo della produzione tecnica e artistica in generale un suo statuto scientifico, ma di scienza subordinata, in quanto poietica . Sullo sfondo della nostra analogia stanno quindi – come tenterò di specificare meglio in ciò che segue – la consueta critica alla dottrina delle idee, e la precisa convinzione dell’eternità del mondo, con il conseguente rifiuto del ruolo “produttivo” del Demiurgo.7 Ma oltre a questo significato, per così dire, “polemico” e antiplatonico, che si aggiunge a quello di ordine metodologico-conoscitivo, l’analogia tra techne e phusis assume anche, nei testi aristotelici, un preciso valore metafisico-teleologico, servendo a dimostrare come, tra le quattro specie di aitiai condivise per analogia sia dagli enti da phusis sia dagli enti da techne, la più importante in entrambi i domini, e, sempre per analogia, nella realtà Non concordo con la lettura che del rapporto tra tevcnh e fuvsi~ in Aristotele dà P. Loraux (1996); lo studioso francese mostra, infatti, di non comprendere il vero senso della “laicizzazione” della phusis operata dallo Stagirita rispetto alla fisiologia presocratica. Considerando Aristotele il padre di una “ fuvsi~ tecnica” (p. 339), Loraux lo accusa di aver declassato la fuvsi~, il cui modo di procedere è visto come “analogicamente affine alle attività umane”, a “fenomeno alla portata di tutti”, e di averla così definitivamente privata di quella potenza divina che essa aveva con i presocratici, per i quali costituiva “l’unica legge a cui ogni creatura che venisse alla luce dovesse attenersi” (p. 338). Io ritengo, invece, che proprio attraverso il paragone con le attività produttive dell’uomo emerga pienamente la superiorità ontologica e paradigmatica della phusis, che non deve essere necessariamente superiorità di carattere divino, e che invece tale operazione di “laicizzazione”, lungi dal declassare il mondo della natura, ne garantisca una piena autonomia epistemologica. Platone, piuttosto, aveva mortificato il mondo naturale facendolo dipendere dal divino Artefice e dalle Forme intelligibili eterne e separate. Per non dire di Parmenide, il quale aveva annullato come non-essere il mondo sensibile, per averlo considerato come il contrario del vero essere. 7
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tutta, corruttibile e incorruttibile, sia quella che indica il telos o il to ou heneka (ciò in vista di cui ). Ora, tale primato, inquadrando la trattazione aristotelica della causalità della phusis in una prospettiva finalistica, la rende di certo poco moderna, ma in fin dei conti – come a me sembra – del tutto coerente con gli assunti generali della filosofia dello Stagirita. Infatti la fisica aristotelica non ha molto in comune con la fisica moderna; non vuole essere e non è, come quella, un’indagine quantitativa condotta sulla base di schemi e misurazioni matematiche, tant’è vero che sistematicamente Aristotele insiste nel distinguere l’ambito d’indagine e i metodi del fusikov~ da quelli propri del matematico, e sulla diversa “teoreticità” delle due scienze, fisica e matematica, l’una volta al concreto mondo sensibile, l’altra ad una realtà che esiste per astrazione. La fisica aristotelica si configura, piuttosto, come una riflessione filosofica, direi anche meta-fisica a volte, 8 sull’ontologia del divenire e sulle condizioni che ne permettono l’intelligibilità. Niente di più lontano dalle prospettive della scienza moderna. Perché allora non ammettere che la discussione sulla fuvsi~ e sulla kivnhsi~ nella Fisica si conclude con un chiaro rimando al fine ultimo e primo motore della realtà, in una evidente cornice teleologica? Si tratta, a mio parere, di chiarire il vero senso e il carattere sui generis di quest’impianto teleologico, 9 liberarlo da rischi di trascendentismo o di provvidenzialismo, per poter dimostrare come l’individuazione di una siffatta struttura teleologica non infici affatto l’autonomia ontologica e lo statuto epistemologico del mondo naturale. La riflessione meta-fisica sul mondo naturale si ha soprattutto nell’opera dedicata a quella che è considerata, tra le scienze del divenire, la scienza architettonica, ovvero nella Fisica, ed in special modo là dove Aristotele deve formulare quella struttura generale del divenire di cui tutti gli scritti fisici e biologici rappresenteranno particolari conferme e approfondimenti. A tal proposito cf. le osservazioni di Furley (1999). 9 Vegetti, ad esempio ( Opere biologiche, p. 41), nota come il finalismo aristotelico – carattere per cui la scienza moderna, da Bacone in poi, ha rifiutato in blocco l’intera fisica di Aristotele – sia «assai diverso da quello tràdito dalla metafisica scolastica». 8
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Senza anticipare le mie conclusioni, vorrei solo indicare nel concetto aristotelico di mivmhsi~ un’importante chiave di accesso a questa struttura finalistica dell’universo, che l’analogia tevcnh-fuvsi~ contribuisce notevolmente a rivelare. 1. Fuvsi~ e tev cnh in Aristotele Ho evitato, volontariamente, di tradurre in italiano i due termini-chiave di questa ricerca; le diverse accezioni, le sfumature di significato anche impercettibili che tali termini, come molti altri nell’ambito della filosofia greca, hanno acquisito nel corso dei tempi, rendono impossibile una loro resa adeguata in lingua moderna, se non dopo una attenta contestualizzazione. Filologi, linguisti e cultori del pensiero antico mettono in guardia i traduttori troppo disinvolti, esortandoli alla cautela critica; già nel secolo scorso, ad esempio, Heidegger sottolineava l’impossibilità di rendere allo stesso modo e con uno stesso vocabolo moderno il termine fuvsi~ in Aristotele e nei filosofi “aurorali”; e ancora più errato era, a suo dire, tradurre la parola greca fuvsi~ con il latino natura. Quest’ultimo termine, in effetti, possiede un significato totalmente estraneo a quello peculiare alla cosiddetta archi-phusis delle origini:10 mentre fuvsi~, da fuvw, denota il processo stesso del Per questo concetto di archi-phusis si veda ancora P. Loraux (1996), ma anche, ovviamente, gli scritti che Heidegger ha dedicato al concetto greco, sia presocratico che aristotelico di fuvsi~, primo fra tutti Sull’essenza e sul concetto della fuvsi~ . Aristotele, Fisica B 1, in Segnavia, ed. italiana a cura di F. Volpi, Milano 1987 (titolo originale Vom Wesen und Begriff der fuvsi~ . Aristoteles Physik B, hrsg. v. Friedrich von Herrmann). Heidegger aveva apprezzato la teoria fisica di Aristotele, cogliendone tanto gli aspetti di originalità quanto la continuità con la concezione presocratica; ma non mancava di esprimere una certa preoccupazione per l’eccessiva attenzione che lo Stagirita aveva dedicato all’ente a discapito dell’essere, e paventava il realizzarsi del totale oblio dell’essere. Interessanti e particolarmente profetiche risultano le considerazioni heideggeriane sul rischio di un totale sopravvento della tecnica sulla natura, e di un’epoca di anti-phusis : «La tevcnh – scriveva nel 1939 a proposito della techne medica – può soltanto venire incontro alla fuvsi~, può favorire più o meno il risanamento, ma, come tevcnh, non potrà mai sostituirsi alla fuvsi~ e diventare, al suo posto, l’ajrchv della 10
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divenire, nel suo stesso farsi e dispiegarsi, natura, da nascor , si riferisce piuttosto al momento iniziale del processo, indicando l’atto originario in cui viene all’essere qualcosa che prima non era. Mentre i fusiolovgoi, quindi, concepivano la fuvsi~ quale ajrchv sostanziale del tutto,11 ma anche quale sostanza eterna, permanente ed immanente al fuvsei o[n, che da essa traeva origine ed in essa e con essa si dispiegava in una sorta di magica indistinzione, con il termine fuvsi~ Aristotele intende anche qualcos’altro: sia, in generale, il principio generativo dei fuvsei o[nta, sia anche i fuvsei o[nta stessi, cioè l’insieme delle realtà “naturali” autonome e a sé stanti, che nascono, appunto, dalla fuvsi~ ed in qualche modo da essa si distinguono. Fedeltà al senso originario e “aurorale” del concetto, ma anche assunzione di quel nuovo significato di phusis che ritroviamo nel latino natura e che libera, in un certo senso, la fuvsi~ da quell’alone sacrale e religioso che quasi tutti i fusiolovgoi le avevano assegnato. In verità, sulla necessità di far luce sul pieno significato di fuvsi~ e di definirne la nozione, insistono in modo prioritario almeno due importanti capitoli dell’opera aristotelica: Fisica II e Metafisica D 4. Un discorso analogo bisogna fare salute come tale. Ciò potrebbe avvenire solo se la vita come tale divenisse un artefatto producibile “tecnicamente”; ma se ciò avvenisse, in quello stesso momento non ci sarebbe più salute, né nascita e morte. Talvolta sembra che l’umanità corra all’impazzata verso questa meta: che l’uomo produca tecnicamente se stesso . Se ciò riuscirà, l’uomo avrà fatto saltare in aria se stesso, cioè la sua essenza come soggettività, e l’avrà fatta saltare in quell’aria dove l’assoluta assenza di senso vale come unico “senso”, e dove il mantenimento di questo valore appare come il “dominio” umano sul globo terrestre. In questo modo la “soggettività” non è superata, ma soltanto “sopita” nel “progresso eterno” di una “ costanza” da cinesi. Questa è l’opposizione essenziale estrema alla fuvsi~-oujsiva» (p. 211-12, trad. citata). Su Heidegger lettore di Aristotele si vedano in particolare gli studi di D’Angelo (1982), Volpi (1984), Cazzullo (1986). 11 Fondamentali ed indicative del senso originario di fuvsi~ come sostanza primigenia eterna, scaturigine e “culla” degli enti, sono in particolare la testimonianza aristotelica su Talete («Ci deve essere una qualche sostanza, o una o più di una, da cui le altre cose vengono all’esistenza, mentre essa permane […]», DK 11 A 12) e il frammento di Anassimandro riportato da Simplicio, in Phys. («principio degli esseri è l’infinito […] da dove infatti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità […]», DK 12 B 1).
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anche per l’altro termine interessato dal nostro studio; difatti il concetto di tevcnh ha conosciuto una storia semantica alquanto complessa, indicando in epoca classica, fino a Platone compreso, qualcosa di simile all’ ejpisthvmh, costituendo una prerogativa, quindi, anche di saggi e dèi, ma nello stesso tempo, nel suo senso precipuo di arte, in Platone soprattutto, la tevcnh è stata oggetto di una sistematica e cosciente operazione svalutativa, quando non del tutto spregiativa; per diventare, infine, in Aristotele, ambito esclusivo ma dignitoso della produzione umana, scienza poieticoproduttiva, finalizzata alla realizzazione di strumenti tecnici o di oggetti artistici. Tradurre, quindi, techne automaticamente o indifferentemente con tecnica o con arte, senza contestualizzare di volta in volta il termine, è ancora una volta operazione incauta e acritica; posso dire, comunque, che nei brani aristotelici interessati dall’analogia techne-phusis, la techne riguarda quasi sempre l’ambito delle tecniche utili, come la medicina o l’architettura, e quasi mai le arti belle o le arti tout court. I testi dedicati alla definizione e all’illustrazione del concetto di techne vanno da quelli più “artistici”, contenuti nella Poetica, a quelli “artistico-tecnici” delle Etiche, a quelli più propriamente “tecnici”, contenuti nel Protreptico, in Fisica II, negli scritti biologici ( De partibus animalium, De generatione animalium) nel De anima e in alcuni libri della Metafisica (A e Z soprattutto). 2. Fuvsi~ in Aristotele «Phusis è sì la materia prima […], ma sono phusis anche la forma e la sostanza. Questo è il fine della generazione». Aristot. Metaph. D 4, 1015a 7-11
Il grande interesse che Aristotele nutre per il mondo della phusis è testimoniato dal numero veramente ingente di trattati che egli dedica ai diversi aspetti di questa dimensione dell’essere. All’inizio dei Meteorologica si trova una presentazione dettagliata dei diversi problemi di argomento “naturale” di cui il Filosofo s’è già occupato nelle opere precedenti – le cause prime e il movi-
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mento naturale nella Fisica, i corpi celesti e le loro caratteristiche nel De caelo, gli elementi naturali e il movimento di generazione e corruzione nel De generatione et corruptione – e di quelli che si propone ancora di studiare in opere successive – le facoltà biologiche vegetali, animali e umane nel De anima , struttura e funzionamento della vita animale negli scritti biologici. Ne risulta che gli scritti di argomento fisico occupano circa i due terzi dell’intera produzione acroamatica dello Stagirita. Ovviamente, per la definizione del concetto di fuvsi~ dobbiamo fare riferimento alla Fisica, ovvero all’incipit dell’intera trattazione aristotelica del mondo fisico. Dopo avere delineato, in Fisica I, i caratteri peculiari della fusikh; ejpisthvmh – l’oggetto d’indagine e il metodo – ed affrontato dialetticamente la questione dei principi della realtà fisica, Aristotele consacra l’intero II libro alla spiegazione filosofica del concetto di fuvsi~ e all’individuazione delle cause del mondo naturale. Sebbene per conseguirne la completa definizione lo Stagirita si avvalga frequentemente del paragone con la techne, tuttavia è ugualmente possibile isolare i tratti peculiari della nozione di phusis attraverso una lettura selettiva del libro. L’altro testo utile per acquisire la definizione aristotelica di fuvsi~ è, ovviamente, il “lessico filosofico” costituito da Metafisica D, il cui quarto capitolo ci offre un quadro completo dei significati del nostro concetto; fra l’altro, trattandosi di un testo più volte ripreso e rimaneggiato dallo Stagirita nel corso della sua vita, 12 la sua lettura ci permette, come si dice, di “chiudere il cerchio” sulla questione, essendovi comprese ed elencate sia le concezioni prearistoteliche della phusis, sia quelle squisitamente aristoteliche.13 Cominciamo, per ovvie ragioni cronologiche, da Fisica II, libro che si presta ad essere estrapolato dall’intero trattato e analizzato come uno scritto autonomo; 14 significativamente, infatti, già Donini (1995, p. 52), per questo motivo, lo considera “indatabile”. 13 Un agile strumento per avere un quadro d’insieme del linguaggio tecnico di Aristotele è Le vocabulaire d’Aristote di P. Pellegrin (2001). 14 Di questo parere è anche Couloubaritsis, il quale ha pubblicato una traduzione commentata del II libro della Fisica, col titolo Aristote. Sur la nature (Physique II) (1991); si vedano, alle pp. 14 ss., le considerazioni sul carattere re12
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nell’antichità esso era stato tramandato, quasi si trattasse di uno studio a sé stante dedicato ad un argomento ben preciso, col titolo di Peri; fuvsew~ aæ (cioè come il primo di tre scritti dedicati al medesimo argomento). 15 È comunque lo stesso Aristotele a presentarcelo come un “nuovo inizio” della trattazione, quando dice testualmente, alla fine del I libro, «ma proseguiamo il discorso, assumendo un altro punto di partenza». 16 Conclusa l’indagine sui principi del mondo della fuvsi~, il discorso si concentra ora sulla definizione di ciò che s’intende rispettivamente per fuvsi~, da una parte, e per ta; fuvsei o[nta o ta; kata; fuvsin o[nta, dall’altra. La fuvsi~ viene subito definita come un’ajrchv ed un’aijtiva del movimento e della quiete, intrinseca ad un certo tipo di enti: «gli animali e le loro parti, le piante e i corpi semplici», i quali, pertanto, non sono “natura”, ma sono “per natura” ( fuvsei) o “secondo natura” (kata; fuvsin), nel senso che possiedono in sé e per sé – e non grazie ad altro – tale principio (e causa); 17 le altre “cose che sono” (o[nta), invece, derivano da altre cause ( di∆ a[lla~ aijtiva~ ), cioè – come verrà esplicitato più avanti – da tevcnh, tuvch, o aujtovmaton. Ecco la prima definizione di fuvsi~: essa è «un principio e lativamente autonomo del libro II e sul suo legame tematico con gli altri libri della Fisica. La letteratura sulla Fisica è davvero sterminata, anche per quanto riguarda il II libro; a parte i classici studi di Mansion (1946 2), Wieland (1962), Le Blond (1973), si segnalano qui alcuni lavori collettanei più recenti sull’argomento: Gotthelf (1986), De Gandt-Souffrin (1991), Judson (1991). 15 Il titolo di Peri; fuvsew~ aæ viene tramandato da Diogene Laerzio, Vite dei filosofi V. 16 Fisica I 9, 192b 4: pavlin d∆ a[llhn ajrch;n ajrxavmenoi levgwmen. 17 Si vedrà, nel corso del II libro, che le cause naturali si sovrappongono ai tre principi del divenire guadagnati nel I libro: la causa materiale va a coincidere col sostrato, quella formale con la forma e con la privazione (definita come una sorta di specie a 193b 19), quella finale ancora con la forma, intesa però nel suo aspetto dinamico di principio che orienta il divenire. Ovviamente la causa motrice, agendo dall’esterno, non si sovrappone a nessuno dei tre principi interni all’ente naturale descritti nel I libro. Essa viene presentata rapidamente, assieme alle altre tre cause, in Phys. II 194b 29-32, ma analizzata in tutti i suoi aspetti caratteristici a partire dal III libro. Sulla causa motrice in Phys. III si veda il contributo di G.R. Giardina, La “causa motrice” in Aristotele, Phys. III , in questo stesso volume.
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una causa dell’essere in movimento e dello stare in quiete di ciò in cui essa sussiste primariamente per sé e non per accidente». 18 Nel descrivere la fuvsi~ come principio e come causa delle cose fuvsei o kata; fuvsin, Aristotele si pone in rapporto di continuità con le teorie degli antichi fisiologi, ma va oltre, facendo del mondo sensibile una dimensione autonoma dell’essere, perfettamente conoscibile scientificamente in virtù, per l’appunto, dei suoi principi e delle sue cause; scienza è, infatti, conoscenza dei principi e delle cause, e la fuvsi~, realtà studiata dalla fusikh; ejpisthvmh , convoglia su di sé ciascuno dei tre principi (materia, forma, privazione), guadagnati in Fisica I, e tre delle quattro cause (materiale, formale e finale; rimane esclusa la motrice o efficiente, come vedremo), delle quali si discute in questo II libro. Nel seguito del testo, infatti, la fuvsi~ viene presentata sia come sostrato materiale, in accordo con la maggior parte dei fusiolovgoi, sia come forma e specie, in linea con altri filosofi del passato (pitagorici e platonici), sia, ancora, come fine e ciò in vista di cui . A 193a 28-31 il discorso si arresta per un’altra definizione di fuvsi~: «in un senso, dunque, si dice natura la materia prima che fa da sostrato a ciascuna delle cose che hanno in sé un principio del movimento e del mutamento, e in un altro senso [si dice natura] la forma e la specie conforme alla nozione».19
Quest’ultima – cioè la forma e la specie conforme alla nozione – è più phusis della materia, perché “ciascuna cosa viene detta natura quando è in atto, piuttosto che quando è in potenza” ( Phys. II 1, 193b 6-8). Ora, se la prima definizione ha presentato la phusis, in generale, come un certo principio di movimento e di mutamento intrinseco all’ente naturale, questa seconda definizione fa di essa tanto la causa “materiale” quanto la causa “formale” di quell’ente. Infine, l’affermazione di 194a 29, dove si legge che «la phusis è fine e 18 19
Fisica II 1, 192b 21-3.
e{na me;n ou\n trovpon ou{tw~ hJ fuvsi~ levgetai, hJ prwvth eJkavstw/ uJpokeimevnh u{lh tw'n ejcovntwn ejn auJtoi'~ ajrch;n kinhvsew~ kai; metabolh'~, a[llon de; trovpon hJ morfh; kai; to; ei\do~ to; kata; to;n lovgon.
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ciò in vista di cui »,20 completa, con la “causa finale”, il quadro delle definizioni della phusis intesa precipuamente come aijtiva. Quanto al carattere “principiale” della phusis , il testo ci permette di assegnarle tutti e tre i principi aristotelici – materia, forma e privazione; abbiamo già letto il brano che presenta la phusis sia come u{lh che come morfhv e ei\do~, adesso non ci resta che citare 193b 19, dove si assegna alla phusis , nella sua qualità di forma/specie, anche la stevrhsi~ (privazione, terzo principio del divenire): «ma forma e natura si dicono in modo duplice: difatti anche la privazione è, in qualche modo, specie».21
I significati di fuvsi~ illustrati in Fisica II trovano conferma e ulteriore specificazione in Metafisica D 4, 1014b 16-1015a 19, dove all’elencazione di cinque diversi sensi della nozione (1. la generazione delle cose che nascono; 2. il principio primo e immanente, dal quale nasce ciò che nasce; 3. ciò da cui deriva il movimento primo che esiste in ciascuno degli enti naturali, in esso in quanto è quello che è; 4. il principio primo di cui è fatto o da cui deriva un ente naturale; 5. la sostanza degli enti naturali) 22 segue una definizione riepilogativa e conclusiva, che sancisce la priorità ontologica della forma anche nel mondo naturale e l’immanenza in esso dei suoi principi primi; vi si legge: «Dalle cose dette risulta che la natura, nel senso primario e principale del termine, è la sostanza ( oujsiva) delle cose che hanno in sé, in quanto sono quelle che sono, un principio del movimento ( ajrch;n kinhvsew~): la materia (u{lh), infatti, si dice natura in quanto è capace di ricevere questo principio, e le forme di generazione e di crescita (aiJ genevsei~ kai; to; fuvesqai) [si dicono natura] perché sono movimenti (kinhvsei~) che derivano da questo stesso principio (ajpo; tauvth~)».23 Sulla causalità finale della physis ritornano in maniera più specifica i capitoli 8 e 9. 20 21
Kai; ga;r hJ stevrhsi~ ei\dov~ pwv~ ejstin. 22 D 4, 1014b 16-37. 23 1015a 13-17: ejk dh; tw'n eijrhmevnwn hJ prwvth fuvsi~ kai; kurivw~ legomevnh ejsti;n hJ oujsiva hJ tw'n ejcovntwn ajrch;n kinhvsew~ ejn auJtoi'~ h|/ aujtav: hJ ga;r u{lh tw'/ tauvth~ dektikh; ei\nai levgetai fuvsi~, kai; aiJ genevsei~ kai; to; fuvesqai tw'/ ajpo;
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3. Tev cnh in Aristotele Se il concetto di fuvsi~, come principio ontologico ed epistemologico del divenire naturale, viene guadagnato in opere di argomento teoretico, quali la Fisica e la Metafisica, quello di tevcnh trova la sua più chiara definizione negli scritti dedicati alle scienze pratiche, e il suo specifico raggio d’azione nelle scienze poietiche. Che il discorso sulla techne appartenga anche al mondo della pra` `xi~ e non soltanto, come si potrebbe erroneamente pensare di primo acchito, a quello della poivhsi~, non deve stupire, perché l’uomo, secondo Aristotele, per poter realizzare prodotti artistici o tecnici, deve prima aver acquisito quella virtù della razionalità pratica, in cui consiste per l’appunto la techne, che gli permetterà di attuare quelle che sono in lui soltanto delle potenzialità, in senso lato, produttive. Ed è per questo che la più completa e nota definizione di techne trova la sua espressione nell’ Etica Nicomachea, precisamente nella sezione dedicata alle virtù della parte razionale dell’anima o dianoetiche. Queste vengono individuate e distinte, in Eth. Nic. VI 2, 1139a 1 ss., sulla base delle due parti dell’anima razionale, che sono l’una scientifica ( ejpisthmoniko;n), l’altra calcolatrice (logistikovn), entrambe volte alla conoscenza della verità ma indirizzate su due tipi diversi di realtà: l’una «con la quale conosciamo quel genere di enti i cui principi non possono essere diversamente da quelli che sono, l’altra con cui conosciamo gli enti che lo possono». Distinta l’anima razionale, si passa ad individuare «la disposizione migliore di ciascuna delle due parti: questa è infatti la virtù di ciascuna, e la virtù di una cosa è relativa all’opera che le è propria». Da Eth. Nic. VI 3, 1139b 14-17, si apprende inoltre che «le disposizioni con le quali l’anima dice il vero, affermando o negando, sono cinque […]: la techne, la scienza (ejpisthvmh), la saggezza (frovnhsi~), la sapienza (swfiva) e l’intelletto (nou` `~)».24 tauvth~ ei\nai kinhvsei~. Dal brano si evince chiaramente come, tra materia, forma
e privazione, Aristotele indichi nella forma e nella privazione – quest’ultima intesa come potenzialità e quindi quale punto d’avvio del processo di acquisizione della forma – il principio/fuvsi~ di movimento, interno all’ente kata; fuvsin. 24 Anche in quest’occasione, preferisco mantenere il termine greco, perché credo che il discorso valga indifferentemente per ciò che i greci dell’età di Ari-
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Tra queste cinque disposizioni o ajrhtaiv, l’episteme , la sophia e il nous riguardano il mondo del necessario, e attengono alle scienze teoretiche, mentre la techne e la phronesis hanno per oggetto «ciò che può essere altrimenti da quello che è»; ora, la phronesis è una disposizione pratica accompagnata da ragionamento vero, laddove la techne è: «una disposizione produttiva accompagnata da ragionamento vero (e{xi~ ti~ meta; lovgou ajlhqou\~ poihtikhv ), e la mancanza di techne, il suo contrario, è una disposizione produttiva accompagnata da ragionamento falso».25
Sempre nello stesso contesto, nel differenziare la produzione tecnico-artistica da quella naturale, Aristotele ci fornisce nuovi elementi per definire il concetto di tevcnh: «Ogni techne concerne la generazione ( peri; gevnesin ) e usare la techne è considerare in che modo possa generarsi una di quelle cose che possono sia essere che non essere e il cui principio è in chi produce (ejn tw``/ poiou``nti ) e non nella cosa prodotta ( ajlla; mh; ejn tw``/ poioumevnw/). Infatti la techne non ha per oggetto né le cose che sono o si generano in modo necessario, né quelle che sono o si generano per natura: queste infatti hanno in se stesse il loro principio». 26
Ma oltre a costituire un’eccellenza ( ajrethv) dell’attività razionale produttiva dell’uomo, la techne per Aristotele è anche una vera forma di conoscenza scientifica, che non si limita, come la semplice empeiria, a comprendere il che delle cose e degli eventi, ma giunge a conoscerne il perché , cioè l’universale. Nella famosa sezione di Metafisica A 1 in cui viene tracciata l’evoluzione delle forme di conoscenza, dalla sensazione alla sapienza, la techne – anche qui da intendere in senso “greco”, sia come arte che come stotele intendevano per arte e per tecnica; nei contesti di cui ci occuperemo nel paragrafo successivo, tradurrò il termine con tecnica perché lì gli esempi aristotelici non riguardano le arti intese strictu sensu, come la pittura o la scultura, ma le tecniche come la medicina e l’architettura. La traduzione dell’ Etica Nicomachea qui riportata è quella di Zanatta (1986), qua e là modificata. 25 Eth. Nic. VI 4, 1140a 20-23. 26 Eth. Nic. VI 2, 1140a 10-15.
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tecnica – viene, infatti, collocata ad un livello scientificamente considerevole, dopo la aisthesis, la mneme e l’empeiria , e immediatamente prima dell’ episteme , di cui fa parte la sophia, cioè la metafisica. La differenza rispetto all’episteme, come già precisato nell’Etica, a cui peraltro Aristotele qui rimanda espressamente, sta nell’attinenza, rispettivamente, della techne con l’utile (tecnica) e con il piacevole (arte), cioè con l’ambito del fare , e dell’episteme con la pura qewriva. La medesima gerarchia tra i gradi del conoscere si ritrova in Secondi Analitici II 19, 99b 35 ss., dove sulla differenza tra techne ed episteme si dice più chiaramente che la prima riguarda il divenire (peri; gevnesin), l’altra l’essere ( peri; to; o[n).27 «Sicché – conclude Metaph A 1 – […] l’esperto è ritenuto più sapiente di chi ha una qualunque sensazione, e chi ha la techne più sapiente dell’esperto, e il dirigente più del semplice manovale, e le attività teoretiche più di quelle pratiche». 28 4. Il valore metodologico-conoscitivo dell’analogia tevcnh-fuvsi~ : comprendere la fuvsi~ attraverso la tev cnh A questo punto, chiariti, nelle loro linee generali, i concetti aristotelici di phusis e di techne, entriamo nel cuore del nostro discorso, cercando, se è possibile, di enucleare e di differenziare tra loro i significati, i livelli e gli scopi dell’analogia techne-phusis in Aristotele. All’inizio del trattato di Fisica, così come in altri contesti aristotelici particolarmente nodali – Metafisica A 9, 992b 30 ss.; To pici VI 4, 141a 26-31; Secondi Analitici I 1, 71a 1 ss.; 34 ss.; Etica Nicomachea VI 3, 1139b 26-28 – viene postulata la necessità che ogni conoscenza scientifica, sia dimostrativa che induttiva, così come ogni dottrina ed ogni insegnamento, procedano e si sviluppino da una conoscenza precedente. L’obiettivo finale della scienIn questo caso traduco gevnesi~ con divenire e non con generazione, per evidenziare la contrapposizione con essere. 28 Trad. Russo rivista da Berti (1993). Sulla “razionalità” della techne in Aristotele si veda in particolare Berti (1989), cap. quinto. 27
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za è, infatti, il coglimento dei principi e delle cause universali, cioè di quanto risulta ontologicamente anteriore e noto in assoluto; ma poiché, come nota Aristotele in Analyt. Post. I 2, 34-72a 1, «ciò che è anteriore per natura non risulta la stessa cosa di ciò che è anteriore rispetto a noi, né ciò che è più noto per natura si identifica con ciò che è più noto per noi», 29 allora i principi delle diverse scienze, ivi compresi quelli della scienza fisica, che, in quanto tali, sono primi e noti per natura, ma meno noti per noi, lontani come sono dalle nostre prospettive e capacità cognitive immediate,30 non possono essere conosciuti se non dopo una previa indagine che abbia ad oggetto quella sorta di pre-comprensione confusa e indistinta che noi abbiamo della realtà naturale. 31 Nella fattispecie, il metodo della scienza fisica non può che prendere avvio dall’esame dei phainomena32 e da tutto quanto possa contribuire a costituire la nostra pre-comprensione di questo settore del reale. In più occasioni Aristotele stabilisce, per il mondo naturale, la priorità dell’indagine fenomenico-linguistica su quella apodittiLo stesso concetto, espresso però in modo più conciso, in Fisica I 1, 184a 18: «Infatti non sono le stesse le cose che sono più conoscibili per noi ( hJmi``n) e quelle che lo sono in senso assoluto ( aJplw` `~)». 30 Importante per la comprensione del nostro discorso è anche il seguito del brano riferito ( Analyt. Post. I 2, 34-72a 1-6): «Dicendo “anteriori” e “più noti rispetto a noi”, intendo riferirmi agli oggetti più vicini alla sensazione; dicendo invece “anteriori” e “più noti assolutamente”, intendo riferirmi agli oggetti più lontani dalla sensazione. I più lontani di tutti dalla sensazione sono gli oggetti massimamente universali, mentre i più vicini di tutti sono gli oggetti singoli: gli oggetti di questi due tipi, inoltre, risultano contrapposti gli uni agli altri». Ovviamente ciò vale per l’uomo comune, come si evince da un brano analogo a questo, tratto dai Topici (VI 4, 141b 12-19): «Gli uomini, invero, nella loro grande maggioranza, conoscono anzitutto ciò che è più vicino ai sensi. In realtà, spetta alla mente comune il cogliere gli elementi più noti a noi, alla mente acuta ed eccezionale, invece, il cogliere gli elementi più noti in linea assoluta. È allora senz’altro migliore il tentativo di render noto ciò che è posteriore attraverso ciò che è anteriore: siffatto procedimento è difatti più scientifico. Tuttavia è forse necessario, di fronte a coloro che non sono in grado di giungere alla conoscenza con mezzi consimili, di costruire il discorso con elementi noti a loro». 31 L’espressione in corsivo è di Wieland (1993) p. 89 e passim. 32 Uso questo termine nel senso ad esso attribuito da Owen (1961) e confermato da M. Nussbaum (1996). 29
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ca; 33 trattandosi, infatti, di una realtà nella quale ci troviamo immersi e coinvolti in modo totale, dobbiamo anzitutto analizzare i modi “linguistici” ed “endossali” attraverso i quali noi stessi esprimiamo e percepiamo le realtà che ci circondano e che ci costituiscono. Quanto noi “diciamo” sulle cose, ma soprattutto le opinioni autorevoli che tutti condividiamo (i cosiddetti endoxa),34 costituiscono quella sorta di sentire comune e immediato che, pur non essendo ancora scientifico, tuttavia è punto di partenza di un percorso induttivo che condurrà alle premesse di una vera e propria dimostrazione. Ora, io credo che quanto Aristotele fa, tanto in Fisica II – che è nostro punto di riferimento e di partenza privilegiato – quanto in altri luoghi determinanti della sua opera – dal Protreptico alla Metafisica, dalle Etiche al De anima, sino agli scritti biologici, come vedremo più avanti in dettaglio –, quando mette in relazione l’ambito della phusis con quello della techne, certamente per evidenziarne le differenze, ma soprattutto per metterne in luce le numerose affinità strutturali e operative, si inquadri esattamente e perfettamente in questa prospettiva metodologica. In effetti, il mondo della produzione tecnico-artistica, nella concezione aristotelica, dipende e deriva, per la sua stessa esistenza, da quello naturale, che ne costituisce il modello e il referente, da vari punti di vista. Più volte, nel Corpus aristotelicum si legge infatti che «la techne imita la phusis »,35 e ciò è da intendersi, come Nella sua introduzione al De partibus animalium , Vegetti (Aristotele, Opere biologiche, 1996) sottolinea questo concetto, chiarendo anche il ruolo di supporto all’osservazione sensibile che l’analogia gioca negli scritti aristotelici sulla natura: «l’osservazione immediata [espressione con la quale Vegetti traduce il termine ai[sqhsi~] potrà semmai essere integrata dall’analogia, che permette di individuare le affinità fra le strutture fenomeniche immediatamente rivelantisi» (p. 501). Sulla priorità del momento empirico nella ricerca fisico-biologica è emblematico il seguente brano del De generatione animalium (760b 31-32): «si dovrà dare più credito all’osservazione ( aijsqhvsei) che ai discorsi (ma'llon tw'n lovgwn), e ai discorsi qualora indichino cose che si accordano con i fatti che appaiono (fainomevnoi~)»; trad. Vegetti (1996). 34 Sugli endoxa , fondamentali rimangono le riflessioni di Berti (1975 e 1989); sull’argomento si veda anche il recente studio di L. Seminara (2002). 35 Protrept. ffr. 13 e 23.; Phys. II 2, 194a 21; II 8, 199a 16; Meteorol. IV 3, 381b 6, Poetica I 1447a 16; Eth. Nic. VI. 33
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vedremo meglio più avanti, sia nel senso che la prima riproduce processi e strutture della seconda, sia anche nel senso che ne completa l’opera, là dove ce ne sia bisogno. Pertanto i procedimenti della techne e la struttura dei suoi prodotti, essendo modellati su quelli naturali, possono servire da lente d’ingrandimento per una migliore focalizzazione di quei processi e di quelle strutture, ontologicamente primari e più principiali, di cui essi sono un’immagine ed un riflesso. A questo punto, tentiamo di mostrare tutto questo con il supporto dei testi aristotelici. La prima analogia tra techne e phusis viene impiegata già alle prime battute di Fisica II 1 per illustrare, con un esempio palese, la definizione di fuvsi~, data proprio in questo contesto, alle linee 192b 20 ss., nei termini che abbiamo già riferito, ossia: «[la natura è] un principio e una causa dell’essere in movimento e dello stare in quiete di ciò in cui essa sussiste primariamente per sé e non per accidente». Attraverso la distinzione tra le cose che sono kata; fuvsin («gli animali e le loro parti, le piante e i corpi semplici»), le quali «hanno il principio del movimento e del riposo in se stesse», e quelle che derivano «da altre cause» – nello specifico ajpo; tevcnh~ – (come un letto e un mantello ed ogni altro oggetto di questo genere, nell’esempio aristotelico), le quali non possiedono in sé «nessuna tendenza naturale innata al cambiamento ( oujdemiv an oJrmh;n e[cei metabolh``~ e[mfuton )», Aristotele accosta subito la phusis alla techne, presentandole come cause del divenire, non identiche, ovviamente, ma analoghe, in quanto attinenti a due diverse specie di divenire: la generazione naturale ( gevnesi~ in senso proprio), per quanto attiene alla phusis , la produzione (poivhsi~), per la techne.36 L’accostamento analogico di phusis e techne quali La difficoltà di tradurre sempre correttamente e, soprattutto, in modo univoco ciascuno dei termini appartenenti al vocabolario del divenire, specie nel I libro della Fisica, deriva dal modo ambiguo in cui lo stesso Aristotele utilizza tali termini; il verbo givgnesqai, ad esempio, in I 7, viene usato indifferentemente per indicare tanto il divenire tout court, in casi che denotano mutamenti qualitativi (come il divenire bianco da nero, o colto da incolto) o quantitativi, quanto anche il divenire sostanziale, o aJplw``~, che denota il venire all’essere di qualcosa 36
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cause del divenire trova conferma, ma pure una più estesa trattazione, anche in altri testi aristotelici, alcuni probabilmente anteriori a Fisica II, altri sicuramente posteriori. Cominciamo dal Protreptico, il cui fr. 11 contiene un interessante parallelo con questo brano della Fisica; vi si legge, infatti, che «tra le cose che si generano (tw` `n gignomevnwn),37 alcune sono generate da qualche processo di pensiero ( ajpov tino~ dianoiva~) o da techne, per esempio la casa e la nave […], altre, invece, non sono generate per causa di nessuna techne, ma per causa della phusis ; degli animali, infatti, e delle piante è causa la phusis, e tutte le cose siffatte sono generate secondo phusis […]».38 Segue la presentazione di una terza causa del divenire, la tuvch, su cui, in Fisica II, si soffermano ex professo i capp. 4-5-6. Di queste tre cause del divenire (techne, phusis, tuche ) tratta ampiamente anche Metafisica Z 7, 1032a 12 ss., in un brano che, fra l’altro, registra un ampio uso della nostra analogia. L’esordio del testo è del tutto simile a quello del Protreptico appena riportato: «Delle cose che si generano ( tw`n` de; gignomevnwn) – v i si legge – alcune si generano per phusis, altre per techne, altre per tuche». Ancora più completo, per l’aggiunta dell’ automaton quale quarta causa del divenire delle cose, è Metafisica L 3, 1070a 6 ss.: «[…] le sostanze infatti – si afferma – si generano o per techne o per phusis o per fortuna (tuvch/) o per caso (tw``/ aujtomavtw/)». Fin qui l’analogia tra phusis e techne concerne il loro comune ruolo di cause del divenire; sia l’una che l’altra, infatti, danno origine a che prima non era (il cui essere, cioè, era in potenza e non ancora in atto: una statua, una casa, piante, animali, tra gli esempi aristotelici), per cui si dovrebbe piuttosto usare il termine gevnesi~. Il fenomeno è stato notato e messo in luce anche da Charlton (1970, p. 70, commento a Phys. I 7) e da Pellegrin (2002, p. 39: «le vocabulaire qu’il [ scil: Aristotele] emploie est lui-même d’une désespérante ambiguité»; il riferimento è alla teoria dei tre principi del divenire, sviluppata in Phys. I). 37 Qui si tratta, ovviamente, di un divenire sostanziale, cioè del venire all’essere di qualcosa di naturale o di artificiale, quindi, propriamente, di generazione, naturale (gevnesi~) o artificiale (poivhsi~) che sia. 38 Trad. Berti (2000); ho preferito mantenere in greco i termini phusis e techne sia per rendere più immediatamente evidente l’analogia sia perché ritengo riduttivo tradurre in questo contesto tevcnh con arte.
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qualcosa; tuttavia, l’una costituisce un principio di movimento immanente all’ente generato, l’altra un principio motore esterno. Questa prima differenziazione, che emerge sullo sfondo dell’analogia, mi pare fondamentale dal punto di vista teoretico, perché permette di collocare le due realtà su livelli diversi: infatti la phusis , che agisce dall’interno, quale forza immanente e intrinsecamente connessa alla cosa naturale, rivela un’autonomia – e quindi una superiorità – ontologica ed epistemologica che la techne, attività prettamente umana ed iconica, estrinseca al suo prodotto, non ha. Ma proseguiamo, limitandoci, per ora, soltanto a raccogliere elementi, rinviando ad un secondo momento le riflessioni conclusive. Un altro contesto importante per il nostro obiettivo è quello in cui Aristotele, definita la phusis come principio, ripercorre dialetticamente la storia della speculazione sul principio naturale (Phys. II 1, 193a 10 ss.), ossia sull’arché o sostanza originaria, allo scopo di verificare a quale tipo di principio la phusis possa essere più propriamente associata, e accenna, com’è ovvio – trattandosi del primo “problema filosofico” –, ad alcuni dei suoi predecessori.39 Ancora una volta, per dimostrare con un esempio particolarmente accessibile ai suoi ascoltatori che per phusis sia giusto intendere sia la materia (u{lh), sia, soprattutto e in modo prioritario, la forma e la specie (morfh; kai; ei\do~), lo Stagirita ricorre nuovamente all’analogia con i prodotti della techne, con queste parole: «E la forma, piuttosto che la materia, è natura. Infatti, ciascuna cosa viene detta essere quando è compiutamente in atto, piuttosto Com’è noto, il problema della sostanza originaria, o arché , viene posto da Aristotele, in Metaph. A, come il primo dei problemi che vengono affrontati dalla filosofia al suo sorgere; anzi, la speculazione razionale sul principio viene a rappresentare, nella ricostruzione storiografica aristotelica, il punto di snodo e di distacco tra la cultura pre-filosofica, o teologica, e quella, razionale, inaugurata da Talete. Su Aristotele “storico della filosofia” si rimanda qui a Berti (1985) il quale ripercorre il dibattito critico sulla questione, in tutte le sue voci contrastanti, a partire dai giudizi positivi di Croce e di Mondolfo, passando per la condanna espressa da Cherniss, fino alle posizioni più recenti, sostenute sia in Italia che all’estero. 39
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che quando è in potenza. Inoltre, un uomo si genera da un uomo, ma non un letto da un letto».40
Fin qui il discorso rimane circoscritto alla teoria dei principi, quale era stata esposta nel I libro; tuttavia, poiché la phusis è stata definita sia un’ arché sia un’aitia di un certo tipo di enti, lo slittamento della trattazione dall’ambito precipuo della teoria dei principi a quello della teoria delle cause risulta pienamente giustificato; infatti, alla phusis intesa come principio e causa tanto materiale quanto formale degli enti naturali, segue logicamente, a questo punto del testo, la sua definizione come causa finale, ed anche in questo caso Aristotele si servirà della nostra analogia. Come, infatti, la techne medica tende a realizzare la salute, cioè la forma dell’organismo sano, così la phusis tende a realizzare se stessa come forma; perché la phusis è fine e ciò in vista di cui (Fisica II 2, 194a 28-29). E perciò, poiché per phusis – come si è detto – si può intendere sia la materia che la forma, al fusikov~ spetterà lo studio di entrambi gli aspetti delle cose naturali ( Fisica II 2, 194a 21-25), esattamente come il medico conosce sia la salute (la forma) sia l’insieme di sangue, bile e flegma (la materia), il cui buon equilibrio genera la salute, e l’architetto ha conoscenza sia della forma della casa, sia dei materiali – mattoni e legna – che servono a costruirla. Tutto questo in virtù del fatto che «la techne imita la phusis» (194a 20). Ma se – come si legge più avanti, in Fisica II 8, 199a 16 ss. – «le cose che sono secondo techne sono fatte in vista di un fine, è chiaro che anche le cose che sono secondo phusis lo sono. Infatti il rapporto tra ciò che viene dopo e ciò che viene prima opera nello stesso modo in entrambe». Ne è prova il fatto che: «se, ad esempio, una casa fosse tra le cose che sono per natura, essa verrebbe prodotta allo stesso modo in cui ora è costruita per mezzo della tecnica. E se le cose che sono da natura, fossero fatte, non solo da natura, ma anche fossero prodotte con la tecnica, sarebbero prodotte in quello stesso modo nel quale esse sono prodotte per natura. Dunque l’uno è in vista dell’altro. In generale – conclude AriPhys. II 1, 193b 6-8: kai; ma``llon au{th fuvsi~ th``~ u{lh~ : e{kaston ga;r tovte levgetai o{tan ejnteleceiva/ h| /, ma` `llon h] o{tan dunavmei. 40
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stotele – talvolta la techne porta a compimento quanto la phusis è impossibilitata a fare, talaltra imita la phusis» (199a 11 ss.). A conferma di ciò si precisa ancora, alle linee 199b 27 ss., che: «se la techne di costruire le navi fosse immanente nel legno, essa produrrebbe il suo risultato nello stesso modo che per natura. Sicché, se nella techne è presente il ciò in vista di cui , allora esso è anche nella natura». In questa medesima direzione va la conclusione del libro: dopo avere descritto il tipo di necessità che, nuovamente, vede accomunati enti naturali ed enti artificiali, ossia la necessità ipotetica, così detta perché condizionata dal fine che l’ente deve realizzare, Aristotele ribadisce l’importanza, nel dominio naturale e in quello tecnico-artistico, della causa finale, precisando come allo studioso della natura spetti di indagare su tutte le cause naturali (ivi compresa la motrice, che, pur agendo dall’esterno è, in un certo senso, e precisamente in quanto veicolo della forma, anch’essa immanente all’ente naturale), ma soprattutto su quella finale, perché – spiega – «questa è causa della materia, e non la materia del fine; e il fine è ciò in vista di cui , e il punto di partenza [scil. del divenire] è dato dalla definizione e dal concetto, come nelle cose che esistono secondo la tecnica». Dai passi riferiti emerge, quindi, la concezione di una naturaparadigma dell’attività poietica dell’uomo; gli esempi tendono infatti a mettere in chiara evidenza le precise analogie strutturali e funzionali grazie alle quali è possibile accostare tra loro fenomeni naturali e fenomeni tecnico-artistici, allo scopo di rendere più intelligibili i primi attraverso i secondi. Primaria, in questo contesto, appare inoltre l’esigenza, da parte di Aristotele, di dimostrare la validità, ad ogni livello del reale, di un sistema eziologico che viene qui presentato come il più completo e il più efficace scientificamente tra tutti quelli fin lì concepiti. Il frequente paragone con il sistema causale della techne sarà allora funzionale a far comprendere le modalità proprie del divenire naturale; e visto che – come si legge qua e là in Phys. II in merito allo stato di unità indistinta in cui, nell’ente naturale, si presentano spesso le cause formale, finale e motrice – la phusis mantiene unito ciò che la techne disgiunge, sarà più facile, attraverso l’individuazione delle cause tec-
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niche, cogliere nella loro giusta distinzione ciascuna delle quattro cause naturali (materiale, formale, motrice e finale), realizzando così la piena conoscenza scientifica del mondo della phusis. Ma passiamo, a questo punto, a quella che abbiamo indicato come la seconda funzione dell’analogia techne-phusis, ossia al suo utilizzo nel quadro generale della polemica anti-platonica. 5. La funzione polemica (anti-platonica) dell’analogia tevcnh-fuvsi~ : il primato ontologico della fuvsi~ e la legittimazione di una scienza fisica «Che la natura esista, è ridicolo tentare di mostrarlo». Aristot. Phys. II 2, 193a 3
Come abbiamo visto, una tesi sulla quale Aristotele insiste con particolare enfasi è quella secondo cui la techne imita la phusis. Ma che cosa si deve intendere, in questo specifico contesto, per imitazione, mivmhsi~? E, soprattutto, che cosa la concezione aristotelica della mivmhsi~ condivide con quella platonica? 41 L’imitazione, com’è noto, costituisce nel sistema platonico un elemento chiave della svalutazione del mondo sensibile, e per questo è strettamente legata a concetti negativi, come quelli di doxa (opinione) e di apate (inganno). La famiglia di mivmhsi~ è presente, in Platone, tutte le volte in cui è necessario distinguere la falsità dalla verità – ad esempio la falsità del sofista dalla verità del filosofo – o la realtà sensibile da quella intelligibile, o, ancora, l’opinione e il falso sapere dalla conoscenza e dalla scienza. Costituendo, assieme alla partecipazione, il principale tipo di rapporto vigente tra le cose sensibili e i loro modelli ideali, l’imitazione relega l’intera realtà fenomenica al mero rango di immagine illusoria ed imperfetta, esistenTra gli studi più recenti dedicati al concetto aristotelico di imitazione, considerato non soltanto nel suo senso “estetico”, cioè nel solo contesto della Poetica, ma come forma comune di comportamento, condivisa da uomini, animali ed entità inorganiche, si segnalano in particolare quelli di A. Petit (2000) e C.W. Veloso (2002). 41
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te solo di riflesso, continuamente cangiante e corruttibile. E se il mondo naturale esiste solo in quanto imita le idee, a maggior ragione, la techne, imitazione dell’imitazione, si allontana due volte dalla verità, secondo la nota espressione della Repubblica . Ora, questo concetto sembrerebbe concordare pienamente con quanto Aristotele intende con l’espressione «la techne imita la phusis». Ma non è così. In effetti i concetti aristotelici di mimesis, da una parte, e di techne, dall’altra, differiscono notevolmente e per diversi aspetti dai corrispondenti concetti platonici; inoltre la concezione platonica relativa al rapporto tra phusis e techne che, a mio parere, lo Stagirita sta qui sottilmente criticando e rifiutando, capovolgendola, non è quella esposta nei dialoghi della maturità, ma piuttosto quella che trova la sua più chiara espressione nel Timeo e nelle Leggi , dove si fa riferimento ad una sorta di techne divina dalla quale la realtà naturale verrebbe “prodotta” e, per così dire, “messa in moto” in tutti i suoi processi, vitali e cognitivi. Una tale concezione, non solo priva la natura di qualunque autonomia ontologica, subordinandola ad una intelligenza esterna ad essa e, per di più, “tecnica”, ma, cosa ben più grave – notata e sconfessata, fra l’altro, dagli immediati successori di Platone –, antropomorfizza il divino, declassando il Demiurgo a technites, attribuendogli, cioè, un ruolo prettamente umano.42 La stessa terminologia usata per descrivere le operazioni del divino Artefice viene d’altronde significativamente desunta dalla sfera delle technai umane. «Presque partout ailleurs – commenta a tal proposito Luc Brisson –, l’intervention du démiurge s’apparente à une activité d’ordre artisanal. En plus d’être appelé “dieu” et “père” – prosegue lo studioso Su questo aspetto della critica aristotelica si vedano in particolare le osservazioni di M. Isnardi Parente (1966). Sull’ antropomorfizzazione del Demiurgo platonico, interessanti appaiono le considerazioni di L. Brisson, il quale, nella pregevole Introduction alla sua traduzione del Timeo (1992, p. 21-2), così afferma: «Puisque le démiurge est bon c’est un intellect, la bonté étant liée chez Platon à la rationalité. E puisque c’est avant tout un intellect, le démiurge “raisonne”, il “calcule” et il “réfléchit”; il “prend en consideration”; et il “prévoit”. Voilà pourquoi il “parle”. Par ailleurs, le démiurge fait acte de “volonté”; voilà pourquoi sa responsabilité est engagée. Il éprouve même des sentiments. Par tous ces traits, le démiurge peut être assimilé à un individu […]». 42
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francese –, le personnage qui fait apparaître l’univers est qualifié de “démiurge”, de “fabricant”, de modeleur de cire, de charpentier, et c’est un constructeur dont la fonction la plus importante est l’assemblage. Par ailleurs, si on considère les verbes qui décrivent métaphoriquement son action, on se rend compte que le démiurge accomplit un certain nombre d’opérations typiques de certaines activités artisanales». 43 Quanto di più lontano dalle prospettive aristoteliche! Qui, infatti, anzitutto la natura va a costituire un settore particolare dell’essere, quello caratterizzato dal movimento, con le sue peculiarità e i suoi principi autonomi ed immanenti, che la rendono degno oggetto di analisi scientifica; ma anche la techne conquista un posto assolutamente decoroso come ambito proprio della produzione umana, studiato anch’esso da una scienza, sia pure di livello inferiore: la scienza poietica. Ma ciò che è più importante notare è la totale estraneità del Dio aristotelico dalla sfera, in senso lato, produttiva. 44 L’ambito della produzione, infatti, sia che si tratti di generazione naturale ( gevnesi~), sia che si tratti propriamente di un “fare” umano ( poivhsi~), implica sempre una mancanza e la conseguente necessità di realizzare una potenzialità; quindi un movimento. Rivela, cioè, quella natura imperfetta, incompleta, che il Nous aristotelico, Atto puro e Primo Motore immobile, non può condividere con le entità composte di materia e forma, siano esse celesti o inorganiche. L’unica soluzione per la cosmologia aristotelica è, perciò, la tesi dell’ eternità del mondo, e l’individuazione di una serie di cause e di principi, specifici per ciascun dominio del reale, che agiscono esplicando funzioni analoghe in tutti i settori dell’essere, dal più elevato al più infimo. Il Divino, nell’economia del sistema aristotelico, svolge soltanto, come sappiamo bene, il ruolo di “fine ultimo”, muovendo come il dantesco Amor che muove il Sole e l’altre stelle.45 Non è Creatore e, tanto meno, un creatore non onnipotente, che dipende da modelli e da materiale preesistenti, quale è il Demiurgo platonico. 43 44 45
Brisson (1992) pp. 22-3. Laddove nel Timeo, ad esempio nel celebre 28c, il dio è definito poihthv~. Dante, Divina Commedia (Paradiso XXXIII).
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Aristotele, quindi, non può accettare il ruolo di superiorità che l’ultimo Platone assegna alla techne nei confronti della phusis. È la techne ad imitare la phusis, secondo Aristotele, non viceversa. Già nel Sofista, anticipando le più note posizioni di Timeo e Leggi X sul rapporto tra phusis e techne, Platone aveva attribuito la produzione delle realtà naturali all’intelligenza e alla scienza di un dio artefice ( Soph. 265c 3-4: tino;~ … qeou`` demiourgou``nto~), negando alla phusis qualunque autonomia o spontaneità, anzi, considerando “opinione dei più” quella che assegna alla natura una sua propria ed intrinseca causalità generativa. «Le cose che si dicono essere per natura – afferma in modo inequivocabile lo Straniero di Elea, portavoce del pensiero platonico, in Soph. 265e 3 – vengono fatte dalla techne divina (qei`a/ tevcnh/)», e la natura, a sua volta, lungi dal generare «per l’azione di una certa causa che produce da sé e senza alcuna razionalità ( ajpov tino~ aijtiva~ aujtomavth~ kai; a[neu dianoiva~ fuouvsh~ ) […], genera sulla base di un discorso razionale ( meta; lovgou), di una scienza divina che procede dalla divinità (ejpisthvmh~ qeiva~ ajpo; qeou`` gignomevnh~ )» (Soph. 265c 7-9). La subordinazione della sfera naturale a quella tecnica non potrebbe essere più evidente; in più, oltre a derivare da un’azione tecnica – quella del divino artefice – la phusis diviene a sua volta una sorta di techne, ricevendo dal dio le capacità produttive e generative, che quello possiede in quanto poietes (Timeo 28c). Si realizza così quell’arduo accostamento tra phusis, techne e dianoia, da cui Aristotele comincerà a prendere le distanze – come vedremo tra poco – già all’epoca della sua frequentazione dell’Accademia, quando scriverà il Protreptico, ma che non troverà adepti nemmeno tra gli stessi platonici.46 Ovviamente l’esposizione più ampia e dettagliata di questa concezione platonica del rapporto techne-phusis trova la sua sede naturale nel Timeo, dove per l’appunto la realtà naturale viene fatta derivare dall’opera artigianale del divino Artefice, il quale plasma, sul modello del Vivente intelligibile eterno, una materia informe e caotica preesistente. Oltre all’inferiorità della phusis rispetto alla te46
Cf. Isnardi Parente (1966) p. 41.
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chne – sia pure ad una techne divina – e al declassamento del divino a technites, oggetto della critica che Aristotele muove al dialogo cosmologico è anche il ricorso platonico alle idee quali cause formali – peraltro trascendenti e separate – dei phusei onta. A tal proposito, è interessante notare come in alcuni contesti della Metafisica l’attacco aristotelico alle forme separate dei Platonici trovi uno strumento particolarmente efficace proprio nell’analogia tra prodotti della phusis e prodotti della techne: in Metaph. Z 8, 1033b 20 ss., ad esempio, si legge che le cosiddette forme “oltre i sensibili” – l’esempio riportato è quello di una sfera e di una casa –, indicano soltanto «di quale specie è una cosa ( to; toiovnde shmaivnei) e non sono un qualcosa di particolare e determinato; ma chi produce – continua il Filosofo – trae da questa particolare cosa un qualcosa di una data specie, e, quando questo sia stato prodotto, allora è una particolare cosa di una data specie, e ogni essere particolare, per esempio Callia o Socrate, è come questa sfera di bronzo particolare (mentre “uomo” o “animale” è come “sfera di bronzo” in universale). Allora – incalza Aristotele – è evidente che la causalità che alcuni filosofi sono soliti attribuire a queste forme, se tali realtà sussistono fuori dagli individui (para; ta; kaq∆e{kasta), non sarà di nessuna utilità per spiegare i processi di generazione e per spiegare le sostanze; ed è anche evidente che, per queste ragioni, esse non potranno neppure essere sostanze per sé sussistenti». E le medesime argomentazioni, sempre supportate dall’analogia techne-phusis si riscontrano anche in Metaph. H 3, 1043b 18-24, dove si legge: «la forma non è prodotta da nessuno, quello che si genera è solo il particolare. Per cui si potrebbe pensare che esistano essenze separate di cose periture: è però certo che di alcune cose si possono senz’altro escludere, come per esempio della casa e dell’utensile, perché è impossibile che esse sussistano al di là dei molti. Meglio ancora però si può dire che né queste né le cose secondo phusis hanno essenze separate, e che solo la phusis è l’essenza delle cose periture». Ma torniamo a Platone, concludendo l’esame dei contesti relativi al rapporto tra phusis e techne con alcuni brani tratti dal X libro delle Leggi . Dopo aver confutato, per bocca dell’Ateniese, una teoria che la critica moderna attribuisce a pensatori di area sofi-
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stica,47 ma che, in modo singolare, coincide alla lettera con quanto Aristotele – come abbiamo visto – afferma qua e là nel corso della sua opera,48 teoria secondo cui «tutte le cose che si generano, sono state generate e si genereranno, sono dovute alcune a phusis, altre a techne, altre a tuche» ( Leggi X, 888e), e dopo avere associato la natura al caso e all’irrazionalità, e la tecnica al ragionamento, sostenendo la preminenza ontologica di quest’ultima in ragione del suo carattere razionale, Platone continua la sua confutazione, affermando l’assurdità di «credere – sulla scia di quei pensatori – che le più grandi e le più belle cose siano dovute alla phusis e alla tuche, le meno importanti alla techne» ( Leggi X, 889a) e che l’universo intero e tutto ciò che è in esso non siano opera «né di una mente, né di qualche dio, né della techne, ma della phusis e della tuche» ( Leggi X, 889c). Piuttosto, Platone capovolge la credenza tradizionale appena riferita, subordinando ontologicamente e cronologicamente la phusis, forza di per sé irrazionale e casuale, alla techne e all’intelligenza, e indicando nell’anima la vera phusis , ossia quel principio primo, generatore e motore, che gli antichi – a suo dire – avevano erroneamente chiamato phusis e confuso con fuoco, acqua, aria, terra et similia. Così afferma pertanto alle linee 892b 3-8: «E dunque l’opinione, le aspirazioni, l’intelligenza, la techne, la legge sono anteriori al duro, al molle, al peso, al leggero; e dunque anche le grandi e prime opere, le grandi e prime azioni sono frutto della techne, avendo avuto luogo in principio (o[nta ejn prw` `toi~), mentre i fatti naturali e la natura stessa ( ta; de; fuvsei kai; fuvsi~) – quella tal natura così chiamata per sbaglio (oujk ojrqw`~) – sono posteriori e governate dalla techne e dall’intelligenza».49 Come si vede, la concezione platonica appena descritta, pur trovando massima espressione negli ultimi scritti del Filosofo, in realtà pare sia stata da lui professata sin dai tempi dell’Accademia, Cf. la nota al passo nella traduzione di Adorno (1988). 48 Per la medesima triplice distinzione cf. Metaph. Z 7, 1032a 12; alle tre cause indicate nel passo platonico, si aggiunge anche l’automaton in Aristot. Protrept. fr. 11; Phys. II 6, 198a 10 (dove al posto di techne troviamo nous); Metaph. K 8, 1065b 3; Metaph. L 3, 1070a 6. 49 Trad. di F. Adorno. 47
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come dimostrano i contesti, del tutto simili a quelli più tardi, del Sofista e alcuni frammenti dell’aristotelico De philosophia, in cui lo Stagirita sembra alludere proprio alla dottrina platonica in questione. 50 Ora, nel perduto Protreptico , di poco anteriore al Timeo ma probabilmente scritto dopo il Sofista, 51 Aristotele prende di mira la cosmologia platonica, anticipandovi argomenti e teorie che troveranno ampia espressione nelle sue opere più mature, a cominciare dalla Fisica. Infatti, pur essendo stato composto all’epoca in cui il Filosofo frequentava ancora l’Accademia, 52 il Protreptico rivela già nello Stagirita una notevole maturità speculativa e posizioni già lontane da quelle difese dal Maestro; per quanto attiene al nostro tema, cioè al rapporto tra phusis e techne e alla polemica anti-platonica, sono in particolare i frammenti 11 e 13 del Protreptico a contenere tesi particolarmente interessanti ed emblematicamente contrarie a quelle propugnate dal Platone del Sofista, del Timeo, di Leggi X. In decisa opposizione a quanto contenuto nei Dialoghi , e in netta coincidenza con la teoria criticata da Platone in Leggi X, leggiamo nel frammento 11 del Protreptico che: «tra le cose che si generano, alcune sono generate da qualche processo di pensiero ( ajpov tino~ dianoiva~) o techne, per esempio la casa e la nave – di entrambe queste, infatti, è causa qualche techne o processo di pensiero – altre, invece, non sono generate per causa di nessuna techne, ma per causa della phusis; degli animali, infatti, e delle piante è causa la phusis, e tutte le cose siffatte sono generate secondo phusis. Ma alcune tra le cose sono Cf. i ffr. 13b, 13c, 19c Ross in cui probabilmente si allude a Platone come sostenitore della tesi della creazione del cosmo da parte di un artefice divino. Per un commento in tal senso si veda Isnardi Parente (1966) p. 76 ss. 51 M. Isnardi Parente (1966, p. 91) afferma che nel fr. 11 del Protreptico, «opponendo alla phusis, teleologia in certo senso “inconscia”, l’opera della techne che deriva da diavnoia, Aristotele si vale quasi delle stesse espressioni di Soph. 265c-e per sostenere una tesi che a quella del Sofista si contrappone, seguendo in questo, del resto, un uso comune nella polemica filosofica del mondo antico». Per lo status quaestionis relativo alla cronologia del Protreptico cf. lo studio introduttivo alla traduzione di E. Berti (2000), il quale, d’accordo con Jaeger, colloca lo scritto verso la fine del periodo trascorso da Aristotele nell’Accademia platonica. 52 Cf. Berti, trad. Protrept. (2000), p. XIII. 50
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generate anche per tuche […]». Qui lo Stagirita, diversamente da quanto tematizzato da Platone, separa la phusis da qualunque tipo di razionalità o di operazione consapevole ed intelligente, assegnando solo alla techne, in quanto fenomeno prettamente umano, la volontarietà e la coscienza. 53 Ora, è evidente la corrispondenza, anche letterale, tra quanto si legge in questo frammento e quanto viene esposto in modo certamente più esteso e dettagliato in Fisica II (II 1 per phusis e techne; II 4 ss. per tuche e automaton), così com’è evidente che Fisica II 8, in ordine alla superiorità della phusis sulla techne, riprende esattamente il contenuto del frammento 13 del Protreptico, dove si legge che: «invece, ciò che è generato in conformità con la phusis è generato certamente in vista di qualcosa ed è costituito sempre in vista di qualcosa di migliore di ciò che è generato per causa della techne. Non è infatti la phusis che imita la techne, ma è questa che imita la phusis, ed esiste per portarle aiuto e per completare le cose che la phusis ha trascurato». Analogamente, come in questo frammento giovanile, anche in Phys. II 8, 199a 15 ss. si afferma che «in generale, talvolta la techne porta a compimento quanto la phusis è impossibilitata a fare, talaltra imita la phusis. Se dunque le cose che sono secondo techne sono fatte in vista di un fine, è chiaro che anche le cose che sono secondo phusis lo sono. Infatti il rapporto tra ciò che viene dopo e ciò che viene prima opera nello stesso modo in entrambe». La superiorità ontologica della phusis si gioca quindi sul campo del concetto di imitazione; se infatti, per Platone – come ha efficacemente osservato Aubenque – il rapporto imitativo si può concepire come un movimento rettilineo discendente, dall’imitato all’imitante, tendente al peggio, per Aristotele, al contrario, esso rappresenta un movimento rettilineo ascensivo, dell’imitante verso l’imitato, che realizza il miglioramento dell’imitante in virtù della superiorità dell’imitato, esprimendo quest’ultimo il modello più perfetto, cui guardare e rendersi simile, per quanto è possibi Ibidem, nota al passo): «La dottrina in questione rappresenta un progresso rispetto a Platone, il quale non riconosceva nella natura una causa originaria, ma la subordinava all’arte divina del Demiurgo». 53
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le. Perciò, l’espressione hJ tevcnh mimei``tai th;n fuvsin, contenuta nei ffr. 13 e 23 del Protreptico, in Phys. II 2, 194a 21; Phys. II 8, 199a 16; Meteorologica IV 3, 381b 6, Poetica; Eth. Nic. VI, nella sua laconicità esprime in modo pregnante i tratti più importanti della concezione aristotelica della natura e della critica alla cosmologia platonica. La natura, concepita da Aristotele quale principio autonomo di movimento e di stasi, genera da sé i suoi “prodotti”, senza richiedere interventi esterni, che provengano da un’anima o da un dio, né modelli su cui conformare le sue realizzazioni; essa, costituendo al contempo il principio e la causa materiale, formale, motrice e finale dei fuvsei o[nta, senza tuttavia distinguersi da essi come se fosse una vera e propria ipostasi superiore e provvidenziale, una mente fattrice e ordinatrice, agisce nondimeno «come se fosse dotata di ragione» ( w{sper e[cousa lovgon: Protrept. fr. 23). Quest’ultima, assieme ad altre massime sulla natura (come quelle, ad esempio, che attribuiscono il desiderio o l’imitazione del meglio e dell’eterno agli elementi naturali o ai corpi celesti) è, ovviamente, soltanto una metafora, perché anzi la superiorità della natura, la sua imperscrutabilità, derivano proprio dal suo modo inconscio, spontaneo, a-razionale di agire e di generare. Se infatti la natura procedesse razionalmente, ossia alla maniera di una techne, Aristotele non avrebbe bisogno di guadagnarne l’intelligibilità attraverso il costante e continuo paragone con il più noto procedere tecnico. Inoltre, se la techne fosse, come vogliono Platone ed alcuni interpreti moderni di Aristotele, 54 superiore alla natura, o se la natura fosse, a sua volta, una sorta di techne, quest’ultima non avrebbe bisogno di imitarla, come invece Aristotele non cessa di ribadire. Cionostante, la natura, pur costituendo un modello per la techne, e pur precedendola, sia ontologicamente che cronologicamente, non è onnipotente; sebbene non dipenda da modelli o principi esterni, essa, nondimeno, non è del tutto autonoma: ha infatti a che fare con la materia, e per questo, pur aspirando al meglio, non sempre riesce a conseguire appieno i suoi obiettivi. Per questa interpretazione della critica moderna si veda Follon (1988), pp. 322 ss. 54
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Ma è proprio tale debolezza a rendere indispensabile e prezioso il ruolo della techne, che non si risolve pertanto nella sola imitazione del procedere della natura – sia pure in una imitazione attiva, critica e produttiva – ma completa l’opera di quella, là dove sia necessario, o la aiuta nelle sue realizzazioni. La superiorità della natura non comporta, quindi, l’asservimento o la totale subalternità della techne, la cui attività, di imitazione e di supporto, è assolutamente rispondente alla denominazione di “disposizione produttiva razionale”, o di eccellenza ( ajrethv) della ragione pratica, che essa riceve, come abbiamo visto, nelle Etiche. 6. La funzione teleologica dell’analogia tevcnh-fuvsi~ . Sulla teoria aristotelica della causalità e la difesa del finalismo naturale Il frequente paragone tra le due forme di “produzione”, tecnica e naturale, reso legittimo anche dal fatto che hJ tevcnh mimei``tai th;n fuvsin, consente, quindi ad Aristotele, da una parte, di far emergere la priorità ontologica della phusis, e dall’altra, di indicare nei meccanismi produttivi della techne la chiave d’accesso all’intelligibilità della genesis naturale. Il paragone con la tecnica, lo abbiamo visto, serve anzitutto a far luce sulla struttura causale degli enti kata phusin e, come vedremo in seguito, a porre in primo piano quella che, tra le quattro cause presenti sia negli artefacta sia negli enti naturali, appare come la prima e la più determinante in entrambi i tipi di gignesthai , ossia la causa finale o, secondo la precisa lexis aristotelica, il telos (fine) o il to ou heneka (ciò in vista di cui ). Nei capitoli centrali di Fisica II, subito dopo avere precisato che cosa si debba intendere per aitiai , e quali e quante queste siano, Aristotele, servendosi ampiamente del modello analogico tecnico, per chiarire con facili esempi il carattere di causa finale già assegnato alla phusis in Fisica II 2, 194a 29 (dove si legge testualmente che «la phusis è fine e ciò in vista di cui »), dimostra la rilevanza in natura della causa finale. Ma a questo punto, prima di entrare nel vivo di quella che ho definito “funzione teleologica” dell’analogia techne-phusis, mi
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sembra opportuno aprire una breve parentesi sul concetto aristotelico di aijtiva e sul dibattito che, su questo problema, continua ad impegnare, e a dividere, gli aristotelisti di tutto il mondo. I maggiori interventi si registrano da parte di studiosi di area anglosassone, ma le posizioni critiche sull’argomento sono talmente varie da rendere assai complicato ogni tentativo di schematizzazione. L’accordo è unanime, comunque, sulla difficoltà di considerare le aitiai aristoteliche come delle cause nel senso moderno del termine e, di conseguenza, sulla cautela da usare nel tradurre i termini greci aijtiva e ai[tion in lingua moderna; difatti la scienza moderna, sia baconiano-galileiana che humiana, intende per causa un agente concreto, qualcosa che agisce e che, attraverso tale azione, produce un effetto. Qualcosa di distinto e di cronologicamente anteriore al suo effetto. Ora, le aitiai di Aristotele – ad eccezione della cosiddetta causa efficiente o motrice, che per tale ragione è l’unica causa aristotelica ad essere “tollerata” dalla scienza moderna – non agiscono; sono, piuttosto, forme di spiegazione, risposte alla domanda: “perché” una cosa è quella che è; in Fisica II 7, in effetti, lo Stagirita presenta la ricerca delle cause come una ricerca del perché – to; dia; tiv – di una cosa o di un fatto, ad esempio quando dice testualmente che «il numero delle cause è identico a quello compreso nel perché», o quando, poco più avanti, indica per l’appunto nella materia, nella forma, nel motore e nel fine i quattro aspetti riassuntivi del perché del fuvsei o[n, che spetta al fusikov~ indagare. Motivazioni di questo genere hanno indotto gli studiosi – specie quelli di area anglosassone, come dicevo – ad intendere la dottrina aristotelica delle quattro aitiai come una dottrina dell’explanation o del because, piuttosto che come una dottrina delle cause nel senso moderno del termine; anzi tra gli aristotelisti inglesi è unanime il compiacimento per aver trovato in explanation una traduzione più adeguata di aitia e aition in Aristotele. 55 Tra i principali sostenitori di tale interpretazione ricordiamo, tra Julia Annas (1982, p. 319) ad esempio, ritiene che sia un grande progresso cessare di pensare ad un’ aitia come ad una causa e trattarla invece come una spiegazione, un “perché”. 55
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gli altri, J. Barnes, J. Annas, R. Sorabji, D. Furley, M. Frede, G. Vlastos, M. Hocutt. 56 Tutti costoro, influenzati da un’opinione generale, che potremmo definire “humiana”, finiscono per assegnare un valore riduttivo all’aitia aristotelica; infatti, i filosofi moderni, sia razionalisti (da Bacone a Descartes a Spinoza) che empiristi (Hume, in primo luogo), ai quali i critici su menzionati si ispirano, hanno disprezzato, fino ad annullarla, la dottrina aristotelica delle aitiai nella misura in cui l’hanno interpretata come un mero prodotto della immaginazione umana, come una forma di spiegazione soggettiva e aprioristica, quando non misteriosa e del tutto irrazionale. Voglio dire che l’ aitia aristotelica viene considerata, ad esempio da Hume, come un qualcosa che possiede una “virtù” più o meno occulta e incomprensibile, una sorta di potere magico, grazie a cui un effetto viene prodotto o, in generale, qualcosa viene ad essere. 57 Ma come ha osservato giustamente Follon – e con lui altri aristotelisti –, 58 «la teoria aristotelica delle quattro cause era […] ben più profonda dell’immagine caricaturale che ne hanno dato i critici moderni», 59 poiché, lungi dall’indicare una cosa che possiede un potere più o meno magico, l’ aitia aristotelica rappresenta ciò che, a diverso titolo, è concretamente responsabile dell’esistenza stessa di una realtà, secondo il significato etimologico dell’aggettivo ai[tio~ – responsabile nel senso generale del termine, ma anche colpevole in senso giuridico-morale – da cui tanto il sostantivo femminile aijtiva quanto l’aggettivo neutro ai[tion, utilizzati quasi sempre come sinonimi da Aristotele, derivano. Si tratta di un significato condiviso da tutti i pensatori greci di età classica, che non solo non ha niente in comune con il significato moderno, o humiano, del termine causa, ma nemmeno con ciò che l’aitia diventa in epoca ellenistica, cioè con il poioun.60 OsserI principali contributi dati da questi autori al problema dell’aitia in Aristotele sono indicati in bibliografia. 57 Cf. Follon (1988), p. 327 ss. 58 Tra i quali ricordo qui anzitutto Vegetti, Moravcsik, Furley, Natali. 59 Ho tradotto il passo per comodità di lettura. 60 Cf. Seneca, Ep. LXV 11; Sesto Empirico, Pyrr Hyp. III 14; Simpl. In Phys. 326, 15 ss. 56
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vazioni di questo genere hanno pertanto spinto altri studiosi del pensiero aristotelico a dissociarsi dall’ explanation approach, e a sottolineare, invece, il carattere realistico o pragmatista o empirista, in una parola ontologico, e non certamente soltanto linguistico-concettuale, della teoria aristotelica dell’ aitia. Per citare un’efficace osservazione di uno dei principali oppositori dell’ explanation approach,61 Julius M. Moravcsik, caratterizzare le aitiai aristoteliche come explanations o becauses (cioè come risposte alla domanda “perché?”, why? in inglese) è fuorviante ( misleading) perché questi (explanations e becauses) sono items mentali o linguistici, laddove gli esempi addotti da Aristotele ad illustrazione delle quattro cause, ad esempio in Fisica II, dimostrano chiaramente che le aitiai non sono concetti della mente o modi di dire, bensì entities in the world . Anche Vegetti, ad esempio, vede nelle aitiai aristoteliche, soprattutto nel campo biologico, le dimensioni della struttura essenziale di ogni singola realtà naturale, e afferma testualmente che «le cause esprimono la struttura multidimensionale di ogni singola realtà esistente, una struttura che trova la propria unità ontologica all’interno di quella realtà»; allo stesso modo, anche Natali – per restare alla critica italiana – ha recentemente contestato l’explanatory interpretation, sulla base dell’individuazione nella aitia aristotelica di connessioni reali tra cose ed eventi.62 È vero, quindi, che le cause aristoteliche sono cosa ben diversa dalle cause moderne, ma è anche vero che l’ explanation approach non ne rende appieno il vero significato. Ma ritorniamo alla causa finale, che, fra l’altro, è, tra quelle aristoteliche, la causa che la critica moderna ha maggiormente attaccato. Alcuni aristotelisti, ammettendo ma non approvando il ruolo preponderante della causa finale nella fisica aristotelica, hanno tacciato di antropomorfismo e di anti-scientificità l’intera trattazione aristotelica del mondo naturale; altri, considerandola pericolosa per la coerenza e la serietà della scienza aristotelica, l’hanno ridimensionata, negandole una reale applicazione in re61 62
Cf. C.A. Freeland (1991) p. 50. Cf. C. Natali (1997, AITIA…).
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rum natura.63 Wieland, ad esempio, riduce l’apporto della causa finale, considerando la teleologia aristotelica soltanto una nozione mentale o riflessiva, una sorta di metafora, un ragionamento del tipo als ob, e non una struttura ontologica.64 Oggi il dibattito sulla causa finale è quanto mai aperto e vivace; vengono designati con le etichette di eliminativismo e riduzionismo i due principali orientamenti della critica sfavorevole ad assegnare alla causa finale un ruolo pregnante nel sistema aristotelico: tra i principali assertori della tesi che tende ad eliminare la causa finale dal sistema aristotelico, assieme a Wieland, figurano studiosi come Martha Nussbaum e Richard Sorabji; tra i riduzionisti – i quali, appunto, riducono la causa finale o alla causa efficiente o a quella formale – ci sono autori come A. Gotthelf, M. Matthen, J. Cooper, D. Furley, T. Irwin. In generale l’atteggiamento contrario alla causa finale nasce da una errata associazione tra teleologia e intenzionalità:65 attribuire azioni finalizzate, come quelle tecnico-artistiche e umane in senso lato, anche agli enti naturali non umani (gli elementi, le parti organiche e i corpi composti) significa infatti, secondo questi autori, assegnare loro una mente, una forma di razionalità o di intenzionalità che questi, ovviamente, non hanno e non possono avere. In breve, l’errore di fondo – a mio avviso – sta nell’interpretare la scienza aristotelica alla luce di parametri e di argomentazioni moderni, e nell’attribuire ad Aristotele preoccupazioni ed inferenze non sue. Se, infatti, il II libro della Fisica intende far luce in generale sulla nozione di phusis e su quanto rende l’ambito d’essere denotato da tale concetto degno di indagine scientifica, cioè sui principi e sulle cause della natura, tuttavia a me pare che l’intento di Aristotele lungo tutti e nove i capitoli del libro sia soprattutto quello di far emergere, tra le quattro cause L’espressione è usata da Charlton (1970, p. 120, commento a Phys. II 8) per illustrare la posizione di Wieland. Per lo status quaestionis del dibattito critico più recente sulla causa finale in Aristotele, cf. D. Quarantotto, Ontologia della causa finale aristotelica, in «Elenchos» 2 (2000) pp. 329-365. 64 A. Petit parla a tal proposito di teleologia soft (cf. sotto, nota 71). 65 Seguo qui e condivido pienamente la recente interpretazione di Cameron (2002). 63
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che spiegano la costituzione degli enti naturali, il ruolo determinante di quella che noi chiamiamo causa finale e che lui indica con le espressioni telos e to ou heneka. Il fatto che l’intera trattazione, condotta sempre attraverso un sistematico paragone con l’ambito della tecnica, si snodi attraverso un’aperta e puntuale polemica con le vedute meccanicistiche dei fisiologi, in particolare contro le teorie di Empedocle, Anassagora e Democrito, mi pare un chiaro indizio dell’intenzione aristotelica di formulare, di contro ad ogni sorta di materialismo meccanicistico, un tipo di spiegazione della natura che non possa prescindere dalla causalità formale e, soprattutto, finale. Difatti, a partire dal secondo capitolo di Fisica II, dopo che alla phusis, definita come principio di movimento immanente agli enti naturali, viene assegnato, in analogia con i prodotti della tecnica, sia il ruolo di materia (o di causa materiale, come le lettere per le sillabe, il materiale per le cose fabbricate, le premesse per la conclusione, il fuoco per i corpi, le parti per l’intero), sia quello di principio del movimento (o di causa motrice, come il seme, il medico, colui il quale delibera, ciò che produce), sia, ancora, quello di forma e di specie (o di causa formale, come le sillabe rispetto alle lettere, le cose fabbricate rispetto al materiale, i corpi rispetto al fuoco, l’intero rispetto alle parti), l’attenzione del Filosofo si concentra in modo quasi esclusivo sulla natura intesa come fine e come ciò in vista di cui (dove per fine, in generale, si deve intendere, sia in natura che nel mondo della produzione tecnica, lo stato migliore della cosa, la sua piena realizzazione, quella che altrove Aristotele chiamerebbe l’ entelecheia). Dal terzo capitolo in poi, in un crescendo che si conclude con la stessa chiusa del libro, attraverso la polemica con i meccanicisti e l’argomento a fortiori secondo cui, se la tecnica imita la natura e se i processi di tecnica sono finalizzati, allora anche in natura sarà presente il fine, Aristotele enfatizza a tal punto il ruolo della causa finale in natura da giungere a costruire i due noti capitoli sulla fortuna e sul caso interamente sul presupposto della teleologia naturale, e a concludere l’intera discussione con la precisa indicazione per il naturalista a privilegiare la causalità finale. Esaminiamo, a questo punto, i passaggi più emblematici del nostro testo.
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Il primo capitolo di Phys. II aveva esordito con l’indicazione della phusis come quell’impulso connaturato di cambiamento, intrinseco all’ente, grazie al quale le cose che sono per natura si distinguono da quelle che derivano da altre cause (tecnica, fortuna o caso). Ora, dopo avere specificato, sempre attraverso l’analogia coi prodotti tecnici, quali e quanti tipi di causa è necessario che il phusikos ricerchi per acquisire la scienza delle cose naturali (capp. 2-3), e dopo avere ridotto fortuna e caso, che alcuni fisiologi avevano privilegiato per spiegare le origini della realtà naturale (4-56), a cause accidentali relative all’ambito – umano o naturale – della causa finale, il Filosofo, a partire dal settimo capitolo, dà vita ad una fitta polemica contro ogni forma di spiegazione che metta capo alle sole dinamiche della materia. A 198a 35 ss. egli afferma qualcosa di estremamente importante per la dimostrazione del finalismo in natura; dice: «due sono i principi del movimento naturale, di cui uno non è naturale; infatti non ha in se stesso il principio del movimento. Di questo tipo è qualunque cosa muova senza essere mossa: così sono sia ciò che è assolutamente immobile, che è la prima di tutte le cose, sia l’essenza e la forma. Questa è infatti il fine e ciò in vista di cui . Di conseguenza, poiché la natura è in vista di qualcosa, bisogna conoscere anche questa causa». 66
Ora, fino a questo momento Aristotele ha mostrato che, come nei prodotti della tecnica così anche negli enti naturali sono presenti tutte e quattro le cause e che perciò in entrambi i settori agisce lo stesso tipo di procedimento causale. Se, però, della casa, della sega o della salute, è facile scorgere e distinguere le quattro cause (ad esempio della salute, la materia è costituita da sangue e flegma, la forma dalla salute stessa, l’ agente dal medico e il fine dall’uomo risanato e dalla stessa salute, e della casa le quattro cause sono, rispettivamente: 1) mattoni e calce, 2) la forma di ca66
dittai; de; aiJ ajrcai; aiJ kinou'sai fusikw'~, w|n hJ eJtevra ouj fusikhv: ouj ga;r e[cei kinhvsew~ ajrch;n ejn auJth'/. toiou'ton d∆ ejsti;n ei[ ti kinei' mh; kinouvmenon, w{sper tov te pantelw'~ ajkivnhton kai; ªto;º pavntwn prw'ton kai; to; tiv ejstin kai; hJ morfhv: tevlo~ ga;r kai; ou| e{neka: w{ste ejpei; hJ fuvsi~ e{nekav tou, kai; tauvthn.
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sa, 3) il costruttore e 4) l’essere un riparo), negli enti naturali forma, agente e fine spesso si trovano a coincidere. L’esempio più noto è quello del padre che genera il figlio, dove l’agente, la forma e il fine vanno tutti e tre a confluire nell’uomo: l’uomo è infatti nello stesso tempo la causa motrice (il seme del padre, veicolo della “specie uomo”), la forma che determina la materia, e il fine da realizzare. Ma con l’aiuto del modello analogico della techne il naturalista riuscirà a distinguere e a differenziare anche in natura i quattro perché (le tre cause appena menzionate, più la causa materiale). A questo punto del discorso l’intento del Filosofo appare chiaro: egli intende distinguere ed accoppiare a due a due, tanto nella techne quanto nella phusis, due forme contrapposte, anche se reciprocamente integrantisi, di spiegazione causale: da una parte quella propriamente materiale, che implica anche la causa motrice, dall’altra quella finale, che comprende la causa formale. Ora, il brano che abbiamo appena letto è fondamentale a tal proposito: si dice infatti che il primo tipo di spiegazione causale, in natura, fa capo ad un principio del movimento naturale che muove muovendosi a sua volta, in quanto naturale, possedendo cioè in proprio quell’impulso a muoversi, che è tipico di tutti gli enti naturali. Il riferimento è ai quattro elementi naturali (acqua, aria, terra e fuoco), ai composti organici, alle piante, agli animali, ivi compreso l’uomo, che muovono così. Si tratta di un movimento meccanico, determinato dalle proprietà fisico-chimiche della materia; una sorta di movimento automatico, quello che, ad esempio, fa sì che sempre – qualora non sia presente un impedimento – il fuoco si porti verso l’alto e la terra verso il basso, e che alcuni movimenti dei corpi composti dipendano dall’elemento che in essi prevale. Ma esiste anche un altro principio del movimento naturale, che non è naturale, e che perciò muove senza muoversi. È questo il primo riferimento della Fisica al Motore immobile, il cui tipo di causalità viene accostato e assimilato a quello formale-finale. Ma forma e fine non costituiscono per Aristotele un’unica e medesima causa; se così fosse, avrebbero ragione alcuni tra i riduzionisti.
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Piuttosto, come emergerà ancor meglio dai successivi capitoli di Fisica II, forma e fine rappresentano per il Filosofo “l’altra faccia” della spiegazione causale in natura, quella che coglie, al di là dei movimenti meccanici provocati dalla necessità materiale, quelle ragioni che fanno dell’ente naturale una sostanza orientata ad un fine specifico e non soggetta al caso, com’erano i vitelli dal volto umano di empedoclea memoria. Secondo il commento di Ross, in questo contesto il Primo Motore immobile e la causa formale della cosa naturale sono da considerarsi quali cause finali dei processi naturali, e, precisamente, la prima come il suo fine trascendente e remoto, l’altra come il suo fine immanente e immediato. Ma a prescindere da questo brano, che mi sembra estremamente chiaro in ordine alla dimostrazione della teleologia naturale, ma che non fa ricorso all’analogia techne-phusis, altrettanto nodali in questo stesso senso risultano i capitoli conclusivi di Fisica II, l’8 e il 9 – che sono anche i più discussi e studiati dalla critica – i quali, peraltro, sfruttano molto il paragone con la causalità tecnica. Il compito è difficile: dimostrare che anche in natura, come nella tecnica, sia presente l’in vista di cui comporta la dimostrazione, ad esempio, che la pioggia cade allo scopo di far crescere il grano e non semplicemente perché «ciò che si è sollevato in alto deve raffreddarsi, e ciò che si è raffreddato, una volta divenuto acqua, deve venir giù, e capita che, avvenuto ciò, il grano cresca» – cioè a causa dei processi di rarefazione e condensazione – o che i denti crescano al modo in cui crescono per uno scopo preciso, cioè gli incisivi per tagliare, i molari per masticare, e non per puro caso. Ma per Aristotele, così come era assurdo far derivare da tuche e da automaton enti che, come quelli naturali, accadono sempre o per lo più allo stesso modo, è altrettanto inconcepibile ora pretendere di esaurire la spiegazione di realtà naturali, come quelle menzionate, attraverso le sole cause materiale e motrice. Così come sono due gli aspetti del composto naturale, e precisamente quello materiale e quello formale, altrettanto duplice dovrà esserne la spiegazione scientifica: la prima di carattere materiale, essenziale ma parziale ed insufficiente da sola, la seconda di ordine teoretico, facente capo alla forma e al fine, assolutamente necessaria per la piena com-
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prensione dei processi naturali. 67 E se ciò vale per i prodotti della tecnica, nei quali è facile distinguere da una parte la materia e l’agente che produce, e dall’altra la forma che deve essere realizzata nel prodotto ed il fine di quest’ultimo, a maggior ragione ciò varrà per la natura. Infatti – Aristotele lo ribadisce – la tecnica imita e completa la natura. Se allora è giusto dire, come diciamo, che la casa viene costruita perché serva da riparo agli uomini o che la sega viene prodotta per segare, a maggior ragione sarà giusto dire che le piante affondano le radici nel terreno per trovare nutrimento, che le rondini costruiscono il nido per ripararsi e che i ragni tessono la tela per catturare insetti e cibarsene. Ciò significa che anche in assenza di deliberazione ogni cosa in natura esiste in vista di un fine e che questo ne determina l’esistenza, nella sua qualità di aspetto dinamico della forma. Nel processo di generazione naturale, così come nella produzione tecnica, infatti, all’inizio sta sempre una forma che deve essere realizzata, in mezzo stanno l’agente e gli strumenti materiali necessari alla realizzazione, a conclusione sta ancora la forma da realizzare, ma, questa volta, vista come fine, cioè come to; bevltiston della cosa stessa.68 Se quindi la Per certi versi tale distinzione ricorda quella operata dal Socrate platonico nel Fedone quando il Maestro, superando la spiegazione meccanicistica propria dei filosofi della natura, si “rifugiava” nel logoi . 68 Si riportano di seguito alcuni tra i testi aristotelici più significativi a riguardo: De gen. anim. V 778b 11-14: «Ogni cosa dunque esiste in funzione di un fine, e si produce sia per questa causa sia per le rimanenti, e tutto ciò che è compreso nell’essenza di ciascuna o è in funzione di un fine o è il fine in vista del quale». Metaph. I 8, 1050a 7-9: «Tutto ciò che diviene procede verso un principio, ossia verso il fine, infatti il fine è un principio e in vista di esso ha luogo il divenire». De gen. et corr. B 333b 10 ss. «Nessuna cosa nasce da un concorso fortuito di elementi, come pur sostiene Empedocle, ma ogni cosa nasce secondo un determinato rapporto razionale. E qual è, intanto, la causa di ciò? Non di certo, almeno, il fuoco o la terra; ma neppure sono l’Amicizia e la Discordia […] Questa causa è la sostanza di ciascuna cosa […] la causa da noi indicata si identifica con l’eccellenza e col bene di ciascuna cosa». A proposito del primato del fine sulla forma e sulla distinzione tra i due modi causali in Aristotele, condivido in pieno il giudizio di Capecci (1978), il quale, a p. 91, così spiega: «è la forma quale si attua nel divenire che dirige e determina il divenire stesso; ma la forma colta nella sua funzione dinamica, ossia come telos, come risultato e culmine di ogni processo naturale». 67
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forma ed il fine da un certo punto di vista sembrano identificarsi, da un altro punto di vista costituiscono due cause ben distinte, ed entrambe anteriori ontologicamente al prodotto realizzato. Ora, tale concetto trova la sua più completa esplicazione nel capitolo conclusivo di Fisica II, il 9, interamente dedicato alla necessità ipotetica, altro carattere comune a phusis e a techne. Si è detto che la spiegazione scientifica dell’ente kata phusin debba far capo sia alla materia e alle proprietà di questa, sia alla forma, intesa come la struttura organizzata della cosa. Ora, attraverso la chiarificazione del concetto di necessità ipotetica Aristotele giunge a dimostrare il primato in natura della coppia causale forma-fine sulla coppia materia-agente e, contestualmente, l’assoluta preminenza ontologica ed assiologica della causa finale. Seguiamo in breve il ragionamento del Filosofo avviandoci alla conclusione della nostra analisi. Per Aristotele, dare ragione di un muro affidandosi alla sola necessità, cioè alle cause materiale e motrice, che agiscono sempre allo stesso modo – salvo impedimenti – per via della necessità che le contraddistingue, sarebbe come dire che esso è così com’è perché «le cose pesanti sono naturalmente tali da portarsi in basso e quelle leggere in cima, e quindi le pietre, cioè le fondamenta, stanno in basso, la terra sopra per la maggiore leggerezza, e in cima soprattutto le parti in legno, dato che sono le più leggere». Ma la giusta spiegazione dice che il muro è stato costruito «per riparare e salvaguardare certe cose». Insomma, il primo tipo di spiegazione è quello tipico di chi, come Empedocle e Democrito, ignora la causa finale perché non sa che nella tecnica come in natura, è la necessità – e cioè la materia – a dipendere dal fine e non viceversa. Se ha da esserci una sega (ecco la formula della necessità ipotetica), se cioè dobbiamo poter segare la legna, lo strumento da costruire deve esser fatto di ferro e non, ad esempio, di lana; allo stesso modo, se ha da esserci un uomo, certe condizioni materiali – carne, sangue, ossa – devono essere presenti. «Perché il necessario è tale in dipendenza da un’ipotesi, e non sta come fine; infatti il necessario è nella materia, il ciò in vista di cui nella definizione» (200a 14-15: ejn ga;r th'/ u{lh/ to; ajnagkai'on, to; d∆ ou| e{neka ejn tw'/ lovgw/.). Ciò vuol dire che il fine «è causa della materia mentre que-
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sta non è causa del fine». Forma e fine, pertanto, condizionano la materia e le sue leggi, orientando in modo specifico e non casuale il processo di produzione e di generazione. 69 Il fine diventa un principio di movimento superiore e anteriore alla causa efficiente, del tutto simile al Primo motore immobile; come questo, il telos muove senza contatto, non quindi alla maniera della causa efficiente o motrice, ma come termine ultimo del movimento continuo dei viventi. «Sono per natura – afferma infatti il Filosofo in Fisica II 8, 199b 15-17: – tutte quelle cose che a partire da un determinato principio interno ad esse pervengono con un movimento continuo a un determinato fine»; ora, un altro elemento che accomuna phusis e techne è la possibilità che questo fine non venga realizzato: gli errori e i fallimenti della tecnica, i mostri in natura ne sono una prova evidente.70 Fin qui Fisica II. Ma numerosi altri testi aristotelici confermano e confortano questa interpretazione – che io definirei “forte” – del finalismo naturale;71 fra l’altro, come è noto, il trattato di Fisica costituisce una presentazione generale e complessiva di quelli che sono la struttura e i processi della realtà naturale, vista nel suo De part. anim. 641b 23-33: «Noi invece dichiariamo che una cosa è finalizzata ad uno scopo, ogni volta che si manifesta un termine verso il quale tende il mutamento se nulla lo ostacola. Sicché è chiaro che vi è qualcosa di tal genere, ed è ciò che noi chiamiamo natura ( fuvsin). Invero da ciascun seme non si forma a caso una creatura qualunque, ma questa particolare creatura da questo seme particolare (ajlla; tovde ejk tou'de), né un seme qualsiasi deriva a caso da un corpo qualsiasi. Il seme è dunque principio di formazione di ciò che da esso deriva ( jArch; a[ra kai; poihtiko;n tou' ejx aujtou' to; spevrma). Per natura ciò avviene: giacché la nascita viene dal seme. Ma va aggiunto che anteriore al seme è ciò di cui il seme è principio: il seme è infatti il processo di formazione, il compimento è la cosa stessa (gevnesi~ me;n ga;r to; spevrma, oujsiva de; to; tevlo~). Ancora anteriore a entrambi è ciò da cui viene il seme». Vegetti così commenta queste ultime espressioni (p. 568, nt. 36): «il processo si svolge all’interno dell’ ousia e giunge a compimento con la piena realizzazione di ciò che essa era potenzialmente fin dal principio […]; l’anteriorità qui non è quella dell’agente ma quella del telos». 70 Cf. De gen. an. IV 3, 767b 14; Fisica 199b 1-4. 71 Definisco “forte” l’interpretazione pienamente favorevole alla teleologia nella filosofia aristotelica della natura di contro a quella che da A. Petit (2000) viene definita teleologia soft o minimalista. 69
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cae lo, De generat gen eratione ione et corrupt corr uptione ione , complesso. Scritti come De caelo Meteorologica, De anima, ma soprattutto soprattutto i trattati trattati biologici biologici svilupsviluppano, applicandoli alle varie sezioni del mondo naturale – da quello inorganico a quello organico, da quello sub-lunare a quello sopra-lunare – i principi e le teorie della Fisica. Per Per ques questa ta rag ragioione, ciascuno degli scritti aristotelici di argomento naturale ci fornisce numerose e preziose testimonianze sul ruolo assolutamente pregnante e prioritario che la causa finale svolge in questo settore della scienza aristotelica. In verità, anche nel giovanile Protreptico, ed in particolare nei frammenti 12, 13, 14, 15, 17, 23, lo Stagirita sosteneva e difendeva il finalismo naturale – e, anche lì, attraverso l’analogia con l’operare tecnico e la contrapposizione rispetto a ca so –; ciò conferma che la tesi del finatutto ciò che procede per caso lismo naturale rappresentava già per il giovane Aristotele una certezza, un punto fermo nella sua speculazione sulla natura. Che la natura non faccia nulla a caso ma proceda sempre in vista di un fine, ossia del meglio per ciascuno degli enti cui essa appartiene di per sé, come principio interno e autonomo di movimento, Aristotele lo ribadisce pressoché in tutti i suoi scritti, e non solo in quelli di filosofia naturale. 72 Sottolineare la priorità della coppia forma-fine su quella materia-motore nei processi naturali, come in quelli tecnici, e, di conseguenza, dimostrare l’insufficienza della sola spiegazione meccanica è un compito che il Filosofo si prefigge e compie in modo sistematico in tutti questi scritti. In questa direzione vanno, ad esempio, tutte quelle sezioni degli scritti naturali dedicate a confutare la maggior parte delle tesi dei fusiolovgoi. Nel De caelo esempio, là dove dove è in question questionee il movimenmovimenca elo, ad esempio, to degli elementi naturali, egli ribadisce quanto già accennato nella Fisica, e precisam precisamente ente che non si debba debba pensare pensare che su di di essi essi Tra i luoghi principali: Protrept. 13, 14, 15, 17, 23; Fisica II passim pass im; De 778b 1 ss. ss.;; De part. caelo III 301a 11; De gen. ge n. anim. anim . V 778b pa rt. anim. ani m. I passim passi m; Metaph. Metaph . I 8, 1050a 1050a 7-9 7-9;; Politica I 2, 1252b 32 ss.; in quest’ult quest’ultimo imo testo si dice dice con estrema chiarezza che: «la natura è il fine: per esempio quel che ogni cosa è quando ha compiuto il suo sviluppo, noi lo diciamo la sua natura, sia d’un uomo, d’un cavallo, d’una casa. Inoltre, ciò per cui (in vista di cui) una cosa esiste, il fine, è il meglio e l’autosufficienza è il fine e il meglio». 72
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agisca un motore esterno o un fine superiore; semplicemente, il portarsi degli elementi verso l’alto o verso il basso dipende dalle cae lo I proprietà della materia (pesantezza e leggerezza) (cf. De caelo 268b 27 ss.; 277b 1 ss.; IV 310b 24 ss.). Non così per i corpi composti, per i quali le spiegazioni che fanno capo alle dinamiche della materia non sono più sufficienti; come abbiamo visto nella Fisica, i due livelli livelli di spiegazio spiegazione ne scienti scientifica fica trovano trovano la loro loro motivazi motivazioone nella duplice costituzione dei corpi composti (materia e forma) e nella necessità necessità ipotetica ipotetica che li contraddistingue contraddistingue assieme assieme ai prodotti tecnici. tecnici. A questo proposito proposito,, i testi aristotelici aristotelici – a parte quelli quelli estrapolabili dalla Fisica – sono davvero davvero ingent ingentii e pregnanti; pregnanti; basti basti par tibus animaliu a nimalium m, dove pensare all’intero I libro del De partibus dove le prin prin-cipali dottrine della Fisica trovano piena applicazione e conferma, anche col supporto del paragone tecnico; soprattutto, la priorità della coppia causale forma-fine su quella materia-motore e la conseguente dimostrazione del carattere finalizzato di tutte le cose naturali passa attraverso la puntualizzazione del concetto di necessità ipotetica e la critica ai meccanicisti. «Vi sono dunque queste due cause, quella relativa alla finalità e quella relativa alla necessità», afferma testualmente Aristotele in De partibus animalium 642a 2; e chi non rispetta tale distinzione, pensando che solo la necessità materiale, che è necessità assoluta ( aJplw``~), possa costituire il principio delle cose naturali, non dice praticamente nulla sulla natura; questa, infatti, ossia l’essenza della cosa, ne «è principio più che la materia». 73 È vero che che la natur naturaa dipende dipende dalla dalla nenecessità materiale, ma è anche vero che bisogna distinguere, tra i diversi significati del termine necessità, quello più appropriato alla natura. natura. «Necessità «Necessità – spiega ancora ancora il Filosofo Filosofo in in De part. pa rt. anim. 642a – significa talvolta che se dovrà essere un certo fine, è neces De part. anim. 641a: «È chiaro pertanto che il discorso dei fisiologi non è corretto, e che occorre dichiarare le determinazioni proprie dell’animale, descrivendo che cosa sia, quale sia, e ognuna delle sue parti, proprio come si descriverebbe la forma di un letto. […] sicché sicché da questo questo punto punto di vista, vista, chi studia la natura dovrà parlare più dell’anima che della materia, tanto più che la materia è natura grazie alla prima, piuttosto che il contrario (in effetti il legno è letto o tripotenza queste cose)». cose)». Cf. Cf. anche De gen. et corr. B 333b 333b 17-1 17-18. 8. pode, perché è in potenza 73
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sario che si verifichino certe condizioni; talaltra che le cose sono così e lo sono per la loro stessa natura». Ora, mentre la necessità assoluta appartiene a ciò che è eterno, «quella condizionale, 74 invece, [appartiene] anche a tutto ciò che è soggetto al processo della formazione naturale e a quello della produzione tecnica, per esempio una casa o qualsiasi altro oggetto di tal genere. È necessario che una determinata materia esista, se vi ha da essere una casa o qualche altro fine; e deve essere prodotto e trasformato prima questo, poi quello, e così continuamente nello stesso modo sino al fine, cioè sino a ciò in vista di cui ogni cosa è prodotta ed esiste; lo stesso avviene nel campo dei processi naturali». Conclusione. Dal mondo della “produzione” al mondo della “consi~ templazione” attraverso l’analogia tev cnh-fuvsi~ «Non infatti il caso, ma la finalità è presente nelle opere della massimament mente: e: e il fine fine in vista vista del quale quale esse esse sono phusis phus is, e massima state costituite o si sono formate occupa la regione del bello». Aristot. De part. anim. I 5, 645a 645a 23-26. 23-26. «Per quanto poco noi possiamo attingere delle realtà incorruttibili, tuttavia, grazie alla nobiltà di questa conoscenza, ce ne viene più gioia che da tutto ciò che è intorno a noi, così come una visione pur fuggitiva e parziale della persona amata ci è più dolce che un’esatta conoscenza di molte altre cose per quanto importanti esse siano». Aristot. De part. anim. I 5, 644b 644b 31-3 31-35. 5.
Potremmo continuare ancora a lungo a citare testi aristotelici che dimostrano l’importanza della causa finale in natura, ma è giunto il momento di tirare le somme di questa indagine sui sensi e sui significati significati dell’uso dell’uso aristotelico aristotelico dell’analogia tra techne e phusis . La mia rifles riflession sione, e, a questo questo punto punto,, è la la seguen seguente: te: se, se, come come è emerso con chiarezza, questa analogia costituisce una costante nell’opera nell’opera aristotelica aristotelica – fisica e non non –, tanto che lo Stagirita Stagirita la uti74
Lett.: ipotetica (Vegetti)
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lizza tutte le volte in cui desidera esprimere in modo particolarmente pregnante ed incisivo alcune delle sue più importanti teorie, allora il suo valore e il suo vero significato devono andare ben al di là di quello semplicemente metodologico-gnoseologico illustrato in Fisica I. In effetti, lo abbiamo visto, la fondazione della scienza fisica e la dimostrazione dell’autonomia della natura e dell’eternità del mondo passano proprio attraverso l’analogia techne phusis e la determinazione della struttura causale dei processi naturali viene guadagnata con il supporto del modello della produzione tecnica, più evidente per noi in quanto frutto di ragionamento e agire umani. Tuttavia quello che, a conclusione di questa ricerca, continua a sembrarmi il motivo principale e forse il senso più forte dell’uso aristotelico dell’analogia techne-phusis è l’esigenza, da parte del Filosofo, di mostrare come tutto nel mondo naturale, ivi compreso l’uomo e le sue attività, che naturali non sono ma che alla natura si rifanno come al proprio modello, non soltanto esiste in vista di uno scopo suo proprio ed immediato (consistente in generale nella piena realizzazione della propria essenza, nella propria compiuta entelecheia), ma alla fine trova un suo ulteriore e comune principio di movimento in qualcosa di trascendente e di perfettamente immobile: il Primo Motore, la causa finale suprema, che muove l’universo intero, a partire dal primo cielo, come supremo oggetto d’amore – wJ~ ejrwvmenon – ( Metafisica L 7, 1072b 3).75 Il paragone con la tecnica serve quindi, da una Metaph. L 7 1072a 21-27: «C’è qualcosa che sempre si muove di moto continuo, e questo è il moto circolare (e ciò è evidente non solo col ragionamento ma anche come dato di fatto); cosicché il primo cielo deve essere eterno. Pertanto c’è anche qualcosa che muove. E poiché ciò che è mosso e muove è un termine intermedio, deve esserci, per conseguenza, qualcosa che muova senza essere mosso e che sia sostanza eterna ed atto. E in questo modo muovono l’oggetto del desiderio e dell’intelligenza: muovono senza essere mossi”. Metaph. L 7, 1072b 3-4: «Dunque muove come ciò che è amato, mentre tutte le altre cose muovono essendo mosse». Un’ampia letteratura è stata prodotta in questi ultimi anni sulla concezione aristotelica del Motore immobile e sul genere di causalità cui esso propriamente appartiene, ed una particolare attenzione è stata prestata dai critici all’esegesi (anche di tradizione medioplatonica, neoplatonica e araba) del brano di L appena riferito; la complessità della 75
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parte, a sottolineare la superiorità ontologica della phusis – intesa come struttura causale immanente all’ente e autonoma, immediata nel suo procedere e inconscia – su tutto quanto è invece frutto di mediazione razionale e che esiste solo come imitazione o come supporto della natura; ma anche per dare risalto a ciò che soprattutto techne e phusis condividono: l’operare in vista di un fine. In Fisica II è detto chiaramente che come gli artefacta, così anche le cose naturali, oltre al principio motore mosso, cioè alla causa motrice, possiedono altresì un motore immobile che coincide con la loro forma o essenza: la specie da realizzare per i phusei onta , la loro funzione specifica, nel caso dei techne onta. Ciò vuol dire che, se un ente è tale solo nel momento in cui ha realizzato le sue potenzialità, allora è l’attuazione della forma/specie a determinarne la natura e a consentirne la definizione. Ciò equivale a dire che il telos è il logos della cosa, cioè la sua essenza, ossia la sua struttura formale pienamente realizzata e non soltanto potenziale; vuol dire constatare e sancire la priorità della causa finale anche su quella formale. Sulla priorità del telos rispetto alla causa motrice chiarissimo è Aristotele, ad esempio, in De partibus animalium I 1, 639b 14 ss., là dove afferma che tra le due cause «si manifesta come prima quella che chiamiamo in vista di qualcosa: questa è infatti l’essenza (lovgo~), e l’essenza è principio così nei prodotti della tecnica come in quelli della natura». Solo dopo aver definito, mediante il ragionamento o l’osservazione sensibile, il medico la salute, l’architetto la casa, essi possono dichiarare le ragioni e le cause di tutto ciò che fanno, e perché debba essere fatto in quel modo. Ora, «vi è più finalità e perfezione nelle opere della natura che in quelle della tecnica». 76 Dimostrare il finalismo naturale, al di qua e al di sopra di quello tecnico, non è quindi il solo scopo che lo Stagirita si prefigge attraverso l’analogia con la tecnica. Anche se in Fisica II il riferimento al Primo Motore quale causa priquestione mi impone di limitarmi, in questa sede, alla sola menzione di alcuni dei contributi più interessanti: Broadie (1993), Natali (1997, Causa motrice…), Berti (2000 e 2002), Martini Bonadeo (2004). Per la posizione di Berti cf. sotto, nota 79. 76 De part. anim. I 1, 639b 19-21.
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missima e non naturale del movimento naturale è poco più che un accenno, negli scritti più maturi – e mi riferisco ad ampi brani del De caelo, del De anima, dell’Historia animalium, del De motu , del De generatione et corruptione , del De partibus animalium, ma anche della Metafisica (soprattutto nei libri Z, Q, L), della Politica –, il riferimento di tutto il mondo naturale, inorganico ed organico, corruttibile ed incorruttibile, inconscio e cosciente, al fine ultimo e trascendente è netto e si avvale spesso di un’immagine che il Filosofo ha già utilizzato per indicare il rapporto tra la techne e la phusis: il rapporto di imitazione. Se è per imitazione che la tecnica – e cioè l’uomo che realizza questa virtù della sua anima dianoetica – procede come la natura, allo stesso modo è per imitazione del movimento circolare che i corpi semplici si trasformano gli uni negli altri, attraverso rarefazione e condensazione, realizzando così un’immagine del movimento eterno ( De gen. et corr. 336b 25337a 7),77 e che le specie viventi (vegetali e animali), riproducen«In eterno, come abbiamo detto, sarà continuo il processo di generazione e di corruzione (ed esso non verrà mai meno per la causa che abbiamo indicata) e questa nostra teoria è risultata essere conforme a ragione. Poiché, infatti, noi sosteniamo che in tutte le cose la natura è protesa sempre verso il meglio (ajei; tou`` beltivono~ ojrevgesqai), e l’essere è migliore del non essere […] e poiché è impossibile che l’essere stia presente in tutte quante le cose per il fatto che queste sono troppo lontane dal principio, il dio ha completato l’universo nella sola maniera che rimaneva possibile, rendendo cioè ininterrorra la generazione; proprio in questa maniera, infatti, la realtà avrebbe potuto avere la massima coesione possibile, per il fatto che il perenne divenire persino della generazione si approssima più di ogni altra cosa, alla sostanza. E la causa di questa perennità è, come abbiamo detto più di una volta, la conversione circolare, perché essa sola è continua (movnh ga;r sunechv~). Ecco, anche, perché tutte le altre cose che cangiano reciprocamente l’una nell’altra secondo le loro qualità affettive e secondo le loro potenze – come fanno, per esempio, appunto i corpi semplici –, imitano la conversione circolare (oi|on ta; aJpla' swvmata, mimei'tai th;n kuvklw/ foravn): quando infatti dall’acqua si genera l’aria e dall’aria il fuoco e, in senso contrario, dal fuoco si viene a generare l’acqua, noi diciamo che la generazione ha completato il circolo per avere effettuato una conversione sul suo punto di partenza; e da ciò consegue che anche lo spostamento rettilineo acquista una sua continuità, perché imita la conversione circolare ( {Wste kai; hJ eujqei'a fora; mimoumevnh th;n kuvklw/ sunechv~ ejstin)». Trad. A. Russo, corsivi miei. Cf. anche Metaph. q 8, 1050b 28 ss.: «Tuttavia, anche le cose che sono in movimento, come la terra e il fuoco, 77
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dosi con regolarità, si rendono immortali ed eterne ( De an. B 415a 26-415b 3);78 così come, infine, è per imitare l’eternità del Primo motore che il primo cielo si muove di un movimento eterno e divino, qual è quello circolare.79 tendono ad imitare gli esseri incorruttibili: infatti sono anch’esse sempre in atto, perché hanno in sé e per sé il movimento». 78 «Infatti la funzione più naturale degli esseri viventi, di quelli che hanno raggiunto lo sviluppo e non sono menomati o non derivano da generazione spontanea, è di produrre un altro individuo simile a sé: l’animale un animale e la pianta una pianta, e ciò per partecipare, nella misura del possibile, dell’eterno e del divino (i{na tou' ajei; kai; tou' qeivou metevcwsin h| / duvnantai ). In effetti è a questo che tutti gli esseri tendono ed è per questo fine che operano gli esseri che operano secondo natura (fine ha due significati: ciò in vista di cui e colui a vantaggio del quale)» (pavnta ga;r ejkeivnou ojrevgetai, kai; ejkeivnou e{neka pravttei o{sa pravttei kata; fuvsin (to; d∆ ou| e{neka dittovn, to; me;n ou|, to; de; w| /).). Trad. Movia, corsivi miei. 79 In effetti la spiegazione del movimento del cielo che fa capo all’imitazione da parte di questo dell’eternità e dell’immobilità del Primo motore risale agli interpreti di Aristotele e non si trova espressa in questi termini nei testi del Filosofo. Da questa interpretazione, fatta propria anche da Alessandro di Afrodisia – stando alle preziose testimonianze degli esegeti arabi, su cui si sono soffermati di recente Natali (1997, Causa motrice…) e Martini Bonadeo (2004) –, deriva l’assegnazione del ruolo di causa finale al Motore immobile, che perciò, secondo l’esegesi tradizionale di Metaph. L 7, muoverebbe il primo cielo esattamente come l’oggetto d’amore e di desiderio muove l’amante (ossia come causa finale; v. supra, nt. 75), e attraverso il primo mobile, ossia il primo cielo, muoverebbe anche tutto il resto. Ora, definendo “platonizzante” l’interpretazione tradizionale e riprendendo una vecchia tesi di C. Giacon, Enrico Berti (2002) ha recentemente respinto la tesi della causalità finale del Motore immobile, assegnando, piuttosto, a quest’ultimo il ruolo di causa motrice o efficiente. In sintesi – ma premetto che la questione merita senz’altro uno spazio ben più ampio di quello che in questa sede io non possa dedicarle –, secondo Berti, il Motore immobile sarebbe sì causa finale, ma solo di se stesso, poiché se fosse fine per altro (nei due sensi di fine indicati da Aristotele, ossia come “obiettivo” o come “beneficiario dell’azione”) dovrebbe essere un fine (o un bene) praticabile e pertanto si muoverebbe. Allo stesso modo il Motore primo sarebbe sì oggetto d’amore (anzi, è il primo dei desiderabili) e di intellezione (è, infatti, il primo degli intelligibili), ma di se stesso. «Fino a questo punto, dunque – conclude Berti a p. 650 – Aristotele ha dimostrato che il Motore immobile pensa se stesso ed ama se stesso, cioè è capace – direbbe Dante – “di intelletto e d’amore”, ovvero, come diciamo noi nel nostro linguaggio giuridico, “di intendere e di volere”. Per questo si può affermare che egli è persona: la definizione giuridica di persona è infatti quella di un essere capace “di intendere e di volere”. E, se è capace di volere […], è anche capace di
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In conclusione, ordine e regolarità rivelano sempre, per Aristotele, telos e to ou heneka; tutto in natura, anche l’organismo apparentemente più disgustoso, si legge in De partibus animalium, I 5, 645a 23, ha del meraviglioso perché rivela, per l’appunto, ordine e regolarità, ossia un fine. Ed in ciò sta la sua bellezza. Ciascuna cosa che ha una funzione, insegna Aristotele nel De caelo,80 muovere come causa efficiente […], una causa efficiente del movimento del cielo, la cui azione motrice è tutt’uno con la sua stessa attività, che è quella di conoscere se stesso e amare se stesso». Il rifiuto di Berti concerne soprattutto, come tesi non aristotelica, la riduzione del Motore immobile a causa esemplare e paradigmatica, operata dagli esegeti di tradizione platonica. Ora, a questo preciso proposito, io mi sento piuttosto di concordare con Natali quando dice – parafrasando Alessandro apud Averroè, Grande commento alla Metafisica – che l’analogia del desiderio e dell’imitazione, da Aristotele usata peraltro molto spesso per spiegare la struttura teleologica del suo universo, non comporta necessariamente l’accettazione del concetto neoplatonico di imitazione intesa come assimilazione al Principio, e la sua applicazione al caso aristotelico, perché il fine, o la causa finale, del movimento del cielo in Metaph. L non è propriamente e immediatamente l’imitazione, bensì il Motore stesso in quanto oggetto d’amore. Che, infatti, l’amore in generale comporti come conseguenza l’imitazione delle azioni migliori (e, nel caso del cielo, il movimento perfetto, immagine della perfezione della vita eterna) si può indurre con evidenza dalla sfera della praxis umana, da cui peraltro il discorso teologico di Aristotele trae spesso paragoni e metafore. In tal modo il Motore non viene inteso, platonicamente, come paradigma da imitare, ma, aristotelicamente, come oggetto d’amore ( wJ~ ejrwvmenon) e quindi come causa finale. Inoltre, affermare che il cielo si muova, analogamente all’uomo amante, per effetto del desiderio del Primo motore trova conferma anche in quanto si legge in De caelo II 285a 29-30 (oJ d∆ oujrano;~ e[myuco~) e 292a 18-21 a proposito dell’animazione dei corpi celesti e dell’assimilazione della loro attività a quella degli esseri terrestri dotati di anima: piante, animali, uomini, tutti tesi, come il cielo, al raggiungimento della loro perfezione. Infine, come si concilierebbe l’incorporeità e l’immobilità del Primo motore con quella che è la principale caratteristica della causa motrice, e cioè con il muovere “per contatto”, che implica sempre, nell’atto del movimento, un patire (e quindi un movimento) anche da parte dell’agente? «Questo poi ( scil. il motore) – si legge infatti in Phys. III 2, 202a 3-4 – agisce per contatto ( poiei`` qivxei), sicché contemporaneamente anche patisce (w{ste a{ma kai; pavscei)». A questo punto, comunque, nonostante la mia posizione sia rimasta legata alla cosiddetta interpretazione tradizionale, sento il dovere di ringraziare il Prof. Berti per avermi dato l’opportunità di discutere con lui questa ed altre importanti “questioni aristoteliche”. 80 De caelo II 286a 8 ss.
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esiste in vista di questa funzione. Ora, vi è più finalità e bellezza nelle opere della natura – lo abbiamo letto in De part. anim. I 1, 639b 19-21 – che in quelle della tecnica; ed è, precisamente, alla bellezza delle cose naturali, alla loro perfezione, tanto più sublime quanto più essa nasce da movimenti inconsapevoli e immediati, che l’uomo guarda quando realizza i suoi prodotti, cercando di emularla e di riprodurne con fatica i processi. Così come è alla bellezza e alla perfezione del Pensiero puro che egli guarda quando agisce e, soprattutto, quando contempla. È questa la cosa in assoluto più bella, la prima tra tutte quante, l’oggetto più alto di desiderio e d’imitazione, quel motore primo che, sia pur immobile, anzi proprio perché immobile, è, per Aristotele, la prima causa del movimento dell’universo intero, 81 dalla quale – Aristotele lo afferma esplicitamente in Metafisica L 7, 1072b 14 e in De motu 700a 5 – «cielo e natura dipendono».82
Affermare che il Primo Motore sia la causa prima, o il primo principio (diretto per il primo cielo, indiretto per il resto dell’universo) del movimento dell’universo non significa, a mio parere, assegnargli il ruolo di causa motrice o efficiente; con l’espressione ajrch; kinhvsew~, infatti, Aristotele intende anche la causa finale, ad esempio in Metaph. Q 8, 1050a 8: ajrch; ga;r to; ou| e{neka. Cf., a tal proposito, Natali (1997, Causa motrice…), p. 112: «per Aristotele la causa finale è una causa del movimento, e quindi egli può sempre far cenno al movimento che da essa dipende, senza farne con questo una causa motrice». V. anche sopra, nt. 79. 82 Fisica VIII 6, 259b 32-260a 3: «Ma se davvero esiste sempre qualcosa di siffatto, che muove alcunché, ma esso stesso è immobile ed eterno, anche la prima cosa mossa da questo è necessariamente eterna. Ciò è chiaro pure dal fatto che gli enti non avrebbero in altro modo generazione, corruzione e mutamento, se li muove qualcosa che è mosso». Sull’argomento si veda anche W. Kullmann (1986), p. 186: «[…] the causality of the PM [scil. del Primo Motore] acts not to override but to complete the immanent causality of the thing’s specific nature: this nature is always an internal source of motion as such comes from the Prime Mover». 81
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LA “CAUSA MOTRICE” IN ARISTOTELE, PHYS. III 1-3 Giovanna R. Giardina *
Premessa
Sin dalle prime linee del libro III della Fisica, Aristotele è impegnato nell’avviare concretamente la trattazione della nozione di movimento, allo scopo di completare le problematiche affrontate precedentemente, ovvero quella del divenire del libro I e quella della fuvsi~ del libro II. Ora, la nozione di divenire, così come risulta dalla trattazione del libro I, discende teoreticamente dalla fondazione dei principi dell’ente naturale, il quale è definito all’interno della trattazione della fuvsi~ del libro II come ciò che ha in se stesso il principio del movimento e della quiete.1 Quindi, dopo aver discusso dell’ente naturale come di “ciò che diviene” (to; gignovmenon) e di “ciò che cresce” ( to; fuovmenon),2 Aristotele prosegue studiandolo come “ciò che è mosso” ( to; kinouvmenon), con la differenza che quest’ultimo non può essere sganciato dal suo correlativo, ovvero da “ciò che muove” ( to; kinou'n). Ma il movimento – con il quale rimane costantemente legata la causa motrice –, così come è trattato nei primi tre capitoli del libro III, sembra costituire il cuore stesso della Fisica aristotelica, nella misura in cui, oltre che perfezionare le argomentazioni che lo precedono, gioca un ruolo fondamentale nella progressione del trattato, per* Università di Catania. 1 Per tutto questo discorso si cf. la premessa di Phys . I 1, 184a10-16 e la fondazione dei principi del divenire in Phys. I 7; cf. anche Phys. II 1, 192b13-14. 2 Il termine natura (fuvsi~) precisa quello di generazione (gevnesi~) in quanto specifica che si tratta di una generazione naturale, di una gevnesi~ fusikhv, poiché la dottrina della generazione e, in generale, del divenire è, nella prospettiva aristotelica, la fondazione di una scienza fisica, ovvero di una scienza degli enti naturali.
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ché rende possibile la trattazione del mutamento e si pone come elemento determinante dei tre studi distinti e annunciati da Aristotele in Phys. II 7, 198a29-31: a) lo studio di ciò che è immobile,3 b) quello di ciò che è mosso ma incorruttibile,4 c) quello dell’essere mosso e corruttibile. 5 L’analisi del movimento in Phys. III 1-3, quindi, ha un carattere tale che la rende applicabile tanto agli enti del mondo sublunare quanto a quelli del mondo sopralunare fino a giungere a ciò che trascende il movimento stesso, il Primo Motore Immobile. Di conseguenza si può dire che la Fisica apra la strada alla filosofia prima. 6 Infine, per dovizia di completezza, occorre non trascurare il fatto che tale dottrina del movimento, che in Phys. III 1-3 è trattata in modo generale, è utilizzata secondo modi specifici nei vari trattati fisici particolari, e anzitutto nel De motu animalium e nel De generatione animalium.7 La tesi di fondo di questa mia argomentazione è che la problematica del movimento è legata a quella della causa motrice, nella misura in cui “ciò che è mosso” ( to; kinouvmenon), come ho già detto, non può esistere senza “ciò che muove” ( to; kinou'n). Parlando del divenire nel libro I, Aristotele ha evitato a ragion veduta di spiegare nei particolari il ruolo che in esso ha il movimento e la stessa cosa è avvenuta nel caso della natura, ma, una volta acquisite le nozioni di divenire e di natura, la progressione dell’argomentazione esige la conoscenza precisa di che cosa sia il movimento, come Aristotele stesso ci dice in Phys. III 1, 200b12-15: «poiché la natura è principio di movimento e di mutamento e la nostra ricerca riguarda la natura, occorre che non resti nascosto che cosa sia movimento, perché ignorando questo si ignora necessariamente anche la natura ( ∆Epei; d∆ hJ fuvsi~ mevn ejstin ajrch; kinhvsew~ kai; metabolh'~, hJ de; mevqodo~ hJmi'n peri; fuvsewv~ ejsti, dei' mh; lanqavnein tiv ejsti kivnhsi~: ajnagkai'on ga;r ajgnooumevnh~ aujth'~ ajScil . il Primo Motore Immobile. 4 Scil . gli enti del mondo sopralunare. 5 Scil . gli enti del mondo sublunare. 6 Cf. L. Couloubaritsis (2001), pp. 213 ss. 7 Non è un caso che all’inizio del trattato De generatione animalium Aristotele affermi che egli tratterà il problema avvalendosi della causa motrice. 3
LA “CAUSA MOTRICE” IN ARISTOTELE, PHYS. III 1-3
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gnoei'sqai kai; th;n fuvsin)». Così, la causa motrice, che aveva fatto
la sua apparizione nel libro II, trova la sua trattazione dettagliata nel libro III. In Phys. II 3 Aristotele affronta il problema delle cause in modo esplicito,8 teorizzando che le cause sono solo di quattro specie, e sono cioè la causa materiale, la causa formale, la causa motrice e la causa finale. 9 Tuttavia, di queste quattro cause, solo le cause materiale, formale e finale trovano posto in questi primi due libri: la causa materiale in Phys. I 7-9, la causa formale in Phys. I 7-9 e II 1, e la causa finale in Phys. II 4-8, mentre la causa motrice è trascurata: la ragione potrebbe essere che Aristotele considera la È noto che sul concetto aristotelico di causa è in atto da diversi anni un vasto dibattito che continua, fino ai nostri giorni, a impegnare e a separare gli studiosi. Si registrano infatti molte posizioni, provenienti soprattutto dall’area anglosassone, tali da rendere difficile anche una loro sintesi. Il problema nasce dal fatto che la dottrina aristotelica delle quattro cause è molto lontana dal modo moderno di intendere la causa e i rapporti causali – cf. D.J. Allan (1965), pp. 1-18; M. Bunge (1959); W.A. Wallace (1972-1974) –, e a questo si aggiunge il fatto che Aristotele utilizza due termini per dire la causa, e cioè aijtiva e ai[tion, che a mio modo di vedere (e come peraltro ho cercato di dimostrare con una relazione presentata al Colloquio internazionale Aristote et la question de la causalité tenutosi a Bruxelles nei giorni 26-28 agosto 2002) non sono affatto sinonimi. Una corrente ermeneutica piuttosto corposa, anche questa principalmente di area anglosassone, tende a comprendere e spiegare la dottrina aristotelica delle cause come una dottrina dell’ explanation o del because, sulla base di quanto Aristotele dice sia in Phys. II 7 sia in APo. I 13. Si vd. a questo proposito J. Annas (1982), pp. 311-326; M. Frede (1987), pp. 125-150; M. Hocutt (1974), pp. 385399, contro il quale si vd. la riflessione di G.R.G. Mure (1975), pp. 356-357. Sull’argomento si vd. ancora i contributi di J.M.E. Moravcsik (1974), pp. 3-17, Id. (1975), pp. 622-638, Id. (1995); di C. Natali (1997), pp. 113-124. 9 Poiché è compito del fisico conoscere le quattro cause ( Phys. II 7, 198a2224), si potrebbe ritenere che dei fenomeni naturali il fisico debba trovare sempre tutte e quattro le cause. In realtà, come fa notare W. Charlton ( Aristotle’s Physics I-II , by W. Charlton, Oxford 1971), Aristotele intende che è compito del fisico cercare di conoscere un ente naturale indagandolo sulla base di tutte e quattro le cause, ma ciò non significa che per ciascun ente fisico ci siano sempre quattro cause. Ad esempio, le eclissi, che pure non hanno né causa materiale né causa finale, tuttavia sono fenomeni naturali. Quindi, compito del fisico è indagare ricercando tutte e quattro le cause, ma il fisico non può essere certo di trovarle tutte in ogni fenomeno naturale (cf. anche J. Follon (1988), pp. 330-331). 8
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causa motrice come particolarmente legata al movimento, che è oggetto specifico del libro III: infatti, la indica di volta in volta o come “ciò che muove” o “ha mosso” ( to; kinou'n o to; kinh'san), o come “ciò da cui ha origine il movimento” (to; o{qen hJ kivnhsi~), o come “ciò da cui ha origine il principio del mutamento o della stasi (o{qen hJ ajrch; th'~ metabolh'~ h] stavsew~)”.10 Un’ultima considerazione per completare questa premessa. I libri VII e VIII della Fisica accentuano il ruolo della causa motrice, anche se l’apparire di un Primo Motore Immobile apre la possibilità di una causa finale per ciò che è ultimo. Come è noto, è nel libro L della Metafisica che quest’ultima causa si manifesta in modo decisivo, grazie alla definizione di Dio come ciò che muove in quanto è amato. Ma, fra l’indeterminatezza di questo argomento in Fisica VIII e la sua formulazione definitiva in Metafisica L, si colloca una differenza sottile fra fisica e metafisica. Tale differenza ci permette di supporre che, nella Metafisica, la questione della causalità stabilita nella Fisica deve giocare un ruolo che è specifico della filosofia prima. Quindi, se per Aristotele non c’è veramente scienza se non attraverso la conoscenza delle cause, si comprende non soltanto il costante ricorso alle cause dei trattati fisici che fanno seguito alla Fisica, ma anche il ruolo che le cause occupano nella Metafisica : il problema della causalità potrebbe allora costituire un argomento discriminante fra la fisica e la filosofia prima se si comprende quale sia la differenziazione, all’interno di una medesima dottrina, quella della causalità appunto, che conduce alla conoscenza sia dell’essere in divenire sia dell’essere in quanto essere.
Questa prospettiva sfuma un poco la correttezza dell’interpretazione tradizionale che attribuisce una particolare forza alla causa formale, perché se è vero che l’ente naturale trova la sua spiegazione principalmente grazie alla causa formale, tuttavia risulta vero anche che tale ente naturale non può essere spiegato nella sua pienezza e completezza soltanto sulla base della causa formale, per ché senza la causa motrice non ci è possibile conoscere ciò a partire da cui un ente è ciò che è. 10
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Definizione di movimento in Phys. III 1-2, 200b12-202a3
Dopo aver premesso, alle linee 200b12-28, il programma di studio che intende seguire, 11 Aristotele intraprende immediatamente la trattazione del movimento in generale, esponendo quattro assiomi che gettano le basi indispensabili per la definizione del movimento e per lo svolgimento dell’argomentazione su di esso. Le cose che Aristotele ha interesse di stabilire sono queste quattro: 1) ci sono enti che sono in potenza e in entelechia “insieme” (200b 26-28): questo assioma ci sarà chiarito dall’esempio di caldo-freddo che si legge alle li. 201a19ss.; 2) il movimento è possibile soltanto tramite una relazione, che è subito stabilita come la relazione fra “ciò che è capace di agire” (poihtikovn) e “ciò che è capace di patire” (paqhtikovn), e, in generale, come fra “ciò che è capace di muovere” ( kinhtikovn) e “ciò che è mobile” (kinhtovn) (200b28-32). In questo secondo assioma la nozione di causa motrice viene ancora presentata allo stato potenziale di poihtikovn-kinhtikovn; 3) il movimento non può esistere fuori delle cose 12 e precisamente fuori da quelle che cadono sotto le categorie di sostanza, quantità, qualità e luogo. In realtà, qui Aristotele non sta pensando al movimento soltanto, ma ha in mente in modo più specifico il divenire nel suo complesso, cioè il nascere e il mutare tramite il movimento che li attua, e per questa ragione Aristotele: – assume tutte e quattro queste categorie, anche quella di sostanza, che invece dovrebbe rimanere esclusa se si trattasse semplicemente di movimento e non anche di mutamento, dal moSi tratta, come si può facilmente notare, della materia trattata nei libri III e IV della Fisica, poiché nel terzo libro Aristotele si occupa del movimento (capp. 1-3) e dell’infinito (capp. 4-8), mentre nel IV libro si occupa del luogo (capp. 1-5), del vuoto (capp. 6-9) e del tempo (capp. 10-14). 12 L’espressione generica ta; pravgmata indica ovviamente gli enti naturali, quindi indagare sugli enti naturali significa immediatamente indagare sul movimento e, viceversa, indagare sul movimento è necessario se si vuole conoscere gli enti naturali. 11
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mento che, secondo Aristotele, non c’è movimento della sostanza;13 – nell’usare espressioni quali: «infatti ciò che muta muta sempre o secondo la sostanza o secondo il quanto o secondo il quale o secondo il luogo (metabavllei ga;r ajei; to; metabavllon h] kat∆ oujsivan h] kata; poso;n h] kata; poio;n h] kata; tovpon )» (200b33-34); e «sicché non ci sarà né movimento né mutamento di nulla oltre i tipi già detti (w{st∆ oujde; kivnhsi~ oujde; metabolh; oujqeno;~ e[stai para; ta; eijrhmevna)» (201a1-2), mostra di pensare al mutamento così come al movimento, se non più al primo che al secondo; 4) ciascuna di queste categorie che vengono predicate delle cose in movimento appartiene a queste in un duplice modo: come forma (morfhv) e come privazione (stevrhsi~), per cui del “questo determinato” ci sarà la sua forma o la sua privazione, del “quale” il bianco o il nero, del “quanto” il compiuto o l’incompiuto, “secondo la traslazione” l’alto o il basso oppure il leggero o il pesante. Tutti questi sono esempi di forma e privazione di ciascun modo della suddetta predicazione (Phys. 201a3-9). Mediante tali assiomi il discorso del movimento è impostato sulla base delle coppie potenza-entelechia e privazione-forma, è impostato cioè come un processo che conduce l’ente da uno stato di privazione della forma a uno stato il cui termine ultimo è il possesso compiuto della forma: sotto questo profilo il movimento comincia a delinearsi come un passaggio fra due determinazioni contrarie.14 A questo punto Aristotele può fornire la sua definizione generale di movimento: «l’entelechia di ciò che è in potenza in quanto tale è movimento ( hJ tou' dunavmei o[nto~ ejntelevceia, h|/ toiou'ton, kivnhsiv~ ejstin )», 15 definizione che viene specificata seCf. Phys. V 2, 225b10-11; si vd. G.R. Giardina (2002), pp. 33 ss. 14 Si tratta invece del “passaggio” fra due contraddittori nel caso della sostanza, della quale secondo Aristotele c’è mutamento ma non movimento. Cf. Cat. 6, 6a17-18 e De Interpr . cap. 14 oltre che cap. 6, 17a31-34. Sulla contraddizione si cf. Cat. 9-10, 11b17-23. Si vd. sull’argomento J.P. Anton (1957). Sul problema dei contrari nel mutamento si cf. anche J. Bogen (1992), pp. 1-21. 15 Phys. III 1, 201a10-11, cf. D.W. Graham (1988), pp. 209-215 e, sul significato cinetico di entelechia, in questo passaggio aristotelico, si vd. Chung-Hwan 13
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condo i quattro modi di predicazione già enunciati, ivi compresa la sostanza, di cui c’è generazione e corruzione, segno questo che Aristotele ha ancora una volta in mente un movimento di cose come sostanze, cioè un movimento-mutamento. Per chiarire la sua definizione egli propone l’esempio del costruibile ( to; oijkodomhtovn) che, in quanto tale è nel suo stato potenziale, mentre quando è in entelechia, ovvero in movimento, si costruisce (oijkodomei'tai) e questo costruirsi è una costruzione nel senso della costruzione in corso (oijkodovmhsi~). Il primo termine dell’esempio, to; oijkodomhtovn, con la sua stessa desinenza di aggettivo verbale, si qualifica come ente in potenza, come un dunatovn, ma è un dunatovn con una sua specificità intrinseca, come avviene sempre in Aristotele, poiché questo specifico dunatovn si presenta come oijkodomhtovn, cioè come una casa che si può costruire: evidentemente, diremmo noi, si tratta di mattoni, di pietre e cose simili. Quando questo ente potenziale, che possiede una sua specificità, sia in entelechia, ovvero quando si avvia il suo processo di realizzazione verso ciò che esso è in potenza, cioè verso la forma di cui è privo, nella fattispecie verso una forma di casa, allora si ha movimento, e questo particolare movimento di cui stiamo discutendo è la costruzione della casa, cioè la oijkodovmhsi~. Se avessimo ancora il dubbio di come dobbiamo intendere questo termine, cioè se dobbiamo intendere la costruzione della casa come il processo del suo attuarsi oppure come momento finale del suo attuarsi, cioè come la casa in costruzione o la casa già costruita, il dubbio ci viene subito dissolto da quanto Aristotele ci dice subito dopo. La stessa definizione, ci dice infatti Aristotele, possiamo dare ad altri movimenti, ad esempio all’apprendimento (mavqhsi~), alla guarigione (ijavtreusi~), alla rotazione (kuvlisi~), al salto ( a{lsi~), alla crescita ( a{drunsi~) e a l l’invecchiamento (ghvransi~): tutti termini che hanno la desinenza -si~, la quale indica la processualità, dal momento che lo Stagirita non dice, ad esempio, ijatreiva, che significa pure guarigione, benChen (1958), p. 14 nota 1. Cf. anche Metaph. K 9, 1065b33, in cui si legge: hJ tou' dunatou' kai; h| / dunato;n ejntelevceia kivnhsiv~ ejstin.
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sì ijavtreusi~, che significa l’esercizio della guarigione, la guarigione nel suo farsi, e così non dice gh'ra~, che significa la vecchiezza nel suo stato compiuto, ma dice ghvransi~ che significa il processo dell’invecchiamento. Allo stesso modo la mavqhsi~ è l’apprendere nel processo dell’apprendimento mentre la maqhteiva è l’apprendimento come compiuta istruzione. Sulla base di questa terminologia potremmo allora dire, insieme ad Aristotele, così: quando chi è capace di apprendere, cioè colui che noi diciamo “capace di apprendere” in quanto tale, si trovi in entelechia, allora sta apprendendo, e questo processo lo chiamiamo apprendimento, mavqhsi~ (e non maqhteiva). L’entelechia che entra in gioco nella definizione del movimento, allora, non è, per forza di cose, atto nel senso dell’ejnevrgeia, cioè nel senso della compiutezza di un ente che ha completato l’acquisizione di una forma determinata, poiché quando c’è l’ ejnevrgeia non c’è più movimento e quindi non c’è più entelechia. 16 Semmai l’ejnevrgeia è presente come tevlo~, come termine e causa finale del movimento, cioè come orientamento del movimento verso una determinata forma già realizzata. Poiché Aristotele ha definito il movimento nei termini che egli utilizza per determinare il primo assioma, quello cioè degli enti che sono al tempo stesso in potenza e in entelechia, egli deve adesso chiarire il suo discorso, il che gli consente anche di passare Credo che sul significato di ejntelevceia e di ejnevrgeia occorra ancora discutere a lungo, ma non sono d’accordo, evidentemente, con chi, come M.L. Gill (1980), p. 130 e p. 134, ritiene ed afferma che ejntelevceia ed ejnevrgeia siano sinonimi in Aristotele. L’intendere come sinonimi questi due termini induce a confusione e imprecisione ermeneutica, come nel caso, ad esempio, del passaggio di Aristot., Phys. III 1, 201a27-29. Per quanto concerne il dibattito sul significato di ejntelevceia: tale termine viene inteso nel senso di attualizzazione da Ross (cf. la sua traduzione della Fisica del 1936, p. 536); J.L. Ackrill (1965), pp. 138-140; T. Penner (1970), pp. 427-433; è invece inteso nel senso di attualità da L.A. Kosman (1969), pp. 40-62 e (1984), pp. 121-149; J. Hintikka (1977), pp. 59-77. Per una discussione dettagliata della differenza che sussiste fra ejntelevceia ed ejnevrgeia si cf. anche L. Couloubaritsis (1997), pp. 266 ss., M.Th. Liske (1991), pp. 161-179; Chung-Hwan Chen (1956), pp. 56-65 e (1958), pp. 12-17. Confonde ejntelevceia ed ejnevrgeia R. Brague (1991), pp. 107-120. Legate a questo articolo di R. Brague mi sembrano poi le argomentazioni di B. Besnier (1997), pp. 15-34. 16
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alla coppia di termini che ci ha introdotto nel secondo assioma, cioè poihtikovn-paqhtikovn, che altro non sono che kinhtikovnkinhtovn. Occorre spiegare, infatti, in che senso un ente può dirsi in potenza e insieme in entelechia. Ovviamente, un ente, se guardato sotto il medesimo rispetto, non può possedere contemporaneamente due determinazioni contrarie, ma per farci comprendere la sua espressione Aristotele ricorre all’esempio del caldo e del freddo: uno stesso ente può essere caldo in potenza e freddo in entelechia, nel senso che è una cosa fredda che sta diventando calda. Questo provoca una reciprocità di azione e passione, perché nella stessa cosa il caldo agisce sul freddo e quest’ultimo subisce il caldo di modo che nella cosa si va realizzando ciò che è in potenza. Se Aristotele, anziché dire qermo;n me;n dunavmei yucro;n de; ejnteleceivaÛ avesse detto qermo;n me;n dunavmei yucro;n de; ejnergeivaÛ , nel senso cioè che l’ente fosse in atto freddo e per nulla caldo, allora la qualità in potenza dell’ente, cioè il caldo, sarebbe stata soltanto in potenza e neppure dinamicamente in atto, cioè in entelechia, per cui non ci sarebbe stata alcuna reciprocità di azione-passione fra qualità contrarie e, di conseguenza, non ci sarebbe alcun movimento. Al contrario, nell’ente che diventa caldo, il freddo c’è ancora, anche se non è più freddo in atto, perché il caldo in potenza comincia a realizzarsi: e questo ci risulterà evidente da ciò che Aristotele ci dirà fra poco, alle li. 201b5-15. Questo rapporto di qualità contrarie, che nell’esempio sono caldo-freddo, rende possibile l’agire e il patire di uno stesso ente contemporaneamente (a{ma), perché se è vero che uno stesso ente non è contemporaneamente e sotto il medesimo rispetto caldo e freddo, tuttavia l’agire dell’uno è, contemporaneamente, in esso, il patire dell’altro. 17 Questo ci introduce al rapporto motore-mobile. Nella frase successiva, infatti, Aristotele trae la conseguenza del suo ragionamento dicendo: «sicché anche ciò che muove nell’ambito degli enti naturali è mobile ( w{ste kai; to; kinou'n fusikw'~ kinhtovn ), perché Aristotele non avrebbe potuto dirci freddo in potenza e freddo in entelechia, perché se è freddo in entelechia non lo è più solo in potenza. Ciò che l’ente è in entelechia, in questo caso freddo, è l’indicazione di un movimento, sia che sia agito sia che sia subito. 17
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tutto ciò che è siffatto muove essendo esso stesso in movimento (pa'n ga;r to; toiou'ton kinei' kinouvmenon kai; aujtov)».18 Unica avvertenza di Aristotele è che questo non vale sempre, perché esiste anche un motore immobile, il cui studio è oggetto di altre trattazioni. La conclusione è quindi che: «l’entelechia di ciò che è in potenza, quando, essendo in entelechia, opera 19 non in quanto è quello che è ma in quanto mobile, è movimento (hJ de; tou' dunavmei o[nto~ ãejntelevceiaÃ, o{tan ejnteleceiva/ o]n ejnergh'/ oujc h|/ aujto; ajll∆ h|/ kinhtovn, kivnhsiv~ ejstin )». 20 Il movimento si realizza quando un
ente in potenza opera non in quanto se stesso, cioè in quanto è puramente in potenza ciò che può divenire, ma quando, essendo in entelechia, sta realizzando la sua potenza, cioè è mobile o come ciò che si sta costruendo, o come colui che sta apprendendo o come colui che sta guarendo, eccetera. L’importanza del fatto che l’ente deve essere in potenza e in entelechia contemporaneamente risiede in questo: se l’ente è visto in se stesso, cioè come atto compiuto o come pura potenza, per cui non è in fase di attuazione, non ha movimento alcuno, perché ha movimento solo quando la potenza si sta realizzando, per cui è in entelechia, in quanto, non essendo ancora del tutto realizzato, è ancora in potenza. E se ci sono contemporaneamente la potenza e l’entelechia c’è, contemporaneamente, la reciprocità dell’agire e del patire, perciò ci sono tutte le condizioni del movimento, cioè il movimento stesso e la sua causa. Come se il discorso non fosse già di per sé chiaro, Aristotele precisa ancora quanto ha detto: la sua preoccupazione è quella di far capire che cosa sia propriamente il potenziale, il dunatovn di cui l’entelechia è movimento. Innanzi tutto, quindi, egli chiarisce in che senso dice dell’ente in potenza “in quanto se stesso”. Il bronzo è, ad esempio, una statua in potenza, ma il movimento del bronzo che diviene statua non è affatto entelechia del bronzo come bronzo, perché il bronzo in potenza è soltanto se stesso e Phys. III 1, 201a23-25. 19 Qui il verbo indica un’azione processuale dell’ente intesa all’attuazione della sua potenza. 20 Cf. Phys. III 1, 201a27-29. 18
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niente altro, è cioè ciò che è in atto, cioè bronzo, e ciò che è in potenza nel senso della pura possibilità di diventare statua: nell’uno e nell’altro caso non c’è alcun movimento del bronzo e questo bronzo, visto in questi termini, non diverrà mai una statua, per cui non ci sarà alcun movimento. Al contrario, il bronzo non ancora formato come statua diverrà bronzo formato come statua qualora lo si consideri dal punto di vista della sua mobilità specifica di divenire statua, cioè se lo si consideri, in ultima analisi, come un potenziale privativo.21 Infatti, il bronzo in potenza, che altro non è che bronzo, e il bronzo come potenziale privativo, ciò che è capace di patire il movimento specifico di divenire statua, non sono la stessa cosa: 22 allora l’entelechia di un potenziale-privativo è movimento, cioè è movimento il realizzarsi verso una forma compiuta di statua di un bronzo che non è considerato sotto l’aspetto del fatto che è bronzo, bensì sotto l’aspetto di ciò che è capace di acquisire la forma di statua, quindi come mobile. Se il bronzo in potenza, cioè il bronzo come bronzo, e il bronzo come mobile, cioè il bronzo come ciò che è capace di patire il movimento specifico di divenire statua, fossero la stessa cosa in senso assoluto e secondo la definizione, allora sì, sarebbe movimento l’entelechia del bronzo in quanto bronzo. Ma non è così, ed è chiaro dai contrari, perché il poter essere in buona salute e il poCf. anche M.L. Gill (1980), p. 132. 22 Nel De aeternitate mundi contra Aristotelem , anticipando un argomento che riprenderà nel più tardo De opificio mundi , Giovanni Filopono attacca l’argomento aristotelico dell’eternità del mondo distinguendo giustamente i contrari in contrari propri e contrari privativi. I contrari propri, infatti, come ad esempio caldo-freddo, umido-secco, bianco-nero, non possono essere considerati alla stessa stregua dei contrari privativi, come ad esempio uomo-non uomo. Da qui Filopono obiettava ad Aristotele l’errore di avere considerato per il cielo un contrario proprio al moto circolare, contrario che non esiste, ma di non aver considerato il suo contrario privativo: l’immobilità, cf. G.R. Giardina (1999), p. 29. In effetti, questa lezione aristotelica è abbastanza chiara già a partire dal I libro della Fisica, perché nel cap. 7 di questo libro, in cui Aristotele fonda la sua teoria del divenire, è proprio la predicazione privativa che consente di stabilire che il sostrato, nel divenire di una sostanza, è già qualcosa di sostanziale privo della forma che acquisirà dopo il processo di divenire, cf. G.R. Giardina (2002), pp. 107-108. 21
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ter essere malato non sono la stessa cosa, e comunque il soggetto (to; uJpokeivmenon), di cui si afferma il sano o il malato, è unico e lo stesso (taujto;n kai; e{n). In altri termini, il problema è quello di comprendere che cosa sia il dunatovn in questione. Infatti, il bronzo è un dunatovn, in quanto è in potenza una statua o qualsiasi altra cosa fatta di questo materiale. Se noi pensiamo al bronzo in quanto bronzo, allora la sua entelechia non sarà un diventare statua, perché il bronzo in quanto bronzo non è un dunatovn specificamente indirizzato ad assumere la forma di statua, ma è o un ente in atto, perfettamente compiuto in se stesso, perché è appunto bronzo, oppure è un ente che in potenza può essere qualsiasi cosa e non necessariamente una statua. Ma se noi pensiamo al bronzo come un dunatovn in funzione di un fine determinato, del tevlo~ di statua, allora questo bronzo è in potenza una statua e la sua entelechia di bronzo potenzialmente statua è movimento verso la realizzazione della statua. Allo stesso modo potremo dire, ad esempio, che l’entelechia del legno non in quanto tale, ma in quanto in potenza un letto, sarà il movimento della realizzazione del letto, e così via. Questo dunatovn è, quindi, un mobile nel senso di qualcosa che è già orientato verso l’acquisizione di una forma, 23 che è il suo fine e che è potenzialmente contenuta nell’ente stesso, una forma che, come vedremo fra poco, ha bisogno di un ente esterno per poter essere realizzata. Da quanto si è detto appare chiaro che, per comprendere il discorso che Aristotele fa sul movimento, occorre tenere presente quanto ci ha insegnato nel libro I della Fisica. Aristotele ha in mente un divenire dell’ente che si fonda su tre principi: il soggetto, la privazione e la forma. Che con il problema del movimento egli abbia in mente il problema di come questo divenire, fondato su questi tre principi, divenga, cioè come il soggetto passi dal suo stato privativo al suo stato di compiuto possesso della forma, è chiaro sia da questi passaggi che ho appena analizzato, in cui Aristotele si preoccupa di definire il dunatovn (per cui, ad un certo 23
Cf. R. Brague (1991), p. 117.
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punto, utilizzando la terminologia del I libro, ci spiega che il soggetto, to; uJpokeivmenon, comunque è uno e lo stesso anche se si afferma di esso che è sano e malato), sia dal secondo capitolo di questo libro III. Infatti, la critica che Aristotele indirizza ai Pitagorici e a Platone, 24 a causa del loro modo di collocare il movimento, gli è funzionale a chiarire meglio il discorso, perché gli consente di mostrare che costoro hanno posto il movimento fra i principi della seconda sustoiciva (dicendo che esso è alterità, disuguaglianza e non essere), 25 in quanto è sembrato loro essere qualcosa di indefinito alla stessa maniera di quei principi, che appaiono indefiniti per il fatto che sono privativi ( dia; to; sterhtikai; ei\nai ajovristoi).26 Il problema di Aristotele è qui quello di differenziare la potenza dalla privazione, che sotto certi aspetti potrebbero sembrare la stessa cosa, perché l’ente in potenza è una sostanza, e quindi composto di materia e forma, e inoltre, in quanto è in potenza, è già orientato verso qualcosa, nella misura in cui, ad esempio, il legno è in potenza un letto o un tavolo o una sedia eccetera, ma non è, ad esempio, in potenza un uomo. La privazione, in quanto privazione, è sotto certi aspetti una potenza, perché è, ad esempio, il legno che può divenire un letto, ma non è una semplice potenza, perché è il legno che può essere un letto e non un’altra cosa, quindi è l’ente visto sotto l’aspetto particolare Cf. Plat., Soph. 256d-e e Tim. 57e-58c. 25 Si tratta di un’allusione alle due colonne di termini opposti di origine pitagorica, di cui i termini dell’una erano quelli positivi e i termini dell’altra erano quelli negativi o privativi. In Metaph. A 5, 986a22-26, Aristotele riporta le coppie che compongono le due colonne di termini opposti: limite-illimitato, disparipari, uno-multiplo, destra-sinistra, maschio-femmina, in riposo-mosso, retto-curvo, luce-tenebra, bene-male, quadrato-rettangolo. Tuttavia, come fa notare F. De Gandt (1991), p. 87, in questa lista non c’è la coppia essere-non essere, come ci si aspetterebbe dall’affermazione che Aristotele fa in Phys. III 2, 201b15-21, secondo cui il movimento sarebbe “alterità, disuguaglianza e non-essere”. 26 Cf. Metaph . Q 6, 1048b29-35. Aristotele dice che nessuno dei principi di questa seconda colonna appartiene ad alcuna delle categorie. È alquanto curioso che Aristotele dica che tutti i termini della seconda colonna non appartengano ad alcun genere. Filopono, In Phys. 365,10 fa notare questa difficoltà. Si può tuttavia comprendere il testo nel senso che l’alterità, la disuguaglianza e il non essere non appartengano a nessun genere, ed escludere gli altri principi. 24
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del poter essere specificamente qualcosa e non un’altra, anch’essa possibile a livello potenziale. È allora la privazione che consente il movimento e non la potenza in quanto tale, per cui il movimento sarà entelechia del mobile e non di ciò che è in potenza tout court.27 Ma occorre fare un piccolo passo indietro. Dopo aver chiarito in che senso occorra considerare l’ente in potenza di cui l’entelechia sia movimento, Aristotele ritorna a chiarire il senso dell’ente che essendo in entelechia opera, di cui aveva parlato alla li. 201a28 (o{tan ejnteleceiva/ o]n ejnergh'/ ) e in cui risiede il senso dell’entelechia e della compresenza di potenza ed entelechia in un medesimo ente. Afferma infatti Aristotele: «che dunque il movimento sia questo e che accada che, allora c’è movimento, quando l’entelechia sia questa, e né prima né dopo, è chiaro ( o{ti me;n ou\n ejstin au{th, kai; o{ti sumbaivnei tovte kinei'sqai o{tan hJ ejntelevceia h\/ aujthv, kai; ou[te provteron ou[te u{steron, dh'lon )». 28 Quindi, non
solo si ha movimento a certe condizioni dell’entelechia, ma non c’è movimento né prima né dopo che l’entelechia agisca nel modo che si è detto. Il prima e il dopo, infatti, come si scoprirà nel corso di Phys. V 1-2, sono i due momenti del mutamento, momento della privazione il prima e della forma il dopo, mentre il movimento è ciò che collega questi due momenti realizzando il passaggio dall’uno all’altro. Ma vediamo meglio che cosa sia questo agiF. De Gandt (1991), p. 86, nota acutamente che in Phys. III 2 Aristotele invoca l’opinione dei pensatori che lo hanno preceduto (senza nominarli), cosa che gli è perfettamente abituale, ma che questo breve ripasso storico in questo caso non è situato prima del testo in cui Aristotele fornisce la sua visione personale sull’argomento. Al contrario, prima di Phys. III 2, Aristotele ha già definito il movimento. «D’abitude – scrive De Gandt – l’ historia est un préalable à l’établissement correct des principes, ici elle est placée après la définition, pour montrer que celle-ci est bien adéquate et faire comprendre pourquoi il a fallu formuler une définition aussi étrange et contournée. C’est que le mouvement lui même est une entité si étrange». Ma la motivazione per cui Aristotele pone a questo punto il riferimento a Pitagorici e Platonici consiste nel fatto che, proprio a questo punto, lo Stagirita ha di fronte a sé la difficoltà di far comprendere quale sia la differenza fra la potenza e la privazione. 28 Phys. III 1, 201b5-7. 27
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re dell’ente che è in entelechia. «Infatti – ci dice Aristotele – ciascuna cosa ammette talvolta di operare e talvolta no ( ejndevcetai ga;r e{kaston oJte; me;n ejnergei'n oJte; de; mhv ), ad esempio ciò che è costruibile e l’attuazione di ciò che è costruibile ( oi|on to; oijkodomhtovn, kai; hJ tou' oijkodomhtou' ejnevrgeia ), in quanto costruibile (h|/ oijkodomhtovn), è la costruzione ( oijkodovmhsiv~ ejstin), perché la costruzione è l’attuazione di ciò che è costruibile oppure è la casa (h] ga;r oijkodovmhsi~ hJ ejnevrgeia tou' oijkodomhtou' h] hJ oijkiva ), ma quando c’è la casa non c’è più il costruibile ( ajll∆ o{tan oijkiva h\/, oujkevt∆ oijkodomhto;n e[stin), mentre ciò che è costruibile si costruisce (oijkodomei'tai de; to; oijkodomhtovn )».29 In altri termini: dobbiamo distinguere ciò che è costruibile nel senso del dunatovn di cui si è detto – cioè nel senso di un ente in potenza che, tuttavia, contiene in se stesso l’orientamento verso l’acquisizione di una forma possibile piuttosto che di un’altra, la quale rientra ugualmente nella sua capacità o possibilità –, e l’atto che riguarda questo ente costruibile che, da una parte è la costruzione della casa, oijkodovmhsi~, e dall’altra parte è la casa, oijkiva. Tuttavia, l’ejnevrgeia nel senso della casa è un’ ejnevrgeia che ha eliminato totalmente l’ente potenziale, cioè il costruibile, l’oijkodomhtovn, mentre quando l’aspetto potenziale dell’ente non è stato eliminato, perché non ha ancora compiutamente acquisito la forma che esso acquisirà alla fine del movimento in cui è coinvolto, allora c’è un operare che è il costruibile nel suo venire costruito, oijkodomei'tai de; to; oijkodomhtovn, quindi c’è un’ejnevrgeia nel senso di ejnergei'n (li. 201b8, cf. ejnergh' / di 201a28), cioè un processo dell’ente inteso all’attuazione della sua potenza.30 Al contrario, quando c’è la casa, l’ente non ammetPhys. III 1, 201b7-12. 30 Ha torto, quindi, A. Stevens che traduce l’espressione oijkodomei'tai de; to; oijkodomhtovn con “le costructible qui est en train d’être construit”, perché con questa traduzione mostra di aderire alla concezione di Couloubaritsis (1997), pp. 276-279, relativa all’entelechia. Quest’ultimo distingue, infatti, in Aristotele, sulla base del De anima, un’entelechia prima e un’entelechia seconda esemplificate dagli esempi di colui che possiede una scienza e non ne fa uso e di colui che possiede una scienza e ne fa uso. Per Couloubaritsis, infatti, lo stato in potenza di questo esempio è l’ignoranza, cioè la possibilità pura di acquisire scienza. Questo tipo di concezione dell’entelechia in Aristotele viene intesa da Coulou29
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te l’operare, cioè è il caso detto da Aristotele con le parole oJte; de; mhv. È allora in questa processualità che sta il movimento, né prima né dopo, cioè né nel costruibile in quanto pura potenza né nella casa come forma realizzata di quella potenza, bensì nel costruibile che si va costruendo. È necessario quindi, conclude Aristotele, che la costruzione della casa sia atto, oijkodovmhsi~ = ejnevrgeia, e che sia un tipo di movimento, oijkodovmhsi~ = kivnhsiv~ ti~, quello cioè della costruzione. Per la proprietà transitiva possiamo dire, allora, che ejnevrgeia = kivnhsi~, ma con l’accorgimento che Aristotele ci ha insegnato proprio in queste linee, e cioè non nel senso della casa già costruita, che è il caso in cui l’ente non ammette di operare ( ejndevcetai ga;r e{kaston … ejnergei'n oJte; de; mhv ), ma nel senso della cobaritsis come l’avere in sé il telos, e tuttavia mi sembra che l’ente in entelechia possieda in sé il telos in modo molto potenziale. In altri termini, se prendiamo l’esempio non aristotelico della maternità: una donna è madre in potenza quando non ha figli, madre in atto, nel senso dell’ ejnevrgeia, quando ha figli nati, e madre in entelechia, io credo, quando ha in sé il telos nel senso di essere gravida del figlio. In questo senso, dal punto di vista della maternità, la donna è in ben altro stato che quello di essere madre in potenza ed esserlo in atto. Inoltre, è vero che per Aristotele la potenzialità non è mai pura potenzialità, perché altrimenti la materia bronzo, ad esempio, potrebbe essere madre. Al contrario, risiede già nello stato potenziale dell’ente una potenzialità orientata, cioè la possibilità di mutare in tutta una serie di cose e non in altre. Per cui, ridurre l’entelechia nel senso di avere in sé il telos, come intende Couloubaritsis, mi sembra ridurre l’entelechia alla potenza aristotelica. Allo stesso modo, lo stato di chi possiede una scienza e la esercita mi sembra lo stato del motore che muove, cioè un’ ejnevrgeia, una attuazione compiuta. Se, seguendo il nostro esempio, la donna in potenza madre fosse in entelechia nel senso di avere semplicemente in sé il telos della maternità, tale donna non sarebbe affatto in movimento. Ma tale donna sarà nel movimento specificamente orientato verso una maternità compiuta quando sarà gravida del figlio: questo è il movimento volto alla maternità! Del resto, Aristotele nell’espressione oijkodomei'tai de; to; oijkodomhtovn usa il verbo che indica l’azione della costruzione e non lo stato immobile della materia, che può ricevere la forma di casa in procinto di ricevere tale forma. La nozione di “stare per ricevere” indica un futuro, quindi il movimento non è ancora iniziato. Se tale fosse l’entelechia, Aristotele starebbe definendo il movimento mediante uno stato dell’ente che ci mostra l’ente immobile e questo non avrebbe senso, perché la definizione finirebbe per non dire nulla di ciò che vuole definire, ben lungi dal dircene l’essenza.
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struzione della casa, che è il caso in cui l’ente ammette di operare (ejndevcetai ga;r e{kaston oJte; me;n ejnergei'n …). Quanto segue nel secondo capitolo di questo III libro della Fisica ci conferma in questa lettura e aggiunge delle sfumature al nostro discorso. La prova che Aristotele non intende identificare qui il movimento con l’ ejnevrgeia nel senso di atto perfetto e quindi l’entelechia con l’ejnevrgeia sta, del resto, in un’affermazione che segue a breve distanza, alle li. 201b27-29. Traendo le conseguenze che la sua critica ai Pitagorici e a Platone gli offre, Aristotele ci spiega in che senso il movimento sembri indefinito (dokei'n ajor v iston ei\nai): il motivo è che il movimento non risiede in senso assoluto, aJplw'~,31 né nella duvnami~ né nell’ejnevrgeia. Il movimento, infatti, «sembra essere un certo atto, ma incompiuto ( h{ te kivnhsi~ ejnevrgeia me;n ei\naiv ti~ dokei', ajtelh;~ dev )».32 Il movimento, quindi, è propriamente ejntelevceia, che non è più duvnami~ e non è ancora ejnevrgeia. Di fatto, l’ejntelevceia altro non è che una ejnevrgeia ajtelhv~ , cioè un atto incompiuto, ed è incompiuto perché è ancora presente il potenziale, il dunatovn, come nell’oijkodovmhsi~ c’è ancora l’ oijkodomhtovn. Per questo motivo, prosegue ancora Aristotele, è difficile concepire il movimento nel suo “che cos’è” (tiv ejstin): proprio perché, aggiungeremmo noi, sta in qualcosa che non è più e non è ancora, perché non è più in potenza e non è ancora in atto. È necessario collocare il movimento – prosegue Aristotele – o nella privazione, o nella potenza o nell’atto puro (ed ecco ancora una volta intervenire la triade dei principi del divenire, privazione-soggetto-forma), ma nessuna di queste tre operazioni è consentita: 33 qui Aristotele sta mettendo sul tavolo gli stati dell’ente che corrispondono ai tre principi del primo liH. Carteron, nella sua edizione della Fisica, ad. loc. presenta in aggiunta aJplw'~, cioè “in modo assoluto”. Questa lezione è meglio attestata nei manoscritti, anche se Ross ha scelto la versione che sopprime questo termine. Pellegrin lo conserva e così Zanatta e anche a me pare che vada conservato ai fini di una migliore comprensione del testo. 32 Phys. III 2, 201b31. 33 Phys. III 2, 201b33-35: h] ga;r eij~ stevrhsin ajnagkai'on qei'nai h] eij~ duvnamin h] eij~ ejnevrgeian aJplh'n, touvt wn d∆ oujde;n faivnetai ejndecovmenon. 31
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bro (privazione-soggetto-forma), ed è interessante che citi lo stato di compiuto possesso della forma con un aggettivo di accompagnamento che ci aiuta a distinguerlo ancora una volta nei suoi aspetti diversi, perché si tratta qui dell’ ejnevrgeia aJplh' e non dell’ejnevrgeia ajtelhv~. In altri termini, nell’ejnevrgeia ajtelhv~ c’è movimento, mentre nell’ejnevrgeia aJplh' non c’è, e questo conferma ancor di più l’interpretazione che abbiamo dato dell’ultimo passaggio di Phys. III 1. Resta quindi il modo che si è detto ( oJ eijrhmevno~ trovpo~ ), ci dice Aristotele, cioè che il movimento è una certa ejnevrgeia, ma un’ ejnevrgeia tale quale si è detto, difficile a vedersi ma che tuttavia sussiste.34 A questo punto, dopo aver definito il movimento, Aristotele ce lo mostra in concreto, introducendo il rapporto fra motore e mobile che, fino ad ora, aveva soltanto sfiorato. In questo passaggio finale di Phys. III 2 ci imbattiamo nella causa motrice. Ma, prima di iniziare questo discorso, è utile riepilogare quanto fin qui si è detto sul movimento. Nel libro I della Fisica Aristotele ci ha presentato il mondo della natura come il mondo degli enti in divenire e ci ha spiegato questo divenire come un processo fondato su tre principi – soggetto, privazione e forma –, per cui il divenire sarebbe un processo completo che comprende un passaggio di un soggetto, che nel passaggio permane, da un suo stato privativo di una forma determinata a uno stato di possesso di tale forma. Tale divenire, givgnesqai, ci è presentato come un ejx a[llou a[llo o come un ejx eJtevrou e{teron. Nel libro III, poi, Aristotele mostra concretamente “come” il divenire si realizzi, cioè come un a[llo o un e{teron divenga ejx a[llou o ejx eJtevrou. La definizione completa di che cosa sia questo “come”, cioè di che cosa sia il movimento, è quella di Phys. III 1, 201a27-29 di cui ho già parlato: «ma di ciò che è in potenza, quando, essendo in entelechia, agisce non in quanto è quello che è ma in quanto mobile, è movimento ( hJ de; Phys. III 2, 201b35-202a3: ejnevrgeian mevn tina ei\nai, toiauvthn d∆ ejnevrgeian oi{an ei[pamen, caleph;n me;n ijdei'n, ejndecomevnhn d∆ ei\nai. 34
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tou' dunavmei o[nto~ ãejntelevceiaÃ, o{tan ejnteleceiva/ o]n ejnergh'/ oujc h|/ aujto; ajll∆ h|/ kinhtovn, kivnhsiv~ ejstin )». 35 Chiariti i termini che co-
stituiscono questa definizione, diviene chiaro quello che, secondo Aristotele, è movimento: movimento è entelechia di un dunatovn nel senso che agisce in quanto kinhtovn. Questo vuole specificare sia il modo in cui dobbiamo intendere il dunatovn sia il modo in cui dobbiamo intendere l’entelechia, cioè come una certa ejnevrgeia. Abbiamo visto il primo, cioè il dunatovn. Dall’analisi dei passaggi Phys. III 1, 201a29-201b5 e Phys. III 2, 201b16-27 abbiamo visto che non è possibile considerare l’ente in potenza nel senso di ciò che ha capacità di accogliere questa o quella forma, perché in questo senso esso non ammette alcun movimento (cf. Phys. III 2, 201b34-35), ma dobbiamo vederlo come specificamente predisposto ad accogliere una forma specifica, e cioè come un potenziale privativo. Esso, quindi, non sarà bronzo come dunatovn-uJpokeivmenon, ma sarà bronzo come kinhtovn, ad esempio come specificamente predisposto ad accogliere la forma di statua di cui è privo. L’entelechia di questo è il movimento verso la formazione della statua, che è in un certo senso una ejnevrgeia. Dai passaggi Phys. III 1, 201b5-13 e Phys. III 2, 201b27-202a3 si è appreso quali siano i due sensi dell’ ejnevrgeia e in quale dei due risieda l’entelechia. L’ejnevrgeia può essere intesa in due sensi, o come costruzione di ciò che è costruibile, oijkodovmhsi~ dell’oijkodomhtovn, oppure il risultato della costruzione, cioè come casa, oijkiva: in questo secondo caso c’è un atto compiuto, cioè la casa, e non c’è più l’aspetto potenziale, l’ oijkodomhtovn, quindi siamo davanti ad una ejnevrgeia aJplh'; nel primo caso, invece, abbiamo un’ejnevrgeia che non ha ancora eliminato il potenziale, l’ oijkodomhtovn, per cui è un’ejnevrgeia ajtelhv~ , in questo secondo caso abbiamo il costruibile che si va costruendo, oijkodomei'tai de; to; oijkodomhtovn , e abbiamo quindi la costruzione, oijkodovmhsi~, nel senso di movimento del costruire, cioè entelechia. In ultima analisi, il movimento è un’ ejnevrgeia ajtelhv~ = ejntelevceia di un kinhtovn specificamente inteso. 35
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Causa motrice in Phys. III 2-3: 202a3-b29
Dopo aver definito il movimento e aver chiarito tutte le parti della definizione di esso, Aristotele passa, alla fine di Phys. III 2, 2, a mostrare come il movimento avvenga e, anzitutto, come esso nasca da una rela relazio zione ne fra motor motoree e mosso: mosso: «si «si muove muove poi, come come si si è detto (w{sper ei[rhtai) – scri scrive ve Aris Aristo tote tele le –, anch anchee ciò ciò che che muo muove ve (kinei'tai de; kai; to; kinou'n ), tutto ciò che quando è in potenza è mobile ( pa'n to; dunav dunavmei mei o]n kinhtovn) e la cui assenza assenza di movimento movimento è quiete quiete (kai; ou| hJ ajkinhsiva hjremiva ejstivn), perché l’assenza di movimento è quiete per quell’ente per il quale il movimento sussiste (w|/ ga;r hJ kivnhsi~ uJpavrcei, touvtou hJ ajkinhsiva hjremiva).36 Infatti, in relazione a questo (scil . in rel relaz azio ione ne Questo passaggio, cioè Phys. III 2, 202a3-5, presenta qualche difficoltà, difficoltà, infatti Ross e Carteron, nelle loro edizioni della Fisica, adottano adottano una punteggiapunteggiatura differente, fornendo di conseguenza una propria interpretazione del testo. Taluni traduttori, infatti, fra i quali lo stesso Carteron, attribuiscono l’espressiol’espressione pa'n to; dunavmei o]n kinhtovn al motore, per il fatto che Aristotele, dicendo w{sper sper ei[rhtai rhtai alla linea precedente, si riferisce evidentemente a qualcosa che ha già detto, che potrebbe essere identificato verosimilmente con Phys. III 1, 201a23-24, e cioè con l’espressione to; kinou'n fusikw'~ kinhtovn. In realt realtà, à, però però,, con il passaggio finale di Phys. III 2, Aristotele Aristotele sta preparando preparando l’argoment l’argomentoo che svilupperà nel capitolo 3, e cioè quello del rapporto tra il motore e il mobile, per cui, da questo momento in poi, il motore e il mobile sono nettamente distinti e il motore in potenza viene sempre indicato con “ciò che è capace di muovere” e mai con il mobile. Il motore in potenza è quindi kinhtikovn e non kinhtovn. Non a caso, infatti, Aspasio propone di cambiare il kinhtovn della li. 202a4 con kinhl’espressione che Aristotele Aristotele ha usato in Phys. III 1, 1, 201a23 201a23-24 -24,, tikovn. In realtà, l’espressione cioè to; kinou' specifico contesto, contesto, perché perché kinou'n fusikw'~ kinhtovn, ha un senso in quello specifico Aristotele ha necessità lì di distinguere un motore mobile da un motore che, pur essendo motore, è tuttavia immobile, mentre nel contesto che stiamo analizzando, cioè III 2, 202a3-4, Aristotele ha interesse a mettere in evidenza il rapporto che sussiste tra motore e mobile. Se l’espressione pa'n to; dunavmei o]n kinhtovn non si riferisse al mobile, rimarrebbe anche incomprensibile il pro;~ tou'to che segue alle li. 202a5-6 e che indica proprio il mobile in relazione al quale l’agire del motore è movimento. Con l’espressione pro;~ tou'to Aristotele esprime esprime bene la la conto, Aristotele dizione del secondo assioma sul movimento, di cui si occupa da questo momento into in poi, e cioè che il movimento nasce da una relazione. Quindi, pro;~ tou'to dica l’agire del motore sul mobile, cioè su ciò con cui il motore deve essere in relazione per avviare il movimento. 36
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al mobi mobile le)) – 37 continua Aristotele –, l’operare l’operare in quanto tale tale è il muovere stesso (to; ga;r pro;~ tou'to ejnergei'n, h|/ toiou'ton, aujto; to; kinei'n ejsti); questo poi (scil . il motore) motore) agisc agiscee per conta contatto, tto, sicsicché contemporaneamente anche patisce ( tou'to de; poiei' qivxei, w{ste ste a{ma ma kai; pav pavscei scei), perciò il movimento è entelechia del mobile, in quanto mobile, e questo avviene per contatto di ciò che è capace di muovere, sicché contemporaneamente anche patisce (dio; hJ kivnhsi~ ejntelevceia tou' kinhtou', h|/ kinhtovn, sumbaivnei de; tou'to qixei xv ei tou' kinhtikou' kinhtikou', w{sq∆ sq∆ a{ma kai; pav pavscei scei)».38 In questo passaggio Aristotele sta traendo le fila del discorso che ha fin qui fatto, fatto, mostr mostrando ando al al tempo tempo stesso stesso la vera vera natur naturaa del movimento come relazione fra motore e mosso, e quindi mettendo sul tappeto direttamente la causa motrice. Il motore agisce su un dunatovn che è un kinhtovn, come abbia abbiamo mo già detto, detto, cioè cioè su un ente la cui potenzialità potenzialità corrisponde corrisponde all’esser all’esseree privo di una specifispecifica forma che è atto ad acquisire, e l’operare del motore su questo ente in potenza concepito in questo modo, h|/ toiou'ton, è il muonergei'n = kinei'n e quevere stesso. In altri termini, per il motore ejnergei' sto operare avviene per contatto, per cui c’è anche una compresenza di agire e patire, come avveniva nell’esempio del caldo e del freddo che spiegava la compresenza di potenza ed entelechia nello stesso ente della quale si tratta nel primo assioma ( Phys. III 1, 201a19 ss.). Riassumendo, quindi, per quanto concerne il motore le cose stanno stanno in questo questo modo: modo: to; kinou' kinou'n: ejnergei'n = kinei'n = poiei'n/pavscein scein (la condizione è il con conta tatt tto) o).. La definizione del movimento può essere, quindi, riformulata in questo modo: «il movimento è entelechia del mobile in quanto q uanto mobile, ed esso avviene per contatto di ciò che è capace di muovere, sicché contemporaneamente anche patisce (hJ kiv kivnhsi~ nhsi~ ejntelev ntelevceia ceia tou' kinhtou' kinhtou', h| / kinhtov kinhtovn, n, sumbaivnei nei de; tou' tou'to to qivxei xei tou' kinhtikou' kinhtikou', w{sq∆ sq∆ a{ma ma kai; pav pavscei scei)».39 Schematizzando ancora si ha la seguente formulazione: 37 38 39
Cf. la nota precedente. 202a3-9. 9. Phys. III 2, 202a3202a7-9. 9. Phys. III 2, 202a7-
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kivnhsi~ nhsi~ = ejnergei' nergei'n = kinei'n = poiei'n/pavscein scein del motore kivnhsi~ nhsi~ = ejntelev ntelevceia ceia = kinei'sqai sqai = pavscein scein del mobile
A questo questo punto la causa causa motrice, motrice, riaffior riaffiorata ata nella nella relazion relazionee motore-mosso, ci viene esplicitata ulteriormente nella conclusione del capitolo. Scrive infatti Aristotele: «ma ciò che muove ( to; kinou'n) porterà porterà sempr sempree una certa certa forma forma (ei\do~ de; ajei; oi[setaiv ti ), de cioè o un questo determinato, o un quale, o un quanto ( h[toi tovde h] toiov oiovnde nde h] tosov tosovnde nde), che sarà principio e causa del movimento ( o} e[stai ajrch; kai; kai; ai[tion tion th'~ kinhvsew~), qualora muova (o{tan kinh'/),), ad esempio l’uomo in entelechia crea, dall’uomo che è in pote potenz nzaa, l’uo l’uomo mo (oi|on oJ ejnteleceiva/ a[nqrwpo~ poiei' ejk tou' dunavmei mei o[nto~ nto~ ajnqrwv nqrwvpou pou a[nqrwpon nqrwpon)».40 Questo passaggio è estremamente interessante per comprendere il pensiero di Aristotele, perché in esso scopriamo che, per un certo verso, il motore, to; kinou' kinou'n, è caus causaa motr motric ice, e, per perch chéé è ciò ciò che trasmette una certa forma, ei\dov~ ti, che Aristote Aristotele le spiega spiega secondo quelle che sono le categorie del mutamento, cioè sostanza, quantità, qualità. Ciascuna di queste forme è detta ajrch; kai; ai[tion th'~ kinhvsew~, quin quindi di to; kinou'n può benissimo essere definito come o{qen hJ ajrch; th'~ metabolh'~ , oppu oppure re com comee o{qen hJ kivnhsi~, come Aristotele Aristotele ha più volte definito definito la causa motrice in Phys. II. Del resto, lo stesso Aristotele ci ha detto della causa motrice che, in generale, è ciò che agisce, to; poiou'n, nel senso senso di sogg soggett ettoo agente.41 D’altra parte, però, è molto contestabile asserire che è la forma stessa ad essere causa motrice, come sembrerebbe evincersi dal fatto che Aristotele afferma che il motore trasferisce sempre un’ei\dov~ ti, che è esso esso stesso stesso principio principio e causa causa di movimento, movimento, ajrrch; kai; ai[tion th'~ kinhvsew~ .42 Questo discorso, infatti, si deve ri202a9-12 -12.. Phys. III 2, 202a9 41 Cf. Phys. II 3, 3, 195a 195a22 22.. 42 Nel libro G.R. Giardina (2002) pp. 133-134, riflettendo su Phys . V 1 , 224a34-224b8 ho scritto, sottolineando l’importanza di questo passo, che occorre in primo luogo notare la considerazione di Aristotele secondo cui la forma, il luogo e la quantità non sono né motori né mossi. Dopo aver a ver distinto, infatti, tre importanti termini del movimento, e precisamente ciò che si muove, ovvero to; me;n o{, ciò a partire partire da cui si muove, ovvero to; d∆ ejx ou|, e ciò ciò vers versoo cui cui si muo muove ve,, 40
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collegare con quanto Aristotele ci ha detto in Phys. II 7, 198a2426. In quelle linee, invero, egli ci aveva avvertito che tre delle cause spesso si raccolgono in una sola ( e[rcetai de; ta; triva eij~ ªto;º e}n pollavki~:), perché il “che cos’è” e il “ciò in vista di cui” sono una sola causa, e “il ciò da cui come primo deriva il movimento” è per specie identico a queste ( to; d∆ o{qen hJ kivnhsi~ prw'ton tw'/ ei[dei taujto; touvtoi~), infatti un uomo genera un uomo. In questo ragionamento la causa motrice appare sì specificamente identica a causa formale e causa finale, ma questo non significa che tutte e tre le cause siano la stessa identica cosa. Infatti, nell’esempio dell’uomo che genera l’uomo, letto come ci viene esposto alla fine di Phys. III 2, cioè “l’uomo in entelechia crea, dall’uomo che è in potenza, l’uomo”, l’uomo in entelechia è specificamente identico all’uomo in potenza che diviene uomo in atto, ma fra l’uno e l’altro c’è una ovvero to; d∆ eij~ o{, Aristotele pone la sua attenzione sul kinou'n e sul kinouvmenon, cioè sul motore e sul mosso. La cosa importante è che Aristotele afferma nella Fisica che il movimento avviene secondo la qualità, secondo la quantità e secondo il luogo, termini che in questo passaggio sono espressi quando dice «infatti né muovono né si muovono la forma, il luogo e il quanto determinato», ma non avviene secondo la sostanza. In altre parole, secondo la sostanza non c’è movimento, ma c’è solo mutamento, ossia generazione o corruzione. In questo passaggio noi ne troviamo la spiegazione, perché scopriamo che né la qualità, né la quantità né il luogo agiscono o subiscono il movimento, mentre ad agire o subire il movimento è ciò che si muove (l’ente), cioè il to; me;n o{ di cui Aristotele ha parlato qualche linea prima. In altri termini, come ho già spiegato più diffusamente nel volume già citato, possiamo dire con Aristotele che c’è movimento “nella” sostanza, ma non che c’è movimento “della” sostanza. Questo ci spiega meglio anche il rapporto che intercorre fra movimento e mutamento, dal momento che della sostanza, secondo Aristotele, c’è mutamento. Quando un ente nasce o muore è evidente che c’è un movimento, tuttavia Aristotele sembrerebbe escludere questa ipotesi, ammettendo soltanto il mutamento come generazione e corruzione. Ciò accade perché, propriamente, generazione e corruzione, sono mutamenti “della” sostanza. In realtà, se ammettiamo che il movimento è un processo e che quindi, in rapporto al mutamento e, in generale, al divenire, rappresenta il loro realizzarsi, cioè il dinamismo che realizza il mutamento o il divenire, possiamo comprendere facilmente come vi sia mutamento “della” sostanza, e quindi come Aristotele ammetta che un tipo di metabolhv sia appunto quella secondo la sostanza, ossia generazione e corruzione, ma come non vi sia movimento “della” sostanza, perché è la sostanza stessa ad agire o subire il movimento: il movimento quindi avviene “nella” sostanza.
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bella differenza, perché l’uomo in entelechia è il padre che agisce, cioè l’uomo come causa motrice, ovvero ancora l’uomo nel suo movimento di trasmissione della forma “uomo” e quindi agente come padre, mentre l’uomo in potenza e l’uomo che si genera, ovvero l’uomo in atto, è il figlio che prima non c’è e poi c’è, e che, per Aristotele, è tale da esserci sempre, prima in potenza come soggetto, uJpokeivmenon, e poi in atto, come ente che possiede compiutamente la forma uomo, dal momento che Aristotele non concepisce un non esserci in assoluto. Qui interviene un’altra differenza, cioè quella tra to; kinou'n come ai[tion, in particolare come causa motrice, e il “questo determinato”, il “quale” o il “quanto” come determinazioni dell’ ei\dov~ ti che Aristotele ha chiamato “principi e cause del movimento”, ajrch; kai; ai[tion th'~ kinhvsew~, e che si riducono alle due cause formale e finale. Lo scarto avviene fra to; kinou'n, che è causa, e l’ei\dov~ ti, che è principio e causa, ovvero causa in quanto principio. Infatti, l’uomo in potenza e l’uomo che si genera sono, rispettivamente, la privazione e la forma in atto di un processo di generazione, mentre l’uomo in entelechia, cioè in movimento quale motore, è solo causa e non principio, intervenendo ad attivare il processo generativo, ma agendo dall’esterno, poiché non si può identificare con nessuno dei tre principi della generazione di cui Aristotele ci ha ampiamente parlato nel libro I. Faccio queste considerazioni a ragion veduta, perché ho in mente la riflessione di F. Franco Repellini sulla causa motrice.43 Egli appunta la sua attenzione su un passaggio di Phys. II 3, 195b21-25, in cui Aristotele scrive: «Si deve sempre, qui come altrove, ricercare di ciascuna cosa la causa del grado più alto (per esempio: un uomo costruisce perché costruttore, il costruttore costruisce secondo la tecnica del costruire; questa è dunque la causa di grado anteriore; del pari negli altri casi) – ( oi|on a{nqrwpo~ oijkodomei' o{ti oijkodovmo~, oJ d∆ oijkodovmo~ kata; th;n oijkodomikhvn: tou'to toivnun provteron to; ai[tion, kai; ou{tw~ ejpi; pavntwn)» trad. F.
Franco Repellini. Franco Repellini afferma che, in questo esem-
Cf. Aristotele, Fisica, Libri I e II , a cura di F. Franco Repellini, Milano 1996, pp. 94-95. 43
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pio, il costruttore è causa motrice, ma l’arte del costruire è causa motrice di grado anteriore. Da qui ricava un concetto di causa motrice come di ciò che trasmette la forma, ma afferma che la causa motrice vera e propria è la forma, che l’artigiano ha in mente quando realizza una statua, oppure che il padre possiede per natura e quindi trasmette al figlio all’atto della generazione. La causa motrice, quindi, sarebbe l’agente di trasmissione di una forma che c’è già prima della trasmissione stessa e che governa tale trasmissione, ma più ancora la causa motrice è la forma. Tutto ciò conclude che la causazione, per Aristotele, resta incentrata sulla forma.44 Quando Franco Repellini afferma che la causazione, per Aristotele, resta incentrata sulla forma, mi sembra che stia pensando a un primato di un tipo di causa sulle altre. In effetti, per quanto concerne Aristotele, si parla sempre di un primato di una cosa sull’altra, della Fisica sulla Metafisica, o di quest’ultima sulla prima, o della causa finale nella lettura del mondo della natura, o della forma nella dottrina della causalità, eccetera. A me tutti questi sembrano discorsi un poco falsati, anche se nascono su basi veritiere. A me sembra, infatti, che Aristotele, con una lucidità mirabile, riesca a dar ragione e spiegazione della straordinaria varietà e molteplicità delle cose e della conoscenza di esse, stabilendo relazioni continue fra principi, elementi, cause, strumenti di ricerca che sono tutti indispensabili alla comprensione e lettura della realtà, del mondo fenomenico e di quello metafisico. Ma, in quanto tutti i componenti sono indispensabili a tale lettura, nessuno di essi ha minore importanza di un altro, al di là di apparenze che spesso, nel testo aristotelico, sono funzionali all’interno di una determinata argomentazione, ma che, in un altro passaggio, vengono fugate. Nel caso della causa motrice, ad esempio, potrebbe sembrare che essa abbia la minore importanza fra le cause, dal momento che il divenire degli enti naturali, fondato su tre principi, ci ha mostrato come sia indispensabile avere il soggetto, la privazione e la forma. Quindi, la materia è indispensabile e, ancor più di essa, la forma. Ma senza la materia nemmeno la forma avrebbe la sua esistenza, per cui si scopre la fallacia di un discorso che metta l’una a un livello superiore dell’altra. E ancora, senza la causa motrice nessun divenire avrebbe mai luogo. Secondo un’altra lettura, se gli enti della natura sono caratterizzati dall’essere perennemente coinvolti nel movimento, allora sembrerebbe che la causa ad esso legata, cioè la causa motrice, sia nell’ambito della causalità fisica quella che più da vicino debba riguardare gli enti naturali, mentre il primato di altre cause potrebbe spettare ad esse in altri ambiti che non siano quello della natura. Ad esempio, ci sono dei luoghi aristotelici in cui la causa motrice sembrerebbe avere un primato sulle altre, mi riferisco a Metaph. B 2, 996b22-23 ed E.E. II 6, 1222b20-22, ma in realtà si tratta di luoghi in cui Aristotele riprende dialetticamente le opinioni di al44
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Il passo in questione, Phys. II 3, 195b21-25, deve essere a mio avviso letto diversamente. Infatti, è vero che l’uomo costruisce perché è costruttore e il costruttore, in questo caso, è la causa motrice, ma tale uomo è costruttore, ci dice Aristotele, in virtù dell’arte di costruire: l’espressione è kata; th;n oijkodomikhvn. Questo, però, non significa affatto, io credo, che occorra intendere che l’arte del costruire sia la causa motrice di grado superiore rispetto al costruttore, ma semplicemente che, la causa motrice, cioè il costruttore, agisce da causa motrice perché possiede una forma che egli ha appreso dall’arte del costruire, una forma, quindi, che è conforme a tale arte, kata; th;n oijkodomikhvn . Allora, questo potrebbe significare che la causa formale, cioè la forma della costruzione conforme all’arte del costruire, kata; th;n oijkodomikhvn , è l a causa più elevata ( to; ai[tion to; ajkrovtaton ), perché in effetti essa viene prima, giacché se non ci fosse una forma da trasmettere non ci sarebbe nemmeno una causa motrice che trasmette tale forma. Ora, occorre non confondere la causa motrice con la forma come causa formale e come fine, perché questo ci condurrebbe a confondere o{qen hJ ajrch; th'~ metabolh'~ o kinhvsew~, che è la causa motrice, con ajrch; kai; ai[tion th'~ kinhvsew~, che sono le cause formale e finale.45 In effetti, per certi versi, queste due ultime coincidono, perché nella dinamica del divenire il soggetto acquisisce la forma di cui esso era privo e che è anche il fine del processo che lo conduce da una condizione potenziale-privativa ad una acquisizione completa di forma, mentre la causa motrice è ciò che attiva questo processo rimanendo sempre esclusa dall’articolazione dei principi del divenire. Intendo dire che, una lettura del divenire di cui Aristotele ci ha parlato nel I libro, si imposta in questo modo: nel divenire espresso con la formula “un uomo non musico diviene uomo musico”, la forma, cioè musico, compare sia nel momento iniziale in cui si presenta in stato privativo, sia nel tri. Anche stabilire una superiorità della causa motrice sulle altre è, quindi, un’operazione che falsifica e inficia la comprensione della filosofia aristotelica, nella misura in cui, per Aristotele, tutto è necessario al verificarsi della molteplice varietà del mondo. 45 Cf. anche J. Follon (1988), pp. 331-332.
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momento finale in cui si presenta come attualmente acquisita. Quindi, la forma come principio, tradotta nei termini delle cause, si presenta sia come causa formale sia come causa finale. La causa motrice è assente dai principi, perché è esterna rispetto al processo generativo che essa attiva. Per comprendere appieno il discorso di Aristotele, occorrerebbe, semmai, comprendere meglio che cosa fa somigliare e che cosa fa differire i principi dalle cause, perché, se si fa l’errore di confondere gli uni con le altre, allora si dovrà concludere che anche la natura è causa motrice, dal momento che Aristotele usa per la natura espressioni che sarebbero ancor più significative e suscettibili di questa interpretazione di quanto non lo siano le espressioni discusse precedentemente. Aristotele, infatti, ci dice che gli enti naturali «appaiono avere in se stessi il principio di movimento e di quiete», tra l’altro specificati secondo i tre modi del movimento, cioè secondo il luogo, secondo la quantità e secondo la qualità ( ejn eJautoi'~ ajrch;n e[cei kinhvsew~ kai; stavsew~, ta; me;n kata; tovpon, ta; de; kat∆ au[xhsin kai; fqivsin, ta; de; kat∆ ajlloivwsin )» (Phys. II 1, 192b13-14), e che la
natura «è un certo principio e causa del muoversi e dello stare in quiete in ciò a cui appartiene primariamente per se stessa e non per accidente (ou[sh~ th'~ fuvsew~ ajrch'~ tino;~ kai; aijtiva~ tou' ki-
nei'sqai kai; hjremei'n ejn w|/ uJpavrcei prwvtw~ kaq∆ auJto; kai; mh; kata; sumbebhkov~)» (Phys. II 1, 192b21-23). Da quanto ho detto prece-
dentemente si comprenderà facilmente che non è un caso, invece, che la natura venga considerata da Aristotele, nel corso di Phys. II, principalmente come forma e come causa finale, che sono dette l’una e l’altra ajrch; kai; ai[tion th'~ kinhvsew~ . Sembrerebbe, quindi, che delle cause aristoteliche, tre si possano riscontrare fra i principi del divenire, e cioè la causa materiale, principalmente nel soggetto, la causa finale nella privazione, e la causa formale nella forma compiutamente acquisita. Il collocare la causa fi nale nella privazione significa individuare nel punto di partenza del processo l’orientamento del processo stesso, per cui l’inizio conterrebbe già la fine, ma nessun processo avviene se non per l’intervento di una causa che sfugge a queste tre, perché sfugge ai principi, e cioè della causa motrice. Quest’ultima rientra nei prin-
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cipi, diciamo così, solo dalla porta di servizio, nella misura in cui la causalità, per Aristotele, non è mai disconnessa dall’ente, e anche la causa motrice è un ente che, a prescindere dalla sua funzione di motore, è anch’esso costituito secondo i tre principi del divenire e coinvolto nel divenire esso stesso, al punto che risulta mobile anche nell’atto di muovere. Un’ultima considerazione. Quando Aristotele, alla fine di III 2, ci dice che il movimento è apportatore di una certa forma, ci parla sulla base delle categorie di sostanza, qualità e quantità, mentre noi sappiamo bene che non esiste movimento della sostanza ma solo mutamento della sostanza.46 In questo senso, quindi, la causa motrice è giustamente definita da Aristotele o{qen hJ ajrch; th'~ metabolh'~ , perché essa attiva un processo di mutamento di cui il movimento non è altro che la componente dinamica, ovvero la realizzazione del processo. Il rapporto motore-mosso, con l’inizio di Phys. III 3, ci appare subito presentato da Aristotele a partire da un’aporia, di modo che accade che lo Stagirita, contemporaneamente, ci dica qual è la sua posizione e le soluzioni delle obiezioni che potrebbero essere sollevate. L’aporia nella sua forma iniziale è espressa in questi termini: «e ciò che fa difficoltà – afferma Aristotele – è chiaro ( Kai; to; ajporouvmenon de; fanerovn ): cioè il fatto che il movimento è nel mobile (o{ti ejsti;n hJ kivnhsi~ ejn tw'/ kinhtw'/ )».47 Le parole che interessano l’aporia sono queste ultime tre: ejn tw'/ kinhtw' /, e soprattutto la preposizione ejn, perché questo potrebbe essere inteso nel senso che il movimento appartiene solo al mobile. Ciò che interessa, infatti, ad Aristotele è la preposizione “in”, al punto che anche nell’aporia che Aristotele chiama logica, si chiede “ ejn tivni;”, “in che cosa?” stanno le due forme di ejnevrgeia che comporta il movimento, cioè quella del motore e quella del mobile. In realtà, Questa è una lezione che Aristotele insegna in Phys. V 1-2 (cf. G.R. Morrow (1969), pp. 154-167, ma soprattutto p. 158). Per un confronto fra movimento e mutamento e per il problema del mutamento (non movimento) della sostanza rimando a quanto ho già scritto in G.R. Giardina (2002), principalmente pp. 133-134. 47 Phys. III 3, 202a13-14. 46
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l’affermazione secondo cui la difficoltà evidente è che il movimento risieda nel mobile, deve essere presa insieme a quel che segue e, per comprenderla appieno, è utile riproporre uno schema che ho già discusso e che deriva dalla lettura di Phys. III 2, 202a3-9: kivnhsi~ = ejnergei'n = kinei'n = poiei'n/pavscein del motore kivnhsi~ = ejntelevceia = kinei'sqai = pavscein del mobile Il movimento nasce dalla relazione fra un motore e un mobile ed è uno solo il movimento che nasce da tale relazione. Tuttavia, se guardiamo al movimento dal punto di vista del mobile, vediamo che esso è entelechia del mobile, ma nasce ad opera di ciò che è capace di muovere, per cui è ejnevrgeia di quest’ultimo, ejnevrgeia tou' kinhtikou', la quale però non è cosa diversa dall’entelechia del mobile, per cui occorre che sia entelechia per entrambi. Aristotele sta ragionando in un modo che ci è perfettamente chiaro a partire dal senso dell’ ejnevrgeia che egli ci ha spiegato in Phys. III 1, 201a5-15. Occorre, infatti, notare che nel passo suddetto di Phys. III 3 relativo all’aporia, egli non dice che questo movimento è ejnevrgeia tou' kinou'nto~, bensì ejnevrgeia di un ente che mantiene il suo aspetto potenziale, ed è quindi realizzazione nel suo farsi e non nella sua compiutezza: in questo senso, questa ejnevrgeia è un’entelechia. Non a caso, infatti, Aristotele aggiunge, con un esplicativo gavr, che il motore può essere visto sotto due aspetti, come ciò che è capace di muovere a livello potenziale e come motore a livello attuale (kinhtiko;n me;n gavr ejstin tw' / duvnasqai, kinou'n de; tw' / ejnergei'n), mettendo in gioco ancora una volta il movimento come lo stato di ciò che non è più in potenza, ma non è ancora in atto, cioè come lo stato in cui il suo aspetto potenziale specifico, cioè privativo, non si è ancora del tutto realizzato, perché l’ente non è ancora compiutamente in atto. Se guardiamo, invece, al movimento dal punto di vista di “ciò che è capace di muovere”, to; kinhtikovn, vediamo che questo agisce sul mobile, sicché similmente una sola deve essere l’ ejnevrgeia per entrambi,48 per ciò che Su questo argomento cf. A. Edel (1969), pp. 59-64. Questo stesso discorso conduce M.L. Gill (1980), pp. 129-147 a sviluppare la tesi secondo cui Phys. III 3 mostrerebbe che ciò che agisce muta così come ciò che patisce. 48
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è capace di muovere e per il mobile. In altri termini, se guardiamo sia al motore sia al mosso nella condizione in cui non è scomparso il loro stato potenziale-privativo, per cui si mostrano ancora come ciò che è capace di muovere e come mobile, l’entelechia del mobile è identica all’ejnevrgeia di ciò che è capace di muovere, e il movimento che nasce dalla relazione fra i due è uno solo. La soluzione di questa aporia ci viene fornita subito dopo da Aristotele: per il motore e il mosso le cose stanno così come stanno per l’intervallo da 1 a 2 e da 2 a 1, che è uno solo, sebbene non sia unica la definizione dell’uno e dell’altro, o come la strada in salita e in discesa, che è una, mentre la definizione non è una sola. A questa aporia si aggiunge, come dicevo, una difficoltà logica, 49 la cui soluzione risolverà in modo più chiaro anche l’aporia precedente. Tale aporia logica consiste nel fatto che, forse, è necessario che l’ ejnevrgeia di “ciò che è capace di agire”, tou' poihtikou', debba essere diversa dall’ejnevrgeia di “ciò che è capace di patire”, 50 tou' paqhtikou': da un lato c’è l’azione, poivhsi~, e dall’altro lato la passione, pavqhsi~, ambedue nel loro svolgimento; dei quali opera e fine sono rispettivamente l’azione e la passione compiuti. 51 La domanda allora è: se sono movimenti entrambi, P. Pellegrin traduce “difficulté dialectique” e spiega in nota che si tratta di una argomentazione che procede da opinioni comuni ( endoxa ), che non è convincente se non a livello del ragionamento e che non si fonda sui fatti. Oppure, sulla base di Simplicio, In Phys. 440,22, potrebbe trattarsi di un’argomentazione che non riguarda una scienza particolare, ma solo un proposito generale, per cui non è effettivamente “scientifica”. 50 poihtikou' e paqhtikou' hanno il suffisso potenziale, quindi non è opportuno, soprattutto data la sottigliezza del discorso di Aristotele, tradurre poihtikou' come se fosse poihtou' e paqhtikou' come se fosse paqhtou'. 51 Traduco così, perché è chiaro che la desinenza -si~ di poivhsi~ e pavqhsi~ indica la processualità del loro significato. Poivhsi~ e pavqhsi~ si distinguono, quindi, nettamente da poivhma e pavqo~, i quali hanno il medesimo significato di poivhsi~ e pavqhsi~, ma non nel loro realizzarsi, bensì nello stato concluso e compiuto. La stessa cosa era avvenuta quando Aristotele aveva espresso la dimensione potenziale di poihtikov~ e paqhtikov~, sempre ricavati dai verbi di agire e patire. P. Pellegrin mi dà ragione della mia interpretazione, infatti egli traduce: «Il est en effet sans doute nécessaire qu’il y ait un certain acte de ce qui peut agir et un autre de ce qui peut pâtir, l’un étant l’action, l’autre la passion, le produit fi49
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cioè l’ejnev nevrgeia rgeia di ciò che che è capac capacee di agire agire e l’ejnevrgeia di ciò che è capace di patire (che tradotti tradotti nei termini termini del movimento sono sono ciò che è capace di muovere e il mobile), in quale di questi due sono? (ejn tini vni;). Le possibilità che si offrono sono le seguenti: a) entrambi i movimenti sono in ciò che patisce e che è mosso, ejn tw /' pavsconti sconti kai; kinoumev kinoumevnw/ nw/; 52 hb) l’azione nel suo svolgimento è in ciò che agisce, hJ me;n poivhsi~ ejn tw'/ poiou'nti ; la passi passione one nel suo suo svolg svolgime imento nto è in ciò che che de; pav pavqhsi~ qhsi~ ejn tw /' pavsconti sconti. patisce, hJ de; Aristotele non esamina queste due possibilità nell’ordine, perché prende anzitutto in esame la seconda di queste due possibilità, anche se non lo dichiara esplicitamente. La prima, infatti, viene presa in considerazione successivamente. Se l’azione nel suo svolgimento è in ciò che agisce e la passione nel suo svolgimento è in ciò che patisce, e occorre in qualche modo chiamare anche la passione nel suo svolgimento azione nel suo svolgimento, cioè occorre chiamare la pavqhsi~ poivhsi~, allor lloraa pavqhsi~ e poivhsi~ saranno omonimi. Aristotele non spiega chiaramente come si possa verificare logicamente questa ipotesi, ma io ritengo che si possano trovare almeno due possibili spiegazioni. La prima è questa: è possibile chiamare poivhsi~ anche la pavqhsi~ nella misura in cui è possibile chiamare poivhsi~ ogni attività, anche quella che viene nal de l’une étant un fait accompli, de l’autre une affection». Egli distingue, giustamente, come anche segnala in nota, i termini che hanno la stessa radice verbale, e cioè poihtikov~, poivhsi~, poivhma, poiou'n, con il signifi significato cato di di “ciò che che può agire”, “azione”, “fatto compiuto”, “agente”. Allo stesso modo distingue i termini che derivano dal verbo pavscw, per cui si avrà “ciò “ciò che può patire”, patire”, “passio“passione”, “affezione”. Pavqhsi~, come come fa notare notare Filopono Filopono,, In Phys 377,10, è termi termine ne Phy s. 377,10, non tipico del greco ma, si può dire, forgiato da Aristotele e poi entrato nell’uso. Un buon utilizzo ne fa, ad esempio, Plotino, nell’ Enneade VI 1. 52 Io credo che Aristotele non prenda in considerazione la possibilità che entrambe le ejnev nevrgeiai siano in ciò che agisce e che muove, cioè nel motore, perché ha già detto che il motore patisce e si muove, per cui la prima possibilità include già sia il motore che il mosso. Inoltre, la riduzione del secondo caso ad uno solo, cioè a ciò che agisce e muove, fa diventare il secondo caso esattamente il contrario contrario di questo primo caso, caso, quindi aggiungere aggiungere al primo caso la possibilità possibilità che i due movimenti siano in ciò che agisce e muove diverrebbe pleonastico.
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subita. Infatti, anche se il mobile subisce l’azione del motore, esso è comunque ilil soggetto del suo movimento. movimento. Ma sembra più convincente la seconda delle due possibili spiegazioni: alle li. 202a1415 Aristotele ci ha detto che l’ ejnevrgeia 53 di ciò che è capace di muovere non è cosa diversa dall’entelechia del mobile su cui si esercita l’agire del motore, e alle precedenti li. 202a3-9 ci aveva già detto che per il motore ejnergei'n = kinei'n = poiei'n/pavscein. La conseguenza di queste premesse è ovvia: se nell’elemento attivo insieme al poiei'n c’è anche il pavscein, allor alloraa ilil movim movimen ento to è nel motore e non nel mosso, contrariamente a ciò che Aristotele aveva detto nella aporia iniziale. Lo stesso discorso che si è fatto per ciò che agisce e che patisce si può applicare, infatti, a ciò che muove e a ciò che è mosso, sicché o tutto ciò che muove si muoverà, il che avrebbe gravissime conseguenze in campo teologico e contraddirebbe l’affermazione di Aristotele secondo cui esiste anche un motore immobile (cf. Phys. III 1, 201a27), 201a27), oppure oppure il motore, pur avendo movimento, non non si muoverà. muoverà. In termini termini più chiari: hJ me; me;n poivhsi~ ejn tw' / poiou' poiou'nti nti/hJ de; de; pav pavqhsi~ qhsi~ ejn tw' / pav pavsconti sconti, se pavqhsi~ = poivhsi~ hsi~ perché sono omonimi, allora tutto si risolve ejn tw /' poiou'nti, che nei nei termini termini del movimen movimento to diventa diventa ejn tw'/ kinou'nti. Consideriamo adesso la prima possibilità, e cioè che entrambi nevrgeia rgeia di ciò che i movimenti – cioè ancora ancora il movimento movimento come come ejnev è capace capace di agire agire e il movimento movimento come come ejnev nevrgeia di ciò che è capace di patire – siano in ciò che patisce e che è mosso ( eij d∆ a[mfw ejn tw'/ kinoumevnw/ kai; pavsconti ). Se le cose stanno in questo modo, allora l’azione e la passione nel loro svolgimento, hJ poivhsi~ kai; hJ pavqhsi~, o, se si vuole specific specificare are un agire agire e un patire determin determinaati, l’insegnamento e l’apprendimento nel loro svolgimento, hJ divdaxi~ kai; hJ mavqhsi~ , pur essendo essendo due due movimenti, movimenti, sono sono entrambi entrambi in colui colui che che appr appren ende de (duvo ou\sai ejn tw'/ manqavnonti ). Le conseguenze sono: in primo luogo che l’attività, ejnevrgeia, di ciascuna cosa non sarà in ciascuna cosa ( prw'ton me;n hJ ejnevrgeia hJ eJ kav kavstou stou oujk ejn eJkavstw/ uJpavrxei ), ad esempio l’insegnamento non sarà in 53
∆Enevr geia
III 2, 202a5-6).
qui significa l’operare del motore, che è il muovere (cf. Phys.
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chi insegna ma in chi apprende, e in secondo luogo – cosa assurda – due movimenti si muoveranno contemporaneamente ( ei\ta a[topon duvo kinhvsei~ a{ma kinei'sqai ): «infatti – ci dice Aristotele, mostrando di tenere d’occhio sempre un processo che si svolge sulla base base dei tre principi principi del divenire –, quali saranno saranno le due alterazioni di un’unica cosa e verso un’unica forma? Ma è impossibile! (tivne~ ga;r e[sontai ajlloiwvsei~ duvo tou' eJno;~ kai; eij~ e}n ei\do~… ajll∆ ll∆ ajduv duvnaton naton)». 54 Colte le assurdità che conseguono da una simile impostazione del problema, Aristotele ci fornisce la sua soluzione: c’è una sola attività (ajlla; lla; miv miva e[stai hJ ej ejnevrgeia rgeia). Tuttavia, occorre usare degli accorgimenti nel comprendere questa soluzione, perché lo stesso Aristotele ci mette in guardia da fraintendimenti, proponendo altre assurdità. Egli ci dice, infatti, che è illogico pensare che ci sia un’unica identica attività di due cose diverse per la forma, cioè un’unica identica ejnevrgeia di chi insegna e di chi apprende, e sarebbe assurdo anche se l’insegnare e l’apprendere, e, in generale, l’agire e il patire, fossero la stessa cosa, per cui la conseguenza sarebbe che chi insegna apprende tutto ciò che insegna e nel momento stesso in cui lo insegna, e che chi agisce quindi patisce. In realtà, le cose stanno in modo mod o diverso e, con una serie di precisazioni, Aristotele risponde alle singole assurdità che sono derivate dal ragionamento fin qui fatto. Alle li. 202b5-8 Aristotele risponde a quanto aveva detto alle li. 202a31-36: l’ejnevrgeia è una sola, sola, ma è attuazion attuazionee di una cosa cosa in un’altra cosa diversa da essa, e dico “attuazione” perché il termine ejnevrgeia deve essere qui inteso nel senso della processualità che Aristotele Aristotele ha precisato, precisato, tant’è tant’è che egli egli chiarisce chiarisce nell’esemnell’esempio che l’insegnamento nel suo svolgimento, divdaxi~, è l ’ejnevrgeia di “colui che è capace capace di di insegnare”, insegnare”, tou' didaskalikou' didaskalikou', e che tale ejnevrgeia, pur non essendo separata da colui che l’esercita, l’esercita, cioè dalla causa motrice, tuttavia risiede in qualcos’altro ( hJ divdaxi~ ejnevrgeia tou' didaskalikou', e[n tini mevntoi ), per cui è attuazione di questa cosa in quest’altra cosa ( ajlla; tou'de ejn tw'/de ). Se questa 54
Phys. III 3, 202a3 202a34-3 4-36. 6.
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ejnevrgeia fosse intesa nel senso di atto compiuto dell’ente, queste condizioni non sarebbero comprensibili, perché allora ogni ejnevrgeia dovrebbe stare solo nell’ente di cui è appunto atto, mentre Aristotele ci dice che l’ ejnevrgeia è dell’agente ma nel paziente,
quindi è entelechia e movimento. Alle li. 202b8-10 Aristotele risponde a ciò che aveva detto alle li. 202a36-b2: nulla impedisce, ci dice Aristotele, che la stessa ejnevrgeia appartenga a due cose, a condizione che questo non si intenda nel senso che l’essere di queste due cose sia lo stesso, bensì nel senso della relazione che sussiste fra ciò che è in potenza e ciò che opera, cioè fra l’ente e la sua causa motrice. Alle li. 202b10ss. Aristotele risponde a quanto aveva detto alle li. 202b2-5: non è necessario, come prima si era concluso assurdamente, che chi insegna apprenda, perché si deve intendere che l’agire e il patire sono la stessa cosa non nel senso che sia una sola la definizione che ce ne dice l’essenza, ma come noi diciamo che è la stessa cosa la strada che da Tebe porta ad Atene e da Atene e Tebe, 55 perché tutte le proprietà uguali che fanno l’identità vera e propria di due enti appartengono soltanto alle cose la cui essenza sia identica. Quindi, noi non dobbiamo intendere che l’insegnamento nel suo svolgimento sia la stessa cosa dell’apprendimento nel suo svolgimento, come se la loro essenza fosse la stessa, così come, se è vero che è unico l’intervallo fra due punti, noi però dobbiamo intendere che è una e la stessa la distanza da qui a lì e da lì a qui. In generale, precisa Aristotele, non dobbiamo dire che l’insegnare e l’apprendere, oppure l’agire e il patire siano la stessa cosa in senso proprio ( to; aujto; kurivw~), ma a ciò a cui appartengono entrambe queste cose, cioè l’agire e il patire, appartiene anche il movimento. Quindi, in conclusione e in termini più chiari, l’entelechia di ciò che in potenza è capace di agire e di patire, in quanto tale, sia in senso assoluto che, ancora, in modo particolare, è la costruzione della casa nel suo farsi e la guarigione nel suo procedere, e così per gli altri movimenti specifici. In ultima analisi, allora, il movimento è il procedere verso un fine di un ente 55
Questo si aggiunge agli esempi già fatti alle li. 202a18-20.
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che è nel suo aspetto potenziale e anche nella sua entelechia come ejnevrgeia non compiuta e che, in quanto è in movimento, è capace di compiere il suo movimento e di patire tale movimento da una causa motrice, per cui le due determinazioni contrarie sono compresenti nello stesso ente, e nel procedere del movimento l’una agisce sull’altra che patisce. Nella costruzione della casa, ad esempio, le pietre e i mattoni e quant’altro possono divenire casa, patiscono via via la perdita del loro essere materiali da costruzione (e quindi solo costruibile in potenza) per divenire sempre più compiutamente casa, e nella guarigione la malattia dell’individuo patisce sempre più, lasciando via via il posto alla salute. Conclusione
Per concludere brevemente, allora, occorre dire quanto segue. Aristotele, con una lucidità mirabile, riesce a dar ragione e spiegazione della straordinaria varietà e molteplicità delle cose, sia ricorrendo alla distinzione fra principi, elementi e cause, sia avvalendosi della relazione dinamica fra potenza e atto, eccetera. Egli adopera strumenti di ricerca che gli risultano validi per la comprensione e la conoscenza della realtà, sia del mondo fenomenico che di quello metafisico. Ma in quanto tutti questi strumenti sono indispensabili alla lettura della realtà – al di là di apparenze che spesso, nel testo aristotelico, sono funzionali nel contesto dell’argomentazione, ma che in un altro passaggio vengono fugate –, nessuno di essi ha minore importanza di un altro. Nel caso della causa motrice, ad esempio, potrebbe sembrare a qualcuno che essa abbia la minore importanza fra le cause, dal momento che il divenire in cui sono coinvolti gli enti naturali è fondato su tre principi (soggetto, privazione e forma), che servono a individuare come fondamentali la materia e la forma vista ora come privazione e ora come fine del divenire stesso. Ma senza la causa motrice nessun divenire avrebbe mai luogo e, quindi, la dottrina dei tre principi del divenire degli enti naturali ha bisogno di tale causa per essere vera, ed è di per sé impostata da Aristotele in modo dina-
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mico se è vero che, permanendo il soggetto, tuttavia la forma come privazione e la forma come fine si fronteggiano in attesa che una causa motrice attivi un processo di realizzazione che conduca lo stato privativo dell’ente a divenire uno stato di attuale possesso di forma. Se gli enti della natura sono caratterizzati dall’essere perennemente coinvolti nel movimento, allora si comprende facilmente il ruolo che la causa motrice, legata al movimento, debba occupare nell’ambito di una dottrina della causalità che riguarda gli enti naturali. Bibliografia Fonti (edizioni e traduzioni)
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LE COSE MOSSE DA ALTRO PER NATURA Ferruccio Franco Repellini *
I – Nel Libro VIII della Fisica Aristotele produce, come è ben noto, una grande argomentazione, il cui intento fondamentale è quello di dotare il campo costituito dalla collezione dei mobili di un primo motore immobile, nel ruolo di principio, causa e garante del suo ordinamento complessivo. L’asse portante, per così dire, dell’argomentazione è dato dalla relazione mosso-motore (come convengono si può dire tutti gli interpreti). Questa operazione aristotelica riguarda immediatamente il campo delle cose naturali, come è ovvio, visto che i due campi coincidono. Tuttavia la nozione di natura è presente in questo libro in misura comparativamente assai più ridotta. Di fatto, essa ha un ruolo rilevante soltanto nel cap. 4, in parte in quanto fonte di un’aporia. In questo contributo la mia attenzione sarà rivolta essenzialmente ad un esame di tale problema e del suo rilievo. Premetterò tuttavia una delineazione in molti punti del tutto sommaria del decorso centrale dell’argomentazione, al fine di situare tale problema all’interno del libro. Modificherò in certa misura la sequenza dei passi. 1) – Esiste il movimento. 2) – Dunque esiste ciò che è mobile: il movimento è l’attualità di ciò che è mobile in quanto mobile.1 3) – «È necessario che tutto ciò che è mosso sia mosso da qualcosa». 2 Si tratta dell’assunto centrale dell’intera argomenta* Università di Milano. 1 Questa definizione del movimento è formulata quasi all’inizio del Libro VIII (cap. 1, 251 a 8 - 9), ed è ripresa alcune volte in seguito. 2 L’assunto è formulato, in posizione enfatica, all’inizio del Libro VII (cap. 1, 241 b 34), ed è ripetuto più volte nel corso del Libro VIII (tra cui alla fine del cap. 4: 256 a 2 - 3).
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zione del Libro VIII. Si ammetta, in effetti, che valga la sua negazione: «non è necessario che tutto ciò che si muove sia mosso da qualcosa». In tal caso, e data l’esistenza del movimento, si dovrebbe ammettere per un movimento la possibilità di un inizio “assoluto”; la possibilità cioè per un mobile non in movimento di essere origine di un proprio movimento in un modo totalmente indipendente da ciò con cui esso si trova in relazione. Un’immagine aristotelica consente di illustrare come lo Stagirita pensasse una tale origine assoluta del movimento: come un passaggio dal sonno alla veglia, un destarsi, senza che accada nulla che causi questo destarsi (nulla fuori, che provochi il destarsi, e nulla dentro, come è garantito, nell’immagine, dallo stato di sonno). Un tale inizio del movimento – da parte di una cosa da sola, per così dire, e senza nessuna connessione – è escluso; sarebbe un movimento senza causa, senza motore. Dunque in tutti, senza eccezione, i casi di movimento è data la concatenazione mosso-motore.3 4) – Il movimento esiste eternamente. Questo passo è derivabile dai precedenti. Infatti, data l’esistenza del movimento, la sua non-eternità comporterebbe un passaggio iniziale da una condizione di non movimento ad una condizione di movimento. Ora, dato che ogni movimento richiede un motore, un tale passaggio iniziale di un mobile richiederebbe il cambiamento preliminare della relazione del mobile con il motore del suo movimento, in modo che tale motore pervenga alle condizioni che lo fanno motore di quel movimento; ma questo diventare motore per qualcosa di qualcos’altro richiede già un movimento, e questo movimento richiede a sua volta un movimento precedente, e questa necessità si riproduce sempre. 4 Non può dunque esserci un primo movimento in un mondo popolato da mobili in quiete (quasi come un In queste righe non si è esposta la dimostrazione dell’assunto aristotelico, ma soltanto la ragione di tale assunto. Una sua effettiva dimostrazione non viene mai compiuta nel Libro VIII. Ciò che più si avvicina ad una dimostrazione è dato dalle prime righe del Libro VII: cap. 1, 241 b 35 – 242 a 49. Per un esame ed una discussione di questo passo si rinvia a R. Wardy, The Chain of Change. A Study of Aristotle’s Physics VII , Cambridge, 1990, particolarmente alle pp. 93-99. 4 Cf. Phys., VIII, 1, 251 a 8 – b 10. 3
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destarsi del movimento in un mondo dormiente). L’eternità del movimento sarà importante nell’ultimo passo. 5) – Una volta assicuratosi che, per tutti i casi di movimento, si dà la concatenazione mosso-motore, Aristotele produce una distinzione entro la relazione tra il mosso e il motore – distinzione chiave per lo svolgimento complessivo dell’argomentazione. Le cose che si muovono kaq∆ auJtav – dice – si dividono in quelle che sono mosse “da altro” ( uJp∆ a[llou) e quelle che “si muovono esse stesse da se stesse” ( aujta; uJf∆ auJtw'n kinei'tai ) o – con un’espressione trattata come equivalente – che “muovono esse stesse se stesse” (aujta; eJauta; kinou'sin). 5 Si noti che anche nel secondo caso le cose sono mosse “da qualcosa” (come è indispensabile, ai fini dell’argomentazione complessiva). Uno schema rende immediatamente visibile la divisione delle cose mosse introdotta dallo Stagirita: mosse “da qualcosa” mosse “da altro”
mosse esse stesse da se stesse = che muovono esse stesse se stesse.
6) – Considerando il lato sinistro di questa divisione: non è possibile che ciò che è mosso “da altro”, sia in tutti i casi mosso da un altro che è a sua volta mosso da un altro, perché si produrrebbe un regressus in infinitum nelle concatenazioni mosso-motore. 6 7) – Di conseguenza, in tutte le concatenazioni mosso-motore risalendo si perviene prima o poi a un termine mosso esso stesso da se stesso.7 Tale termine rende finita ogni concatenazione, e costituisce il primo motore di tutti i termini successivi della concatenazione. Se vista “dall’alto”, per così dire, ogni concatenazione è inserita in una sorta di complesso unitario di motori e mossi. È dunque ciò che si trova sul lato destro dello schema qui proposto ciò con cui si compiono i passi intermedi della dimostrazione. 5 6 7
Phys., VIII, 4, 254 b 12 - 13. Phys., VIII, 5, 256 a 13 - 18. Phys., VIII, 5, passim.
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8) – Ogni termine primo di ogni concatenazione – ogni motore di se stesso – si articola necessariamente in una “parte”, o “aspetto”, o “componente”, mossa ed una motrice immobile.8 9) – La collezione di primi motori immobili così introdotta deve essere almeno in parte eterna, in virtù della funzione – cui essa deve assolvere – di causa del non venir meno del nascere e del perire.9 Tale parte eterna deve essere finita; può essere uno o molti; è meglio che sia uno.10 Con questi passi si è data una delineazione sommaria dell’argomentazione del Libro VIII della Fisica, fino all’introduzione di un primo motore immobile eterno (cioè, fino al cap. 6) a partire dalla necessità della concatenazione mosso-motore. La seconda, e terminale, parte del libro, che inizia con il cap. 7 (ed è centrata sulla priorità del movimento locale e sulla possibilità di un moto eterno, quello circolare), può essere qui tralasciata, dato che non serve all’inquadramento del punto che qui si intende trattare. In questa delineazione i punti 6, 7, 8 e 9 rendono lo svolgimento argomentativo di Aristotele molto più concisamente di quanto esso sia, ed evitano di far emergere le difficoltà. Peraltro, è proprio in questa sezione che si sono prodotte le maggiori controversie interpretative, riguardanti la chiusura “in alto” delle concatenazioni mosso-motore (a mio giudizio, la difficoltà maggiore è data dal fatto che al motore immobile si perviene articolando internamente ciò che è motore di se stesso, ma poi tale motore si mostra come altro ed esterno rispetto al suo mosso; un motore immobile sembra appartenere e insieme non appartenere al suo mosso). Tuttavia l’affrontare queste controversie uscirebbe dall’intento di questo contributo; la mia attenzione sarà su una difficoltà che si incontra nella parte “iniziale”, per così dire, di tali concatenazioni. II – La delineazione sommaria qui prodotta dello svolgimento della dimostrazione aristotelica che sfocia nella posizione di un 18 19 10
Phys., VIII, 5, 257 b 2 ss. Phys., VIII, 6, 258 b 26 ss. Phys., VIII, 6, 259 a 6 - 13.
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primo motore immobile è stata volutamente formulata in modo che in nessun suo punto sia indispensabile il ricorso alla nozione di fuvsi~, “natura” (in accordo con la prospettiva accennata all’inizio). In effetti, data la relazione mosso-motore e la sua necessità per tutti i movimenti, i passi decisivi sono poi compiuti in base al divieto del regressus in infinitum , alla chiusura “verso l’alto” di tutte le concatenazioni mediante un motore di se stesso, all’articolazione di tale motore in un mosso e in un motore immobile (e all’introduzione di motori immobili eterni, il cui numero in linea di principio è limitato); in nessuno di questi passi dimostrativi la natura è presente in modo indispensabile. Ovviamente, questo ruolo minore della natura è motivo di un certo imbarazzo interpretativo. Nel suo lessico filosofico Aristotele formula la seguente definizione di ciò che è inteso primariamente con fuvsi~ negli usi correnti di questo termine: «la sostanza delle cose che hanno un principio di movimento in se stesse in quanto esse stesse ( hJ oujsiva hJ tw'n ejcovntwn ajrch;n kinhvsew~ ejn auJtoi'~ hÛ| aujtav)». 11 Una definizione un poco diversa, e un poco più elaborata, è formulata, in un contesto teoreticamente più impegnativo, all’inizio del Libro II della Fisica: «una sorta di principio e causa del muoversi e dello stare in quiete in ciò cui essa appartiene primariamente di per sé e non per accidente» ( ajrchv ti~ kai; aijtiva tou' kinei'sqai kai; hjremei'n ejn wÛ| uJpavrcei prwvtw~ kaq∆ auJto; kai; mh; kata; sumbebhkov~ ).12 Ciò che importa notare qui è che, al
di là delle differenze tra le due definizioni, in base ad entrambe la collezione delle cose che hanno un principio interno di movimento (collezione di cui quindi fuvsi~ può fungere da nome) appare coincidere con la collezione delle cose di per sé mobili. Di conseguenza, nell’assegnare all’ambito delle cose di per sé mobili un primo motore immobile Aristotele assegna eo ipso un tale motore all’ambito complessivo delle cose naturali. D’altra parte, visto che il punto più sottolineato, e più rilevante, nella definizione di fuvsi~ è quello che la pone come principio di movimento (o di com Metaph., V, 4, 1015 a 14 - 15. 12 Phys., II, 1, 192 b 21 - 23. 11
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portamento quanto al movimento e alla quiete), sembra evidente la contiguità di tale nozione con quella di motore; e visto che il punto critico, per quanto riguarda la differenza delle due nozioni, risiede nel fatto che certamente la fuvsi~ è un principio interno alla cosa mobile, mentre non è necessario che sia tale nel caso del motore, ci si aspetterebbe che nello svolgere la propria argomentazione, centrandola su ciò che muove se stesso da se stesso, Aristotele mettesse in gioco e sfruttasse in qualche modo la sua no zione di fuvsi~. Tuttavia non è ciò che si legge nel testo del libro. Una considerazione di ordine grezzamente quantitativo è già indicativa sotto questo profilo. Termini derivati dalla radice kinoccorrono con molta frequenza nelle 18 pagine Bekker del Libro VIII (alcune centinaia di volte), come del resto c’è da aspettarsi, in un discorso che ruota intorno al mosso, al motore e alla loro relazione. Per contro, fuvsi~ occorre molto più raramente; se si prescinde dal cap. 4, occorre 17 volte. Di queste, 12 precedono il cap. 4 e fanno parte in genere di sezioni, nelle quali vengono citate e rigettate opinioni altrui relative al movimento. 13 Quanto alle 5 occorrenze successive, 14 nessuna si trova nei passi argomentativi che intendono dimostrare la necessità teorica di un primo motore immobile. Si può dunque dire che la dimostrazione del Libro VIII presuppone la nozione di cosa naturale e l’esistenza del campo delle cose naturali; si innesta qui e prende le mosse qui. Tuttavia essa non si serve, in nessuno dei suoi passi dimostrativi decisivi, della definizione di “natura”. Aristotele dimostra che per tutto ciò che è naturale (cioè che appartiene di per sé a una cosa che è soggetto di un principio interno di movimento e quiete) il suo essere in movimento implica un motore, cioè un qualcosa che produce tale Phys., VIII, 1, 250 b 13; b 15; 251 a 6; 252 a 11 - 19 (6 volte, in un argomento contro Anassagora); 252 a 34; 3, 253 b 5; b 8; 254 a 10. In nessuna di queste occorrenze fuvsi~ entra mai in argomenti volti a sostenere l’assunto, che tutto ciò che è mosso è mosso da qualcosa. 14 Phys., VIII, 6, 259 a 11; 7, 261 a 14; a 19; 9, 265 a 22; b 25. In generale, in questi passi la fuvsi~ serve a giustificare attribuzioni di priorità, le quali sono neutre, quanto al problema dell’esistenza di un motore (come si vedrà più avanti). 13
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movimento in virtù di una sua azione sul mosso; non ricava però questa implicazione dalla definizione di natura e di cosa naturale. In altre parole, la dimostrazione riguarda il campo delle cose naturali, ma non deriva dalla nozione di natura. L’assunto fondamentale, «tutto ciò che è mosso è mosso da qualcosa», non è dato con la nozione di natura. III – Come si è detto, la natura è presente in modo rilevante nel decorso argomentativo del Libro VIII soltanto nel cap. 4. La funzione di questo capitolo entro l’intero libro è quella di stabilire che «tutte le cose mosse sono mosse da qualcosa», come Aristotele dice con tono conclusivo nella sua ultima frase (cioè, il passo 3 della mia delineazione dell’argomentazione complessiva). Tuttavia, a questa conclusione si giunge qui non mediante una dimostrazione diretta, bensì con un percorso più tortuoso: producendo una casistica esaustiva delle cose mosse, e facendo vedere in ciascun caso il qualcosa che assolve il ruolo di motore. Il capitolo inizia con la distinzione, entro le cose che muovono e sono mosse kaq∆ auJtav, tra quelle che sono mosse “da altro” e quelle che sono mosse “da se stesse”; si tratta, come già notato, del passo da cui prende le mosse lo sviluppo decisivo della dimostrazione del primo motore immobile. Qui però lo Stagirita procede coordinando immediatamente a questa divisione un’altra e differente, sempre relativa alle cose che muovono e sono mosse: le une – dice – compiono movimenti “per natura” ( fuvsei), le altre movimenti “per violenza e contro natura” ( biva/ kai; para; fuvsin).15 Questa divisione, come la precedente, è intesa come esaustiva. Una lettura naturale della giustapposizione di queste due divisioni potrebbe essere quella che ne ricava, in base a una combinatoria elementare, quattro tipi di movimenti: A – movimenti compiuti da una cosa per l’azione di un motore altro ed esterno ad essa + per natura; B – movimenti compiuti da una cosa per l’azione di un motore altro ed esterno ad essa + per violenza e contro natura; 15
Phys., VIII, 4, 254 b 13 - 14.
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C – movimenti compiuti da una cosa motrice di se stessa + per natura; D – movimenti compiuti da una cosa motrice di se stessa + per violenza e contro natura. Peraltro Aristotele, nella discussione che fa seguito all’introduzione di questa doppia divisione non contempla neppure il caso D; anzi, lo elimina implicitamente subito, visto che dice subito che «ciò che è mosso esso stesso da se stesso si muove per natura». Merita di essere osservato che non è immediatamente evidente che il caso D debba essere immediatamente eliminato perché contradditorio. Si consideri infatti la caratterizzazione para; fuvsin da sola, cioè indipendentemente dalla caratterizzazione biva/; si dia al parav non il senso di “contro”, che molto raramente ha in Aristotele, 16 ma quello del latino praeter ; si faccia prevalere la connotazione normativa di “natura”. Allora non è inconcepibile che qualcosa muova da sé se stesso in modo non conforme alla propria natura; anzi, il paragone aristotelico della natura a un medico che cura se stesso consente di pensare a qualcosa che muove da sé se stesso in modo non conforme alla propria natura come a un medico che cura se stesso in modo inappropriato. Se invece si tiene stretto il legame di para; fuvsin con biva/, e si intende parav come “contro”, il caso D è certo più difficile da concepire: la nozione di qualcosa che muove esso stesso se stesso per violenza contro la propria natura non sembra ammissibile entro il pensiero di Aristotele. Qui importa notare che il caso D meriterebbe qualche discussione, e tuttavia Aristotele lo ignora. Ciò mostra abbastanza chiaramente che l’ottica nella quale è operata la coordinazione delle due divisioni non è quella di esplorare la ammissibilità dei casi generabili mediante questa combinatoria. Il modo di procedere dello Stagirita è qui un altro: egli espone il suo assunto fondamentale («tutto ciò che è mosso è mosso da qualcosa») ad una aporia, dissolve l’aporia e su questa base considera il suo assunto come convalidato. L’aporia è generata dall’incrocio delle due distinzioni, che sembra generare un caso di mosso senza motore. Si noti come 16
Cf. l’ Index Aristotelicus di Bonitz, 562 a 31 ss.
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Aristotele risolva l’aporia in modo da poter conservare tutto ciò che l’ha generata: sia il suo assunto fondamentale, sia le due distinzioni. Ciò che egli fa è mostrare come il caso di un mosso apparentemente senza motore non è realmente tale. Una volta fatto questo, alla fine del capitolo si esprime come se l’eliminazione del caso critico valesse come una dimostrazione del suo assunto fondamentale. Se questo vale, allora il modo in cui si compongono qui le due divisioni è messo in luce più chiaramente dal seguente schema, che ha il vantaggio di generare soltanto tre casi (come effettivamente avviene in Aristotele). Le cose in movimento si dividono in: mosse “da altro”
mosse bivaÛ kai;
mosse esse stesse da se stesse = che muovono esse stesse se stesse.
mosse fuvsei
para; fuvsin
L’insieme delle cose mosse (rappresentato dalla linea orizzontale) è diviso in due modi differenti dalle due divisioni. Dei tre segmenti, nei quali tale linea risulta così divisa, quello che rappresenta il caso critico è quello centrale, quello dato dalle cose mosse “da altro” e insieme mosse “per natura”. IV – Fin qui l’esposizione è stata condotta in termini alquanto astratti, conformemente al modo aristotelico di formulare le questioni. Tuttavia, entrambe le divisioni hanno dei riferimenti molto chiaramente riconoscibili entro i lineamenti più primitivi e irrecusabili del mondo aristotelico. La divisione tra le cose mosse “esse stesse da se stesse” e quelle mosse “da altro” si riferisce a quella tra le cose in animate e non animate: le prime hanno un motore interno, le seconde non l’hanno. Questo riferimento è esplicito nel cap. 4; tuttavia si può dire che esso sia presente in tutto il Libro VIII. Va notato anzitutto che questa divisione distingue cose mosse, sotto il profilo per cui il loro motore appartiene o non appartiene ad esse.
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Quanto alla seconda divisione – quella tra “per natura” e “per violenza e contro natura” –, va anzitutto notato che essa si colloca su un piano differente: non divide cose. Invero, il modo di esprimersi di Aristotele tende ad occultare questa differenza: infatti, nell’introdurre in successione immediata le due divisioni egli si serve in entrambi i casi della medesima espressione per indicare ciò che distingue: ta; mevn … ta; dev. Si tratta di un’espressione poco impegnativa, e forse anche per questo Aristotele la usa molto di frequente. Tuttavia, una traduzione che intendesse i due tav contrapposti del testo aristotelico come rinvianti a due tipi di cose distinti e contrapposti andrebbe bene soltanto per la prima divisione, ma non potrebbe andare bene per la seconda: infatti, una stessa cosa può essere in movimento per natura e per violenza. Ciò che con la seconda distinzione è contrapposto è dato piuttosto dai movimenti o (più in generale e includendo nella considerazione anche la quiete) dai comportamenti delle cose rispetto al moto, sotto il profilo per cui tali comportamenti sono conformi o contrari alla natura delle cose che li compiono. Di nuovo, come è evidente dal cap. 4, il riferimento principale di questa distinzione è a un fenomeno primitivo e irrecusabile del mondo aristotelico, quello dato dal comportamento dei corpi pesanti e leggeri, i quali normalmente vanno rispettivamente verso il basso e verso l’alto, ma in condizioni particolari sono spinti “contro natura” nelle direzioni rispettivamente opposte. È possibile allora tratteggiare l’articolazione grezza delle cose naturali e dei loro moti presupposta da questo capitolo del Libro VIII nel modo seguente. Le cose mobili naturali (proprietarie ciascuna di una natura, cioè di un principio interno di mutamento/movimento e quiete) sono fondamentalmente di due tipi: il tipo delle cose animate – tali cioè da possedere la capacità di muovere esse stesse se stesse – e il tipo delle cose non animate – tali invece da non possedere tale capacità –. Tra i movimenti effettivamente compiuti dalle cose naturali ce ne sono, accanto a quelli conformi alla natura di ciò che li compie (cioè conformi al dettato dato ad esse con lo specifico principio “natura” che costituisce e distingue ciascuna di esse), altri che non sono conformi a tale na-
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tura. Perché avvengano movimenti non conformi alla natura della cosa mossa è necessario (ma non sufficiente) che qualcosa di “altro” rispetto alla cosa mossa agisca sulla cosa mossa, in modo da farle compiere un movimento diverso da quello “dettatole” dalla sua natura, dunque un movimento “per violenza” ( biva)/ . Il tipo di cose nel quale si alternano movimenti effettivi secondo natura e movimenti effettivi contro natura (o comportamenti effettivi secondo natura e comportamenti effettivi contro natura quanto al movimento e alla quiete) è dato anzitutto dalle cose non animate, ed è esemplificato nel modo più chiaro e sicuro dalle cose pesanti e leggere (nelle quali si osservano moti secondo natura – rispettivamente in basso e in alto – e moti contro natura – i rispettivi opposti). Le cose del tipo animato invece, in quanto muovono esse stesse se stesse, non compiono movimenti contro natura e per violenza. In quanto, muovendo se stesse, muovono le loro parti, possono far compiere per violenza movimenti contro natura alle loro parti (per esempio, sollevando un braccio, che è un corpo pesante); ma, appunto, sono le loro parti che compiono movimenti per violenza contro natura, e tali parti lo fanno in quanto mosse da altro rispetto a loro stesse; nel muovere le proprie parti contro la loro natura una cosa animata non muove se stessa contro natura.17 Uno dei tratti che più merita di essere sottolineato di questa “fenomenologia”, da cui Aristotele prende le mosse, è dato del fatto che nell’animato si combinano, in un modo che appare ovvio, l’essere motore di se stesso con il muoversi per natura. In effetti, è in potere dell’animato (ejp∆ aujtw/') – dice Aristotele – il suo muoversi di moto locale, e dipende dalla natura costitutiva dell’animato il dettato all’origine del suo muoversi. La natura detta all’animato il comportamento proprio, comportamento che è in certa misura e in certo modo in suo potere realizzare mediante il potere che egli ha sui suoi moti locali. V – In base a queste considerazioni il cap. 4 può essere inserito nel contesto del Libro VIII della Fisica nel modo seguente. Lo 17
Phys., VIII, 4, 254 b 18 ss.
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svolgimento dimostrativo complessivo del libro è imperniato sulla relazione mosso-motore e ha come assunto fondamentale e irrinunciabile che «tutto ciò che è mosso è mosso da qualcosa», da cui dipende la distinzione tra “mosso da altro” e “mosso da se stesso”. Tale svolgimento dimostrativo riguarda, ovviamente, l’ambito delle cose naturali, presuppone perciò la nozione di natura, tuttavia non si vale di essa; in particolare, l’assunto che «tutto ciò che è mosso è mosso da qualcosa» non è derivabile dalla definizione di “natura” (né Aristotele appare mai pretendere che sia derivabile). Invero, potrebbe sembrare che tale assunto sia messo in questione ed invalidato dalla concezione, sviluppata indipendentemente, di movimento per natura e dalla connessa distinzione dei movimenti in “per natura” e “per violenza”. Il capitolo risolve questa aporia, senza rigettare niente di quanto Aristotele ha detto altrove; l’assunto così può essere riaffermato, e la dimostrazione così può riprendere, continuando a non far ricorso alla nozione di movimento per natura. Perché la concezione di un movimento per natura, e quella associata di cosa naturale come costituita essenzialmente da un principio interno di movimento, rischia di essere aporetica in questa dimostrazione? Il principio “natura” esiste (in modo distribuito) nelle unità corporee, è proprio di ciascuna unità corporea. Un “mosso” è un corpo naturale. I corpi naturali nel loro complesso costituiscono dunque sia il piano cui si applica (distributivamente) il principio “natura”, sia il piano delle cose mobili e mosse, i cui movimenti richiedono in ciascun caso un motore tale da agire sul mosso. Ora, il “qualcosa” in posizione di motore, che in tutti i casi deve esserci, si rivelerà essere, al termine di tutte le risalite di tutte le concatenazioni mosso-motore, immobile, e dunque distinto dal mosso di cui è motore. La natura per contro – il principio del movimento e della quiete del mobile, ciò che per ciascun mobile costituisce il principio di spiegazione del comportamento quanto al moto e alla quiete, in senso largo la sua essenza – è certamente interna al mobile, essendone il costituente primo. Ma in questa dimostrazione il motore deve essere altro dal mosso. La tensione teorica è data dunque qui da un mobile che si muove
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da un lato per natura (la quale rientra essenzialmente nella sua costituzione), dall’altro (come qui deve) per l’azione di un motore, il quale non coincide con esso. Evidentemente, questa possibile tensione teorica è superabile, a condizione che la natura da un lato e il motore dall’altro possano essere insieme mantenuti distinti, come due distinti fattori causali di un movimento, e tuttavia coordinati, come due fattori causali che si integrano in un complesso esplicativo unitario. Invero, sembra abbastanza naturale intendere la definizione di natura nel senso, per cui essa costituisce una spiegazione sufficiente del muoversi di una cosa, quando ci siano le condizioni per la realizzazione del suo dettato; ma se è intesa in questo senso, la natura aristotelica sembra contenere una latente invalidazione dell’assunto qui irrinunciabile, perché l’addurre come fattore causale un motore esterno sembra ridondante. È dunque indispensabile, per Aristotele, una messa a punto precisa del differente apporto causale della natura e del motore. Questa è la coesistenza difficile, che potrebbe intralciare lo svolgimento argomentativo del Libro VIII, e che Aristotele affronta nel cap. 4. Si noti come lo Stagirita, mentre da un lato non pretende certo (come si è detto) di derivare la necessità di un motore per ogni movimento dalla definizione di natura, dall’altro si esprime come se non ci fossero problemi di compatibilità tra la definizione di natura come principio di movimento e la tesi della necessità di un motore per ogni movimento, nonostante la possibilità di intendere la natura in modo da rendere non indispensabile il motore almeno per certi casi di movimento. Il suo procedimento in questo capitolo non è, come si è già accennato, quello di dimostrare la necessità teorica del motore in tutti i casi, bensì, ferma restando tale necessità teorica, quello di far vedere il motore là dove non sembra visibile; l’aporia è così eliminata mediante una coordinazione delle due concezioni. Se c’è stata una evoluzione nella sua concezione di natura (come alcuni hanno supposto), Aristotele in questo capitolo non mostra di riconoscerla.
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VI – È parte essenziale della concezione dei movimenti per natura la distinzione (presente in questo capitolo) tra movimenti per natura e movimenti per violenza e contro natura. I movimenti contro natura in effetti per Aristotele non solo ci sono in natura, ma anche ci devono essere: sono in effetti indispensabili per la funzione esplicativa del principio “natura” rispetto a regolarità non necessarie, come caratteristicamente sono quelle dei processi biologici. La natura è ciò che spiega tale regolarità coesistente con la possibilità che i processi si compiano altrimenti, e dunque con le effettive irregolarità. Essa in effetti costituisce per ciascuna cosa naturale una tendenza, un indirizzo proprio, senza che d’altronde ci sia, o possa esserci, una garanzia del conseguimento della condizione cui la tendenza è rivolta; ogni cosa si muove in mezzo ad altre cose, le quali sono sempre possibili impedimenti. Il valore esplicativo del “principio natura” consiste effettivamente nello spiegare le connessioni normali di comportamenti là dove sono possibili comportamenti differenti. L’eliminazione dei movimenti contro natura (cioè l’assegnazione di pari naturalità a tutto ciò che accade tra le cose) sarebbe dunque la distruzione della natura aristotelica come principio esplicativo esistente in modo distribuito nelle cose mobili, e la ridurrebbe a nome generico di una collezione. Ma la presenza di movimenti contro natura non è, per l’argomentazione complessiva del Libro VIII, un problema (e non è neppure parte della soluzione del problema), perché essi sono secondari. Aristotele espone questo aspetto della sua concezione nel modo più netto nel cap. 2 del Libro III del De caelo. È innegabile che i corpi semplici abbiano ciascuno un moto proprio secondo natura – dice Aristotele – perché altrimenti tutti i loro moti dovrebbero essere per violenza, ma i moti per violenza coincidono con quelli contro natura, e “contro natura” presuppone “secondo natura”, rispetto a cui esso si definisce. 18 (Notiamo tra parentesi che la ricusazione di questo argomento richiederebbe la ricusazione preliminare della distinzione stessa tra moti naturali e moti violenti, e il riconoscimento di pari naturalità a tutti i moti.) 18
Cael ., III, 2, 300 a 21 - 27.
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A questo argomento Aristotele ne fa seguire uno a sostegno della primarietà dei moti secondo natura: «Perciò Leucippo e Democrito, che dicono che i corpi primi si muovono sempre nel vuoto e nell’infinito, dovrebbero dire di quale movimento si muovono e qual è il movimento secondo natura di essi. Infatti, [1] se tra gli elementi l’uno è mosso dall’altro per violenza [biva]/ , tuttavia è necessario che ciascuno abbia anche un determinato movimento secondo natura, rispetto al quale quello violento è contro. E [2] bisogna che il movimento che per primo muove [ th;n prwvthn kinou'san scil . kivnhsin ] muova non per violenza; infatti si va all’infinito, se non ci sarà un primo che muove secondo natura, e invece a muovere sarà ogni volta ciò che è mosso in precedenza per violenza [eij mhv ti e[stai kata; fuv sin kinou'n prw'ton, ajll∆ ajei; to; provteron biva/ kinouvmenon kinhvsei]».19
Il passo chiave è quello qui indicato con [2], ricostruibile nel modo seguente. O c’è un primo movimento per natura, oppure c’è il regressus in infinitum dei moti violenti; ma la seconda possibilità è esclusa; quindi c’è un primo movimento per natura. Ciò che rende inammissibile la seconda possibilità è il regressus in infinitum che essa contiene. Ma tale regressus in infinitum è generato dall’impossibilità di porre un primo nelle concatenazioni di moti violenti. Questo argomento dunque equivale a porre che il primo e il “secondo natura” coincidono, come condizione perché la natura conservi il suo valore di base esplicativa. Dunque le cose naturali entrano in gioco, per così dire, nel movimento con la loro natura, e poi eventualmente si muovono anche contro natura. VII – I comportamenti per violenza dunque non costituiscono motivo di aporia, data la loro secondarietà; di conseguenza, l’innesto della teoria dei motori sulla concezione della natura, che si tratta di compiere per assicurare la validità dell’assunto fondamentale di questo libro, va compiuto non tanto in riferimento ai comportamenti in generale delle cose naturali, quanto piuttosto ai comportamenti per natura delle cose naturali. Posto che l’assunto 19
Cael ., III, 2, 300 b 8 - 16.
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fondamentale – tutto ciò che è mosso è mosso da qualcosa – non è in questione, si tratta allora di mostrare per tutti quei casi, nei quali un movimento è per natura per ciò che lo compie, il “qualcosa” che assolve al ruolo di motore. Come si è già detto, la via che percorrerà Aristotele per pervenire al primo motore immobile passerà per quel tipo di cose che possiedono la capacità di muovere da sé se stesse, cioè le cose viventi. Ma non è questo il tipo di cose che è all’origine dell’aporia affrontata in questo capitolo, e che ne determina la redazione. Infatti, dice Aristotele, «entro le cose che si muovono secondo natura [ scil. è chiaro che sono mosse da qualcosa] quelle che sono mosse esse stesse da se stesse, come gli animali; infatti non è oscuro questo: se sono mosse da qualcosa, bensì in che modo si deve distinguere ciò che di esse muove e ciò che è mosso».20
L’oscurità evocata in queste parole sarà in effetti affrontata nel cap. 5, e costituisce, come si è accennato all’inizio, il punto forse più controverso dell’intero libro. Nel cap. 4 peraltro il problema affrontato è quello dato dalle restanti cose naturali, quelle che come tali hanno movimenti per natura, per i quali si pone il problema del motore; le cose cioè che, nel muoversi per natura, occupano il segmento centrale dello schema che si è proposto sopra. Vale la pena di notare come Aristotele imposta il problema. La due divisioni (“mosso da altro – da se stesso” e “mosso per violenza – per natura”) non sono in questione, né è in questione la loro esaustività; di conseguenza, non è discutibile che il caso dei corpi semplici debba essere collocato entro una delle “caselle” generate dall’incrocio delle due divisioni. Ciò posto, se i corpi semplici potessero essere collocati nella stessa casella dei corpi animati quanto al loro motore (se cioè fossero mossi da se stessi), allora non costituirebbero una difficoltà distinta da quella relativa in generale a ciò che è mosso da se stesso, e una loro trattazione ricadrebbe nell’ambito della discussione svolta nel cap. 5. Ma è impossibile – dice Aristotele – che essi siano mossi da se stessi; quindi, dato che certamente sono 20
Phys., VIII, 4, 254 b 27 - 30.
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mossi da qualcosa, devono essere mossi da altro, in virtù dell’irrecusabilità della doppia divisione iniziale. Allora la questione non è, se ci sia per essi un motore, bensì, posto che c’è ed è altro da essi, quale sia questo loro altro che ne è il motore; più precisamente, in quale rapporto stia con essi. Questa impostazione esclude d’emblée la possibilità di un inizio assoluto di un movimento. Che questa sia l’impostazione aristotelica del problema, è ben riconoscibile. Lo Stagirita in effetti dice che ciò che produce più difficoltà (mavlista ajporei'tai) è dato dai corpi semplici; e nel collocarli entro le sue divisioni si esprime con un tono che, se da un lato tradisce una qualche insoddisfazione, dall’altro mostra come egli si ritenga vincolato al suo schema: «delle cose che sono mosse da altro abbiamo posto che le une si muovono contro natura; quanto alle altre, non resta che porre all’opposto ( leivpetai ajntiqei'nai) che si muovono per natura».21 Ancora più rilevante è che egli contempli la possibilità di collocare i corpi semplici entro le cose che sono mosse esse stesse da se stesse, per escluderla; ed è proprio questa impossibilità a costringere Aristotele alla deviazione del cap. 4. Altrimenti, il livello primario dei mobili sarebbe composto totalmente ed esclusivamente da entità quali le animate. In tal caso, lo svolgimento argomentativo rivolto alla posizione di motori immobili eterni ne risulterebbe facilitato: non dovrebbe fronteggiare la complicazione derivante dal fatto che il livello primario dei movimenti, quello naturale, è composto anche di movimenti, il cui motore è altro da ciò che li compie. Aristotele rigetta questa possibilità (rigetto che a noi sembrerà presumibilmente motivato dal primitivismo scientifico di una teoria che animi gli elementi, ma che fa pensare alle tesi platoniche del Libro X delle Leggi ). Produce due argomenti in questo senso. Il primo è che nelle cose animate l’essere motrici di se stesse è associato con l’avere un certo dominio sul proprio moto locale; ma se fosse “in potere” (ejp∆ aujtw/ ') del fuoco il suo portarsi in alto, lo sarebbe anche un suo portarsi in basso; e questo è assurdo. 22 Il se21 22
Phys., VIII, 4, 254 b 34 - 255 a 1. Phys., VIII, 4, 255 a 5 - 11.
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condo è più collegato con la logica complessiva dell’argomentazione aristotelica. Un corpo semplice non può muovere da sé se stesso, perché in tal caso dovrebbe essere articolabile internamente, in modo che una sua “parte” possa agire, l’altra patire; ma ciò è escluso immediatamente dal suo carattere di corpo semplice. 23 Di conseguenza, i corpi semplici, che certamente si muovono primariamente per natura, sono mossi “da altro”. Si deve allora mostrare questo motore altro e dire come coesista con il carattere per natura del movimento dei corpi semplici; si tratta dunque di produrre una riformulazione più precisa della teoria, tale da dissolvere l’aporia. A questo scopo Aristotele formula per la prima volta nel capitolo con precisione che cosa intenda con “mobile per natura”: «mobile per natura è ciò che è potenzialmente un quale o un quanto o in un luogo [to; dunavmei poio;n h] poso;n h] pouv ], qualora abbia tale principio in se stesso [ th;n ajrch;n th;n toiauvthn ejn auJtw'/ ] e non per accidente».24
L’interpretazione corretta di questa formulazione è, a mio giudizio, la seguente. Mobile è ciò che è potenzialmente altro rispetto a ciò che esso è. Il movimento è l’attualità di ciò che è mobile in quanto mobile; il movimento è dunque l’attualità di ciò che è potenzialmente altro rispetto a ciò che esso è. Questo altro è, per ciascun mobile, determinato; in questa formulazione aristotelica tale determinatezza è data con le espressioni poiovn, posovn, pouv, che consentirebbero anche la traduzione “un certo quale”, “un certo quanto”, “in un certo luogo”. Il punto di questa formulazione aristotelica peraltro è definire “mobile per natura”; ciò è ottenuto mediante la clausola introdotta da “qualora”, la quale mette in contrasto ciò che è mobile per natura con ciò che è mobile non per natura. Il contrasto chiaramente non concerne la mera potenzialità ad essere una certa qualità o una certa quantità o in un certo luogo; infatti una cosa può essere soggetto di tali potenzialità anche non per natura. Il contrasto riguarda il modo in cui le potenzialità 23 24
Phys., VIII, 4, 255 a 12 - 15. Phys., VIII, 4, 255 a 24 - 26.
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stanno a ciò che ne è soggetto. Se esse appartengono alla cosa, come parte della sua costituzione propria – come rientranti nel principio “natura” che costituisce l’essenza della cosa (è questo il senso qui dell’espressione th;n ajrch;n th;n toiauvthn ejn auJtw/' ) –, allora la cosa è “mobile per natura” relativamente ad esse; se invece la cosa ha tali potenzialità, ma non avendole in se stessa come un principio, ma solo per accidente, allora essa non è mobile per natura relativamente ad esse. Detto in altro modo, se il conseguimento di una certa qualità o quantità o localizzazione rientra nella tendenza naturale di una cosa, allora il suo movimento in questo senso è per natura e la cosa è sotto questo profilo mobile per natura. Il termine ajrchv, collegato a potenzialità determinate, rinvia chiaramente qui alla “natura” come principio specifico di movimento e quiete. Su questa base Aristotele può riformulare quel contrasto che qui è fonte dell’aporia: «Il fuoco e la terra dunque sono mossi da qualcosa [1] per violenza, qualora siano mossi contro natura, [2] per natura, qualora siano mossi verso le proprie attualità, essendole potenzialmente [ eij~ ta;~ auJtw'n ejnergeiva~ dunavmei o[nta]».25
È del tutto chiaro che queste attualità “proprie” sono il correlato delle potenzialità il cui principio era avuto internamente dalla cosa, nel passo citato appena sopra. E dunque il motore “altro” delle cose inanimate che si muovono per natura è ciò dalla cui azione dipende che le cose naturali – pensate come connessioni di potenzialità, organizzate in tendenze, o indirizzi, naturali – compiano i movimenti conformi alla propria tendenza, nello “spazio” stesso delle potenzialità, fino al conseguimento dello stato cui esse sono indirizzate naturalmente; nel compimento di questi movimenti consisterà la realizzazione della natura del mosso. VIII – Per ripetere dunque le parole di Aristotele, i corpi semplici sono mossi da qualcosa per natura, qualora siano mossi verso le proprie attualità. Così dicendo, lo Stagirita caratterizza 25
Phys., VIII, 4, 255 a 28 - 30. Il corsivo, ovviamente, è mio.
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astrattamente un motore, come qualcosa che agisce su una cosa costituita da una connessione di potenzialità indirizzate e configuranti una tendenza. Ma non è ancora ben visibile, come nota lo stesso Aristotele, in che cosa consista il motore, proprio nel caso dei corpi semplici che si muovono per natura; soprattutto non è ancora ben chiaro in che cosa consista l’azione del motore sul mosso. Invero, è in base al modo, in cui il motore è pensato agire su una cosa naturale (qui, su un corpo semplice e inanimato), che può emergere in che modo Aristotele intende un motore. Qui procederò in un modo un poco insolito. Produrrò tre costruzioni possibili della spiegazione causale dei moti naturali dei corpi semplici, ignorando anzitutto la complicazione, in Aristotele importantissima, apportata dal quinto corpo semplice, l’etere, procedendo cioè come se tali costruzioni fossero intese come riferibili allo stesso modo a tutti indiscriminatamente i corpi semplici, e l’etere non esistesse (si noti che in questo capitolo non si fa cenno all’etere). Mi varrò di interpretazioni già proposte, ignorando, nel servirmene, che esse hanno tenuto conto della complicazione apportata dall’etere. La prima e la seconda costruzione non sono mai state proposte per il cap. 4 di questo libro, perché sono immediatamente incompatibili. Tuttavia esse sono intese a rendere, per contrasto, più chiara la terza e le sue difficoltà. Un movimento per natura è “qualcosa” di un corpo naturale (qui un corpo semplice) che lo compie. Ciò posto, ci sono due elementi strutturali dei movimenti per natura dei corpi che sono comuni a tutte le costruzioni e che sono fuori questione. Essi sono: a) la tendenza, o indirizzo, o dettato, naturale proprio del corpo; b) l’insieme delle circostanze esterne in cui il corpo si muove, che possono essere favorevoli oppure impedienti, rispetto alla sua tendenza naturale. Ora, è possibile pensare che questi due elementi, da soli, siano sufficienti a fornire un complesso esplicativo adeguato per i moti effettivi: le cose si muovono secondo il dettato che proviene ad esse dalla loro natura, a meno che le circostanze esterne siano
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impedienti. Per questo quadro esplicativo basta la natura, per così dire; non c’è bisogno del fattore esplicativo ulteriore dato dal motore, perché la natura assolve già essa a tutte le funzioni esplicative cui potrebbe assolvere il motore. È immediata l’incompatibilità di questa spiegazione con il cap. 4 di Fisica VIII. Va aggiunto un rilievo, che va oltre quanto dice Aristotele: per questo quadro esplicativo una cosa naturale dispone, oltre al dettato naturale che la costituisce, di una certa forza, cui essa fa ricorso nel muoversi. Invero, una tale forza non può coincidere con la specifica tendenza naturale che costituisce la cosa: due cose specificamente identiche avranno la stessa tendenza, possono d’altronde avere una forza differente. Questo aspetto delle cose naturali, per cui la forza di cui esse dispongono (e bisogna che dispongano) è irriducibile alla tendenza, non è peraltro in primo piano, ma è presente piuttosto come un’ovvietà implicita: Aristotele in effetti pensa tendenzialmente la forza come subordinata a, serva de, la tendenza, come qualcosa di cui il soggetto della tendenza dispone; la tendenza indirizza l’uso della forza; e dunque, per la teoria, è sufficiente ammettere che, quando la cosa si muove secondo la tendenza, c’è in essa forza quanto basta. Il cambiamento di comportamento di una cosa quanto al moto e alla quiete è spiegato normalmente dal cambiamento delle circostanze esterne. Questa costruzione (la prima delle tre astrattamente possibili) della concezione dello Stagirita non può, come si è detto, essere riferita al Libro VIII della Fisica, visto che per essa all’origine del movimento si trova la fuvsi~ da sola, per così dire, cioè senza il concorso ulteriore di un motore. La concezione di una natura esplicativamente sufficiente da sola è stata in effetti vista da alcuni interpreti come presente (in misura prevalente) nel De caelo e nel Libro II della Fisica. L’ovvia implicazione di questa lettura è che ci sia stata un’evoluzione nel pensiero aristotelico, e che l’ultimo libro della Fisica costituisca una fase più elaborata delle sue concezioni in proposito. Qui tuttavia non affronterò la questione (insieme scivolosa e spinosa) dell’evoluzione del pensiero di Aristotele; ho citato il quadro esplicativo dei movimenti visto da alcuni interpreti in altri libri di Aristotele solo allo scopo di rendere più
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evidente, per contrasto, l’interpretazione di questo capitolo del Libro VIII. La seconda costruzione possibile introduce, accanto ai due elementi basilari (la tendenza naturale e le circostanze esterne), il motore come terzo elemento. Caratterizzante è il modo in cui lo connette agli altri due. La natura di un corpo naturale costituisce in tale corpo il dettato, l’indirizzo, a muoversi che gli è specificamente proprio; dunque la natura di un corpo spiega come esso si muove. Non spiega ancora che si muova. Neppure le circostanze esterne sono sufficienti a spiegare (in base al loro essere favorevoli o impedienti rispetto alla tendenza naturale) il fatto che ci sia il movimento della cosa, invece di non esserci . Una cosa naturale ha, originariamente collegato con il dettato specifico, ma distinguibile da esso, un impulso interno a muoversi; è questo ciò che fa sì che la cosa si muova, a meno che le circostanze non lo impediscano. Questo impulso richiede di essere attivato, destato; in assenza di un tale fattore destante, la cosa naturale non si muoverebbe. Tale fattore attivante, destante, è il motore; questo è il ruolo causale ed esplicativo di un motore. Si noti che l’impulso, che questa costruzione pone nella cosa, è essenzialmente altro dalla forza; l’impulso è direttamente attivato dal motore, e, una volta attivato, fa sì che il movimento ci sia; la forza invece è qualcosa di cui la natura dispone e a cui essa ricorre al destarsi dell’impulso, e che è necessario, perché il movimento sia possibile (la prima costruzione, esposta poco sopra, non aveva bisogno di una distinzione quale quella qui formulata tra l’impulso e la forza, perché nelle circostanze favorevoli la cosa naturalmente e immediatamente fa ricorso alla propria forza). Dunque la relazione tra il motore e il mosso in questa (seconda) costruzione è quella di attivazione. Detto metaforicamente, è quella di destare a muoversi una cosa naturale già costituita quanto al suo dettato a muoversi; spingendo ancora oltre la metafora, ciò che è dormiente, e destato dal motore, sono le potenzialità proprie del mobile. Il movimento avviene, inoltre, a meno che le circostanze lo impediscano (e se la cosa naturale dispone di una forza sufficiente). In questa costruzione il motore è presente al suo
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mosso, allorché questo si muove. L’attivazione dell’impulso sembra richiamare in qualche misura l’attivazione del desiderio (anche se si tratta di corpi inanimati), e la causalità del motore, se così intesa, sembra essere del tipo finale: l’impulso che muove la tendenza naturale non può che essere rivolto a un bene. 26 IX – Come ho già detto, queste due costruzioni non possono essere valide per il cap. 4 di questo libro; sono state formulate per rendere più chiaramente, per contrasto, la terza. È nella connessione del motore con il mosso che sta la differenza essenziale. Mentre nella seconda costruzione il motore attivava il mosso agendo sul suo impulso, qui il motore produce la natura, la quale poi si muoverà (a meno che le circostanze esterne lo impediscano) in base alla tendenza, in cui essa consiste. Aristotele procede producendo anzitutto un modello, nel quale l’insieme degli elementi della sua costruzione sono ben distinti, e poi invita a trasferire questa struttura nei casi dove è più difficilmente visibile. Il modello è dato dal processo di apprendimento e di esercizio della conoscenza. Egli dice anzitutto: Questa esposizione di ciò che ho chiamato “la seconda costruzione” della spiegazione causale dei moti naturali dei corpi semplici si è rifatta principalmente all’articolo classico di W.C.K. Guthrie, The Development of Aristotle’s Theology, I e II , «Classical Quarterly», 1933, pp. 162-171 e 1934, pp. 90-98. Una citazione permette di rendere evidente la misura in cui mi sono rifatto ad esso: « All change and motion is to be regarded as the actualization of a potency. The actualization takes place because the fuvsi~ of thing is something dynamic, an inward urge towards the realization of the form. … [ Ma ] this inward urge would remain dormant unless there were actually existent some external perfection to awaken it, by instilling the desire of imitation, in so far as that was possible for each thing in its own particular mode of being » (p. 171). Come si vede, c’è qui l’isolamento dell’impulso (l’inward urge), la funzione destante del motore, la connessione con il desiderio e l’imitazione. Sottolineo nuovamente che nell’articolo di Guthrie l’attenzione al caso del movimento dei cieli è in primo piano (come è già indicato dal titolo stesso), mentre nella mia esposizione l’ho ignorato. Tra gli studiosi recenti mi sembra ancora assai vicino all’impianto teorico della costruzione di Guthrie l’articolo di L. Judson, Heavenly Motion and the Unmoved Mover , in M.L. Gill-J.G. Lennox (a cura di), Self-Motion. From Aristotle to Newton , Princeton, 1994, pp. 155-171. 26
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«Chi sta apprendendo è in un altro senso potenzialmente conoscitore rispetto a chi ha già [ h[dh] la conoscenza e non la sta esercitando [mh; ejnergw'n ]. In tutti i casi, in cui ciò che ha la capacità di produrre [to; poihtikovn] e ciò che ha la capacità di subire [to; paqhtikovn] sono insieme, ciò che è in potenza diviene attualmente; per esempio: chi sta apprendendo diviene, dall’essere potenzialmente qualcosa, soggetto di una differente potenzialità (infatti chi ha la conoscenza, ma non contempla [ mh; qewrw'n ], è un conoscitore potenziale in un certo senso, ma non nel senso in cui lo era prima di aver appreso), e, quando si trova in questa condizione, se nulla lo impedisce, esercita, cioè contempla». 27
L’aspetto decisivo introdotto da questo modello è la scomposizione in due fasi dell’azione del motore sul mobile che effettivamente si muove. Il motore – in questo modello rappresentato dal maestro, indicato astrattamente con l’espressione to; poihtikovn – propriamente agisce sul mobile ( to; paqhtikovn) soltanto nella prima fase, producendo con la sua azione nel discepolo l’abito conoscitivo, cioè la disposizione consistente nella potenzialità ad esercitare l’attività conoscitiva (cioè la potenzialità che in seguito sarà chiamato “potenza seconda”); in questo modello il discepolo rappresenta il mobile, l’abito conoscitivo la tendenza naturale e l’esercizio della potenzialità conoscitiva (della potenza seconda) il movimento. Che l’esercizio della potenza seconda si compia non dipende, nel modello, dall’azione ulteriore del maestro; correlativamente, che il movimento si compia dipende dalle circostanze esterne (da che siano non impedienti). Dunque nella fase del compimento del movimento non è necessario che il motore sia presente al mosso; l’azione del motore sul mobile in questa costruzione appartiene essenzialmente al passato del mobile che si sta muovendo. In questa costruzione dunque un motore trasforma un soggetto di potenzialità producendo in esso un indirizzo determinato – una tendenza e disposizione – entro il suo insieme di potenzialità, generando in senso largo una natura. Questa poi esercita in certo senso autonomamente dal motore la potenza seconda acquisita 27
Phys., VIII, 4, 255 a 33 - b 4.
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per l’azione del motore. Si noti come questo modello rispetti uno dei requisiti della causazione aristotelica: la causa agisce trasmettendo ciò che essa possiede già (qui, l’abito conoscitivo). Si noti anche come il motore in questo modello sia di per sé immobile (anche se certamente mobile per accidente): il maestro in quanto maestro non cambia nel trasmettere l’abito conoscitivo. Si noti infine come la causalità del motore, in questo modello, sembri essere piuttosto di tipo efficiente: il motore produce in altro il principio del movimento di cui è il motore.28 Rifacendoci al modello ben scomposto, si vede facilmente quali siano le differenze con la costruzione precedente. Qui il motore produce la natura, cioè la cosa naturale costituita dalla sua tendenza specifica, e non è presente quando tale cosa si muove secondo la propria tendenza; là il motore agiva su una cosa che esso trovava già costituita, agiva attivando e dunque era presente quando la cosa si muoveva secondo la propria tendenza. Qui, data la cosa naturale con la sua tendenza, dipende solo dalle circostanze esterne che essa si muova effettivamente; là le circostanze esterne favorevoli non erano sufficienti a spiegare che la cosa si muovesse effettivamente. Qui la causalità del motore è di tipo efficiente; là sembrava essere piuttosto di tipo finale (l’isolamento dell’impulso rispetto alla tendenza, come ciò che richiede di essere destato, sembra introdurre inevitabilmente un riferimento al bene). Se poi introduciamo nel confronto anche la prima costruzione esplicativa, vediamo che questa terza e ultima le è assai più prossima dell’altra. Si può dire che la struttura della prima viene a costituire, rimanendo intatta, la seconda fase della terza, dove una naNell’esposizione di ciò che ho chiamato la “terza costruzione” della spiegazione dei moti naturali dei corpi semplici ho tenuto conto in particolare dell’articolo di I.M. Bodnar, Mover and Elemental Motions in Aristotle , in «Oxford Studies in Ancient Philosophy», 1997, pp. 80-117. Bodnar peraltro presenta qua e là formulazioni che tendono ad oscurare le difficoltà; per esempio a p. 102 dice: « In the Physics Aristotle illustrates the motion of the elements with the allegedly parallel case of a teacher who induces knowledge in her student, and is responsible both for the state of knowledge these students have and for the actual performance of the students as well» . Ma l’insegnante non è la causa dell’actual performance della scolara, ma soltanto del modo in cui si realizza. 28
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tura si muove secondo la propria tendenza, a meno che le circostanze esterne non siano impedienti, senza necessità della presenza di un motore; la terza costruzione esplicativa premette semplicemente la prima fase, nella quale la natura è prodotta dal motore, e in questo modo introduce il motore. Per contro, come si è già notato, assai maggiore è la modificazione introdotta con la seconda costruzione esplicativa, dove il motore attiva la natura a muoversi essendo presente. X – Ho compiuto questa analisi riferendomi al modello proposto da Aristotele – quello dell’apprendimento e dell’esercizio della conoscenza – perché in esso tutti gli elementi sono ben scomposti, dunque chiaramente visibili. Ora, lo Stagirita, subito dopo averlo esposto, procede come se in base ad esso divenissero visibili gli stessi elementi anche nel caso più opaco dei movimenti per natura dei corpi semplici; in questo modo diviene visibile in questo caso il motore. In realtà, c’è qui una sorta di progressione, con la quale Aristotele si avvicina poco per volta al caso più opaco. Dice infatti, nelle righe immediatamente successive: «Le cose vanno nello stesso modo [ oJmoivw~] anche nel caso dei corpi naturali: ciò che è freddo è potenzialmente caldo; qualora sia cambiato, è ormai [ h[dh] fuoco, e brucia, se nulla impedisce. Le cose vanno nello stesso modo [ oJmoivw~] anche nel caso del pesante e leggero: ciò che è leggero nasce dal pesante, per esempio l’aria dall’acqua (l’acqua infatti è il potenzialmente leggero più prossimo), ed è ormai [h[dh] leggero, e immediatamente eserciterà [ ejnerghvsei eujquv~ scil. la sua leggerezza], se nulla impedisce. Attualità [ ejnevrgeia] di ciò che è leggero è essere in un luogo [ pouv], cioè in alto; è impedita, qualora esso sia nel luogo opposto».29
I tre h[dh – “già, ormai” – scandiscono nei tre casi le due fasi, quella trasformativa e produttiva che precede, e quella “attiva” che segue. Il motore nei due casi dei movimenti dei corpi semplici sarà dunque l’analogo del maestro nel processo di apprendimento 29
Phys., VIII, 4, 255 b 5 - 12.
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e di passaggio dalla condizione di potenza prima a quella di potenza seconda; in entrambi i casi, si tratterà di un poihtikovn; “ciò che rende caldo” nel primo caso, “ciò che rende leggero” nel secondo. Si noti che poihtikovn resta l’unico termine per indicare il motore, senza che siano dati elementi per una sua identificazione più precisa; se nel modello il maestro può essere facilmente identificato come il motore per il processo di apprendimento, non altrettanto facile è la corrispondente identificazione del motore nei processi di formazione del caldo e del leggero. Peraltro, se vale l’analogia, il motore è comunque identificato in termini funzionali: è ciò che di volta in volta assolve alla funzione di generare la cosa naturale. E si può assumere che c’è sempre ciò che ha assolto a tale funzione. A sua volta, il movimento corrisponderà all’esercizio della potenza seconda; nel primo caso consisterà nel bruciare (transitivo). Il secondo caso però è meno chiaro. Infatti, l’esercizio della potenza seconda del leggero è indicato come “ essere in un luogo”; ora, “essere in un luogo” non è compiere un movimento. Il motore così diviene causa di un esercizio di una potenza seconda, che, strettamente parlando, non è movimento (anche se richiede un movimento preliminare per realizzarsi). Questo potrebbe collegarsi bene con l’idea che l’esercizio della potenza seconda non implica di per sé un cambiamento: come l’esercizio della potenza seconda di contemplare non comporta un cambiamento in chi lo compie, così il leggero esercita la sua potenza seconda essendo in alto, senza cambiare (in particolare senza muoversi). Ma certo abbiamo in questo modo un motore che causa molto indirettamente un movimento: lo causerebbe in quanto produce una natura, l’esercizio della cui potenza seconda (cioè, la cui attualità) consiste nell’essere in una condizione, che richiede un movimento preliminare distinto dall’esercizio. Questo movimento preliminare (quello di cui Aristotele all’inizio del capitolo diceva non esser chiaro il motore) non appartiene più alla fase in cui il motore produce (infatti il corpo quando si muove verso l’alto è già leggero), e d’altronde non appartiene ancora alla fase dell’esercizio della potenzialità propria. Inoltre, la presenza dell’impedimento in base a questo modello dovrebbe essere il fattore, che determina che il
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movimento non avvenga; ma, visto che Aristotele dice che l’impedimento qui consiste nel trovarsi nel luogo opposto, qui il darsi di una condizione iniziale di impedimento è la condizione perché il movimento (come distinto dall’esercizio della potenzialità propria) avvenga. Insomma, nel caso del movimento verso l’alto del leggero il motore di tale movimento sembra essere ciò che ha prodotto quel corpo il cui esercizio della potenzialità propria è essere in alto, purché lo abbia prodotto là dove tale esercizio è impedito; in questo casi tale movimento avviene, purché le circostanze impedienti per l’esercizio della potenzialità propria siano non impedienti per il movimento, che porta al conseguimento delle condizioni favorevoli all’esercizio della potenzialità propria. 30 XI – Secondo questa laboriosa analisi, il moto locale dei corpi semplici sembra collocarsi in modo alquanto sfuggente tra la prima e la seconda fase del modello proposto da Aristotele. Peraltro, al di là di questo punto di opacità, sembra davvero essere questa la concezione complessiva dello Stagirita, visto che i suoi ingredienti si trovano anche in un passo del De caelo, in cui non è chiaramente delineata la sfasatura tra l’azione del motore e il movimento. In De caelo, IV, 3 il problema di Aristotele è: perché i corpi non si comportano nel moto tutti allo stesso modo, ma sempre secondo natura gli uni vanno in alto, gli altri in basso? 31 La risposta fondamentalmente sarà che in questo consiste la natura rispettiva dei leggeri e dei pesanti. In questo contesto, come parte della protasi di un lungo periodo ipotetico, Aristotele dice: «capaci di muovere [ kinhtikovn] verso l’alto e verso il basso sono ciò che è capace di rendere pesante [ to; baruntikovn ] e ciò che è capace di rendere leggero [ to; koufistikovn], e mobile è ciò che è potenzialmente pesante e leggero». 32 I. Bodnar (art. cit., n. 28) osserva (p. 103, n. 33) che è un aspetto indispensabile dell’azione del motore, in questo caso, che produca il mosso fuori dal suo luogo; non si esprime però come se ciò potesse costituire un problema. 31 Cael., IV, 3, 310 a 17 ss. 32 Cael ., IV, 3, 310 a 31 - 33. Sebbene parte dell’antecedente di un condizionale, questa frase esprime certamente la concezione di Aristotele. 30
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I due termini baruntikovn e koufistikovn meritano di essere sottolineati; entrambi sono infatti dai conî linguistici di Aristotele e sono degli hapax legomena; non ricorrono altrove nel corpus dello Stagirita; né saranno mai più usati, se non nella tarda antichità (e con significati molto differenti). 33 La ragione di un tale conio terminologico, alquanto artificioso, è che Aristotele sente il bisogno di caratterizzare con più precisione, dotandoli di nomi distinti, i motori specifici dei movimenti dei pesanti e dei leggeri; e, chiaramente, la loro azione specifica è quella di produrre corpi pesanti e leggeri . Si tratta chiaramente della stessa azione sul mosso del cap. 4 del Libro VIII della Fisica; il motore di un movimento è ciò che fa ciò cui è per natura tale movimento. Poco più avanti Aristotele tocca il problema dell’apparente origine interna dei movimenti di questi corpi, e, dopo aver detto che anche per gli altri tipi di movimenti i corpi sembrano talora originare da sé il proprio movimento, in quei casi in cui sia accaduto “fuori” un piccolo movimento, dice: «Più di questi [scil. altri corpi] il pesante e il leggero sembrano avere in se stessi il principio [scil. del movimento], perché la loro materia è la più vicina alla sostanza [ dia; to; ejgguvtata th'~ oujsiva~ ei\nai th;n touvtwn u{lhn ]; ne è una prova il fatto che il moto locale è proprio di corpi che risultano distaccati [ ajpolelumevnwn ] ed è per nascita [genevsei] l’ultimo dei movimenti; di conseguenza questo movimento sarà primo secondo la sostanza». 34
Ciò che importa osservare di questo passo è che il moto locale – il moto specifico di ciò che è pesante o leggero – è collocato nel piano di passaggio, per così dire, tra le due fasi; ha luogo alla fine del processo di formazione, che lo precede, e nel quale è attivo “ciò che rende pesante” (o leggero), cioè il motore; d’altra parte, la massima prossimità alla “sostanza” della materia di ciò che compie tale moto non può essere interpretata altrimenti che come la condizione, nella quale si tratta di compiere un solo movimento 33
baruntikovn
in contesti musicali, koufistikovn in contesti medico-farma-
cologici. 34 Cael., IV, 3, 310 b 31 - 311 a 1.
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per pervenire alla compiutezza. Il movimento del pesante e del leggero è l’ultimo e il più prossimo. Si noti che una massima vicinanza è ancora una distanza, seppure di un passo solo. Aristotele prosegue immediatamente con una formulazione non molto nitida: «Qualora dunque da acqua nasca [ givgnhtai] aria, e dal pesante leggero, l’aria va verso l’alto. Insieme è leggera, e non più diviene, bensìlàè[a{ma d∆ ejsti; kou'fon, kai; oujkevti givnetai, ajll∆ ejkei' ejstin]».35
La prima frase sembra contenere la scansione in due fasi, quella del nascere e quella successiva del muoversi: il pesante diventa leggero, poi l’aria va in alto. La seconda frase sembra invece connettere immediatamente alla fine del processo di trasformazione la condizione finale del movimento, se, come sembra, l’ejkei' indica il luogo in cui il leggero va a stare; il tempo in cui il leggero è già nato, ma non è ancora “là”, sembra come saltato, e con esso il movimento. Invero, non si può ricavare troppo da una breve frase come questa. Sembra però potersi dire che anche qui è presente il punto di opacità precedentemente notato. Ciò depone a favore della sostanziale identità di concezione tra questo capitolo del De caelo e quello qui studiato del Libro VIII della Fisica; e sembra suggerire che nella Fisica ci sia soltanto una formulazione più elaborata (che quindi la Fisica sia successiva), senza che però le opacità vengano meno nel passaggio da un testo all’altro. XII – Il contenuto del cap. 4 del Libro VIII sembra dunque essere il seguente. Tutto ciò che è mosso è mosso da qualcosa. Questo non è in discussione; ma va affrontato il caso dei movimenti per natura dei corpi inanimati, dove non è chiaro in che cosa risieda il motore. L’aporia è risolta, ponendo come motore ciò che nel passato del mobile in movimento ha prodotto (dunque come causa efficiente) quella cosa naturale che il mobile è, la cui natura spiega causalmente il movimento presente, dato che nel suo compierlo consiste la propria realizzazione, e spiega causal35
Cael ., IV, 3, 311 a 1 - 3.
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mente anche quei movimenti compiuti in funzione di tale propria realizzazione, anche quando non coincidono con la propria realizzazione (come sembra il caso per i moti del pesante e il leggero, anche se certamente Aristotele non distingue nettamente le due attività). Il motore non necessariamente è presente al movimento del mosso; ne determina tuttavia la sua forma, visto che lo ha generato come cosa naturale. Indirettamente, determina anche che il mosso si muova, visto che il movimento del mosso dipende da che le condizioni esterne siano non impedienti, ma questo carattere è relativo alla natura del mosso. In un senso più remoto, svolge una certa funzione di motore anche chi operando sulle circostanze esterne, le cambia da impedienti a favorevoli; tuttavia, questa eventuale funzione di motore di un agente esterno eterogeneo al mosso rientra in ciò che dipende dal motore vero e proprio, la causa efficiente della cosa naturale, per poter giocare una tale funzione: che la sua azione sia efficace, dipende dalla natura della cosa, quindi dal motore di questa. Nel momento in cui compie il proprio movimento, un corpo leggero che va in alto appare privo di motore. Non appena si pensa il movimento in termini dinamici, e quindi si richiede per il motore una componente dinamica, la concezione aristotelica, che pone un motore non necessariamente presente, appare del tutto insoddisfacente. Se la funzione del motore consiste nel produrre, accanto alla cosa naturale, direttamente il movimento, mediante un’azione che in qualche modo si vale di una forza, e in mancanza di una tale azione non si può legittimamente parlare di un motore, allora la concezione presentata da Aristotele in questo capitolo lascia senza motore le cose inanimate che si muovono per natura. 36 Si è detto sopra come la concezione di Aristotele implichi, senza trattarlo tematicamente, che una cosa naturale disponga di una certa forza, della quale essa si serve in funzione della sua tendenza. Si può allora dire che, data la dipendenza dell’uso della Questo rilievo, che risale a Simplicio (cf. In phys ., 1220, 10 ss.), è stato fatto più volte dagli interpreti. L’ultimo che lo ha compiuto è D. Graham, Aristotle. Physics. Book VIII. Translated with a Commentary by , Oxford, 1999, particolarmente alle pp. 83-89. 36
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forza dalla natura, e data la dipendenza della natura, per quanto riguarda la sua formazione, dal motore, il ruolo causale del motore arriva a coprire anche gli aspetti propriamente dinamici del movimento: un motore nel produrre una natura produce ciò che ricorre alla propria forza in funzione della propria tendenza. Ma, evidentemente, altro è dire che così pensato il motore ha anche un ruolo dinamico, seppure indiretto, altro è dire che una tale “dinamica” sia soddisfacente. L’ottica di Aristotele in questo libro non è peraltro quella di produrre una dinamica; è, credo, quella di riconoscere la necessità dell’esistenza di un livello di motori immobili eterni, come condizione dell’eternità della ghenesis , dalla quale a sua volta dipende l’intelligibilità del mondo. Ma l’eternità della ghenesis è incompatibile con la possibilità del destarsi di una cosa al movimento del tutto indipendentemente da qualsiasi sua relazione con il suo altro. Ma perché questa impossibilità sia mantenibile, per ciascun movimento deve poter essere assegnabile una causa “fuori” da ciò che è il soggetto di tale movimento. Se letto in quest’ottica, questo capitolo di Aristotele è soddisfacente: istituisce il collegamento richiesto dal movimento con il motore, mediante la produzione, da parte del motore, della natura, o del corpo naturale, del mosso. Alcune pagine addietro ho dichiarato che avrei condotto l’esame di questo capitolo del Libro VIII come se non esistesse la complicazione data dal moto dei cieli (cosa che il contenuto del cap. 4 autorizza a fare). Lo ripeto ora, per segnalare che è molto problematico il trasferimento degli esiti di questo esame alla relazione mosso-motore nel caso dei cieli (basti pensare al carattere produttivo dell’azione del motore in questo capitolo). 37 Ma affrontare questo problema potrebbe essere soltanto il contenuto di un altro studio.
Per una rassegna del dibattito più recente su ciò che ho chiamato la “chiusura verso l’alto” delle concatenazioni mosso-motore, rinvio all’articolo di E. Berti, Il dibattito odierno sulla cosiddetta “teologia” di Aristotele , in «Paradigmi. Rivista di critica filosofica», 2003, pp. 279-297 (particolarmente le pp. 288-297). 37