Helmut Lachenmann, III. Streichquartett “Grido” (2001-02) Il terzo Quartetto di Lachenmann, composto fra il 2000 e il 2001 ed eseguito per la prima volta al Festival di Melbourne nel 2001 dal Quartetto Arditti, è frutto di una commissione congiunta del Festival di Melbourne, della WDR Köln, della Royal Festival Hall, dei Salzburger Festspiele e del Festival di Lucerna. Il suo titolo, Grido, è un acronimo, derivato dai nomi dei musicisti che all’epoca costituivano il Quartetto Arditti (Graeme Jennings, violino, Rohan de Saran, violoncello, Irvine Arditti, violino, Dov Scheindlin, viola). Il pensiero compositivo di Helmut Lachenmann muove dalla consapevolezza, che fu già delle avanguardie storiche europee, che il giacimento di possibilità musicali aperto all’immaginazione compositiva – il cosiddetto materiale – non è un’entità metastorica disponibile all’uso, pronta per essere afferrata e manipolata nella sua neutrale strumentalità, bensì il sedimento, depositatosi nel corso del tempo, di modelli di relazione fra gli uomini, il precipitato di equilibri di forze e dispositivi di dominio, di principi di conferimento del senso e schemi normativi. In quanto tale, contiene un’espressività precodificata, la cui pressione soffoca nell’individuo ogni possibilità di esperienza diretta e attiva delle cose (sclerotizzando le tecniche compositive, le modalità esecutive e le attitudini di ascolto). Tale consapevolezza impone al compositore una responsabilità (nozione molto cara a Lachenmann), che consiste nel contrastare il condizionamento (naturale, storico, sociale) esercitato da tali modelli relazionali-espressivi calcificati, e nel costruire – immaginando nuovi suoni e nuovi nessi fra i suoni – un punto di osservazione esterno ad essi, vale a dire la possibilità di un’esperienza vitale, di una visione critica. Per questo occorre, dice Lachenmann, svuotare il materiale del suo carico di espressività stereotipata e delle sue relazioni predeterminate, e ridefinirne i principi e le connessioni interne, rintracciarvi le possibilità non ancora esplorate per risvegliarne l’espressività sorgiva. Soltanto qui si apre lo spazio dell’“autenticità”, nel quale l’arte adempie il suo compito di promozione dell’attiva coscienza di sé e del mondo. Non si tratta di una tentazione metafisica: lo spazio dell’autenticità non è un luogo che esista di per sé e vada semplicemente raggiunto, bensì una condizione la cui possibilità è costantemente rimessa in causa, e che si ripresenta a ogni nuova composizione come interrogativo spaesante: “mi ci smarrisco”, dice Lachenmann, ma proprio per questo “mi ritrovo veramente” (Nota di presentazione a Grido). Lachenmann focalizza quattro elementi che a priori condizionano l’esperienza del suono e del
suo significato: la tonalità, non tanto considerata in questa o quella cristallizzazione storica, quanto piuttosto colta nella sua sostanza estetica; l’esperienza acustica, vale a dire l’incontro con la realtà fisica del suono nella sua immediatezza; la struttura, intesa come realtà che stabilisce un ordine, anche confutando un ordine preesistente; l’aura, vale a dire la dimensione evocativa del suono (in qualche misura predeterminata) che rinvia a un sostrato irrazionale di memorie, riferimenti, archetipi. In particolare, secondo Lachenmann il pensiero strutturale in quanto deformazione maieutica del materiale sonoro deve confrontarsi con la dimensione dell’aura, e affrontare il trauma che necessariamente ne consegue. Un trauma inevitabile, poiché il conflitto fra il consueto (veicolato dall’aura) e l’inaudito procura un’angoscia di insensatezza e la nausea estetica di una invivibile genesi perpetua. Un trauma, tuttavia, salutare, poiché la sua crudezza libera la percezione, rendendo possibile un’esperienza e un’espressività nuove. Solo questo conflitto, tra l’altro, ci trasmette il suono della tradizione nella sua piena vitalità. In una certa sezione di Grido, ad esempio, aleggia una triade di do maggiore appannata da un’intonazione microtonale (bb. 95-97), e più oltre compaiono successioni di quinte vuote (bb. 400 e sgg.): scorporati dalla struttura preesistente e inseriti nella nuova, tali oggetti manifestano significati completamente nuovi, che si valgono anche della memoria di ciò che furono. Innestando reperti della tradizione – più o meno estesi, più o meno connotati – tra le fibre di un proprio brano, dunque, Lachenmann non intende perseguire la regressione a un atteggiamento precritico (ristabilendo un’impossibile familiarità), bensì innescare contrapposizioni dialettiche fra oggetti che, fronteggiandosi, si illuminino a vicenda, producendo un significato nuovo a vantaggio della nuova struttura formale. Sottrarsi ai modelli formali ed espressivi consolidati significa ripensare la forma musicale fin dalla radice, superando il confine che separa la forma del brano dalla forma del suono: Lachenmann perviene a tale ripensamento mediante il concetto di “suono strutturale”, o “struttura sonora”. Il peculiare suono di Grido risulta dalla correlazione immaginifica tra molteplici stati della materia sonora, e la sua forma nasce dai loro comportamenti e dai modi di relazione reciproca. Il suono strutturale (la struttura sonora), come Lachenmann lo concepisce, si incarna nell’idea di “musica concreta strumentale”, che vede le sue prime applicazioni in brani come Pression per violoncello solo, del 1969, o Gran torso, per quartetto d’archi (il primo scritto da Lachenmann), del 1971 (rev. 1976), ed è riscontrabile anche in Toccatina, uno studio per violino solo del 1986. Essa consiste in un’amplificazione
delle possibilità sonore ottenuta (ancora una volta) attraverso una riformulazione radicale dell’idea di strumento e di gesto esecutivo. In un’indagine alla quale concorrono in pari misura l’immaginazione compositiva e la realtà fisica del suono, vengono lasciate affiorare in tutta la loro ricchezza, e coinvolte nella generazione della forma, aree del suono tradizionalmente considerate residuali o parassitarie. Si tratta di aspetti assai evidenti anche in Grido, in cui il suono del quartetto d’archi si irradia in una timbrica tanto varia quanto inconsueta, che comprende anche, sia pure visto da lontano, il suono del passato. Il nuovo suono e la sua struttura (o la nuova struttura e il suo suono) vengono presagiti, inseguiti, costituiti intuitivamente nel corso del processo compositivo: rappresentano il luogo “in cui la tensione tra la volontà creatrice e il processo trasforma il familiare in estraneo”, un luogo “in cui noi siamo sordi e ciechi” (Nota di presentazione a Grido). E nella sua tensione dialettica tra noto e ignoto, tale indefinito cercare corrisponde alla struttura stessa dello spirito del compositore, che solo per questa via può compiutamente “esprimere se stesso”.