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Il trattato di orchestrazione di Berlioz: appunti inediti di Luigi Dallapiccola* di Roberto Illiano I. Nella sua attività di compositore, Luigi Dallapiccola affiancò le ricerche sulle potenzialità espressive insite nelle serie dodecafoniche allo studio della strumentazione orchestrale, tenendo in particolar modo presente il Traité d’instrumentation di Berlioz, un’opera di ‘preveggenza’ che egli poneva sullo stesso livello della Harmonielehre di Arnold Schönberg:1 Mi ha fatto particolarmente piacere leggere che Ella ha rilevato il lato umano della Harmonielehre di Schönberg. In questo senso considero che tale lavoro abbia un solo fratello – a me noto –: il Trattato di Strumentazione e d’Orchestrazione moderna di Berlioz; altro Grande su cui non ci si è ancora messi d’accordo: così grande che sfugge a ogni catalogazione.2
Dallapiccola considerava il lavoro di Berlioz fratello di quello di Schönberg, in quanto entrambi – avendo in comune «l’illimitato bisogno di ricerca, il desiderio di vedere il fondo delle cose e la spinta fondamentale verso il futuro» – hanno aperto una nuova strada nella teorizzazione dell’orchestrazione moderna.3 Nel 1842, due anni prima della pubblicazione del Traité di Berlioz, il Teatro alla Scala di Milano ospita la prima rappresentazione di Nabucco e, un anno dopo, Der fliegende Holländer viene allestito al Teatro di Corte di Dresda: «Ognuno sa cosa sia accaduto nel mondo strumentale dopo due eventi di tale portata».4 Berlioz è cosciente di essere il primo a parlare diffusamente di strumentazione legata al timbro degli strumenti e al loro carattere espressivo5 e sente il peso di questa responsabilità.6 Sotto questo aspetto Dallapiccola accomuna Berlioz a Busoni, che nella sua Relazione sui terzi di tono scrive:
Sono passati circa sedici anni da quando fissai teoricamente il principio di un possibile sistema basato sui terzi di tono e fino ad oggi non mi sono deciso ad annunciarlo in modo definitivo. Perché? Perché il compito di porne le prime basi mi addossa una responsabilità di cui mi rendo ben conto.7
L’Op. 10 di Berlioz ha un elemento che la rende diversa e superiore a tutti gli altri trattati: l’attenzione per l’orchestrazione come composizione. Il frontespizio originale, infatti, riporta «Grande trattato di Strumentazione e Orchestrazione moderna contenente l’indicazione esatta delle estensioni, un’esposizione del meccanismo, e lo studio del timbro e del carattere espressivo dei diversi strumenti…».8 Dallapiccola reputa il Traité di Berlioz un lavoro di creazione9 al quale ogni valido metodo di orchestrazione successivo è debitore. Egli esamina essenzialmente quattro trattati – quelli di François-August Gevaert, Charles-Marie Widor, Richard Strauss e Egon Wellesz – e con il primo, il Traité général d’instrumentation di Gevaert,10 è molto severo: Questa prima edizione [1863], a parte un numero rilevante di bellissimi esempi tratti da Rossini (e in modo speciale dal Guglielmo Tell), a parte alcune interessanti considerazioni sulle leggi acustiche che presiedono alla costruzione degli strumenti, mi sembra quanto mai pedestre. Quando commenta passi musicali già commentati dal Berlioz è incolore e sbaglia regolarmente il bersaglio.11
Con tono ironico, Dallapiccola sottolinea che l’unica grande originalità del Gevaert è aver ignorato totalmente l’edizione del trattato di Berlioz e, soprattutto, della sua musica:
Non vi si trova un solo esempio di musiche del Berlioz. Ma, in compenso, ce n’è uno – insignificante quanto mai – del Cherubini. L’odio c[h]erubiniano per Berlioz passò direttamente al Gevaert.12
Al 1904 risale la Technique de l’orchestre moderne di Charles-Marie Widor,13 lo stesso anno in cui Richard Strauss firma la prefazione al suo trattato. A sessant’anni dalla prima edizione si avvertiva l’esigenza di un aggiornamento dell’opera di Berlioz, perché nel frattempo erano stati costruiti nuovi strumenti e altri erano stati aggiornati. Widor si pone con un atteggiamento molto umile di fronte al trattato di Berlioz, considerando la propria Technique un post-scriptum a esso. Un post-scriptum di 298 pagine, fa notare Dallapiccola: Egli sentiva che il Trattato di Berlioz è opera di genio – quindi – irripetibile, e che la sua era un’intelligente, onesta e coscienziosa opera di ricerca e compilazione.14
Diverso è il risultato ottenuto da Richard Strauss,15 «né ciò può meravigliare dato che, sia o non sia di nostro gusto, rimane una delle figure imprescindibili del nostro secolo».16 Strauss cerca di integrare il Traité delle necessarie aggiunte tecniche sugli strumenti, ponendo l’accento sulle novità nel campo dell’orchestrazione – e si riferisce in primo luogo a Wagner, che nella Tetralogia aveva richiesto strumenti con maggiore estensione, come la tromba bassa. Ma la differenza fra orchestrazione e strumentazione, già presente in Berlioz e indicata, come abbiamo visto, nell’intestazione del suo trattato, non viene chiarita nell’edizione di Strauss. Sarà invece Busoni, nel novembre del 1905, a spiegare la vera differenza fra questi due concetti:
* Nel 1970 Dallapiccola registrò 5 trasmissioni radiofoniche da titolo Centenario di Hector Berlioz: «Grande trattato di strumentazione e orchestrazione moderne» di Hector Berlioz, utilizzandole l’anno successivo per un seminario che il compositore tenne all’Accademia Chigiana di Siena. Datate 18 e 25 marzo, 1, 8 e 15 aprile, le puntate furono trasmesse in prima serata dal III programma radiofonico nazionale, fra le 21.30 e le 22.30. Il presente contributo è costruito basandosi sui seguenti manoscritti inediti conservati al Fondo Dallapiccola del Gabinetto Vieusseux di Firenze: LD. LII. 1 (Il «Grande trattato di strumentazione e di orchestrazione moderne» di Hector Berlioz, 9 marzo 1970, copia fotostatica dell’autografo contenente il testo del programma radiofonico, con correzioni a penna verde e a matita), LD. LI. 16 (testo manoscritto delle lezioni tenute a Siena con correzioni per le lezioni del Musicus Concentus di Firenze e per le trasmissioni radiofoniche, 1970-1974), LD. LII. 2 (testo dattiloscritto e ciclostilato del seminario tenuto all’Accademia Chigiana di Siena, 2-6 agosto 1971). Cfr. Fondo Luigi Dallapiccola. Autografi, scritti a stampa, bibliografia critica con un elenco dei corrispondenti, a cura di Mila De Santis, Edizioni Polistampa, Firenze 1995 (Gabinetto G.P. Vieusseux, Archivio Contemporaneo «A. Bonsanti». Inventari, 5), nn. 554, 556, 563, pp. 139-141. Si ringrazia Anna Libera Dallapiccola e la direzione del Gabinetto G.B. Vieusseux di Firenze per aver consentito la consultazione e la parziale pubblicazione del materiale autografo di Luigi Dallapiccola presentato in questa sede. 146
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Es. 1: Luigi Dallapiccola, Variazioni per orchestra, I - Quasi lento, misterioso, miss. 7-12.
recepisce questa lezione e la mette in pratica, per esempio, nelle sue Variazioni del 1954, versione orchestrale del Quaderno musicale di Annalibera per pianoforte. Nell’orchestrare il n. I delle Variazioni, infatti, la viola, invece di eseguire ottavi come era indicato nel relativo brano pianistico del Quaderno (Simbolo), reca degli ottavi puntati, per suggerire un leggero prolungamento del suono pari a quello del pedale del pianoforte (Es. 1). Negli anni ’30 Luigi Dallapiccola traduce in italiano il libro di Wellesz Die neue Instrumentation (Berlino 1928/29) insieme alla moglie Laura. Esso doveva essere pubblicato in Italia presso l’editore Tumminelli (Milano), ma l’avvento delle leggi razziali del ’38 fa naufragare il progetto. Nelle parole introduttive, Wellesz mette in rilievo che la sua strumentazione riprende là dove il trattato di Berlioz, con le aggiunte di Richard Strauss, si conclude, e che nel 1929 il testo di Berlioz era ancora un modello insuperato. II. Nell’analisi dei singoli strumenti dell’orchestra condotta da Berlioz, Dallapiccola sottolinea che il compositore francese ‘vive la vita dei propri strumenti’, in quanto li contestualizza sempre all’interno dei problemi estetici della tecnica orchestrale. L’autore offre la descrizione di ogni strumento, senza incorrere nei luoghi comuni secondo i quali uno strumento ha un carattere ‘eroico’ piuttosto che ‘pastorale’. Dallapiccola cita più volte la Symphonie fantastique di Berlioz, poiché «costituisce il primo gradino di quel processo di aumento dell’organico orchestrale (e della sonorità che ne deriva) che continuerà per ottant’anni: sino al 1910 – cioè sino all’Ottava Sinfonia di Gustav Mahler. In due parole: con la Sinfonia fantastica Berlioz è passato dall’orchestra classica alla ‘grande orchestra’».21
Non occorre insistere sul fatto che, nonostante le riserve cui ho fatto cenno, il lavoro dello Strauss meriti il più grande rispetto e la più grande ammirazione. La sua grandezza di compositore spesso lo portò a commenti geniali, la sua grandezza di direttore d’orchestra gli permise di notare particolari di inverosimile sottigliezza…17
In un suo breve scritto intitolato Qualche appunto sulla strumentazione, Busoni distingue tra orchestrazione assoluta e strumentazione.18 La prima, l’orchestrazione assoluta, è considerata un procedimento creativo e in questo senso il solo da considerarsi autentico – fra i compositori citati da Busoni come ‘autentici’ vi sono Mozart, Weber, Wagner e Berlioz. La strumentazione, invece, riguarda pro-
priamente l’arrangiamento, ossia la trascrizione orchestrale di ciò che in origine era pensato per un altro strumento. Busoni era per davvero in anticipo sul suo tempo: Strauss, nell’appendice al Berlioz, lo deve aver deluso. Strauss non ha guardato al futuro e, fra i suoi contemporanei, se ha fatto un paio di volte il nome di Mahler, non ne ha citato nemmeno un esempio. Debussy, vi è totalmente ignorato.19
Busoni avrebbe desiderato pure che Strauss insegnasse «quella necessaria disposizione che nell’orchestra assume la funzione del pedale nel pianoforte».20 Egli parla di un espediente orchestrale atto a riempire e legare il suono proprio come il pedale destro nel pianoforte. Dallapiccola
Daniel Haléry, in una pagina della commossa e commovente biografia di Friedrich Nietzche, esclama: «In quante cose è stato inferiore al suo compito!» – e le enumera, e le giustifica. Su Berlioz quante volte è stato scritto e detto (talora persino pensato) che «non sapeva La musica»; frase, questa, di notevole oscurità perché La musica è cosa assai vasta e le sue ramificazioni sono senza fine […] Di fronte a opere come la Sinfonia fantastica o come Romeo e Giulietta – per limitare al minimo l’esemplificazione – si è tentati di rispondere che, se non sapeva La musica, la inventava; inventava, cioè, la sua musica, che non somiglia a nessun’altra.»22
Durante la trattazione relativa alla famiglia dei clarinetti, Berlioz afferma che il clarinetto in Mif è stato impiegato in una N° 21 GENNAIO-MARZO 2005 HORTUS MUSICUS
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sinfonia ‘moderna’ per «parodiare, degradare, incanagliare […] una melodia»; egli tace il nome dell’autore e il titolo della sinfonia (la sua Op. 14), così come evita di dichiarare di essere stato il primo a introdurre questo strumento nell’orchestra sinfonica: Nella Fantastica, il cosiddetto tema dell’idea fissa – che rappresenta la donna amata – appare per la prima volta nell’Allegro del primo tempo, e farà capolino – più o meno trasformato – in ciascuno degli altri movimenti della Sinfonia: così nella scena della festa da ballo, come nella scena in campagna. […] nel quarto tempo […], sotto l’influsso dell’oppio, il compositore sogna di aver ucciso la donna amata […] nel quinto movimento la donna gli riappare, in mezzo a streghe e a mostri di ogni genere, radunatisi per assistere al funerale del compositore. Il tema – l’idea fissa – qui è deformato e reso spregevole. Berlioz lo ha affidato al Clarinetto in Mi bemolle, servendosi del timbro stridulo e triviale di questo strumento per dare l’idea dell’abbiezione.23 Es. 2: Hector Berlioz, Symphonie fantastique, I. Allegro agitato e appassionato assai, miss. 72-80.
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La prima volta che Dallapiccola cita l’Op. 14 di Berlioz è a proposito del corno inglese. Nella chiusa della Scena in campagna, il compositore affida al corno inglese frammenti della frase iniziale del pezzo, accompagnati unicamente da quattro timpani: I sentimenti di assenza, di oblio, di doloroso isolamento che l’evocazione di questa melodia abbandonata suscita nell’animo di certi ascoltatori non avrebbero la quarta parte della loro efficacia se fosse cantata da uno strumento che non fosse il Corno Inglese.24 Es. 4: Hector Berlioz, Symphonie fantastique, III. Scène aux Champs, miss. 179-192. E Picc.
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Infine, ne parla ancora a proposito delle campane, e questa volta citando una sua esperienza come ascoltatore: Una volta sola ho avuto la fortuna di sentire la Fantastica di Berlioz coi Do-Sol eseguiti su campane a calotta sferica: Charles Munch dirigeva l’orchestra sinfonica di Boston. Tale fortuna mi toccò or sono vent’anni: l’effetto risultante da campane è inimmaginabile e indimenticabile. Non si tratta di un ‘particolare’, credetemi: bastano quelle poche note a conferire a tutta l’esecuzione un livello indescrivibile. In poche parole: l’effetto realizza finalmente quello che il musicista può immaginare e sentire leggendo la partitura!25
Dallapiccola attribuisce a Berlioz molte ‘invenzioni’ nel campo dell’orchestrazione moderna. Una di queste si riferisce ai cosiddetti suoni-pedale. Il Kastner, nel Supplément del 1844 al suo Traité général d’instrumentation, riferisce della possibilità di ottenere dal trombone tenore quattro suoni nel registro più grave (‘suoni-pedale’) e sostiene che Berlioz fu il primo a impiegarli nel suo Requiem. Diversamente, il Gavaert ne attribuisce la ‘paternità’ a Louis Joseph Ferdinand Hérold, che nella sua opera Zampa (ou La fiancée de marbre, 1831) fa scendere il trombone fino al Sif basso: Ho già detto, parlando del Trattato del Gavaert, che costui aveva ereditato da Luigi Cherubini l’odio più implacabile per Berlioz. […] Desiderava il Gavaert con così diligente musicologica precisazione far presente alla posterità che non era stato Berlioz a scoprire i suoniPedale? Sembrerebbe di sì. L’odio favorisce l’ingenuità, i suoi frutti non giungono a maturazione. Voler parlare di posterità del Gavaert sarebbe ridicolo, in quanto non l’ha avuta. Su Berlioz si discute ancora e ancora oggi sfugge ad ogni catalogazione; segno questo della sua perenne vitalità. Lasciamo senza rimpianto dietro di noi le miserie dei compositori mancati…26
A proposito di questi suoni, Dallapiccola porta ad esempio il Requiem di Berlioz, e più precisamente l’Hostias, dove il compositore utilizza otto tromboni all’unisono che eseguono tre suoni-pedale, mentre i flauti, nel silenzio generale dell’orchestra, rispondono nel registro acuto: «Un effetto del tutto ‘inventato’ e unico nella storia dell’orchestra».27 (Es. 5) Dallapiccola ci racconta anche la prima prova del Requiem condotta dallo stesso Berlioz; egli attinge dal materiale autobiografico del compositore francese e lo arricchisce di valutazioni sulla personalità dello stesso: Eccolo sul podio: dà l’attacco sul Si agli otto Tromboni Tenori; gli risponde il silenzio generale. Ipersensibile e certo sofferente di mania di persecuzione, domanda con ira che stia succedendo. «Non abbiamo queste note» – gli rispondono alcuni dei suonatori. Come? – tuona Berlioz. Il vostro strumento dispone di una colonna d’aria di 2 m e 75 cm. E deve poter produrre questo suono: l’ho calcolato». Intanto un suonatore ammette che, una volta, soffiando a caso nello strumento, n’era uscito un suono molto basso, che non si era curato di controllare. «Provi». Dopo di che Berlioz, facile – come tutti gli ipersensibili – a passare da uno stato d’animo depresso a uno del tutto opposto, ci descrive in termini superlativi la perfetta intonazione raggiunta il memorabile giorno della prima esecuzione, lo stupore e l’intensa commozione del pubblico.28
Nella sezione dedicata ai timpani, Dallapiccola cita il Tuba mirum del Requiem, che prevede ben sedici timpani affidati a dieci esecutori, da aggiungersi a un’orchestra molto ampia e a quattro complessi di ottoni da collocarsi ai punti cardinali. (Es. 6) Dallapiccola sostiene che solo un’esecuzione dal vivo dell’Hostias può restituire l’effetto desiderato dall’autore; la sua analisi, anche in questo caso, si spinge oltre il lato meramente estetico:
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Es. 5: Hector Berlioz, Requiem, VIII. Hostias, Edition Eulenburg, London 1969, p. 93.
Né credo possa suonare paradosso l’affermazione che il citato passo di Aida [«Là…, tra foreste vergini di fiori profumate», atto III, scena I] non sia astronomicamente lontano da quanto circa un quarto di secolo più tardi noteremo nell’Après-midi d’un faune. A Debussy era riservato di rivelarci aspetti che ancora erano sconosciuti.36
L’importanza di Verdi è rimarcata anche da Widor, che lo porta come esempio per aver utilizzato i suoni armonici del contrabbasso nel III atto di Aida: È notevole che uno straniero, e sopra tutto un francese, al principio del nostro secolo, abbia citato Verdi come compositore che abbia dato un contributo allo sviluppo dell’orchestrazione! Agli albori del novecento Verdi era considerato, in generale, un «melodista» (qualora non lo si considerasse un «sorpassato»).37
Dallapiccola considera Debussy un altro grande innovatore nel campo dell’orchestrazione e deplora il fatto che il suo nome non compaia nell’opera curata da Strauss: Più che possibile che nel 1904 la sua musica – e quella dei francesi in genere – fosse poco conosciuta nei paesi dell’Europa centrale: l’omissione del nome di Debussy – a qualche anno dalla ‘prima’ di Pelleás et Mélisande – è comunque ingiustificabile.38
Soltanto qualora all’effetto sonoro si aggiunga quello visivo, soltanto qualora si consideri che, per Berlioz, i concetti tradizionali di bello e di brutto non sono i soli determinati, ci si renderà conto che il suo ideale, ciò che aveva cercato durante tutta la sua vita è quanto Iacopone da Todi aveva denominato smisuranza.29
Predisporre i gruppi di ottoni a nord, sud, est e ovest della massa corale e orchestrale è un esempio di ‘gestualità’, una sorta di ‘teatro senza palcoscenico’ che è rappresentato, secondo Dallapiccola, anche dal monodramma Lélio, ou Le retour à la vie: Dal quinto tempo di questo monogramma […], Berlioz cita «un effetto se non identico almeno simile al canto di un Clarinetto». (Così si esprime. Come aveva fatto per l’episodio citato30 del Corno Inglese accompagnato dai quattro Timpani, anche qui scrive canto, non suono! A tal punto – come ho detto precedentemente – gli
strumenti diventano per Berlioz personaggi…).31
III. Nelle sue trasmissioni, Dallapiccola cita molti compositori che hanno dato inizio all’orchestrazione moderna, partendo da quelli più amati da Berlioz, ossia Christoph Willibald Gluck,32 Gasparo Spontini,33 Ludwig van Beethoven34 e Carl Maria von Weber.35 Ma correda la sua analisi arricchendola di esempi tratti da autori più recenti in parte citati anche da Strauss e Wellesz. Gli esempi scelti da Dallapiccola non sorpassano il 1928 (anno del trattato di Wellesz) e includono pagine di Giuseppe Verdi, Richard Wagner, Gustav Mahler, Claude Debussy, Maurice Ravel e Igor Stravinsky. Verdi è segnalato da Dallapiccola come uno dei maestri dell’orchestrazione moderna, colui che ha rivalutato, ad esempio, il flauto dopo che i compositori dell’Ottocento successivi a Weber, lo avevano molto trascurato:
Anche in un’edizione italiana del trattato di Berlioz,39 curata da Ettore Panizza nel 1912, il nome di Debussy non è presente. Ci sono esempi verdiani, una decina di passi tratti da Salome di Strauss e ben 17 di Puccini. Ma Dallapiccola è sorpreso nel vedere che Puccini è seguito a ruota da Alberto Franchetti, che figura con ben 14 esempi. E con tono ironico, riporta un esempio di commento del Panizza riguardo a questo autore: «Il Maestro Franchetti ha usato con risultato commoventissimo il glissato sull’Arpa sul finire dell’opera Cristoforo Colombo: precisamente quando spira Colombo, la scala glissata ascendente dà l’impressione di un’anima che vola in cielo.» Su questa base è da supporre che il giovane strumentatore sarà portato a ritenere che un glissando discendente dell’Arpa rappresenti il non plus ultra per dare l’impressione di un’anima che precipita all’inferno…40
L’autore che Dallapiccola cita più di frequente è Maurice Ravel. E di Ravel un’opera su tutte lo colpì profondamente: l’Enfant et les Sortilèges, della quale cita, ad esempio, la scena della principessa, in cui il fagotto gareggia in agilità e leggerezza prima col clarinetto basso e poi coi clarinetti, e la scena del fox-trot delle teiere e della tazza cinese, dove Ravel non esita, nello scambio di botte e risposte fra il N° 21 GENNAIO-MARZO 2005 HORTUS MUSICUS
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Pagina seguente: Ritratto di Hector Berlioz di Etienne Carjat, pubblicato nel 1863 su Le Boulevard
trombone III e il controfagotto, a scrivere la nota più grave dello strumento:
Es. 6: Hector Berlioz, Requiem, VIII. Tuba mirum, Edition Eulenburg, London 1969, p. 19.
La mia generazione ama il suo equilibrio, il suo senso della misura, il suo modo di affrontare i problemi e di risolverli col minimo di mezzi […], la sua possibilità di estrarre da una cellula […] tutto un mondo sonoro, il controllo che sa esercitare sul materiale impiegato. Se talora (come, per es., nella parte centrale della scena della Principessa ne L’Enfant et les sortilèges) la qualità dell’invenzione musicale non è delle più alte, tuttavia l’arditissima, sorprendente realizzazione strumentale ci farà rimanere colle orecchie tese. La mia generazione vede in lui il compositore che sta a mezza strada fra il mago e il gioco d’azzardo. Sia detto che al gioco d’azzardo vince sempre. […] Scomparso Gustav Mahler […], è a Ravel che dobbiamo […] il più grande sforzo che sia stato compiuto nella nostra epoca per raggiungere la purità di cuore.41
Proprio come Ravel, nel corso della sua carriera compositiva Dallapiccola si orienta prevalentemente verso le piccole e medie formazioni. Dopo il 1955, infatti, nelle opere di Dallapiccola è sempre più frequente l’uso di alcuni intervalli a scapito di altri: vengono privilegiati intervalli di seconda, terza e tritono (con i loro rivolti) e sempre minore è la presenza di quarte e quinte. Parallelamente, viene incrementato l’utilizzo di tricordi, segmenti di tre suoni ricavati dalle serie impiegate, che divengono patterns intervallari fissi per molte sue opere. Lo stesso modus operandi si riscontra nella strumentazione; in alcuni casi il timbro orchestrale viene perfino impiegato in contrasto con lo stato d’animo dei personaggi, per aumentare il pathos della situazione drammatica. Anche nelle composizioni in cui impiega la grande orchestra, come nel Prigioniero, Dallapiccola preferisce spesso usare un organico ridotto, di tipo cameristico, ponendo particolare attenzione al tessuto sonoro che fa risaltare attraverso il timbro delle diverse strumentazioni. Il piccolo organico permette al compositore di fare scelte coloristiche strumentali che interagiscono col significato drammatico dei testi: «Dopo i Canti di liberazione – scrive l’autore nel 1963 – non ho più usato la grande orchestra […] era per me facile capire che giunto a questa fase della mia attività creativa, avrei avuto ben poco o niente da comunicare con un secondo oboe o un secondo clarinetto».42 L’interesse per il suono e per la strumentazione orchestrale, che Dallapiccola sviluppa con la conoscenza dell’opera dei tre grandi viennesi (e in particolare di Anton Webern), ha le sue radici nell’accurato studio delle partiture del passato. E nelle trasmissioni sul Traité di Berlioz, Dallapiccola mostra spesso quelli che sono stati i suoi maestri. Parlando dell’impiego del150
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l’ottavino nel quarto tempo della Pastorale di Beethoven, per esempio, sottolinea che questo strumento viene impiegato per sole quindici note in tutta l’opera, e sostiene: «Non conosco, nella storia dell’orchestra, lezione più valida di questa, che potrebbe essere tradotta in una raccomandazione a limitarci all’essenziale;43 a un monito che tutto quanto è superfluo è dannoso; a una meditazione sulla breve durata degli ‘effetti’».44 Esortazioni che diventano caratteristiche peculiari dell’orchestrazione dallapiccoliana. In una conversazione con Hans Nathan, infatti, Dallapiccola dichiarerà: «più i mezzi sono limitati, più sono interessato – ed è una questione di economia o addirittura di bravura, se posso usare questo termine».45 ■
Dallapiccola acquistò l’Harmonielehre il 30 agosto 1921 e gli ultimi due capitoli del trattato esercitarono una notevole influenza su di lui. In particolare, nell’ultimo capitolo Schönberg arrivò a intravedere la possibilità che nel futuro fossero create melodie di timbri, anche se si astiene dalla possibilità di teorizzarle: cfr. Arnold Schönberg, Harmonielehre, Universal Edition, Wien 1911, 19222, ed. it. a cura di Luigi Rognoni, Manuale di armonia, trad. di Giacomo Manzoni, 2 voll., il Saggiatore, Milano 1963 (La cultura, 65). 2 Lettera di Luigi Dallapiccola al Signor Roglio, Firenze 10 agosto 1971, cit. da Sergio Sablich, Luigi Dallapiccola. Un musicista europeo, L’Epos, Palermo 2004 (Autori&Interpreti 18501950, 4), p. 217. 3 Luigi Dallapiccola, Presentazione della «Harmoniehlere», in Parole e musica, a cura di Fiamma Nicolodi, il Saggiatore, Milano 1980 1
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(La cultura. Saggi di arte e letteratura, 53), p. 240. 4 LD. LII. 2, I lezione, p. 11. Secondo una sua testimonianza, fu proprio dopo aver assistito alla rappresentazione di Der fliegende Holländer nel 1917 che Dallapiccola prese la decisione di dedicarsi alla carriera compositiva: cfr. Luigi Dallapiccola, Genesi dei «Canti di Prigionia» e del «Prigioniero» (1950-1953), in Parole e Musica, cit., p. 406. 5 L’unico lavoro citato da Berlioz in riferimento alla strumentazione è Georges Kastner, Traité général d’instrumentation, comprenant les propriété et l’usage de chaque instrument, précédé d’un résumé sur les voix, à l’usage des jeunes compositeurs…, Prilipp et C.ie, Paris 1837. I due compositori divennero in seguito amici e sembra che Kastner sia stato molto vicino a Berlioz durante la stesura del Roméo et Juliette. Quando Kastner, nel ’39, pubblicò un secondo volume, Cours d’instrumentation, Berlioz diede a entrambi i libri un caldo benvenuto nelle pagine del Journal des débats (2 ottobre 1839). Cfr. Hugh Macdonald, Berlioz’s Orchestration Treatise. A Translation and Commentary, Cambridge University Press, Cambridge 2002 (Cambridge musical text and monographs), p. xvii. 6 Alla fine dell’introduzione al metodo, infatti, Berlioz scrive: «Ci vuole molto tempo per scoprire i Mediterranei della musica, e più tempo ancora per apprenderne la navigazione» (LD. LII. 2, I lezione, p. 8). 7 Ibid. Questa e le successive sottolineature sono di Dallapiccola. Cfr. anche Luigi Dallapiccola, Pensieri su Busoni, in Parole e musica, cit., pp. 297 s.: «Artista moralmente completo, conscio della vastità di problemi dell’arte. Come Giuseppe Verdi […], così Busoni poteva ben affermare “a me non fa paura la musica dell’avvenire”. Paure del genere turbano i sonni di mediocri, che basano la loro momentanea fortuna sulla formuletta accattata e camuffata per l’occasione». 8 LD. LII. 2, I lezione, p. 8. 9 Dallapiccola sottolinea: «È il solo caso in cui a un trattato di teoria musicale sia stato assegnato un numero d’opera. Lavoro di creazione […] e come tale tappa insopprimibile […]; pista di lancio di ogni valido Trattato di Strumentazione venuto alla luce più tardi» (LD. LII. 2, I lezione, p. 9). 10 François-August Gevaert, Traité général d’instrumentation: exposé méthodique des principes de cet art dans leur application a l’orchestre, a la musique d’harmonie et de fanfares…, Gevaert, Gand 1863. 11 LD. LII. 2, I lezione, p. 9. 12 Ibid. 13 Charles-Marie Widor, Technique de l’orchestre moderne: faisant suite au Traité d’instrumentation et d’orchestration de H. Berlioz, H. Lemoine, Paris-Bruxelles 1904. 14 LD. LII. 2, I lezione, p. 11.
15 Hector Berlioz, Instrumentationslehre…, ergänzt und revidiert von Richard Strauss, 2 Bde., C.F. Peters, Leipzig 1905. 16 LD. LII. 2, I lezione, p. 11. 17 Ivi, p. 13. 18 Cfr. Ferruccio Busoni, Scritti e pensieri sulla musica, trad. di Luigi Dallapiccola e Guido M. Gatti, con un’introduzione di Massimo Bontempelli, Le Monnier, Firenze 1941. 19 LD. LII. 2, I lezione, p. 12. 20 Ibid. 21 LD. LII. 2, III lezione, p. 1. 22 LD. LII. 2, V lezione, p. 1. 23 LD. LII. 2, III lezione, p. 1. 24 LD. LII. 2, II lezione, p. 6. 25 LD. LII. 2, IV lezione, p. 8. 26 Ivi, p. 2. 27 Ivi, p. 3. 28 Ibid. 29 Ivi, p. 5. 30 Vedi supra, la citazione relativa alla nota 24. 31 LD. LII. 2, II lezione, p. 7. 32 «Il Cavaliere Gluck! Il primo e mai rinnegato dei suoi amori […]; quel Gluck che sta alla base della prima fra le tante diatribe tra Berlioz, ancora giovanissimo e il direttore del Conservatorio di Parigi, Luigi Cherubini […]» (LD. LII. 2, I lezione, p. 4). 33 «È Spontini che prima di ogni altro ha immaginato di unire un grido breve e penetrante di due Ottavini a un colpo di Piatti. La singolare simpatia che si stabilisce tra due strumenti tanto dissimili non era stata ancora intraveduta. Ciò taglia e lacera di colpo, come una pugnalata» (LD. LII. 2, II lezione, p. 3). 34 «Il primo esempio che Berlioz propone al lettore [a proposito dei corni] è il Trio dello
Scherzo della “Sinfonia eroica”. Né altrimenti avrebbe potuto essere: non dico soltanto per ragioni artistiche, ma per una ragione storica. Nell’Eroica – per la prima volta nell’orchestra classica – il numero dei Corni viene portato da due a tre» (LD. LII. 2, III lezione, p. 5). E ancora parlando dei timpani: «Ma, ecco Beethoven. Una volta di più è necessario fare il nome di Colui cui dobbiamo il passaggio della musica da uno stato geologico a un altro. […] Beethoven si spinge molto più in là e affida ai Timpani l’intervallo di quinta diminuita nell’Introduzione all’atto secondo di Fidelio. È la prima volta nella storia dell’orchestra che un intervallo dissonante viene imposto ai Timpani» (LD. LII. 2, IV lezione, pp. 4-5). 35 «Weber scopre il carattere boschereccio del Corno […] Weber scopre anche il carattere magico del Corno (e basti ricordare le tre note che iniziano l’ouverture di Oberon: è un mondo di spiriti dell’aria che si dischiude!) […] e questo carattere magico raggiungerà l’espressione più straordinaria nella ripresa del “Prestissimo” nello Scherzo “La regina Mab, ovvero la Fata dei sogni” del Romeo e Giulietta di Berlioz» (LD. LII. 2, III lezione, p. 5). 36 LD. LII. 2, II lezione, p. 2. 37 LD. LII. 2, I lezione, p. 11. 38 Ivi, p. 13. 39 Hector Berlioz, Grande trattato di istrumentazione e d’orchestrazione moderne, con un’appendice di Ettore Panizza, 3 voll., Ricordi, Milano 1912. 40 LD. LII. 2, I lezione, p. 13. 41 Luigi Dallapiccola, Risposta al «Dibattito su Ravel, 20 anni dopo» (1957), in Parole e musica, op. cit., pp. 281 e 284. Cfr. anche Id., Per un’esecuzione de «L’enfant et les sortilèges», ivi, pp. 273-281. «Il finale della breve opera rappresenta “il più grande sforzo compiuto nella nostra epoca per raggiungere la purità di cuore”. Scrissi così or sono trent’anni e oggi ancora sono d’accordo con questa definizione» (LD. LII. 2, II lezione, p. 5). È singolare che, alludendo alla conclusione dei suoi Canti di liberazione, Dallapiccola scriverà qualcosa che ricorda questa ‘definizione’: «Pace, non nel senso abusato che i politici a tale parola attribuiscono, bensì secondo la definizione datane da S. Bernardo: purità di mente, semplicità d’animo, dolcezza di cuore, riposamento di vita, legamento d’amore» (Id., Note per un’analisi dei «Canti di liberazione» (1974), in Parole e musica, cit., p. 484). 42 Id., Requiescant, ivi, p. 500. 43 Il corsivo è aggiunto. 44 LD. LII. 2, II lezione, p. 3. 45 Hans Nathan, Luigi Dallapiccola: Fragments from Conversations, in The Music Review, XXVII/4, novembre 1966, pp. 294-312, cit. in it. da Pierre Michel, Timbro, ricerca sonora e scrittura nelle ultime opere di Dallapiccola, in Dallapiccola. Letture e prospettive. Atti del Convegno Internazionale di Studi: EmpoliFirenze, 16-19 febbraio 1995, a cura di Mila De Santis, Ricordi-Lim, Milano-Lucca 1997 (Le Sfere, 28), p. 159. N° 21 GENNAIO-MARZO 2005 HORTUS MUSICUS
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