Kant Immanuel Kant nasce nel 1724 in una piccola cittadina della Prussia Orientale da una famiglia di artigiani. Nel 1732 compie i suoi studi caratterizzati dal rigore morale e religioso, che segneranno la vita del filosofo. S'interessa all'empirismo inglese e a Hume. Si guadagna da vivere facendo il precettore. Nel 1766 compone I sogni di un visionario. Ottiene la cattedra in logica e metafisica. Nel 1782 pubblica la Critica della ragion pura, che era stata soggetta a una cattiva interpretazione e accostata all'idealismo di Berkeley. Nel 1788 pubblica la Critica della ragion pratica e nel !790 la Critica del Giudizio. Kant, parlando di Leibniz e di Locke, considera il primo colui che ha convertito le sensazioni in pensieri, il secondo colui che ha convertito i pensieri in sensazioni. Di fronte a scetticismo e dogmatismo, Kant elabora un nuovo concetto di soggettività conoscente, allo stesso tempo sensibile e intellegibile. Sia l'intelletto che la sensibilità contribuiscono alla formazione della conoscenza. L'atto conoscitivo è infatti concepito come una sintesi a priori. Critica della ragion pura Il quesito principale che Kant si pone è “su che cosa si fonda il rapporto fra l'oggetto e la sua rappresentazione?”. La teoria di un'armonia prestabilita non è accettabile per il filosofo. Questi affronterà il problema nella Critica della ragion pura, proponendo un'indagine sul giudizio. Noi conosciamo le cose attraverso il criterio con il quale si connettono soggetto e predicato attraverso il giudizio. Il giudizio analitico è quello in cui ciò che il predicato esprime è già compreso nel concetto del soggetto (es. tutti i corpi sono estesi). Il giudizio analitico è a priori e la connessione fra soggetto e predicata avviene tramite identità. Il giudizio analitico è universale e necessario (necessario: che non può che essere com'è; indispensabile). Nel giudizio sintetico, invece, questo principio di identità non è presente: il predicato contiene qualcosa che non è compreso nel concetto del soggetto. Il predicato è collegato al soggetto attraverso l'esperienza, dunque il giudizio sintetico viene considerato a posteriori. Dal razionalismo di Leibniz Kant accetta che la conoscenza scientifica debba avere carattere di universalità e di necessità e che, di conseguenza, non possa essere fondata sull'empirismo. L'esperienza dovrà contenere principi a priori. La conoscenza dev'essere a priori e al tempo stesso costituita a partire dall'esperienza. In tal modo, né il giudizio analitico, né quello sintetico a posteriori soddisfano i requisiti per la ricerca scientifica. Il giudizio analitico è universale e necessario, ma può solo chiarire ciò che è già conosciuto, senza produrre nuove conoscenze; il giudizio sintetico, invece, permette di ampliare le conoscenze ma è privo di necessità. La conoscenza dev'essere sintetica, ovvero che comprenda elementi empirici, e fondata sulla ragione. La forma di giudizio ideale è quella del giudizio sintetico a priori, in cui il predicato non è compreso nel concetto del soggetto, e tuttavia è ad esso collegato in modo universale e necessario. I giudizi della matematica sono a priori e sono al contempo sintetici (7+5 = 12). Lo stesso si può dire della fisica. Kant tratterà il giudizio sintetico a priori nell'Estetica e nell'Analitica trascendentale. Kant avverte la crisi della metafisica causata dal dogmatismo. La metafisica però esiste in quanto l'uomo ha una predisposizione naturale alla ricerca di risposte sui problemi fondamentali come l'esistenza di Dio. Il trascendentale Per far sì che la metafisica possa essere catalogata come scienza, è necessario che la ragione analizzi se stessa: la critica della ragion pura. Per critica Kant intende il rifiuto di ogni accettazione dogmatica per esaminare i limiti del sapere umano. Soggetto e oggetto della critica è la ragion pura, ovvero l'insieme delle facoltà conoscitive pure, a priori. Deve infatti indagare prima su se stessa che su ogni altra cosa. Questo processo comporta l'adozione di un nuovo punto di vista filosofico chiamato da Kant “trascendentale”: ogni
conoscenza che si occupa del nostro modo di conoscere gli oggetti, e non degli oggetti stessi. Trascendentale indica l'elemento dell'a priori che fonda la conoscenza oggettiva (da non confondere con le verità innate). Trascendentale non è empirico, in quanto è ciò che non ha origine nell'esperienza sensibile, ma non è neanche trascendente perché indica una modalità del conoscere che si realizza solo in rapporto con l'esperienza. Nell'Estetica trascendentale Kant indaga sulla conoscenza sensibile alla ricerca dei principi a priori che rendono tale conoscenza possibile. La rappresentazione immediata dell'oggetto percepito è detta da Kant intuizione, forma esclusiva della sensibilità. L'intuizione è sostanzialmente empirica, e l'oggetto rappresentato è il fenomeno. Nel fenomeno si distinguono due componenti: la materia, vale a dire il contenuto della sensazione, e la forma, cioè il collegamento dei dati sensibili che segue un certo ordine. Tale connessione è posta dal soggetto nel momento in cui intuisce, dunque a priori. E' dunque possibile ricavare l'intuizione pura tramite processi di astrazione. Le forme pure di intuizione sono due: lo spazio e il tempo. Lo spazio è la forma della sensibilità esterna, il tempo è la forma della sensibilità interna. Queste non operano solamente in presenza degli oggetti, ma costituiscono la condizione per la sensazione. La nostra esperienza spazio-temporale è il risultato di una sintesi tra i dati della sensibilità e le forme a priori che ordinano tali dati. Kant concepisce lo spazio come una realtà originaria colta attraverso l'intuizione, distaccandosi quindi da Leibniz che lo intendeva come semplice ordine, e da Hume che lo credeva ricavabile esclusivamente dall'esperienza. La logica trascendentale si occupa dei concetti dell'intelletto. Intuizioni e concetti sono le due grandi fonti della conoscenza. La logica si divide in due parti: l'analitica trascendentale, che tratta degli elementi della conoscenza pura dell'intelletto, e la dialettica trascendentale, che esamina le contraddizioni della ragione che si verificano quando pretende di estendere le proprie conoscenze al di là dell'esperienza. Nell'Estetica Kant ha spiegato come si costituisce il mondo secondo la nostra esperienza spazio-temporale. Questo non è ancora natura, perché si limita ad essere un insieme di dati, e non un insieme di fenomeni organizzato secondo delle leggi. Queste leggi devono avere un carattere oggettivo per essere ritenute valide. Nell'Analitica Kant opera una scomposizione della facoltà intellettiva alla ricerca delle forme attraverso le quali si produce la conoscenza concettuale. Queste sono le funzioni dell'intelletto, operazioni che riordinano diverse rappresentazioni sotto una rappresentazione comune. Il giudizio pone in connessione le rappresentazioni secondo determinate regole. Kant ritiene che dall'esame dei diversi tipi di giudizio sia possibile ricavare i concetti puri dell'intelletto, da lui chiamati categorie. Le categorie sono primitive, non ricavate tramite processi astrattivi. I giudizi si distinguono secondo la quantità (universali, particolari e singolari), secondo la qualità (affermativi, negativi ed infiniti), secondo la relazione (categorici, ipotetici e disgiuntivi), secondo la modalità (problematici, assertori e apodittici). I concetti puri sono unità, pluralità, totalità, realtà, negazione, limite, sostanza, causa, comunanza, possibilità, esistenza, necessità. Per Kant le categorie sono funzioni a priori dell'intelletto, e il loro compito è sintetizzare e unificare i dati dell'intuizione. Nella deduzione trascendentale Kant si propone di risolvere il seguente quesito: in che modo le nostre condizioni soggettive possono avere una validità oggettiva? Kant osserva che l'esperienza è possibile solo attraverso il principio di unificazione del soggetto, al quale Kant da il nome di “Io penso” o “appercezione trascendentale”. L'io penso è la facoltà di unificare a priori e di sottoporre all'unità il molteplice delle rappresentazioni date. Questo è comune ad ogni uomo ed è quindi universale. L'Io penso non permette solamente l'esperienza del mondo esterno, ma anche la sintesi delle rappresentazioni del soggetto. L'io penso è quindi il principio supremo della conoscenza umana, ma non deve
essere inteso come creatore della realtà, ma solo come colui che l'ordina. Dalla natura considerata come insieme di fenomeni si passa alla natura come insieme di leggi. Nell'Analitica dei principi Kant si occupa di chiarire in che modo le categorie si applichino ai fenomeni. I principi sono infatti le regole attraverso le quali le categorie possono essere applicate ai fenomeni. I sistema di questi principi costituisce la scienza naturale pura: leggi generalissime che costituiscono la base del sapere scientifico. L'intelletto, per unificare il molteplice, opera attraverso schemi. Lo schema è un prodotto dell'immaginazione, ovvero la facoltà di rappresentare un oggetto senza che esso sia presente. Le rappresentazioni dell'immaginazione sono intuizioni prodotte spontaneamente. Lo schema è l'insieme delle regole necessarie alla costruzione dell'immagine di un oggetto, il suo archetipo, il suo modello. Il tempo è la condizione di possibilità a priori di tutti i fenomeni: è infatti attraverso il tempo che si opera la sintesi fra concetto e fenomeno intuito. Gli schemi dei concetti puri dell'intelletto sono le condizioni che conferiscono loro una relazione con gli oggetti, e dunque un significato. I principi sono regole dell'uso oggettivo delle categorie attraverso gli schemi, e Kant ne ricava un sistema. 1) Il principio degli assiomi dell'intuizione (categorie della quantità): afferma a priori che tutti i fenomeni intuiti costituiscono delle quantità estensive, e sono dunque conoscibili solo attraverso la sintesi delle sue parti. Questa non è una proprietà dei fenomeni, ma il modo in cui i fenomeni divengono oggetti di esperienza. Questo principio permette di applicare la matematica alle scienze della natura. 2) Il principio delle anticipazioni della percezione (categorie della qualità): afferma ca priori che ogni fenomeno percepito ha una quantità intensiva e per tanto è suddivisibile indefinitamente. Questo principio stabilisce la regola per cui è possibile misurare le variazioni qualitative di un fenomeno. 3) Il principio delle analogie dell'esperienza (categorie della relazione): afferma a priori che l'esperienza costituisce una un insieme di rapporti basati su principi. Ciò equivale a dire che, perché i fenomeni possano verificarsi, sono di fondamentale importanza le leggi che li regolano. Le analogie dell'esperienza ci dicono che, dato un fenomeno, ne esiste un altro che ne è la causa e che si trova con esso in una relazione temporale. Le analogie sono regole che permettono di fissare questi rapporti, e rendono possibile la conoscenza scientifica. I rapporti possibili fra i fenomeni sono: di permanenza, di successione e di simultaneità. Da essi derivano le tre analogie dell'esperienza: I) Principio della permanenza della sostanza: in ogni cambiamento di fenomeni la sostanza permane e la quantità di essa nella natura non aumenta né diminuisce. II) Principio della legge temporale secondo la legge delle causalità: tutti i mutamenti accadono secondo la legge della connessione di causa ed effetto. III) Principio della simultaneità secondo la legge dell'azione vicendevole: tutte le sostanze so trovano fra loro in un'azione reciproca universale. Le relazioni fra fenomeni sono dunque di tipo causale, e ciascun fenomeno condiziona ed è condizionato dagli altri. 4) Il principio dei postulati del pensiero empirico (categorie della modalità): stabilisce ciò che è possibile, reale e necessario. Possibile è ciò che è in accordo con le condizioni materiali dell'esperienza; reale è l'insieme dei contenuti della percezione connessi secondo le analogie dell'esperienza; necessario è quel fenomeno ricavabile da una legge empirica universale. Kant distingue il fenomeno dal noumeno: il primo consiste in come conosciamo le cose dal nostro punto di vista, mentre il secondo consiste in come conosciamo le cose in sé. Gli oggetti dell'esperienza sono sempre fenomeni, oggetti che ci sono dati dall'intuizione spaziotemporale. Il concetto di fenomeno rinvia però a quello di noumeno, che concepisce le cose indipendentemente dall'esperienza, dall'intuizione sensibile. Il
concetto di noumeno può essere inteso in modo negativo o positivo: nel primo caso il noumeno qualifica l'oggetto di cui non abbiamo intuizione sensibile; nel secondo caso il noumeno è l'oggetto di un'intuizione intellettuale. Kant ritiene accettabile solo la prima accezione del termine: il nostro pensiero non ha la possibilità di conoscere oggetti se non attraversi l'intuizione sensibile. I concetti dell'intelletto non creano degli oggetti, semplicemente li sintetizzano. Il noumeno costituisce una sorta di limite, in quanto ci insegna a non voler estendere il campo della conoscenza oltre il fenomeno. Il mondo delle cose in sé rimarrà sempre oscuro agli occhi degli uomini. Con la dialettica trascendentale vengono prese in esame le investigazioni della ragione che trascendono dal mondo sensibile. La ragione è la facoltà di pensiero, secondo Kant, che si rivolge alla conoscenza di ciò che sta al di là dell'esperienza. Se l'intelletto operava mediante le categorie, la ragione opera con le idee. L'idea è definita come un concetto necessario della ragione di cui non si può dare una deduzione oggettiva. Si può mostrare che esse non sono escogitazioni arbitrarie. Nonostante l'esperienza sia circoscritta e l'intelletto limitato, il problema che la ragione mira a risolvere è quello della totalità. La ragione tenta di risalire a una causa ultima, ciò che condiziona ma non è condizionato. La ricerca dell'incondizionato viene chiamata da Kant illusoria, in quanto le illusioni sono i tentativi di ricercare una causa ultima a una serie di fenomeni. Le illusioni vengono spacciate per conoscenze vere: la dialettica è la logica della parvenza, una critica dell'intelletto e della ragione rispetto al loro utilizzo al di fuori dell'esperienza. L'attività della ragione si esplica attraverso sillogismi e, tramite le loro concatenazioni, la ragione pretende di pervenire alla totalità. Tre sono le idee che si collegano a questo obiettivo: l'idea dell'anima, l'idea di Dio e l'idea del mondo.
L'idea dell'anima. La psicologa razionale afferma che l'anima è una sostanza semplice che permane identica a se stesa nel tempo ed è distinta da ogni altro oggetto. Questa dottrina, secondo Kant, si fonda su ragionamenti errati. La psicologia trasforma l'Io penso in una sostanza sussistente di per sé.
L'idea del mondo. La cosmologia razionale si fonda sull'idea di mondo inteso come totalità dei fenomeni (diverso dalla natura che consiste nella connessione mediante leggi di questi fenomeni). Il tentativo di conoscere il mondo come totalità risulta fallire in quanto conduce ad antinomie (coppie di proposizioni opposte fra loro egualmente dimostrabili). Kant individua quattro antinomie. Possiamo dimostrare che: il mondo è finito nello spazio e nel tempo, o il mondo è infinito; il mondo è divisibile in parti semplici, o il mondo è indivisibile; oltre la causalità esiste anche la libertà, o esiste solo la causalità; Dio è la causa del mondo, o la natura non ha cause esterne ad essa.
La radice dell'antinomia sta nel ricercare delle risposte al di là dell'esperienza. Nonostante Kant neghi che si possa dare risposta ai quesiti che non hanno riscontro nell'esperienza, il filosofo cerca di risolvere le antinomie, per giungere alla conclusione che la contraddizione è soltanto apparente. Nelle prime due antinomie sia la tesi che l'antitesi sono false, in quanto derivano da un principio contraddittorio, ovvero l'esistenza del mondo come totalità. Possiamo dire che il mondo non è né finito né infinito, ma potenzialmente indefinito. Nel caso della terza e delle quarta antinomia Kant osserva che la soluzione consiste nel pensare che la tesi e l'antitesi possano essere entrambe vere e non in contraddizione, i quanto riferite ad ambiti diversi. Tutto ciò che avviene è determinato dal leggi causali; ma rispetto al noumeno è possibile pensare la libertà, la possibilità di agire secondo volontà, presupposto fondamentale della vita morale. Bisogna dunque distinguere ciò che è oggetto della scienza da ciò che è oggetto della moralità.
L'idea di Dio. Nel concetto di Dio la ragione esprime l'ideale di un essere supremo, originario e perfetto, il modello di tutte le cose. L'illusione della ragione consiste nel trasformare il concetto di Dio in una realtà. Kant si propone di dimostrare
l'impossibilità delle tradizionali prove dell'esistenza di Dio: la prova ontologica, la prova cosmologica, la prova fisico-teologica. La prova ontologica dimostra l'esistenza di Dio attraverso il concetto che l'umo ha dell'essere perfetto: sarebbe difatti contraddittorio pensare un essere perfetto privo dell'attributo dell'esistenza. L'errore di questa prova sta nel passaggio dal pensiero all'essere, in quanto l'esistenza può essere dimostrata solo attraverso l'esperienza. La prova cosmologica argomenta l'esistenza di Dio in base al principio secondo cui, dato che ogni cosa ha la sua causa, deve esistere un essere necessario, ovvero non causato. Kant si oppone su due fronti: a) l'utilizzo della categoria di causalità oltre l'ambito del fenomeno; b) l'argomento reintroduce la prova ontologica, già confutata. La prova fisico-teologica argomenta l'esistenza di Dio a partire dall'armonia e dalla bellezza presenti nella natura: sarebbe infatti necessario un Essere perfetto per creare un mondo tanto bello. Anch'essa rinvia al principio della prova ontologica, in quanto si attribuisce l'esistenza di Dio attraverso il suo concetto. La dialettica trascendentale conferma la teoria di Kant secondo cui non ci è possibile conoscere alcunché se non attraverso l'esperienza. La metafisica potrà essere considerata una scienza nel momento in cui diventa una critica ai limiti della conoscenza. Sulla scia della dialettica, Kant avvia la Critica della ragion pratica. Le illusioni rivelate nella dialettica trascendentale derivano dall'uso scorretto delle idee, un uso trascendente o costitutivo, che porta a presupporre l'esistenza attraverso i concetti. Un uso corretto di queste idee è possibile, ed è detto regolativo: la ragione opera per estendere il più possibile il campo dell'esperienza. Critica della ragion pratica Kant concepiva l'etica come un'insieme di teorie destinate a contenere i principi della conoscenza e dell'agire pratico dell'uomo. L'esistenza della vita morale è un fato di fatto, rilevabile anche dall'esperienza. Il compito della filosofia morale non è quello di costituire un nuovo sistema di valori, ma quello di compiere un'indagine critica sui fondamenti della moralità. Trattandosi di una conoscenza oggettiva, si tratta di definire condizioni formale della legge morale. Una legge morale esprime un'obbligazione in modo universale e necessario, cioè che valga per tutti i soggetti in tutti i casi. La legge morale esiste in quanto l'uomo è in possesso di volontà, definita da Kant come la facoltà di agire. La legge morale riguarda dunque le determinazioni della volontà, prescrivendo cosa sia giusto. Ciascun soggetto determina la propria volontà, agisce, in base a principi pratici generali che Kant chiama massime: la massima è una norma soggettiva, valida solo per chi la adopera. La distinzione fra massima e legge morale è proprio tale principio soggettivo. Da quale principio può essere ricavata la legge morale? Kant esclude che questo principio possa essere empirico, in quanto le dottrine morali che si fondano sull'utile, sul piacere e sulla felicità sono insoddisfacenti, in quanto si riferiscono all'esperienza, e dall'esperienza non è possibile ricavare la necessità di una legge. Il fondamento della moralità non può che essere a priori, ricavato dalla ragione. Attraverso il giudizio morale noi affermiamo se una azione è buona o non lo è; ma non è il concetto di bene a determinare la legge morale, è la legge morale che rende possibile il concetto di bene. Questa impostazione porta Kant a escludere dalla sfera della moralità diversi comportamenti che vengono solitamente considerati buoni. L'indagine attorno alla moralità delle azioni deve riguardare la sua forma, non il suo contenuto. Se un'azione, ad esempio, è determinata da un sentimento di benevolenza o di pietà, o nella speranza di ricavarne un profitto (anche il concetto di “andare in paradiso”), o per adempiere a un comandamento religioso, l'azione non sarà morale in quanto è condizionata da un principio non universale e non necessario. Anche un'azione condotta per il rispetto delle leggi o per paura di una sanzione non è morale, ma semplicemente legale. La forma pura della moralità consiste in un'azione fatta unicamente per il dovere. Il dovere è per Kant la necessita di compiere un'azione per rispetto alla legge morale.
L'imperativo è la forma dell'obbligazione. Kant distingue l'imperativo in ipotetico e categorico. L'imperativo ipotetico costringe all'azione in determinate circostanze, in rapporto ai fini che un uomo si prefigge (se sono assetato devo bere); sono consigli della prudenza che riguardano i mezzi adeguati a uno scopo che si presuppone sia desiderato da tutti gli uomini, ovvero la felicità. Questo imperativo punta al raggiungimento del massimo benessere. La felicità, però, è sottratta alla sfera della moralità, in quanto il dovere non ha a che fare col godimento della vita. Gli imperativi ipotetici indicano che l'azione è buona riguardo a uno scopo possibile o reale; l'imperativo categorico, invece, dichiara l'azione come oggettivamente necessaria per se stessa, senza relazione con uno scopo. Esso non riguarda l'azione, ma l'intenzione, il principio di determinazione della volontà. Kant sancisce un metodo per determinare la moralità di un'azione, che si può riassumere nel principio di agire secondo quella massima che si potrebbe volere come universale, una sorta di “fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te”. La legge morale viene considerata rispetto al fine, e l'unico fine accettabile è l'uomo stesso, la persona. Sarà dunque immorale ogni comportamento il cui scopo sia servirsi di se stessi e degli altri come dei mezzi. L'uomo può subordinare la sua volontà alla legge morale e al tempo stesso la ragion pratica è la fonte di una legislazione universale: è questa l'autonomia della volontà, in quanto l'uomo è legge a se stesso. Nel momento in cui il dovere entra in conflitto con le inclinazioni che costituiscono l'egoismo si origina la sofferenza. L'unico sentimento accettabile è il rispetto (di sé, degli altri, della legge), un prodotto della ragione che accompagna l'esperienza morale, un movente della volontà buona. Kant si chiede le condizioni della moralità stessa attraverso il quesito “com'è possibile l'imperativo categorico”? Per farlo, occorre individuare un elemento di connessione fra volontà e legge morale. Kant ravvisa questo elemento nella libertà, intesa come autonomia. E' la libertà a rendere possibile l'imperativo categorico. La moralità presuppone la libertà. Nel momento in cui un individuo diventa cosciente della legge morale allora conosce la libertà: “tu devi, quindi tu puoi”. La libertà è una causalità determinata autonomamente. Tuttavia l'uomo, in quanto ente naturale, è soggetto alla causalità naturale. Come sanare l'opposizione fra causalità autonoma e causalità naturale? Ammettendo che l'uomo è sia libero che sottomesso, in quanto parte della natura. In quanto essere fenomenico l'uomo è determinato dalla causalità naturale, in quanto essere intelligente dotato di volontà è capace di autonomia. Con la moralità ci è possibile accedere al mondo intellegibile che era stato precluso alla ragione speculativa. La possibilità di pensare a una moralità razionale comune delinea il cosiddetto “regno dei fini”, dove in esso gli uomini sono intelligenze che si rapportano come fini in sé e come cooperanti per un fine comune. L'eudemonismo identifica il bene con la felicità, considerando la felicità come il bene fondamentale a cui gli uomini aspirano. Kant pone la sua ricerca morale in un'ottica antieudemonistica. Kant esclude difatti questa identificazione, operando una scissione fra virtù e felicità. E' una tendenza della ragione quella di cercare di comprendere la totalità. In campo pratico la ragione esprime questa esigenza attraverso l'idea del sommo bene, ovvero la totalità del bene in un mondo possibile. La virtù è il bene supremo, completo, che comprende in sé la felicità. Ma è possibile per il virtuoso essere felice? L'uomo tende per sua natura al “sommo bene", cioè all'assoluto morale quale si esprime nell'unione di virtù e felicità. Ma la virtù umana, pur configurandosi come il "bene supremo", non è ancora quel "sommo bene", nel quale virtù e felicità si addizionano: pensiamo, infatti, anche ai sacrifici e alle rinunce che deve fare il virtuoso, a quanta felicità deve, non di rado, barattare in nome dei propri codici morali, allo sforzo che deve fare per arginare le proprie urgenze pulsionali, per dilazionare o sopprimere radicalmente i propri desideri; si apre così un'antinomia, tra virtù e felicità, che per la loro eterogeneità non possono essere conciliate su questa terra, rendendo, in questo modo, necessario postulare l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima come esigenze morali. Kant propone la risoluzione di tale antinomia attraverso la distinzione fra piano del fenomeno e piano del noumeno. Occorre pertanto ammettere alcuni postulati della ragion pratica. Un postulato è una proposizione non dimostrabile, in quanto sancisce una legge che ha un valore
incondizionato a priori. Questi postulati sono l'immortalità dell'anima, l'esistenza di Dio e la libertà. Il sommo bene contiene in sé il concetto di una virtù perfetta, ma questa perfezione non è raggiungibile nel corso dell'esistenza di un essere finito, è pensabile solo all'infinito; da qui deriva la necessità dell'immortalità dell'anima. Il postulato dell'esistenza di Dio è necessario per pensare l'accordo di moralità e felicità: in Dio infatti noi pensiamo una causa suprema morale, un sommo bene originario, che è garanzia dell'accordo fra causalità naturale e volontà morale. Dunque è moralmente necessario ammettere l'esistenza di Dio. Con questa affermazione Kant non intende però fondare teologicamente la morale, o si incorrerebbe in una rinuncia della volontà. Questi postulati ci riportano a quelle idee (psicologica, cosmologica e teologica) di cui la dialettica aveva rivelato la fallacia. Nella morale la realtà soprasensibile acquista per noi oggettività, ma ciò non vuol dire che l'anima la libertà e Dio siano divenuti oggetti di una conoscenza teoretica. Il concetto di Dio non appartiene alla fisica, ma alla morale. Con la Critica del Giudizio Kant completa la sua indagine critica delle facoltà conoscitive individuando nuove prospettive che influenzeranno fortemente la filosofia dell'Ottocento. La prima critica ha riguardato il mondo dell'esperienza, la seconda il mondo morale. Questo sembra aver provocato una sorta di frattura nella vita dell'uomo, ripresentando il problema circa la conciliazione fra natura e libertà. L'esigenza della Critica del Giudizio è proprio quella di mediare il mondo della natura e quello della libertà, pur conservando l'autonomia di entrambi. La critica del giudizio Conoscere è innanzitutto giudicare, e giudicare significa attribuire un predicato a un soggetto. Ciò può avvenire in due modi: attraverso il giudizio determinante o il giudizio riflettente. Il giudizio determinante determina i suoi oggetti sottomettendoli alle forme a priori della sensibilità (spazio e tempo) e alle categorie dell'intelletto. Il giudizio determinante è costitutivo dell'oggetto, e comporta la presenza di una legge universale predefinita in cui includere il particolare. Il giudizio riflettente non determina alcun oggetto, ma riflette su oggetti singoli già costituiti. Il giudizio determinante è costitutivo dell'oggetto, mentre il giudizio riflettente si occupa di scoprire una connessione fra oggetti. Il giudizio riflettente segue un principio a priori che egli stesso si dà, ovvero la finalità. Nel giudizio riflettente si esprime una facoltà che Kant colloca fra conoscenza e volontà: il sentimento. Kant aveva escluso il sentimento da ogni ruolo conoscitivo e morale, in quanto soggettivo. Il sentimento ha però una facoltà che contiene un modo di guardare agli oggetti rinviando la forma al sentire del soggetto. Si può quindi valutare una rappresentazione qualsiasi in rapporto al sentimento di piacere o di dispiacere che questa provoca. Il piacere è legato alla finalità, in quanto la realizzazione di uno scopo conduce a un sentimento di piacere. Il piacere che si prova dinanzi a un'opera d'arte rivela la presenza di una finalità, ovvero l'unità della loro forma. I giudizi riflettenti si distinguono in estetici e teleologici. Estetici quando riconosciamo immediatamente la bellezza di un oggetto. Teleologici quando la bellezza obbedisce a interessi esterni, propri dell'essere umano. Ad esempio se osservando un cielo stellato diciamo che “è bello” stiamo esprimendo un giudizio riflettente estetico; se invece in esso vediamo l'organizzazione della natura in vista di un fine stiamo esprimendo un giudizio riflettente teleologico. Una critica del Giudizio estetico dovrà chiarire cosa si richieda perché un oggetto si possa definire bello. Kant procede analizzando i giudizi di gusto. Il gusto è la facoltà di giudicare il bello: il bello valuta il rapporto fra una rappresentazione e il sentimento di piacere o dispiacere. In esso è assente qualsiasi interesse per l'oggetto, ma è legato a un piacere di pura rappresentazione. Il giudizio di gusto è sempre soggettivo, ma ciò non significa che il suo unico dominio sia quello individuale. Se dico che un oggetto è bello formulo un giudizio connettendo la rappresentazione dell'oggetto al mio sentimento di
piacere in modo universale, valido dunque non solo per il soggetto che prova piacere, ma per ogni soggetto giudicante in generale. Bello è ciò che piace universalmente e necessariamente senza poter pretendere di dimostrare questa necessità attraverso concetti. La necessità deve derivare da un principio soggettivo che solo mediante il sentimento e non mediante concetti, ma universalmente, determini ciò che piace e ciò che dispiace. Questa universalità soggettiva del giudizio di gusto si esprime attraverso la sua comunicabilità generale, garantita dalla presenza di un senso comune, una predisposizione a giudicare da parte dell'uomo. L'accordo dell'immaginazione e dell'intelletto nella contemplazione dell'ordine e dell'armonia fra le parti dell'oggetto è all'origine del sentimento di piacere. L'esperienza estetica presuppone una condizione di comunicabilità dello stato d'animo in cui si trovano i diversi soggetti. Ci si esprime grazie a una “voce universale” che si sente affine a quella di chiunque altro. L'analisi kantiana sul sublime si riferisce principalmente sulla ricerca di Edmund Burke. Il bello e il sublime, secondo Kant, hanno in comune alcuni aspetti (il piacere disinteressato, il carattere riflessivo del giudizio), ma si distinguono per altri elementi, in particolare dal fatto che mentre il bello consiste nella contemplazione della forma dell'oggetto, della sua limitatezza, il sentimento del sublime si origina dinanzi all'informe, all'illimitato. Di fronte alla grandezza abbiamo il sublime matematico, mentre di fronte alla potenza il sublime dinamico. Il del sublime nasce dal sentimento contraddittorio di attrazione-repulsione, causato dal senso di piccolezza rispetto all'immensità della natura. Allo stesso tempo, però, il sublime ci rimanda alla grandezza dell'uomo, in quanto risveglia la stessa infinità che regna dentro l'uomo, in quanto essere razionale superiore alle altre creature. Nell'analisi del giudizio teleologico Kant lavora sul tema del finalismo della natura. Di fronte ad essa noi siamo portati a supporre l'esistenza di un fine. Mentre la fisica è regolata dalle leggi del meccanicismo, la biologia richiede una prospettiva teleologica (finalistica). Mentre le macchine non sono capaci di autoprodursi o autoregolarsi, nella natura questi fenomeni accadono regolarmente. Dunque se la relazione fra i fenomeni fisici o i fenomeni meccanici possono essere spiegate attraverso il rapporto causa-effetto, il mondo biologico non può esaurirsi in una spiegazione meccanicistica. La teleologia, il finalismo generale dell'universo che deriva da una tendenza dell'uomo a ricercare cause finali, sfocia nella teologia, in quanto risulta quasi spontaneo attribuire l'origine dell'universo a un essere al di fuori del mondo. Quest'affermazione non viene considerata valida teoreticamente o scientificamente, ma è un giudizio riflettente, riflette un modo soggettivo di rappresentare la realtà. Ciò significa che la teleologia non può dimostrare l'esistenza di un creatore, ma rimane solo un'esigenza dell'uomo. Dall'idea della finalità della natura, Kant arriva a supporre che sia l'uomo lo scopo finale della natura stessa. Lo scopo finale è difatti quello che non richiede nient'altro come condizione della sua possibilità. L'unico essere che ha questa caratteristica è l'uomo, in quanto è l'unico che ha la facoltà di agire secondo volontà, il che lo rende autonomo. L'uomo può quindi sottomettere a sé l'intera natura. Il filosofo passa adesso ad occuparsi delle tematiche storico-antropologiche e politiche. La concezione kantiana della storia è influenzata da un lato dalle filosofie illuministe concentrate su una concezione ottimistica e progressiva, dall'altro dal pensiero di Rousseau che aveva mosso una condanna contro il mondo moderno affidando alla comunità politica un compito di redenzione dell'umanità. Il punto di vista di Kant è proiettato verso lo scopo ultimo della vita del genere umano. Le azioni dell'uomo appartengono al fenomeno, e di esse è possibile fare una storia. Mettendo in gioco la possibilità di una interpretazione finalistica dei fenomeni naturali, la storia viene vista come un processo di sviluppo delle facoltà razionali dell'uomo, uno sviluppo comune e non singolo. Kant pone l'origine della storia nel momento in cui l'uomo esce dalla vita governata dall'istinto per entrare nella vita governata dalla ragione. Sorgono nuovi bisogni
nell'uomo, e di conseguenza il lavoro, le contese, le guerre e le disuguaglianze. Secondo Kant è doloroso il passaggio dalla natura alla civiltà: è fonte di incertezza, pericolo e di degrado morale. Ma questa uscita dallo stato di natura sancisce l'inizio di un processo di perfezionamento. La libertà è ciò che contrassegna la storia dell'uomo, in quanto rende l'uomo un possibile iniziatore di processi; la natura lo ha reso un essere capace di ricavare tutto da se stesso. Questa idea di un disegno della natura permette di vedere una finalità nelle azioni umane, e non un semplice “gioco senza scopo”. Il progresso viene concepito da Kant come sviluppo della cultura, dunque della razionalità, il cui scopo è quello di costruire una società civile. La società civile è quella dove vige il diritto. A differenza di Hobbes, Kant ritiene che anche nello stato di natura vi sia una socialità e di conseguenza un diritto. Questo diritto è solo provvisorio, in quanto non vi è possibilità di farlo rispettare. Nella società civile questa coazione è invece possibile: il diritto è l'elemento che garantisce l'accordo delle reciproche libertà. Essendo un insieme di leggi positive obbliga, ma la sua obbligazione è diversa da quella della moralità, in quanto la moralità non ammette una coazione esterna. Ciò non esclude un rapporto tra moralità e diritto, ma lo stato non assume come fondamento la moralità. Lo stato non ha nemmeno il compito di garantire la felicità dei cittadini, o si cadrebbe nel paternalismo (una forma di dispotismo). Il pensiero politico di Kant occupa una posizione prettamente liberale. Il sovrano deve agire come se le sue leggi dovessero derivare dalla volontà di tutto il popolo. Kant crede, con Rousseau, che la società civile si basi su un contratto originario con il quale gli individui rinunciano alla libertà per riprenderla come membri di un organo comune. Kant condivide con Locke che la divisione dei poteri sia un elemento fondamentale per edificare una costituzione giusta, ma esclude come Hobbes che questo possa rappresentare una limitazione dei poteri dello stato. Contro il legislatore dello stato non può esistere un'opposizione legittima da parte del popolo. Il sovrano non è obbligato rispetto al popolo, in quanto il sovrano non può essere ingiusto. Nel caso in cui una legge non possa essere resa pubblica è certamente in giusta, e il suddito ha il diritto di manifestare pubblicamente la propria opposizione dinanzi a un potere che non agisce secondo la volontà collettiva. Il filosofo non è interessato a teorizzare una rifondazione della società politica, ma a chiarire le condizioni di possibilità della costruzione di una società razionale. Kant si chiede se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio. La risposta a tale domanda non può essere dedotta attraverso l'esperienza, in quanto se possiamo affermare che gli uomini fin qui hanno sempre progredito, non significa che in seguito possano regredire. La storia dell'uomo dimostra che un progresso fin qui c'è stato, e questi indizi uniti alla certezza morale del dovere che ogni uomo ha di perfezionarsi, permettono di ritenere che l'uomo sia destinato al progresso. La meta del progresso sta nel creare una società razionale conforme alla libertà: una comunità cosmopolitica capace di abbracciare tutti i popoli è l'unica soluzione alla guerra, l'unico mezzo per istituire una pace perpetua. La pace è un compito che la ragione stessa affida all'uomo. Fichte Johann Fichte nacque nel 1762 a Rammenau, in Germania. Studiò teologia e fece il precettore in varie famiglie. Nel 1791 conobbe personalmente Kant. Insegnò a Jena ma ebbe dei problemi con le autorità ecclesiastiche e giudiziarie a causa dei movimenti studenteschi. Le sue pubblicazioni gli causarono l'accusa di irreligiosità che lo allontanò dalla cattedra. La personalità di Fichte è identificabile nell'idealismo (ricondurre l'essere al pensiero): il filosofo era difatti pronto a dare la vita per un'idea. L'opera più celebre di Fichte è la Dottrina della scienza (1794). Il punto di partenza di Fichte è il pensiero kantiano; Fichte si domanda cosa ci sia alle radici della conoscenza umana. L'autore
ritiene che la filosofia, dovendo porre il fondamento dell'esperienza, debba analizzare l'esperienza stessa. Si accorge che i precedenti tentativi non sono andati oltre il dualismo soggetto-oggetto, e che la scienza potesse ammettere solo uno dei due principi. E' dunque necessario per Fichte superare questo dualismo. Per Fichte il principio della conoscenza umana è l'Io, l'autocoscienza del soggetto, il riconoscersi, il riconoscersi come un individuo pensante. L'Io di Fichte è coscienza di sé e del proprio pensiero. La vita è un continuo definirsi nell'Io, cercando la propria identità. Alla luce di questa presa di coscienza si può affermare che l'Io pone se stesso: ogni soggetto pensante crea se stesso e il suo particolare modo di giudicare le cose. E' questo il principio fondamentale della scienza. L'Io, ponendo se stesso, riconoscendo se stesso, opera una continua attività di definizione di sé. L'assioma Io=Io comporta che lo stesso io riconosca se stesso. All'interno dell'attività assoluta esiste assieme all'affermazione di qualcosa anche la negazione di qualcosa (A non è A). La negazione dell'Io conduce alla formulazione di un non-Io. Il non-Io è la materia, gli altri corpi, il nostro stesso corpo (che è la sede dell'Io ma non è Io). La conoscenza umana si fonda dunque su una contraddizione: da un lato l'autocoscienza di sé, dall'altro la coscienza di ciò che noi non siamo. L'Io ha in sé potenzialità assolute di conoscenza, ma non è il tutto, in quanto ha in sé la negazione. La possibilità di distinguere Io e non-Io presuppone l'esistenza di un'attività indipendente da parte dell'Io, mediante la quale produce delle rappresentazioni. Quest'attività indipendente è detta “immaginazione produttiva” che rende possibile la divisione fra soggetto e oggetto (antitesi) e la loro coesistenza (sintesi). Antitesi e sintesi sono le condizioni della conoscenza empirica. L'immaginazione produttiva è una facoltà che organizza l'esperienza sulla base degli schemi trascendentali, assicurando stabilità e continuità all'intuizione sensibile. Il non-Io è una parte dell'attività dell'Io su cui egli ancora non riflette: è la parte che sfugge alla conoscenza. Ciò che manca all'Io si trova nel non-Io, e la somma rimane nel complesso immutata. L'attività cosciente si trova nell'Io, quella incosciente nel nonIo; in una siamo attivi, in una passivi. La sostanza dell'Io puro rimane la stessa, ma si spartisce in un'azione e in una passione che si limitano e si determinano a vicenda. In ambito teorico l'Io è determinato dal non-Io, in ambito pratico l'Io determina il non-Io. L'Io si limita perché oltre che ad essere attività produttiva è anche riflessione. Producendo si limita, limitandosi produce: la vita dello spirito teorico consiste in un continuo limitare e oltrepassare. Il primo limite (il non-Io) non sa di porlo, è una produzione inconscia. Fichte la definisce un “ritrovare”, una sorta di ritrovamento in se stesso. L'Io in seguito riflette sulla sensazione e produce l'intuizione, riflettendo sull'intuizione produce l'immagine, riflettendo sull'immagine la fissa in mente. L'intelletto è questa capacità di fissare l'oggetto. L'immaginazione è la facoltà di produrre categorie, mentre l'intelletto le riconosce. Fissando l'oggetto l'intelletto ne fa astrazione; questa virtù astrattiva è detta “facoltà giudicatrice”. Riflettendo sulla virtù astrattiva si produce la ragione, che è l'aspirazione assoluta. Riflettendo sulla ragione non ci sono altri oggetti da porre, ma doveri da compiere. Il non-Io si pone come passaggio necessario per permettere all'Io di andare oltre i suoi limiti. Questo rapporto dinamico tra Io e non-Io è dunque ciò che permette alla realtà di evolversi, ciò che permette ai due momenti della coscienza di procedere e svilupparsi, per arricchimento. In sostanza è la volontà di porre i limiti del mondo naturale che è infinita, in quanto la coscienza si evolve nel tempo e aggiunge nuove caratteristiche al mondo della materia, ridefinendolo e arricchendolo. L'Io puro è infinito, ma per quanto riguarda la conoscenza egli non completa mai la propria infinità; questa rimane una meta da raggiungere. L'infinito sforzo dell'Io si manifesta attraverso lo spirito pratico col dovere. Se l'Io non fosse limitato da un oggetto non ci sarebbe conoscenza o spirito teoretico, ma se il non Io non fosse a suo volta limitato dall'Io, l'Io non sarebbe più infinito. Quando l'Io riflette sul suo limite è Io teoretico; quando riflette sulla sua infinità è Io pratico. Da uno deriva ciò che è, dall'altro ciò che deve essere: gli oggetti e i doveri. Grazie all'immaginazione produttiva possono essere mantenute entrambe le condizioni.
L'Io puro è sforzo, e lo sforzo è uno stimolo: lo stimolo risiede nell'essere soddisfatto, ed è questa la tendenza naturale che mira al godimento. Lo stimolo rimane sempre soddisfatto, in quanto la sua tendenza è quella di seguire la sua stessa infinita determinazione, divenendo stimolo di stimolo. Lo stimolo etico si trova tra lo stimolo naturale e lo stimolo puro: si tratta di uno stimolo misto. Un processo senza fine che mira alla piena indipendenza, che risulta irraggiungibile. La legge morale consiste nell'agire secondo coscienza “tu devi puramente!”. Mentre il maestro Kant aveva dedotto la libertà attraverso la legge morale, Fichte deduce la legge morale attraverso la libertà. Mentre Kant affermava “Devi, dunque puoi”, Fichte afferma “Puoi (sei libero), dunque devi”. La questione sta adesso nel conciliare l'attività pura con l'attività oggettiva. L'attività dell'Io è sì infinita, ma anche di riflessione. Si originano due movimenti, una direzione centrifuga e una centripeta. La critica ebbe molto da ridire sugli sviluppi successivi dell'Io nel pensiero di Fichte: queste fecero dell'Io una sorta di sostanza spinoziana, che produce tutti i soggetti e gli oggetti. Il pensiero di Fichte ha comunque avuto una fondamentale importanza, specialmente su Schelling. Schelling Friedrich Schelling nacque a Leomberg nel 1775. Studiò matematica e scienze naturali a Lipsia. A Jena ascoltò le lezioni di Fichte e ne prese il posto. Entrò in contatto con alcuni dei maggiori esponenti del romanticismo. Viene attaccato da Hegel, e da allora comincia la sua fase calante. Viene poi chiamato a sostituire Hegel nella cattedra di Berlino e diresse reazioni antihegeliane. Schelling è stato introdotto alla filosofia dagli scritti di Fichte. La riflessione del filosofo è ispirata inizialmente dal pensiero fichtiano per poi dissociarsi circa il modo di concepire la natura. Nella filosofia di Fichte infatti la natura viene subordinata dall'io e risulta diversa da esso: non è dunque possibile capire come possa derivarne. Cercare i fattori della conoscenza era il problema di Kant e Fichte, ma questo fattore è stato ravvisato nell'uomo, dunque è necessario trovare il principio della natura. L'Io di Fichte è coscienza, ma prima della coscienza troviamo l'immaginazione produttiva, attività inconscia, senza cui la coscienza non potrebbe esistere: “l'Io riflette su ciò che produce”. Il pensiero di Schelling prende le mosse da questa concezione. Secondo Schelling la coscienza è l'intenzione della natura stessa. La sua filosofia può essere considerata una preistoria della coscienza, se quella di Fichte ne è la storia. Questa preistoria conserva in sé i gradi della coscienza perché l'Io se ne ricordi e li riproduca in un secondo momento. Dunque se noi conosciamo i gradi della coscienza possiamo conoscere anche quelli della natura. La filosofia consiste nel ricordare lo stato in cui eravamo un tutt'uno con la natura, come aveva detto Platone. L'idealismo di Fichte si ferma alla soggettività, in quanto prende in esame una coscienza già formata: per formulare pareri oggettivi è necessario prendere in considerazione la coscienza quando ancora è in via di formazione, in un momento originario dal quale derivano natura e spirito. L'oggetto di questa ricerca è un Io privo di coscienza, detto depotenziato. Il problema è come nasce la coscienza da un soggetto-oggetto che ne è privo. La risposta è che soggetto e oggetto sono identici, solo che l'Io ha una potenza più alta. La natura è un sistema di potenze, ovvero di varie forme di equilibrio, che oscillano continuamente fra equilibrio e squilibrio. La potenza dove emerge più chiaramente quest'idea di Schelling è il magnetismo, composto da due poli contrari con una linea neutra nel mezzo. I poli possono essere associati all'ideale e al reale. La visione della natura di Schelling richiama palesemente il panteismo spinoziano, in cui soggetto e oggetto sono posti in un sistema
continuo e unitario; tra essi sussiste un diverso livello di coscienza: la natura è Spirito inconscio, lo Spirito è natura autocosciente. Schelling si accostò a Spinoza e a Leibniz, al quale tolse il principio della continuità di sviluppo della natura. Schelling divise la filosofia in tre parti: filosofia teoretica, filosofia pratica e filosofia dell'arte. Nella prima era trattata la conoscenza in relazione coi prodotti inconsci della natura; nella seconda l'azione conscia della libertà; nella terza l'equilibrio dell'opposizione tra natura e libertà nell'opera d'arte. Soltanto attraverso il genio artistico l'idea può attuarsi nella materia coinvolgendo anche la libertà. Schelling considera ancora i principi di Kant e di Fichte: per lui l'io puro, l'intuizione intellettuale, è tutto. Accetta la concezione autonoma e originale dell'immaginazione, l'attività infinita come centrifuga e la limitazione come centripeta, le quali corrispondono rispettivamente a spazio e tempo. Nella cosiddetta filosofia dell'identità Schelling cerca di sanare il divario tra Io puro e Io empirico (ovvero fra ideale e reale, tra aspetto soggettivo e oggettivo), accostandosi al pensiero di Spinoza, scelta che causò l'accusa di spinozismo da parte di Fichte. Fondamentalmente però il Monismo di Fichte può essere considerato simile all'assoluta identità di Schelling. L'Assoluta identità consiste nel definire l'Assoluto come identità tra il reale e l'ideale: si distingue sia dalla natura che dallo spirito, ed è identificato con Dio. Nel 1809 si accosta a Jakob Bohme, e distingue Dio in tre momenti: l'Indifferenza, lo sdoppiamento tra essenza ed esistenza e la conciliazione di entrambe (identità). Il filosofo sembra così volersi ricollegare alla Trinità, ma cerca più che altro di far coincidere il processo di formazione del mondo con questi momenti. Schelling, difatti, nello spiegare la nascita della coscienza dalla natura, aveva lasciato qualcosa di oscuro che non era possibile chiarire con l'intelletto: questa parte oscura la identifica in Dio. La natura in Dio è la volontà non ancora illuminata da intelligenza; Dio deve generare se stesso, in quanto la sua volontà lo costringe a manifestarsi. L'Io è il punto più lontano da Dio, e al contempo quello da cui inizia il ritorno verso di lui (ricorda Plotino). Dio è, secondo Schelling, l'unione di natura e libertà. Nella vita divina ci sono diverse potenze, che il teismo e il panteismo non sono in grado di chiarire separatamente, ma solo insieme. Dopo la morte di Hegel Schelling inizia a sviluppare l'empirismo filosofico che, secondo lui, non poteva essere né l'empirismo inglese o francese, né il razionalismo hegeliano. Un empirismo nuovo che coglie il dato non come tale, ma come creato. Per cogliere la realtà è necessaria l'esperienza.