COSTRUIRE ABITARE PENSARE Martin Heidegger
Nelle pagine seguenti faremo delle considerazioni riguardanti l’abitare e il costruire. Tali considerazioni sul costruire non mirano alla ricerca di progetti edilizi ovvero alla regolamentazione d costruire. Questo tentativo di riflessione non vuol considerare il costruire come un’arte o come una tecnica della costruzione, bensì segue il costruire a ritroso fin in quell’ambito a cui appartiene ogni c che è. Ci domandiamo: 1/ Che cos’è l’abitare? 2/ In che misura il costruire appartiene all’abitare? I
All’abitare, così pare, arriviamo prima attraverso il costruire. Quest’ultimo, il costruire, ha come fine il primo, l’abitare. Tuttavia non tutti gli edifici sono anche abitazioni. Ponti e rimesse aeree, stadi e centrali elettriche, dighe di sbarramento e mercati coperti so edifici, ma non abitazioni. Tuttavia gli edifici nominati appartengono all’ambito del nostro concetto abitare, che va al di là di questi edifici e tuttavia non si limita all’abitazione pura e semplice. Il camionista è di casa sull’autostrada, ma non è lì il suo asilo; l’operaia è di casa nella filanda, tuttav non è quella la sua abitazione; l’ingegnere capo è di casa nella centrale elettrica, ma non vi abita. Tu questi edifici danno alloggio all’uomo. Egli li abita e contemporaneamente non abita in essi, se abitare significa soltanto che noi occupiamo alloggio. Con l’odierna penuria di alloggi già questo è rassicurante e soddisfacente; case d’abitazion danno asilo certamente; le abitazioni possono essere oggi ben articolate, facilmente amministrabili, accattivanti nel prezzo, aperte all’aria, alla luce e al sole, ma le abitazioni racchiudono in sé la garan che vi avvenga un abitare? Eppure quegli edifici, che non sono abitazioni, rimangono a loro volta determinati dall’abitare, nella misura in cui servono all’abitare degli uomini. Così in ogni caso l’abit sarebbe lo scopo che presiede a ogni costruire. Abitare e costruire stanno tra di loro nel rapporto di f e mezzo. Tuttavia, fin tanto che le nostre considerazioni si limitano a questo, prendiamo l’abitare e il costruire come due attività separate e con ciò presentiamo qualcosa di giusto, ma contemporaneamente alteria attraverso lo schema fine-mezzo le connessioni essenziali. Costruire infatti non è soltanto mezzo e v all’abitare; il costruire è in se stesso già abitare. Chi ci dice ciò? Chi ci dà insomma una misura con l quale misurare l’essenza dell’abitare e del costruire? Il chiarimento circa l’essenza di una cosa ci vie dalla lingua, premesso che ne rispettiamo il carattere peculiare. Infuria certo nel mondo la mania di parlare, di scrivere, di un comunicare senza freni e insieme in mo abile. L’uomo si atteggia a creatore e maestro della lingua, mentre è lei che rimane signora dell’uom Forse è soprattutto proprio il capovolgimento di questo rapporto di forza che aliena la sostanza dell’uomo. Che noi teniamo alla scrupolosità dei parlare, va benissimo: ma non basta, fintanto che c ciò la lingua continua a servirci soltanto come mezzo di espressione. Fra tutte le risorse espressive ch la condizione umana in sé comporta per esprimersi, la lingua è la più alta e la prima fra tutte. Che cosa significa dunque costruire? La parola antico-alto-tedesca per costruire, buan, significa abit cioè: rimanere, soggiornare. II significato vero del verbo bauen, cioè abitare, ci è andato perduto. Un lieve traccia si è mantenuta nella parola Nachbar. Il vicino è il Nachgebur, il büren, beuren, beuron significavano tutti l’abitare, l’abitazione. Ora in effetti l’antica parola buan non ci dice soltanto che bauen, il costruire, è propriamente l’abitare, bens dà contemporaneamente una chiave interpretativa del tipo di abitare significato.
Solitamente quando si parla di abitare ci immaginiamo un comportamento che l’uomo compie insiem a numerosi altri. Noi lavoriamo qui ed abitiamo là. Noi non abitiamo soltanto; ciò sarebbe quasi inattività; abbiamo u professione, facciamo affari, viaggiamo ed abitiamo cammin facendo, ora qua, ora là. Costruire significa originariamente abitare. Dove la parola abitare ha ancora significato originario dice contemporaneamente fino a che punto giunge l’essenza dell’abitare. Bauen, buan, bhu, beo è infatti la nostra parola «bin» nelle forme: io sono, tu sei e l’imperativo: sii. Che cosa significa quindi, ich bin, io sono? L’antica parola bauen, costruire a cui appartiene l’«esser risponde: «io sono», «tu sei», che significa: io abito, tu abiti. Il modo come tu sei ed io sono, il modo come noi uomini siamo sulla terra, è il buan, l’abitare. Essere uomo significa essere sulla terra, come creatura mortale, significa: abitare. L’antica parola per costruire dice che l’uomo è in quanto abita; questa parola bauen significa contemporaneamente: custodire, e curare, cioè coltivare il campo e la vite. Un siffatto costruire altro non è che proteggere, cioè accudire alla crescita, che di per sé produce i suoi frutti. Costruire nel senso di custodire e curare non è un fabbricare. La costruzione di navi e la costruzione templi al contrario, in un certo senso, realizzano la loro opera da sé. In questo caso il costruire a differenza del curare è un edificare. Tutti e due i modi del costruire – costruire come curare, latino colere, cultura, e costruire come edificare, ædificare – sono contenuti nel costruire vero e proprio, ci abitare. Il costruire come abitare, cioè essere sulla terra, rimane però per l’esperienza quotidiana, ciò che è già di per sé, come la lingua ben dice l’«abitudine». Perciò si pone in un secondo piano, rispett ai molteplici modi secondo i quali si compie l’abitare, rispetto alle attività del curare ed edificare. Queste attività in conseguenza sussumono il nome costruire, rivendicando per sé sole la questione de costruire. Il senso vero e proprio del costruire, cioè l’abitare, cade in dimenticanza. Questo fatto app in un primo tempo come se fosse unicamente un processo entro le mutazioni del significato di pure parole. In verità si nasconde in esso qualche cosa di decisivo, cioè: l’abitare non viene esperito come l’essere dell’uomo; l’abitare non viene mai pensato completamente come il tratto fondamentale dell’essere uomo. Che la lingua per così dire recuperi il vero e proprio significato della parola costru cioè l’abitare, testimonia tuttavia l’essenza originaria di questi significati; poiché per le parole essenziali della lingua il significato genuino cade facilmente in dimenticanza a favore del significato evidente. Il mistero di questo processo non è stato ancora meditato. La lingua sottrae all’uomo il suo parlare semplice e alto. Ma con ciò la sua proposta iniziale non ammutolisce, tace soltanto. L’uomo in effett dimentica di prestare ascolto a questo silenzio. Se però ascoltiamo ciò che la lingua dice nella parola bauen, allora percepiamo un triplice significato: 1/ Costruire è propriamente abitare. 2/ L’abitare è il modo secondo il quale i mortali sono sulla terra. 3/ Il costruire come abitare si esprime nel costruire che cura la crescita e nel costruire che edifica edifici. Se consideriamo questo triplice significato abbiamo una chiave di interpretazione e notiamo quanto segue: ciò che il costruire edifici è nella sua essenza, non possiamo neppure chiedercelo a sufficienz tanto meno deciderlo oggettivamente, fintanto che non pensiamo che ogni costruire è in sé un abitare Noi non abitiamo, perché abbiamo costruito, bensì costruiamo e abbiamo costruito nella misura in c abitiamo, cioè siamo in quanto abitanti. Ma in che cosa consiste l’essenza dell’abitare? Sentiamo ancora una volta il suggerimento della lingua: il wuon antico-sassone, il gotico wunian, significano come l’antica parola bauen il rimanere, il soggiornare. Ma il gotico wunian spiega più chiaramente come viene esperito questo rimanere. Wunian significa: essere pacificati, rappacificati, rimanere in pace. La parola pace significa ciò che è libero, il frye, e fry significa: riparato da danni e minacce, riparato
da..., cioè risparmiato. Liberare significa propriamente risparmiare. Lo stesso risparmiare non consiste soltanto nel non fare nulla di male a chi viene risparmiato, bensì propriamente risparmiare è qualcosa di positivo e accade allorché in anticipo preserviamo qualcosa nella sua essenza, allorché ripariamo qualche cosa nella su essenza, allorché, in corrispondenza alla parola liberare, la ripariamo. Abitare, essere rappacificati, significa: rimanere riparati nel frye, cioè nella libertà, che risparmia ogn cosa nella sua essenza. Il tratto fondamentale dell’abitare è questo risparmiare: attraversa l’abitare tutta la sua ampiezza, che si mostra appena pensiamo che nell’abitare risiede l’essere uomini, nel sen del soggiorno dei mortali sulla terra. Ma sulla terra significa già sotto al cielo. Ambedue significano coabitare di fronte agli dei e include un appartenere alla comunità degli uom Appartengono, i quattro, ad una originaria unità: terra e cielo, i mortali e gli immortali in uno. La terra è colei che serve e sostenta, che fiorisce e fruttifica, che si apre in terre e acque, si schiude in piante ed animali. Se diciamo terra, pensiamo già contemporaneamente agli altri tre elementi, tuttavi perdiamo di vista la semplicità essenziale dei quattro. Il cielo è il percorso variabile della luna, lo splendore vagante delle stelle, le stagioni dell’anno e le l rotazioni, luce e crepuscolo del giorno, oscurità e chiarore della notte, l’ospitalità e l’inospitalità del clima, del corso delle nubi e della profondità azzurra dell’etere. Se diciamo cielo, già pensiamo contemporaneamente agli altri tre, tuttavia perdiamo di vista la semplicità essenziale dei quattro. I mortali sono gli uomini. Si chiamano mortali perché possono morire. Morire significa essere capac della morte come morte. Solo l’uomo muore, e ciò di continuo, finché rimane sulla terra, sotto al cie di fronte agli immortali. Se diciamo i mortali, allora consideriamo già contemporaneamente gli altri t tuttavia perdiamo di vista la semplicità essenziale dei quattro. Questa semplicità essenziale la chiamiamo la quadruplicità. I mortali sono nella quadruplicità abitando. Il tratto fondamentale dell’abitare però è il risparmiare. I mortali abitano in modo che risparmiano la quadruplicità nella sua essenza. Conformemente a ciò il risparmiare-abitare è quadruplice. I mortali abitano in quanto salvano la terra – la parola nell’accezione antica che Lessing ancora conosceva. Il salvare non strappa soltanto ad un pericolo, salvare significa propriamente: lasciar libe qualcosa nella sua propria essenza. Salvare la terra è qualcosa di più che non utilizzarla o addirittura affaticarla. Salvare la terra non significa dominarla né sottometterla, dalla qual cosa manca solo un passo allo sfruttamento illimitato I mortali abitano in quanto ricevono il cielo come cielo. Essi lasciano al sole e alla luna il loro corso loro via alle stelle, alle stagioni dell’anno la loro benedizione e la loro ingiuria, essi non rendono gio la notte e non trasformano il giorno in frenetica irrequietezza. I mortali abitano in quanto aspettano g immortali come immortali. Sperando porgono loro innanzi ciò che è fuori dalla speranza. Aspettano cenni del loro arrivo e non misconoscono i segni della loro assenza. Essi non si costruiscono i loro dei e non celebrano l’offizio a degli idoli. Ancora nella disgrazia attendono il bene sottratto. I mortali abitano, nella misura in cui riconducono la loro propria essenza fatto che essi sono capaci della morte in quanto morte) all’uso stesso di questa capacità, affinché sia una buona morte. Ricondurre i mortali all’essenza della morte, non significa affatto porre la morte come vuoto nulla, quale meta; non significa neppure offuscare l’abitare fissando ciecamente la fine. Nel salvare la terra, nell’accogliere il cielo, nell’attendere gli immortali, nel guidare i mortali si realiz l’abitare come quadruplice bellezza della quadruplicità. Risparmiare significa: proteggere la quadruplicità nella sua essenza. Ciò che viene preso sotto protezione, deve venir custodito. Dove per l’abitare custodisce la propria essenza, se esso risparmia la quadruplicità? In che modo i mortali attu l’abitare in quanto bellezza? I mortali non ne sarebbero mai capaci, se l’abitare fosse soltanto un soggiorno sulla terra, sotto il cielo, di fronte agli immortali, con i mortali. L’abitare è sempre stato piuttosto un soggiorno presso le cose. L’abitare in quanto bellezza conserva la quadruplicità in ciò in
cui i mortali soggiornano: nelle cose. Il dimorare presso le cose non si aggiunge tuttavia puramente a molteplicità della bellezza come una quinta cosa, al contrario: il dimorare presso le cose è l’unico mo secondo il quale la quadruplice dimora si compie di volta in volta in modo unitario. L’abitare risparm la quadruplicità portandone la sostanza nelle cose. Tuttavia le cose stesse custodiscono la quadruplic soltanto quando esse stesse, in quanto cose, vengono rispettate nella loro essenza. Come accade ciò? Proteggendo e curando i mortali le cose che crescono, edificando appositamente l cose che non crescono. Il curare e edificare è il costruire in senso stretto. L’abitare, nella misura in c conserva la quadruplicità nelle cose, è, in quanto conservazione, un costruire. Con ciò siamo condot alla seconda domanda: II
In che misura il costruire appartiene all’abitare? La risposta a questa domanda ci chiarisce che cos’è propriamente il costruire, pensato partendo dall’essenza dell’abitare. Limitiamoci al costruire nel senso dell’edificare cose e ci chiediamo: che cos’è una cosa costruita? Come esempio per le nostre meditazioni prendiamo un ponte. Il ponte si lib «leggero e forte» sul fiume. Esso non collega soltanto rive già esistenti. Nel passaggio del ponte le ri si manifestano in quanto tali. Il ponte fa sì che esse stiano propriamente una di fronte all’altra. Una sponda a causa del ponte risalta di fronte all’altra. Neppure le rive scorrono lungo il fiume come neu strisce di confine della terra ferma. Con le rive, il ponte porta di volta in volta al fiume l’uno o l’altro sfondo del paesaggio retrostante. Esso porta fiume e riva e terra in reciproca vicinanza. Il ponte radu la terra in qualità di paesaggio intorno al fiume. Così l’accompagna attraverso i prati. I pilastri portan giacendo nel letto del fiume, lo slancio degli archi che permettono il passaggio alle acque del fiume. che le acque scorrano via calme e allegre, o che le cateratte del cielo nella tempesta o nel disgelo picchino in onde dirompenti contro gli archi e pilastri, il ponte è preparato per i climi del cielo e la lo instabilità. Anche là dove il ponte sovrasta il fiume, esso racchiude il suo fluire accogliendolo per qualche attim entro l’arco per lasciarlo poi di nuovo libero. Il ponte lascia al fiume la sua via e concede contemporaneamente ai mortali il passaggio cosicché viaggino di terra in terra. I ponti guidano secondo modi svariati. Il ponte cittadino conduce dalla cerchia delle mura alla piazza del duomo, il ponte sul fiume davanti al borgo di campagna porta carr carrozze ai paesi dei dintorni. L’umile passaggio del ruscello costituito dal vecchio ponte di pietra permette al carro della vendemmia di passare dalla campagna al paese, porta il carro della legna dal sentiero alla strada maestra. II ponte sull’autostrada è teso nella rete del traffico a lunga distanza, calcolato per il massimo di velocità e di portata. Sempre e ogni volta in modo diverso il ponte guida e giù le vie riluttanti e frettolose degli uomini in modo che approdino a diverse rive ed infine, in qua mortali, all’altra sponda. Il ponte si slancia talvolta oltre fiumi e voragini con alti archi talvolta con archi appiattiti; chissà se i mortali badano allo slancio del ponte, oppure dimenticano che essi, pur sempre in cammino verso l’ultimo ponte, in fondo aspirano a superare quotidianità e sventura per portare se stessi di fronte alla salvezza del divino. II ponte in quanto passaggio slanciato di fronte ag dei. Sia che la presenza di questi ultimi venga propriamente considerata e visibilmente gratificata co nella figura di S. Cristoforo, sia che venga alterata o addirittura rimossa. Il ponte raduna a suo modo terra e cielo, i mortali e gli immortali presso di sé. Adunanza è il significato di un’antica parola della nostra lingua: «thing». Il ponte è – in quanto caratterizzata adunanza della quadruplicità – una cosa. pensa invero che il ponte sia in primo luogo, e propriamente, solamente un ponte. In secondo luogo ed occasionalmente esso potrebbe esprimere anche altro. In qualità di tale espressi esso diventerebbe simbolo, ad esempio, per tutto ciò che prima si è detto. Tuttavia il ponte, se è un v ponte, non è mai in primo luogo soltanto ponte e in seguito un simbolo. Tanto meno il ponte è a prio
soltanto un simbolo nel senso che esprime qualcosa che, a rigore, non gli appartiene. Se consideriam rigorosamente il ponte, esso non si mostra mai in qualità di espressione. Il ponte è una cosa e soltant ciò. Soltanto? In qualità di cosa, esso raduna la quadruplicità. Il nostro pensiero è invero abituato fin dai tempi antichi a sottovalutare l’essenza della cosa. Nel cor del pensiero occidentale ciò ha come conseguenza che ci si rappresenta la cosa come una X incognit che è dotata di proprietà percepibili. Da questo punto di vista ci appare dunque tutto ciò che apparti all’essenza radunatrice di questa cosa come accessorio che si crede di scorgere in un secondo temp Mentre il ponte non sarebbe mai un puro ponte se non fosse una cosa. Il ponte è invero una cosa di u strana specie, radunando la quadruplicità in quel modo che le consente una dimora. Ma soltanto ciò è esso stesso, un luogo, può dar luogo ad una dimora. Il luogo non preesiste al ponte. È vero che vi sono, prima che vi sia il ponte lungo il fiume, molti luoghi che possono venir occupati da qualcosa. Uno di questi si rivela un luogo e ciò accade per mezzo del ponte. Così, pertanto, il ponte non viene a stare in un luogo bensì dal ponte stesso nasce il luogo. Esso è un cosa, raduna la quadruplicità, raduna tuttavia nel senso che esso procura una dimora alla quadruplici Da questa dimora si determinano luoghi e vie per mezzo dei quali si dispone uno spazio. Cose che sono luoghi in tale modo consentono di volta in volta gli spazi. Ciò che questa parola Raum significa lo dice il suo antico significato. Raum, Rum significa luogo res libero per insediamento ed accampamento. Uno spazio è qualcosa di sistemato, di sciolto, cioè entro confine, greco πέρας. Il confine non è ciò presso cui qualcosa finisce, bensì, come i greci riconobber il confine è ciò a partire da cui qualcosa inizia la sua essenza. Perciò è il concetto di δρισµός, cioè confine. Spazio è essenzialmente ciò che è stato sistemato, inserito nel suo confine. Ciò che è stato sistemato viene di volta in volta consentito e così disposto, cioè radunato per mezzo di un luogo, cio per mezzo di una cosa della specie del ponte. Conseguentemente gli spazi ricevono la loro essenza da luoghi e non da ‘lo’ spazio. Cose che come luoghi consentono una dimora, li chiamiamo ora, prevenendo ciò che segue, edifici. Si chiamano cos perché sono promossi dal costruire e dall’edificare. Di che tipo tuttavia deve essere questo promuove cioè costruire, lo scopriamo soltanto avendo prima considerato la sostanza di quelle cose che da se stesse esigono per la loro realizzazione il costruire come promuovere. Queste cose sono luoghi che consentono una dimora alla quadruplicità, la qual dimora di volta in volta promuove uno spazio. Nell’essenza di queste cose in qualità di luoghi è il rapporto di luogo e spazio, vi è anche il rapporto luogo rispetto all’uomo che è in esso. Perciò ora tentiamo di chiarire l’essenza di queste cose che chiamiamo edifici facendo in breve le considerazioni che seguono. In primo luogo: in quale relazione stanno luogo e spazio e, inoltre, quale è il rapporto tra uomo e spazio? Il ponte è un luogo. In qualità di cosa consente uno spazio nel quale entrano terra e cielo, gli immort e i mortali. Lo spazio consentito dal ponte contiene diversi posti in diversa vicinanza e lontananza da ponte stesso. Questi posti si possono però registrare come luoghi tra i quali sussiste una distanza misurabile; una distanza, in greco uno στάδιον, è sempre disposta e appunto attraverso dei luoghi. C che viene disposto attraverso dei luoghi è uno spazio di una specie particolare. È in quanto distanza, quanto stadio, ciò che ci dice la stessa parola in latino, uno «spatium», un intervallo. Così vicinanza lontananza tra uomini e cose possono divenire pure distanze, pure lontananze dello spazio intermedi In uno spazio che viene rappresentato unicamente come spatium, il ponte appare ora come un puro qualcosa in un luogo; luogo che può venir occupato in ogni momento da qualcos’altro oppure può ve sostituito da una semplice segnalazione. Non tutto: dallo spazio, come spazio intermedio, si possono rilevare i puri stacchi verso altezza, larghezza e profondità. Ciò che viene così dedotto, in latino abstractum, lo presentiamo come la pur molteplicità delle tre dimensioni. Ciò che però dispone questa molteplicità, non viene più determina attraverso distanze, non è più uno spatium, bensì soltanto più: extensio-estensione.
Lo spazio come extensio si può però ancora astrarre e precisamente in relazione analitico-algebriche Ciò a cui queste danno luogo è la possibilità della costruzione puramente matematica di molteplicità quante si voglia dimensioni. Si può chiamare questa disposizione matematica «lo» spazio. Ma «lo» spazio in questo senso non contiene né spazi né luoghi. In esso non troviamo mai posti, cioè cose de tipo del ponte. Invece, al contrario, c’è sempre negli spazi, che sono disposti dai luoghi, lo spazio co spazio intermedio e in quest’ultimo di nuovo lo spazio come pura estensione. Spatium e extensio dan sempre la possibilità di misurare le cose e ciò che esse dispongono secondo distanze, tratti, le loro dimensioni, solo per il fatto che sono applicabili in generale, sono anche a priori la causa della sosta degli spazi e luoghi che sono misurabili con l’aiuto della matematica. In che misura anche la fisica moderna sia stata obbligata, per la cosa stessa, a rappresentare il medium spaziale cosmico come cam unitario che viene determinato dal corpo in qualità di centro dinamico, non è possibile indagare qui. Gli spazi che noi attraversiamo quotidianamente, sono procurati da luoghi; la loro essenza è fondata cose della specie delle costruzioni. Se badiamo a questi rapporti tra luogo e spazi, tra spazi e spazio, otteniamo un sostegno per consider il rapporto di uomo e spazio. Se si tratta del discorso dell’uomo e dello spazio, si intende che l’uomo sta da una parte e lo spazio dall’altra. Tuttavia lo spazio non è qualcosa che sta di fronte per l’uomo. Non è né un oggetto esteriore, né un’esperienza interiore. Non vi sono gli uomini e inoltre lo spazio; poiché se io dico «un uomo» e mi rappresento con questa parola colui che è in modo umano, cioè ab allora io nomino con il nome «un uomo» già la dimora nella quadruplicità presso le cose. Anche allo quando il nostro comportamento si esplica nei confronti delle cose che non sono nelle immediate vicinanze, ci soffermiamo presso le cose stesse. Noi rappresentiamo le cose lontane non soltanto – come si insegna – interiormente, in modo che come surrogati delle cose lontane nella nostra interiori e nella nostra testa scorrono soltanto rappresentazioni di esse. Se noi ora – noi tutti – pensiamo da qu al vecchio ponte di Heidelberg, allora il pensare a quel posto non è una pura esperienza delle person qui presenti, ma piuttosto appartiene alla sostanza del nostro pensare a quel determinato ponte che questo pensiero sostenga in sé la lontananza da questo luogo. Noi siamo, da qui, presso il ponte là e non eventualmente presso un contenuto immaginario della no coscienza. Noi possiamo perfino da qui essere di gran lunga più vicini a quel ponte e a ciò che esso dispone che non qualcuno che lo usa quotidianamente come indifferente passaggio sul fiume. Spazi con loro «lo» spazio sono sempre disposti nella dimora dei mortali. Spazi si aprono venendo inseriti nell’abitare dell’uomo. I mortali sono, vale a dire: abitando, sostengono spazi in base alla loro dimora presso cose e luoghi. soltanto perché i mortali secondo la loro essenza persistono attraverso spazi, essi possono attraversar spazi. Tuttavia camminando non rinunciamo a dimorare in loro. Piuttosto, attraversiamo gli spazi in modo da esperirli trattenendoci costantemente presso luoghi e co vicini e lontani. Quando io vado verso l’uscita della sala, sono già là e non ci potrei affatto andare se non fosse così, io sono là. Io non sono mai soltanto qui in quanto corpo incapsulato, bensì io sono là, cioè già perva lo spazio e così soltanto posso attraversarlo. Anche quando i mortali «entrano in se stessi» non abbandonano l’appartenenza alla quadruplicità. Quando noi – come si dice – meditiamo su noi stess ritorniamo a noi stessi dalle cose senza mai rinunciare alla dimora presso le cose. Perfino la perdita relazione nei confronti delle cose, che subentra in stati depressivi, non sarebbe affatto possibile se anche questo stato non rimanesse ciò che è in quanto stato umano, cioè una dimora presso le cose. Soltanto quando questa dimora determina in partenza l’essere uomini, le cose, presso le quali siamo, possono anche non parlarci, possono anche non importarci più. Il rapporto dell’uomo rispetto ai luoghi e, attraverso i luoghi, agli spazi, è nell’abitare. Il rapporto dell’uomo con lo spazio non è altro che l’abitare pensato ed espresso nella sua essenza. Quando noi, nel modo ora tentato, pensiamo alla relazione che intercorre tra luogo e spazio, ma anch
al rapporto di uomo e spazio, si illumina l’essenza delle cose che sono luoghi che chiamiamo edifici
Il ponte è una cosa di tale tipo. Il luogo permette l’unità semplice di terra e cielo, di immortali e di mortali in una dimora disponendo la dimora in spazi. Il luogo dispone la quadruplicità in un duplice senso. Il luogo permette la quadruplicità e la allestisce. Ambedue le caratteristiche, cioè disporre in quanto rendere possibile e disporre in quanto allestire, s appartengono reciprocamente. In quanto il duplice disporre il luogo è una protezione della quadruplicità oppure come dice la parol stessa un huis, una casa. Cose del tipo di tali luoghi accolgono il domicilio degli uomini. Cose di que tipo sono domicili, ma non necessariamente abitazioni in senso stretto. La produzione di tali cose è il costruire. La sua essenza consiste nel fatto che corrisponde al tipo di queste cose. Sono luoghi che permettono gli spazi. Perciò il costruire, edificando luoghi, è un fondar un comporre spazi. Poiché il costruire produce luoghi, necessariamente con la composizione dei loro spazi anche lo spazio come spatium e come extensio entra nella struttura concreta degli edifici. Tutta il costruire non forma mai «lo» spazio. Né indirettamente né direttamente. Nondimeno il costruire, producendo cose in qualità di luoghi, è più vicino all’essenza degli spazi e all’origine sostanziale «dello» spazio più che tutta la geometria e la matematica. Il costruire edifica luoghi che dispongono una dimora alla quadruplicità. Dall’unità semplice nella quale terra e cielo, gli immortali e i mortali si appartengono reciprocamente, il costruire riceve la direttiva per il suo edificare i luoghi. Dalla quadruplicità il costruire assume le misure per ogni tipo di misurazione degli spazi, che di volt in volta vengono disposti dai luoghi fondati. Gli edifici conservano la quadruplicità. Essi sono cose a loro modo risparmiano la quadruplicità. Risparmiare la quadruplicità, preservare la direzioni e di calcolare queste misure. In nessun caso però i numeri, le misure e terra, accogliere il cielo, aspettare gli immortali, accompagnar mortali, questa quadruplice bellezza è la semplice essenza dell'abitare. Così gli autentici edifici imprimono l’abitare nella sua essenza e custodiscono questa essenza. Il costruire così caratterizzato è un eccellente far abitare. Se è in effetti ciò, allora il costruire ha già corrisposto allo stimolo della quadruplicità. Su questa corrispondenza si fonda ogni programmazio che a sua volta apre le zone ai progetti per le piante. Appena tentiamo di pensare l'essenza dei costruire che edifica in termini di abitare, sperimentiamo p chiaramente in che cosa consiste quel produrre secondo il quale si compie il costruire. Solitamente intendiamo il produrre come attività le cui prove hanno come conseguenza un risultato: la costruzione finita. Rappresentando il produrre in questi termini, si afferra qualcosa di giusto e tuttavia non si coglie mai la sua essenza, che è un portare che produce. Il costruire porta infatti la quadruplicità in una cosa, il pon e produce la cosa in quanto luogo in ciò che preesiste, che soltanto ora viene disposto attraverso que luogo. Produrre è in greco τίχτω. Alla radice tec- di questo verbo appartiene la parola τέχνη, tecnica. Ciò non significa per i greci né arte né mestiere, bensì: far apparire qualcosa, in quanto questo o quello, così ovv altrimenti, in ciò che è presente. I greci pensano la τέχνη, il produrre, dal far apparire. La τέχνη da considerare in questo modo si nasconde dall'antichità nella tettonica dell'architettura. Si nasconde ancora in tempi recenti e più decisamente negli aspetti tecnici della tecnica dei motori. Ma l’essenza della produzione costruttiva non si può dedurre a sufficienza né dall'architettura né dalla tecnica delle costruzioni né da una pura e semplice combinazione delle due. Il produrre costruttivo non sarebbe determinato in modo proprio neppure allora, nel caso in cui volessimo pensarlo nel senso greco e originario della τέχνη, se inteso soltanto come un far apparire che presenta un prodotto come una presenza in ciò che è già presente.
L’essenza del costruire è il far abitare. Il compimento essenziale del costruire è l’erigere luoghi attraverso la composizione dei loro spazi. Soltan se siamo capaci di abitare, possiamo costruire. Pensiamo per un momento a una fattoria della Foresta Nera che è stata costruita due secoli fa ancora dal modo contadino di abitare. Qui l’autosufficienza della capacità di far penetrare terra e cielo, gli immortali mortali in essenziale unitarietà nelle cose, ha edificato la casa. Tale capacità ha posto la fattoria presso il pendio protetto della montagna verso mezzogiorno, di fronte ai pascoli, nella vicinanza della sorgente; essa gli ha dato il tetto di scandole ampiamente sporgente che con adeguata obliquità porta il peso della neve e giungendo fin quasi a terra protegge le stanze contro le tempe delle lunghe notti invernali; essa non ha dimenticato l’angolo del Signore dietro alla tavola comune, essa disposto nelle stanze i posti sacri per la culla e l’albero dei morti – così si chiama la bara – mostrando cos alle diverse età della vita l’impronta del loro percorso attraverso il tempo sotto un unico tetto. Un mestiere che è sorto esso stesso dall’abitare, usa i suoi strumenti e strutture ancora come cose, ha costruito la fattor Soltanto se siamo capaci di abitare possiamo costruire. L’accenno alla fattoria della Foresta Nera non significa affatto che si debba e si possa ritornare a costruire queste fattorie, bensì rende chiaro basandosi s un abitare che è stato, come si poteva costruire. L’abitare però è il fondamento dell’essere secondo il quale i mortali sono. Forse in base a questo tentativo meditare sull’abitare e il costruire viene più chiaro alla luce che il costruire appartiene all’abitare e come e riceve da quello la sua essenza. Sarebbe sufficiente se l’abitare e il costruire raggiungessero la sfera del problematico e così rimanessero qualcosa di memorabile. Che tuttavia il pensare appartiene nello stesso senso come il costruire, soltanto in altro modo, all’abitare, p dimostrarlo il ragionamento che qui si prospetta. Costruire e pensare sono di volta in volta, secondo il loro modo, indispensabili all’abitare. Ambedue sono anche però insufficienti all’abitare fintanto che separati vanno per la loro via, anziché ascoltarsi reciprocamente. Ciò è loro possibile quando ambedue, costruire e pensare, appartengono all’abitare, rimangono nei loro confini e sanno che l’uno come l’altro provengono dall’officina di una esperienza e di costante esercizio. Noi stiamo tentando di considerare l’essenza dell’abitare. Il prossimo passo su questa via sarebbe la domanda: a che punto siamo con l’abitare nella nostra era problematica? Si parla ovunque ed a ragione de penuria di abitazioni. Non solo si parla, ma si agisce. Si tenta di alleviare l’insufficienza, procurando abitazioni, incentivando la costruzione di abitazioni, programmando tutta l’edilizia. Per quanto dura, amara, impediente e minacciosa rimanga la mancanza di abitazioni, la vera necessità dell’abitare non consiste semplicemente nella mancanza di abitazioni. La vera necessità dell’abitare consiste nel fatto che i mortali ricercano sempre di nuovo l’essenza dell’abitare, che essi devono anc imparare ad abitare. E se l’essere senza patria dell’uomo fosse invece dovuto al fatto che l’uomo no considera la vera e propria necessità di abitare come la necessità per eccellenza? Tuttavia appena l’uomo prende a considerare l’essere senza patria, già non è più infelicità? Anzi, a pensar bene, è l’unico appello, che chiama i mortali all’abitare. In che modo tuttavia posson mortali corrispondere a questo appello, se non tentando da parte loro di portare l’abitare alla pienezza della sua essenza? Essi adempiono a ciò, se costruiscono partendo dall’abitare e pensando all’abitare.